Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL PIEMONTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SU TORINO ED IL PIEMONTE
I TORINESI ED I PIEMONTESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!?
Quello che i Torinesi ed i Piemontesi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Torinesi ed i Piemontesi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
I PIEMONTESI SON COSI'...ONESTA', ONESTA', TRALLALLA'...
LA DEMERITOCRAZIA.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
IL CRACK DEL PIEMONTE: FALLIMENTO SABAUDO.
DECENNI DI 'NDRANGHETA. BRUNO CACCIA E LA TORINO CRIMINALE.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
E RAFFAELE GUARINIELLO SE NE VA...
GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.
APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.
TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.
SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.
FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
DUBBI SULL’OMICIDIO MUSY.
ANDREA SOLDI E GLI ALTRI. MORIRE PER UN TSO.
LUIGIA PADALINO. MESSA A TACERE PERCHE’ CERCAVA LA VERITA’.
PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.
PIEMONTE. GIUNTA REGIONALE ABUSIVA.
RIMBORSOPOLI. POLITICI PIEMONTESI: ABUSIVI E DANNOSI?
GIANCARLO CASELLI: LUCI ED OMBRE.
GIUSEPPE MARABOTTO NON HA INSEGNATO NIENTE. IL CASO DI VINCENZO TOSCANO E DI GIUSEPPE SALERNO.
LA LEGA DA LEGARE. RIMBORSOPOLI REGIONALE.
CONCITTADINI FAMOSI: DON CIOTTI, LA MAFIA DELLE CHIACCHIERE.
PARLIAMO DI MAFIA.
SPRECOPOLI. MORALITA’ A GO GO.
MAI DIRE INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE: “MESSI A TACERE PERCHE’ RICERCAVAMO LA VERITA’….”
PADANIA: PO' LENTONIA? BARBARIA? NO, LADRONIA!
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI MAGISTRATI.
ITALIA MALATA - QUANDO I "BUONI" TRADISCONO.
PARLIAMO DI CONCORSI UNIVERSITARI TRUCCATI.
PARLIAMO DI MALASANITA'.
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.
PARLIAMO DI ALESSANDRIA
L'ETERNIT A CASALE MONFERRATO: MALAPOLVERE E MALAGIUSTIZIA.
ALESSANDRIA E LA MASSONERIA.
ALESSANDRIA MAFIOSA.
ALESSANDRIA FALLITA.
TORTONA E LA MALAGIUSTIZIA. ALDO CUVA.
PARLIAMO DI BIELLA
I MISTERI DEL FALLIMENTO AIAZZONE E DELLA MORTE DI LIBERO CORSO BOVIO.
PARLIAMO DI CUNEO
LA VERGOGNA NELLE LANGHE. MAXI OSPEDALE MAI FINITO.
CUNEO MASSONE.
LA MAFIA A CUNEO.
COLLAUDI TRUFFA.
PARLIAMO DI NOVARA
BUROCRAZIA DA STRAPAZZO.
LA MAFIA A NOVARA.
PARLIAMO DI VERCELLI
VERCELLI E LA MASSONERIA.
STORIE DI MALAGIUSTIZIA.
PARLIAMO DELLA VALLE D’AOSTA.
PURE AD AOSTA. E' TUTTO UN MAGNA MAGNA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
I PIEMONTESI SON COSI'...ONESTA', ONESTA', TRALLALLA'...
I Piemontesi son così…Onestà, onestà, trallallà...
Viaggio nella Torino grillina che ha abbandonato le periferie. Degrado. Solitudine. Nella cintura della città dove italiani e immigrati lottano tra loro per ottenere una casa popolare. E che diventa metafora di un’Italia dimenticata anche dai nuovi politici. «Penso che voterò Lega. Ero indecisa con i Cinque stelle, ma la loro sindaca mi ha deluso», scrive Fabrizio Gatti l'1 febbraio 2018 su "L'Espresso". Quando anche l’ultima bottega italiana avrà chiuso, gli spacciatori saranno gli unici padroni dell’isolato. Maria, 63 anni, immigrata a Torino da Gravina di Puglia più di trent’anni fa, si è convinta dopo le feste di Natale. È sua la latteria all’angolo tra la vie dedicate al partigiano Errico Giachino e allo scrittore piemontese Luigi Gramegna. Elegante, minuta, viene davanti al bancone frigorifero pieno di formaggi delle Alpi e lo dice sottovoce: «Li guardi. È mattina e già spacciano. Vendo le cose che mi restano da vendere e chiudo per sempre. Qui, tranne pochissimi clienti storici, non entra più nessuno a fare la spesa. Qualche anno fa c’erano i carabinieri di quartiere. Era una presenza rassicurante. Spariti anche loro. Quando esce di qui, la fermeranno per offrirle la droga». Ma lo hanno già fatto prima, alla luce del sole, in mezzo alla strada senza traffico: «Ehi amico, vuoi qualcosa?», ha chiesto un uomo sulla trentina con l’impunità tipica dei luoghi dove il Comune, la Prefettura, lo Stato sono scomparsi oltre l’orizzonte. Borgo Vittoria, a Torino, non è nemmeno estrema periferia. Così come non lo sono Barriera di Milano e Aurora, grandi isole di storia operaia e umanità più o meno a metà strada tra il centro e i confini orientali della città metropolitana. La latteria che sta vivendo le sue ultime settimane è all’angolo dell’isolato di case di ringhiera. Quattro piani di facciate a mattoni rossi e decori scrostati. Sul retro, strati di ballatoi e la turca in cortile. Dalla lapide accanto alla vetrina le foto di sei partigiani, fucilati che avevano tra i 18 e i 23 anni, osservano i loro coetanei comprare hashish e cocaina o tracannare fino allo stordimento bottiglie di birra vendute per strada a cinquanta centesimi. Finti passanti pattugliano la zona. Se si insospettiscono ti seguono fino alla fine del loro territorio, il marciapiede della scuola professionale “Casa di carità, arti e mestieri”. Di là della strada, l’ultima generazione di immigrati studia e cerca una qualifica tra i corsi aperti a tutti. Di qua, ciondolano quelli che per destino o scelta ci hanno rinunciato. In mezzo, a separarli, via Salvini. Ironia della toponomastica. Il fatto che gli spacciatori qui siano marocchini e tunisini aumenta le diffidenze. «Sì, penso che voterò Lega», dice Maria. «Ero indecisa con i Cinque stelle, ma la loro sindaca mi ha deluso». La sua è la tipica famiglia post industriale, schiacciata tra cinque anni di crisi migratoria e dieci di crisi economica. «Mio marito», racconta, «faceva l’idraulico in proprio. Se paghi le tasse e copri le spese, non puoi scendere con i prezzi. Ma oggi quello che costava cento, c’è gente che te lo fa a quaranta. Così ha dovuto chiudere. Abbiamo tre figli, lavorano ma non se la passano bene. Fanno i commessi. Ottocento euro al mese, contratti a termine. Adesso a uno gli danno l’assunzione fino a tre anni. Ma sono contratti part-time, deve mettere insieme lo stipendio con quello di sua moglie per campare. Nei supermercati fanno così. Solo part-time». È il risultato che piace alle statistiche: formalmente aumentano i lavoratori. Sì, ma a fine mese sono comunque poveri. Nell’antica fabbrica trasformata in sede della Circoscrizione 5, in via Stradella 192, due stanze deserte e senza luce ospitano la mostra “Addio giovinezza! Gli effetti della Prima guerra mondiale sulla condizione dei giovani e delle donne nella periferia torinese”. Il cartellone su “La moralità patriarcale del regime fascista” potrebbe descrivere l’Italia di oggi: «La politica dei bassi salari del regime, con ben due tagli nel giro di 15 anni, impone alle donne di dover lavorare per integrare il salario del marito... Il salario dei figli è insufficiente a garantire condizioni di potenziale autonomia dei giovani». Il rapporto 2017 della fondazione dedicata all’economista torinese Giorgio Rota mostra dati economici preoccupanti. In molte classifiche la città è scivolata nel Mezzogiorno. Un esempio è proprio l’occupazione giovanile. Questo l’ordine delle peggiori: Bari, Cagliari, Reggio Calabria, Torino, Napoli, Palermo, Catania, Messina. «Nel capoluogo piemontese il tasso di disoccupazione tra i 15 ai 24 anni è pari nel 2015 al 57,8 per cento, tra le ragazze al 64,4 per cento», scrivono gli autori Luca Davico, Luisa Debernardi, Viviana Gullino, Luca Staricco ed Elisa Vitale. A parte i successi del Politecnico, «Torino era e rimane meno istruita di molte altre grandi città, patisce un’elevata dispersione scolastica, conta pochi laureati e di questi un certo numero va poi a lavorare altrove». Le conseguenze sono prevedibili: «Il forte rallentamento della mobilità professionale verso l’alto, secondo alcuni analisti, farebbe aumentare il rischio di una competizione etnica tra stranieri e italiani a basso titolo, per ottenere i posti di lavoro meno qualificati». Il tram numero 4 attraversa la città in un’ora. Parte da Falchera, il quartiere delle bombe di Capodanno, quattro feriti, trenta appartamenti danneggiati. E arriva a Mirafiori, la periferia opposta che si affaccia sullo stabilimento della Fiat. Nella carrozza in mezzo discutono di lavoro. Cioè di disoccupazione. Debora Marsala, 46 anni, è salita a Barriera di Milano con tutta la sua disperazione. Chiede a due donne che ha appena conosciuto se sanno di qualche anziano che ha bisogno di una badante. In tasca ha dieci euro che i suoi genitori pensionati le hanno dato per fare la spesa. Sopravvive grazie a loro. La crisi ha quasi cancellato i lavoratori italiani. Ma gli operai fisicamente esistono ancora. Intorno la ascoltano in rispettoso silenzio. È disoccupata dal 2009. Da allora soltanto qualche cosa a breve. L’ultima prima di Natale: «Un giorno e mezzo a spalare la neve per il Comune, 104 euro di paga. Ero l’unica italiana, tutti gli altri africani». La prossima: «Farò la scrutatrice ai seggi il 4 marzo. Ho sempre votato a sinistra, questa volta proprio non lo so». Si sente terribilmente in colpa: «Lavoravo nelle mense. Poi sono passata a un’industria di materie plastiche dove c’era già mio marito. La fabbrica era l’ambizione di tutti. Chi immaginava che l’industria sarebbe scomparsa? Ci hanno annunciato la chiusura quando sono nati i nostri due gemelli. Ho potuto fare la maternità, poi fine del lavoro. E fine del matrimonio». La disoccupazione ha separato Debora dal marito. Il giudice ha tolto i bambini alla coppia perché indigente e li ha affidati allo zio materno, che ha un lavoro nella pulizia delle strade. «Meno male che ho mio fratello», sussurra lei: «Non mi vergogno a dire che a volte vado a raccogliere la verdura che al mercato buttano via. E cosa dovrei fare per mangiare?». Scendiamo in centro, tra le bancarelle di Porta Palazzo: «Si risparmia qualche euro qui, rispetto ai minimarket in periferia». Il Comune non l’aiuta? «Mi assistono con il pagamento delle bollette. Ma non ho altri aiuti perché risulto proprietaria di casa. Da ragazza credevo di essermi messa al sicuro: cento milioni di lire nel 1998 per comprare 45 metri quadri in una casa di ringhiera dove abito». La fiducia nel mattone: «Sì, ma adesso è malmessa, si è riempita di stranieri. Nessuno comprerebbe un posto del genere. E poi non ho abbastanza figli e quindi abbastanza punti nelle graduatorie per la casa popolare. Se la vendo, dove vado?». Senza più stipendi o i soldi per pagare l’affitto, non si fanno più manutenzioni. Interi isolati cadono a pezzi. Le vetrine delle agenzie sono ricoperte di offerte. Un “Ingresso cucina abitabile due camere bagno due balconi e cantina” a Borgo Vittoria lo propongono a quarantamila euro trattabili. Nel 2006, l’anno della Torino olimpica, sarebbe stato un affare. Oggi nessuno si fa avanti. Che cosa sogna dopo quasi dieci anni di stenti? «Un lavoro a cinquecento euro al mese, con cui possa dare un po’ di sicurezza ai miei bambini», risponde Debora Marsala. Dall’inizio della crisi globale nel 2008 il numero di famiglie che a Torino hanno subito uno sfratto per morosità è aumentato del 284 per cento (media nazionale: più 108 per cento). I torinesi che stanno in alloggi popolari sono ottantamila: il 53 per cento vive in condizioni di povertà, con redditi inferiori a 500 euro al mese. «È cambiato nettamente il quadro relativo alla nazionalità dei nuclei familiari cui vengono assegnati gli alloggi popolari», spiega il Rapporto Rota: «Anche per effetto della legge regionale 3 del 2010 che li equipara agli italiani (purché residenti o occupati da almeno tre anni), la quota di stranieri tra gli assegnatari di alloggi popolari è cresciuta dal 15,2 per cento del periodo 2005-2008 al 38,3 per cento dal 2013 in poi: ciò dipende dal fatto che le famiglie straniere sono mediamente più povere di quelle italiane, oltre che più numerose, altro criterio che dà punteggio nelle graduatorie». L’ultimo aggiornamento delle liste è stato pubblicato nell’ottobre scorso: tra i primi cento posti gli assegnatari stranieri sono 49, quasi la metà. Come raffronto sugli 899 mila abitanti, i residenti non italiani a Torino sono invece il 15,4 per cento. Il regolamento di conti piomba sul marciapiede come una folata di vento. Corrono tutti e non si capisce perché. Una donna che non c’entra nulla viene travolta e si rifugia impaurita dentro il numero 37 di corso Giulio Cesare. Sono le quattro del pomeriggio, ordinaria quotidianità al quartiere Aurora. Fuori la rissa continua. L’uomo che scappava, in bermuda piedi nudi e infradito nonostante l’inverno, adesso provoca quelli che gliela volevano far pagare. Sono tutti africani, come i loro colleghi che a centinaia spacciano al parco del Valentino lungo il Po. Questi si sono invece impossessati dei giardini di Madre Teresa di Calcutta, tra corso Giulio Cesare e corso Vercelli, quasi di fronte alla facciata con la scritta “Scuola elementare di Stato Giuseppe Parini”. Un bel rettangolo di verde pubblico con parco giochi e pista per skateboard che i bambini possono solo guardare dalle finestre. Gli spacciatori, rissosi e irascibili per la quantità di hashish che non smettono di fumare, sono aumentati con gli sbarchi degli ultimi anni. E chi non compra droghe ha smesso di frequentare anche questo pezzo di città. Si gira l’angolo e in fondo alla prima strada a sinistra, in via Carmagnola 20, la proprietà del palazzo ha deciso di vendere tutti gli appartamenti. Li ha prima proposti ai suoi inquilini con un avviso in due lingue, italiano e arabo. Su 26 famiglie, solo tre non sono straniere. Anziani che vivono barricati in casa: «È difficile, non credo che qualcuno di noi compri», risponde un accento torinese da dietro la porta, senza aprire. Sulle scale, come nei caseggiati accanto, si incontrano soltanto marocchini e africani. Nessuno risponde al saluto. I rapporti di buon vicinato sono rari. Tra i condomìni di via Coppino, ce n’è uno di 30 appartamenti e un solo italiano, anche lui ultra ottantenne. Il solito giro di spacciatori di Borgo Vittoria si era impossessato delle cantine grazie a un amico nel palazzo. I vicini, nordafricani e romeni, hanno protestato. Come ritorsione la notte di Natale 2016 hanno incendiato le cantine. Poi hanno dato fuoco a un passeggino all’ingresso. Servirebbe, come minimo, una grande opera di mediazione culturale. Magari informale, dal basso. Ma il centro sociale della zona l’unica soluzione che propone è un’agghiacciante minaccia scritta ovunque sui muri: «Più vedove, più orfani, più sbirri morti». Al di fuori dei turisti nei musei, la movida di San Salvario e il ricordo ormai sbiadito delle Olimpiadi, mezza Torino è una città da ricreare. I consiglieri del sindaco Chiara Appendino hanno provato a riallacciare i legami con la periferia portandoci le Luci d’artista, la rassegna di luminarie che a Natale decorano le vie del centro. Forse credevano bastasse. E in piazza Montale, periferia nord, sono arrivati 18 coni gelato luminosi alti un metro. Li hanno appesi, un po’ nascosti e beffardi, alle colonne dei portici. Dieci li hanno subito abbattuti a sassate. È cominciata così l’ultima ondata di baby-gang in città. Il Comune ha poi sostituito le luminarie rotte. E passate le feste, i diciotto coni sono ancora lì. Intatti, ma spenti e patetici. La piazza dedicata al poeta premio Nobel rivela tutta la solitudine della Torino post industriale. Basta sedersi sulle panchine ad ascoltare. Colpisce immediatamente il silenzio, al freddo dell’ora di punta. È vero, sui grandi viali è sparito il traffico: in un quartiere popolare di pensionati, cassintegrati, disoccupati, non ci sono più pendolari che tornano a casa la sera.
Torino, dagli scrannetti del Comune per gridare: onestà, onestà al falso ideologico per la sindaca Chiara Appendino, scrive il 18 ottobre 2017 "Il Quotidiano di Alessandria Asti on line". Che gridare: onestà onestà sia più facile che amministrare la sindaca, Chiara Appendino, lo sta sperimentando sulla sua pelle e ad un anno e mezzo dal suo insediamento ha ricevuto il secondo avviso di garanzia, indagata per falso ideologico in relazione all’inchiesta Westinghouse. Il reato di falso ideologico in atto pubblico in relazione al bilancio del 2016. La procura di Torino contesta alla sindaca Chiara Appendino e all’assessore al Bilancio Sergio Rolando, per l’inchiesta Westinghouse, il da 5 milioni verso Ream, scomparso dal bilancio 2016 del Comune di Torino. Avviso di garanzia anche per Paolo Giordana, il Capo di Gabinetto di Palazzo civico. Nel luglio scorso Alberto Morana e Stefano Lo Russo presentarono un esposto al quale fece seguito quella del collegio dei revisori dei conti di Palazzo Civico. La vicenda dell’area ex Westinghouse che nel 2012 Ream acquisì il diritto di prelazione sulla zona dove sorgerà il nuovo centro congressi di Torino versando una caparra di 5 milioni di euro. La Città aggiudica ad Amteco-Maiora il progetto, perfezionato a fine del 2013, da cui li comune ha incassato parte dei 19,7 milioni di euro dell’offerta, ma ha dimenticato di restituire i 5 milioni a Ream e di decurtarla dal bilancio: non è stata restituita al Ream e neppure iscritta a bilancio. La Guardia di finanza h acquisito la documentazione negli uffici di Palazzo Civico. Nelle carte scritti nero su bianco i rapporti con la società immobiliare partecipata dalla Fondazione Crt e mail tra sindaca, assessori e funzionari. I funzionari e i dirigenti di Palazzo Civico, l’ex direttrice del settore finanze del Comune, Anna Tornoni, sono stati sentiti in procura dal procuratore aggiunto, Marco Gianoglio. In particolare Anna Tornoni avrebbe riferito di pressioni da parte del capo di gabinetto, Paolo Giordana, con cui aveva rapporti per la predisposizione dei conti per il bilancio di assestamento. Le accuse confermate dalle mail che Giordano avrebbe inviato alla Tornoni: “Ti pregherei di rifare la nota evidenziando solo le poste per le quali possono essere usati i 19,6 milioni di Westinghouse,22 novembre 2016. Per quanto riguarda il debito con Ream lo escluderei al momento dal ragionamento, in quanto con quel soggetto sono aperti altri tavoli di confronto”. La sindaca, Chiara Appendino, intanto tentava di concordare con il presidente di Ream la dilazione del debito, così da chiudere i conti del 2016 senza affanni, per la restituzione tutto rimandato al 2018. Il 30 novembre è la sindaca a scrivere: “informa l’assessore al Bilancio Rolando, Tornoni, il vice sindaco Montanari e l’allora direttore dell’Urbanistica Virano che a seguito delle trattative con Ream il Comune non restituirà i 5 milioni nel 2016. La cifra non viene comunque iscritta a bilancio. Il Comune, mergerebbe dall’inchiesta della procura, avrebbe garantito l’equilibrio del bilancio del 2016 con un falso: conteggiando un credito, ma non il debito.
ONESTÀ, ONESTÀ, scrive il 10 giugno 2017 Drake su "Nuova società". La “creatività” contabile-amministrativa partorita dalla giunta Appendino, ricostruita con dovizia di particolari da Nuovasocietà, ha riportato indietro le lancette del tempo di un anno. Siamo così ritornati alla notte di Chiara Appendino, alla donna dalla faccia pulita che salutava ebbra di gioia dal balcone di Palazzo civico con la folla grillina d’abbasso che le rimandava pari entusiasmo per il sorpasso al ballottaggio. Attimi dopo, il fotogramma si stacca su di lei che scende in strada, lei avvolta dalla gente e la pista audio che scatta con un corale urlo “innocente” e offensivo: “onestà, onestà”. Un attacco del grillismo al cosiddetto Sistema Torino, al Partito Democratico, a Piero Fassino e alla sua giunta. Infamante? No, ben orchestrato da chi voleva coniugare l’Appendismo all’anno zero di Torino, all’inizio di una nuova era, alla costruzione del mito. In quei giorni e nei mesi successivi l’unico a reagire con fermezza, chiedendo le scuse di Chiara Appendino, fu il segretario provinciale del Pd, Fabrizio Morri. E non è passato giorno che Morri non sia ritornato su quelle offese ingenerose e sulle scuse che riteneva gli fossero dovute. Oggi le scuse di Chiara Appendino alla città indirettamente sono anche a Morri che ha mostrato coerenza e forza morale. Peccato che alla Appendino ci siano voluti 1527 feriti e sette giorni di riflessione. Fuori tempo. Ma ormai vi è abituata ad essere fuori: i “fuori bilancio” parlano per lei. Chissà se scoprirà da sola di essere fuori posto?
Onestà, trallallà. Il braccio destro del sindaco di Torino, Chiara Appendino, toglie una multa all'amico: altra figuraccia grillina, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 29/10/2017, su "Il Giornale". «La ferocia dei moralisti è superata soltanto dalla loro profonda stupidità», scriveva Filippo Turati. Ma quanto sono stupidi questi grillini che urlano nelle piazze «onestà, onestà» e poi si fanno beccare a togliere le multe ai loro amichetti? È successo a Torino. Paolo Giordana, capo di Gabinetto e braccio destro della sindaca Chiara Appendino, è stato intercettato mentre pietiva il più classico e stupido abuso di potere, roba da sottobosco di Prima Repubblica. Giordana non è soltanto un tecnico, è l'ideologo della Appendino, il Rasputin dei Cinquestelle, uno organico al movimento degli onesti, che solo poche ore prima aveva subito un altro colpo, cioè l'avviso di garanzia per turbativa d'asta al proprio sindaco di Livorno Filippo Nogarin. Chi fa aumentare lo stipendio al fratello del suo socio, chi toglie le multe agli amici, chi pasticcia con i bilanci e chi con gli appalti. Da Roma a Torino via Livorno è questo il bilancio del partito degli onesti dove è andato al governo. Del resto che c'è da aspettarsi di diverso da un partito il cui leader, Beppe Grillo - come racconta Antonio Ricci, padre di Striscia la notizia, nella sua biografia anticipata ieri dal Corriere -, non tanti anni fa girava nudo negli hotel di Tokyo facendo agguati ai clienti, copiava le battute da altri autori e millantava di aver scritto famose canzoni? Una simpatica canaglia, un pregiudicato per omicidio che non ha mai smentito di essere stato pure evasore fiscale. Di lui, e degli onesti che impongono ai loro dirigenti di togliere le multe agli amici, si sono innamorati pezzi forti della magistratura moralizzatrice, da Piercamillo Davigo a Nino Di Matteo, eroe dell'antimafia pronto a lasciare la toga per entrare in un eventuale governo Cinquestelle. Piccoli truffatori e feroci moralizzatori in campo al grido di «onestà trallallà». Storia già raccontata da un altro capocomico, Totò, nel celebre film Gli onorevoli, in cui il maldestro e nostalgico Antonio La Trippa tentò di scalzare il potere al motto di «vota Antonio, vota Antonio». Salvo poi scoprire che la sua squadra era più furba e corrotta di quella che si proponeva di sostituire. Abbiamo tutti riso, era solo un film. Vai a immaginare che Grillo avrebbe provato a metterlo in pratica.
Ciononostante...
Il vizietto dei piemontesi...
"Napoli indecorosa". E il pm dà ragione a Giletti. Il conduttore Rai aveva denunciato una situazione scandalosa a Napoli. De Magistris lo ha querelato, ma il pm chiede l'archiviazione, scrive Chiara Sarra, Domenica 17/07/2016, su "Il Giornale". "Napoli è indecorosa". Parole pronunciate in Rai da Massimo Giletti e che avevano suscitato un vespaio di polemiche, oltre a costargli una querela da parte di Luigi De Magistris. Ma, come racconta oggi Repubblica, per il conduttore tv la procura di Napoli ha chiesto l'archiviazione. "La situazione di degrado che affligge alcune zone di Napoli e, in particolare, quella della stazione ferroviaria centrale, è da tempo oggetto di trattazione e denuncia e in diversi quotidiani e in varie trasmissioni televisive", scrive nella sua richiesta il sostituto procuratore Anna Frasca, "Significativa è, in tal senso, la notizia riportata, in più occasioni, proprio da alcuni giornali in ordine ai cosiddetti mercatini dei rifiuti che venivano svolti, fino a poco tempo fa, con periodicità proprio nei pressi della stazione centrale di Napoli, alimentando il fenomeno di accumulo di rifiuti e dunque di degrado dell'intera zona circostante". Insomma, un quadro tale per cui Giletti non deve essere accusato di diffamazione: "Tale situazione, attesa la sua rilevanza sociale, rende legittimi anche valutazioni e giudizi molto forti quali quelli espressi dall'odierno indagato in ordine allo stato di decoro della città e all'efficacia dell'azione di governo condotta negli anni dalla classe politica locale".
Massimo Giletti offende il Sud all’Arena: “Furbetti? Tutti meridionali”, scrive il 10 ottobre 2016 "La Voce di Napoli". Massimo Giletti ci casca di nuovo e offende il Sud. Durante la scorsa puntata, domenica 9 ottobre, de L’Arena il conduttore milanese torna a fare dichiarazioni poco lusinghiere sul Meridione. La lezione della scorsa volta pare non sia servita, sembrava che fosse “pace fatta” con Napoli dopo l’incontro in canoa con l’imprenditore Enrico Schettino. Il conduttore di Rai Uno avrebbe attribuito la colpa della crisi economica agli “sprechi tutti meridionali”. Non è la prima volta che Giletti utilizza una problematica italiana per infangare il Mezzogiorno quindi verrebbe da chiedersi: come mai l’uomo non hai mai additato città del Nord di fronte a situazioni anche molto complesse che hanno investito l’Italia Settentrionale con scandali finanziari? Questa volta le dichiarazioni di Massimo Giletti non sono passate inosservate, il Movimento Neoborbonico, infatti, avrebbe inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai. Questa è la proposta del Movimento avanzata su Facebook: “Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra “furbetti”, vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa “bigliettopoli” che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l’impossibilità di “redimere” il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.”
Giletti come la mettiamo...
Periferie e degrado: Torino scrive a Mattarella, si legge venerdì 26 maggio 2017 su "Torino Oggi". Uno dei maggiori comitati spontanei di cittadini, TorinoinMovimento, ha deciso di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica: ex Moi, campi rom, aggressioni, buche, disservizi e clochard tra i problemi segnalati al Capo dello stato. Il miracolo nelle periferie torinesi non si è verificato. In alcune zone la sicurezza resta precaria, deludendo le speranze di chi aveva invocato un cambio di marcia e continua invece a vedere gli stessi problemi di sempre, segnalati a più riprese. Ed è così che uno dei maggiori comitati spontanei di cittadini, TorinoinMovimento, ha deciso di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, cercando di attirare sulle questioni un'attenzione di scala nazionale. La lettera comincia con un racconto delle principali situazioni di difficoltà della città: “In questi anni ci stiamo occupando delle aggressioni alle donne, di segnalare persone in difficoltà come i clochard, delle buche, dei vari disservizi della sanità ma anche di cose più grandi, come l'occupazione delle palazzine dell'ex villaggio Olimpico ex Moi in Piazza Galimberti da parte di certi ma anche di presunti profughi. Siamo in attesa dell'inizio dello sgombero previsto per questa primavera e non ancora iniziato. Ci occupiamo anche dei campi Rom ubicati in via Germagnano nei quali è da tempo uso e costume bruciare giornalmente materiali di ogni genere e tipo procurando fumi tossici che da anni respirano i cittadini residenti nelle zone circostanti. A riguardo vi è un'indagine in corso per disastro ambientale e finalmente l'Arpa ha rilevato le sostanze tossiche presenti sia nel terreno che nell'aria come zinco, stagno, piombo. Di fronte al campo vi è il canile vandalizzato più volte per un ammontare di centomila euro”. Le segnalazioni, raccontano dal comitato, si sono sprecate: “Tutto questo è stato ampiamente denunciato, segnalato e documentato. Anche il tg3 Piemonte ha documentato assieme a noi il tutto con servizi andati in onda anche sulla terza rete Rai nazionale. Qui i problemi oltre a quelli di legalità sono anche legati al diritto della tutela della salute dei cittadini. Da tempo chiediamo di rivedere la Giustizia che rientra nella sicurezza”. Infine, l'appello: “Egregio Presidente, non riusciamo a vedere un futuro adeguato tra i continui tagli ai servizi base, dato il lavoro sempre più precario ed una situazione di illegalità dilagante. Come si può far crescere un figlio in questa società dove pare che vinca sempre chi delinque anziché il cittadino onesto? Chiediamo se fosse possibile intervenire su queste problematiche: (ex Moi, campi rom con relativi fumi tossici, mercato abusivo) con delle interrogazioni parlamentari per tutte le situazioni esposte che non tutelano i cittadini da tempo. Questa non è integrazione. Chi delinque deve essere allontanato e chi ha bisogno deve essere aiutato”.
E poi il solito razzismo becero...
L'immigrazione a Torino. Scritto su "Museo Torino". A partire dal primo dopoguerra, Torino è al centro di un consistente flusso migratorio che, iniziato nei primi anni Cinquanta, raggiunge il suo apice nel periodo del miracolo economico proseguendo per tutti gli anni Settanta del Novecento. A partire sono soprattutto uomini e donne residenti nel Sud Italia, zona di fame e miseria, attratti dalle possibilità lavorative offerte dalle fabbriche cittadine, che attraversano una fase di straordinario sviluppo, a stento supportato dalla manodopera locale. Città dell’industria e capitale dell’auto, Torino esercita una forte capacità attrattiva, ben esemplificata da una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. Ogni giorno, sulle banchine della stazione di Porta Nuova, si riversa un numero sempre più consistente di persone arrivate a bordo del “Treno del Sole”, un convoglio che in ventitré ore attraversa l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. Un flusso migratorio che si traduce in una crescita immediata della popolazione torinese, passata dai 753.000 abitanti del 1953 a 1.114.000 del 1963, molti dei quali costituiti da immigrati, che portano il saldo migratorio cittadino a essere quello “più elevato di tutte le altre città italiane”. Sul territorio cittadino si snodano parabole migratorie che vedono i nuovi arrivati dal sud sostituirsi a quelli dell’Italia settentrionale, i primi ad arrivare in città. A partire dagli anni Cinquanta lo scenario muta radicalmente: pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi prendono il sopravvento sugli immigrati dell’Italia settentrionale, “fino ad allora la maggioranza assoluta”. Secondo il censimento del 1971, risiedono in città 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani: Torino diventa così “una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo”. Anche il Veneto rappresenta un consistente serbatoio migratorio. Un’immigrazione, quest’ultima, risalente ai primi decenni del Novecento e che prosegue negli anni seguenti, come dimostrano i 65.741 immigrati veneti residenti in città nel 1971. Molti di essi provengono dalle zone bracciantili di Rovigo e del Polesine, messe in ginocchio nel 1951 dall’alluvione del Po. Un evento drammatico, che porta a Torino anche una cospicua quota di individui originari della provincia di Ferrara. Un altro tassello del mosaico è costituito dalla comunità sarda, che ha a Torino radici antiche, dal momento che i primi flussi migratori dall’isola risalgono al periodo sabaudo: una lunga tradizione migratoria, che nel 1971 raggiunge la quota di 19.858 individui. Infine vi sono gli immigrati giunti in città dalla campagna e dalle montagne circostanti: uomini e donne che sostituiscono le fatiche della terra con la catena di montaggio, attratti dal posto fisso e dello stipendio sicuro offerti dalla grande fabbrica. Nell’immaginario di chi emigra, Torino assume i contorni di una realtà capace di offrire casa e lavoro, ponendo fine alla miseria e agli stenti patiti nella terra natia. In realtà così non è, poiché l’arrivo in città si trascina dietro problematiche e difficoltà di non facile superamento. Differenze culturali e identitarie trasformano infatti l’incontro tra i torinesi e gli immigrati, specialmente quelli giunti dal sud, in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi. Una discriminazione che assume le sembianze dei cartelli affissi ai portoni delle case arrecanti la frase non si affitta ai meridionali, oppure quella dell’attuazione di dinamiche esclusive che passano attraverso epiteti carichi di astio (napuli, terroni, mau mau) coniati dalla popolazione locale per definire, identificare, “screditare e deridere gli individui nativi delle regioni del sud”. Un fenomeno diffuso, inerente molti comparti della vita quotidiana e che sembra essere accettato anche da «La Stampa», principale testata cittadina, che, lontana dallo svolgere un ruolo di avvicinamento tra torinesi e immigrati, alimenta sulle proprie pagine, attraverso articoli, annunci e servizi, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli immigrati del sud Italia, ampiamente consolidati tra i lettori torinesi. Si crea così una situazione di emarginazione, superata attraverso una progressiva condivisione di spazi ed esperienze nella sfera pubblica, privata e lavorativa, che consente di scalare il muro che divide i torinesi dagli immigrati incanalando il rapporto sui binari di un’integrazione pressoché pienamente avvenuta.
Nel 2011 si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia, eppure il Regno delle due Sicilie era uno degli stati europei più prosperi che non conosceva emigrazione alcuna. La sua posizione strategica nel Mediterraneo e la sua politica che lo rendevano indipendente erano contrarie agli interessi dei Savoia e delle altre potenze europee del tempo. Il rapporto tra debito, con interessi, e prodotto interno lordo era del 16% in confronto del Piemonte dove ammontava al 75%. Le prima emigrazione massiccia fu proprio quella del Nord con Piemonte, Veneto e Friuli in particolare ed erano i secoli XIX° e XX°. Solo dal 1880, dopo la forzata unificazione che costò perdita di vite umane, soprusi, violenze sulle donne meridionali da parte delle truppe piemontesi e trafugamento del ricchissimo tesoro del Regno di Napoli; milioni di calabresi, campani, pugliesi e siciliani furono costretti a cercar fortuna oltreoceano. L’altra emigrazione più recente si avrà col boom economico, agli inizi degli anni ’60, ma quella sarà una migrazione tutta interna, non esente da tutti i problemi ad essa connessi che noi del Sud ci siamo trascinati fino a pochi anni addietro. Ci ritornano alla memoria i tempi in cui gli schiavi emigrati meridionali si imbattevano negli implacabili cartelli posti all’ingresso di certi locali pubblici padani quale monito discriminatorio sub-razziale e territoriale: “Vietato l’ingresso ai cani e ai terroni”. E quando il povero cristo, stanco di dividere il giaciglio coi compagni di cantiere, si metteva in cerca di un alloggio per accogliere finalmente la famiglia rimasta al paese, s’imbatteva spesso in altri cartelli con la dicitura: “Non si affitta ai meridionali”, perché ci consideravano sporchi ed incivili, abituati a coltivare i pomodori nella vasca da bagno. Sono passati tanti anni ma molti pregiudizi sono davvero duri a morire: quelli del Nord sono intolleranti verso quelli del Sud, quelli del Sud, a loro volta, si rifanno verso i rumeni, i cinesi, gli africani e sembra che ci siamo dimenticati del tutto quando gli stranieri eravamo noi. Certo che l'esilio è proprio brutto. Dice Dante nel canto XVII° del Paradiso, a proposito di esilio da lui vissuto negli ultimi anni di vita: “Tu proverai sí come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”.
In principio, negli anni Sessanta, furono le grandi città del nord a dare l'"esempio": non si affitta a meridionali, scrivevano sugli annunci immobiliari. La prima emergenza immigrazione fu tutta nostra, interna, da sud a nord. Non c'era la Lega, ma c'era già qualcuno che la sostituiva egregiamente. Da qualche parte, proprio come a Roma, comparvero anche cartelli nei bar: "Vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali". Il mondo torna sempre sui suoi balordi passi. Mezzo secolo dopo infatti, un'altra emergenza migratoria, ma stavolta al posto dei terroni e dei polentoni (mangia polenta o un po’ lenti di comprendonio) ci sono tutti gli altri, c'è il mondo, ma come in un stupido gioco dell'oca pare che siamo tornati daccapo, anche coi cartelli immobiliari. Molto, ma molto lontano da Lampedusa e da Ventimiglia, ultimo crocevia di chi arriva e non sa dove andare, a Pordenone, nella pancia del nord-est che è sempre stato locomotiva, nel bene e nel male. Una notizia spulciata da una cronaca locale, un taglio basso, ma un taglio vero, perché ormai la realtà è sempre più lontana dalle prime pagine inchiodate a quello che fa il monarca coi suoi cortigiani. "Affittasi solo a italiani". Diceva così il cartello appeso davanti ad un palazzo nel quartiere di Rorai (Pordenone). "Abbiamo avuto una brutta esperienza, una coppia di stranieri ci ha vissuto lo scorso anno. Lei una brava ragazza, ma lui l'ha lasciata e lei si è trovata in difficoltà. Non ce la faceva a starci dietro. Così abbiamo detto basta. Tanto più che nel palazzo vivono dei professionisti. Vogliamo che qui vivano brave persone": così si è giustificata la padrona di casa, che evidentemente non conosce i dati sulla morosità negli affitti e sulle cause civili pendenti davanti ai tribunali, nella nostra sciagurata repubblica, tra locatori e locatari italiani. Vale anche per il titolare di un'agenzia immobiliare di Pordenone, che ha giustificato l'annuncio con questo ponderoso e pregnante ragionamento: "Purtroppo queste persone hanno ragione. Dispiace dirlo ma con gli stranieri ti va bene una volta su dieci. Noi abbiamo una cliente che ha affittato a degli albanesi: non solo non pagavano ma le hanno distrutto la casa. L'appartamento, 15mila euro di danni, ora è chiuso e i proprietari non vogliono più affittarlo. Ci sono poi quelli che non pagano l'affitto e le spese condominiali e non perchè non abbiano i soldi: è questione di mentalità. A fronte di queste esperienze abbiamo così clienti che ci dicono espressamente che non vogliono più affittare case agli immigrati ed è difficile dar loro torto".
Da "I Briganti": «i dintorni di Porta Palazzo a Torino, Porta Nuova, Corso V.Emanuele, erano tante Shanghai. In ogni topaia, una famiglia, in ogni soffitta un clan intero, e ogni palazzo a corte con i ballatoi interni, era spesso un intero paese meridionale. Gente spesso disprezzata, "non si affitta ai meridionali" dicevano i cartelli nelle case o gli annunci su "La Stampa". Qualcuno oltrepassò i limiti: in questo Natale 1961 e senza fare lo spiritoso scrisse nella sua vetrina: "Buon Natale ai piemontesi", e in un bar apparve anche "vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali"......In principio, negli anni Sessanta, furono le grandi città del nord a dare l'"esempio": non si affitta a meridionali, scrivevano sugli annunci immobiliari. La prima emergenza immigrazione fu tutta nostra, interna, da sud a nord. Non c'era la Lega, ma c'era già qualcuno che la sostituiva egregiamente. Da qualche parte, proprio come a Roma, comparvero anche cartelli nei bar: "Vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali". Il mondo torna sempre sui suoi balordi passi.
La testimonianza di di Erri De Luca. Verso la fine degli anni Settanta ho abitato a Torino, ospite di persone amiche. Facevo il mestiere più antico del mondo, per il genere maschile, l’operaio. Nel palazzo in cui abitavo, nei pressi della stazione, c’era all’ingresso un cartello: “Non si affitta a meridionali”. Era schietto e leale. In molti altri palazzi di Torino si affittavano a meridionali immigrati degli abbaini, dei sottoscala a prezzi da strozzini e sottobanco. Il posto letto di meridionali, d’Italia e del mondo, rendeva e rende bene. Mi era simpatico perciò il cartello. In quel palazzo si rinunciava al facile e losco guadagno. A furia di leggerlo mi sembrava rivolto ai piemontesi, vietando loro di sfruttare il bisogno dei meridionali. È un episodio di altra Italia, di quando era Repubblica fondata sul lavoro all’estero. Il Sud resisteva agli stenti con le rimesse degli emigrati che spedivano a casa valuta pregiata, monete più forti della debole lira. E quel denaro, frutto dell’avventura dell’espatrio, veniva speso, investito in Italia. Milioni di rimesse di emigranti sostenevano la bilancia dei pagamenti. Mentre i benestanti portavano a valigie i soldi in Svizzera, sabotando alla loro maniera la vita economica del nostro Paese. Era un’altra nazione quella che aveva per meridionale il Sud d’Italia.
Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.
Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.
Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.
Poi nei corsi e ricorsi storici ti accorgi che ci sono due pesi e due misure…
Incendi tra Piemonte e Lombardia. La situazione. Circa 3000 ettari interessati dalle fiamme, 5 incendi anche in Lombardia, scrive il 29 ottobre 2017 la Redazione di 3BMeteo. Stato d'emergenza in Piemonte a causa degli incendi incontrollati, che da giorni infiammano parte della Regione, devastando la vegetazione nella Città metropolitana di Torino e in provincia di Cuneo, oltre che in quelle di Biella e Novara; finora si parla di circa 3mila ettari interessati dalle fiamme. Bruciano le vallate ma è anche il fumo a preoccupare, che ha fatto salire negli ultimi giorni il livello delle polveri sottili di ben 7 volte il limite previsto, arrivando a toccare i 350 microgrammi su metro cubo su moltissime località del Torinese! In valle Orco, a poca distanza dal parco nazionale del Gran Paradiso, il fuoco è arrivato a lambire alcune frazioni e il sindaco invita gli abitanti a rimanere in casa. E' sempre vasto il fronte di fuoco anche in Valchiusella, un'altra vallata del Torinese, ed è ancora fuori controllo il rogo in Valle Varaita (Cuneo) che sta devastando il vallone di Bellino, incenerendo centinaia di ettari di boschi e pinete. Un altro fronte critico è in Valle di Stura, dove per il terzo giorno consecutivo è chiusa la statale 21 che porta al Colle della Maddalena, valico per la Francia. E' migliorata, invece, la situazione nel Pinerolese.
LOMBARDIA - Cinque diversi incendi nella giornata da sabato hanno iniziato a interessare anche la Lombardia, nei comuni di Varese, Tavernerio (Como), Forcola (Sondrio), Tremosine (Brescia) e Varzi (Pavia). Nei pressi di Varese sono state fatte evacuare 50 persone, dopo che l'incendio è avanzato velocemente lambendo anche alcune abitazioni nei pressi di Campo dei Fiori. A rischio anche il Monte Legnone, sopra Rasa di Varese, e le pendici che sovrastano il comune di Luvinate.
PREVISIONI - Purtroppo non si intravede un miglioramento significativo delle condizioni meteo, la pioggia non giungerà se non verso la fine della prima decade del nuovo mese e resta lo stato di massima allerta fino alla settimana entrante. Per di più il rinforzo della ventilazione favonica nelle valli occidentali nel corso di domenica non favorirà le operazioni di spegnimento, alimentando così le fiamme.
Piemonte devastato dagli incendi, Torino inquinata oltre i limiti. Emergenza in Val Susa, vigili del fuoco bloccati nella notte, scrive l'Ansa il 28 ottobre 2017. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha formalizzato la richiesta di stato di emergenza per gli incendi che da giorni devastano centinaia di ettari di vegetazione nella Città metropolitana di Torino e in provincia di Cuneo. Nella richiesta, indirizzata al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e al Capo Dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli, si indica in "2 mila ettari" la superficie al momento percorsa dal fuoco. Bruciano senza sosta le vallate piemontesi e, con il fuoco, preoccupa il fumo che ha saturato anche l'aria di Torino, spingendosi fino alla Valle d'Aosta. Il capoluogo di Regione è da ieri sera avvolto dalla caligine e il livello delle 'polveri sottili' è salito, quattro volte oltre i limiti previsti, a 199 microgrammi per metro cubo, ha rilevato Arpa (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale). In Valle di Susa il forte vento in quota ha accerchiato all'alba, a Mompantero, una squadra dei Vigili del Fuoco, che sono state messe in salvo dopo un'ora. Il fronte di fuoco continua a spostarsi, rendendo difficile l'intervento dei soccorritori. In valle Orco, a poca distanza dal parco nazionale del Gran Paradiso, il fuoco è arrivato a lambire alcune frazioni e il sindaco invita gli abitanti a restare in casa, fino a quando non sarà cessata l'emergenza. L'Unione Montana ha convocato un "tavolo tecnico urgente" con Arpa, Asl To4, Aib (Antincendi boschivi), carabinieri e vigili del fuoco per valutare le condizioni di salubrità della zona. E' sempre vasto il fronte di fuoco anche in Valchiusella, un'altra vallata del Torinese, ed è ancora fuori controllo il rogo in Valle Varaita (Cuneo) che sta devastando il vallone di Bellino, incenerendo centinaia di ettari di boschi e pinete. Un altro fronte critico è in Valle di Stura, dove per il terzo giorno consecutivo è chiusa la statale 21 che porta al Colle della maddalena, valico per la Francia. Fiamme anche sulla collina torinese: i vigili del fuoco sono intervenuti nella notte per domare un incendio divampato a Pecetto, nella frazione San Luca. E' migliorata, invece, la situazione nel pinerolese: a Cantalupa è salvo il rifugio montano Casa Canada, per giorni minacciato da un vasto rogo. Per ora, gli incendi non avrebbero creato pericoli per la salute umana. "Le analisi effettuate permettono, al momento di escludere rischi - spiega l'assessore regionale alla Sanità, Antonio Saitta - occorre però rilevare che se, sulla base dei rilievi dell'ARPA, si evidenziassero pericoli, l'Asl To3 proporrà senza indugio ai sindaci gli interventi necessari". "Purtroppo, non si vede un miglioramento significativo delle condizioni e resta lo stato di massima allerta fino alla settimana entrante, una situazione che rende necessario mantenere la massima presenza di mezzi e persone". Lo ha affermato, a margine della giunta regionale, il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino: "Abbiamo formalizzato - rivela - la copertura finanziaria atta a mantenere questa massima presenza. Ed abbiamo formalizzato l'avvio della proceduta dello stato di calamità".
Incendi in Piemonte, trovati inneschi nel Torinese. I roghi continuano a devastare i boschi della Regione. Paura anche per il Parco del Gran Paradiso, minacciato dalle fiamme. E i vigili del fuoco trovano gli inneschi di alcuni roghi nella Valle Sangone, scrive il 28 ottobre 2017 “Il Corriere della Sera”. Mentre i roghi continuano a devastare i boschi del Piemonte, in Valle di Susa, nel Canavese e nella provincia di Cuneo, nella Valle Sangone sono stati trovati inneschi incendiari: alcuni hanno funzionato, altri no. Lo hanno rivelato i responsabili delle squadre di intervento, a Giaveno (Torino), dove è arrivato il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. Le indagini sono condotte dal nucleo investigativo dei carabinieri forestali.
Paura per il Parco del Gran Paradiso. Intanto l'allerta resta altissimo. Ill fumo acre rende ormai irrespirabile l'aria. Allarme a Torino, dove le polveri sottili superano di 7 volte la soglia massima. Paura per il Parco del Gran Paradiso, minacciato dalle fiamme. Molto ampi i roghi, che le squadre tentano di circoscrivere. Difficile l'uso dei Canadair per nubi, vento e fumo intenso. Solo le piogge potranno risolvere definitivamente la situazione, ma non sono previste prima di una settimana. In fiamme anche il parco regionale del Campo dei Fiori, nel Varesotto, e i boschi delle Alpi Orobie vicino Sondrio.
Chiamparino sui luoghi colpiti. «Pur con tutte le difficoltà del caso, la macchina dei soccorsi racconta di un pezzo d'Italia che funziona». Così su twitter il presidente di Regione Piemonte Sergio Chiamparino che ieri ha inviato al Governo la richiesta di stato di emergenza per le zone colpite dagli incendi boschivi. Oggi Chiamparino sta visitando alcune delle aree interessate dai roghi. Il sopralluogo è partito da Bussoleno, in Val Susa. Il presidente piemontese ha poi fatto il punto della situazione a Caprie, dove c'è un fronte ancora attivo. «Se ci fosse anche la mano dell'uomo si aggiungerebbe tragedia a tragedia», ha dichiarato in mattinata incontrando le autorità locali.
Incendi in Piemonte, trovati degli inneschi nel Pinerolese: "La prova che molti sono dolosi". Chiamparino in val Susa annuncia: "Chiesto lo stato di calamità", scrive Carlotta Rocci il 28 ottobre 2017 su "La Repubblica". E' sempre più concreta l'ipotesi che gran parte degli incendi che stanno devastando boschi e montagne del Piemonte sia di origine dolosa. Oggi infatti tra la Val Sangone e Pinerolese sono stati trovati inneschi che non hanno funzionato. Per questo i 44 militari che sono stati inviati nelle aree a rischio sono stati concentrati in quella zona. I roghi sul Piemonte ad oggi sono 21, 12 i più gravi. In 18 giorni da quando è stata dichiarata la massima allerta incendi sono partiti 135 incendi. Il presidente della Regione Sergio Chiamparino oggi sta facendo un sopralluogo in Valsusa e prima di incontrare i sindaci dei paesi toccati dall'incendio ha annunciato di aver chiesto al governo che sia proclamato lo stato di calamità per le aree colpite dal fuoco. La ricognizione di Chiamparino che è accompagnato dall'assessore Alberto Valmaggia, era iniziata dalla borgata del Seghino e dalle altre zone dove ieri la situazione era più critica in valle Susa. Poi il presidente è andato a Bussoleno nella sede della polizia municipale dove è stato aperto il Coc, comitato operativo comunale per l'emergenza. Qui ha incontrato i sindaci di Bussoleno Anna Allasio, di Mompantero Piera Favro e di Susa Sandro Plano. "Voglio ringraziare tutti quelli che stanno lavorando su questa emergenza, il lavoro dei volontari è fondamentale - ha detto Chiamparino- Noi abbiamo fatto quello che potevamo, dando copertura finanziaria illimitata per far volare i mezzi aerei". Dopo la tappa di Bussoleno il presidente proseguirà per Caprie, Rubiana, Giaveno. Chiamparino ha poi aggiunto: "L'allarme non è finito e durerà fino alla prossima settimana. Ora la situazione è sotto controllo, in Val di Susa e nel cuneese dove è entrato in funzione un secondo elicottero Ericson. Il fuoco è arrivato a lambire le case ma nel complesso i danni per il momento e per fortuna sono limitate ai boschi. Nel complesso possiamo dire che il sistema che ha governato il sistema antincendio è un pezzo di Italia che funziona".
Incendi in Piemonte, il sindaco di Sambuco: "Soccorsi in ritardo, mi dimetto". Il paesino del Cuneese è circondato dalle fiamme e il primo cittadino lascia la carica in polemica, scrive il 27 ottobre 2017 "La Repubblica". La Valle Stura è in fiamme, i soccorsi sono arrivati in ritardo, così il sindaco di Sambuco, nel Cuneese, ha deciso di dimettersi. "C'è stato un ritardo oggettivo nell'intervento degli elicotteri. L'incendio è scoppiato nel pomeriggio di giovedì, ma i mezzi aerei sono arrivati solamente venerdì a mezzogiorno", denuncia di Giovanni Battista Fossati, che conferma all'Ansa i motivi del suo passo indietro. "I Vigili del Fuoco, i volontari dell'Aib (Antincendio boschivo) e le forze dell'ordine sono state eccezionali - precisa Fossati -, ma c'è stata una disfunzione da parte di chi ha deciso. Ci vuole una revisione della macchina". Fossati è stato per la prima volta vicesindaco di Sambuco nel 1967 ed ha oltre cinquant'anni di esperienza amministrativa. Tra le ragioni delle dimissioni, che arrivano a soli quattro mesi dal voto, secondo indiscrezioni ci sarebbe anche la mancata approvazione da parte del Consiglio comunale della sua proposta di costituire il Comune parte civile per i gravi danni ambientali causati dall'incendio.
La denuncia degli animalisti Incendi in Piemonte, la denuncia degli animalisti: "I cacciatori sparano agli animali in fuga dalle fiamme". E chiedono la sospensione della stagione venatoria. I carabinieri però: "Non ci risulta", scrive Jacopo Ricca il 28 ottobre 2017 su "La Repubblica". I roghi in Piemonte accendono la polemica tra animalisti e cacciatori che, secondo quanto denunciato dalla Lipu-BirdLife Italia, sfruttano gli incendi per sparare agli animali in fuga dalle fiamme. Gli attivisti della Lega protezione uccelli chiedono lo stop alla stagione venatoria: "Siamo preoccupati per la grave situazione che si è creata nella regione. Gli incendi che divampano nelle vallate piemontesi da una settimana stanno mettendo a dura prova boschi ed ecosistemi montani, già messi in crisi dalla perdurante mancanza di precipitazioni - attaccano gli animalisti - Roghi quasi sempre di origine dolosa, favoriti dalla perdurante siccità e dal vento dei giorni scorsi. Cui si aggiunge un fatto gravissimo: cacciatori che aspettano la fauna in fuga per sparargli”. Questi episodi non sono stati registrati dalle forze dell'ordine, ai carabinieri che in questi giorni stanno indagando sui roghi e monitorando le aree interessate non risultano al momento queste attività venatorie al limite dell'assurdo, ma il consigliere della Lipu, Riccardo Ferrari, insiste: "La fauna messa in fuga dalle fiamme e nel fumo trova le doppiette di cacciatori scellerati che approfittano degli spostamenti degli animali terrorizzati per fare carneficine - spiega - Le aree percorse da incendi e le zone limitrofe devono essere tutelate in modo più rigido contro la scriteriata voglia di uccidere di pochi che mettono oltretutto a rischio l'incolumità del personale che opera per contrastare gli incendi". Dalla Lega italiana protezione uccelli arriva anche un ringraziamento ai vigili del fuoco e ai volontari Aib (Anti incendi boschivi): "Ancor più in questo momento in cui l'accorpamento del Corpo Forestale con i Carabinieri, appena realizzato ma che ancora stenta ad essere pienamente operativo, non aiuta certo le azioni di salvaguardia del patrimonio naturale delle nostre valli, vero scrigno di biodiversità e preziosa eredità che stiamo sempre più mettendo a repentaglio”. Dagli animalisti lancia un appello alle autorità: "Chiediamo all'amministrazione regionale di mettere in atto i provvedimenti necessari a tutelare la fauna selvatica e gli ambienti naturali, sospendendo la stagione venatoria - conclude Ferrari - Già non avrebbe neppure dovuto essere aperta date le condizioni di stress ambientale che perdurano da ormai tutta l'estate”.
Sprechi e abbandono: l’emergenza incendi in Piemonte non è solo colpa della siccità. Così l’uomo sta facilitando i criminali del fuoco, scrive Mario Tozzi il 28/10/2017 su “La Stampa”. Sappiamo che le condizioni meteorologiche particolari di questo ottobre 2017 hanno contribuito in maniera fondamentale al ripetersi e al propagarsi degli incendi. E ormai conosciamo il ruolo cruciale che il cambiamento climatico gioca nell’innescare e far perdurare condizioni favorevoli ai roghi. Ma, se vogliamo comprendere le ragioni di questo fenomeno, che sta rovinando il Piemonte e che rischia di interessare tutta Italia, conviene scendere a terra, e magari anche sotto. Se è ormai chiaro che la drammatica diminuzione delle precipitazioni provoca la siccità superficiale, bisogna tener conto di un’altra siccità, ben più grave: quella delle falde sotterranee, le vere spugne geologiche da cui dipende la salute degli ecosistemi vegetali e animali. Una falda depauperata o depressa sotto i suoi limiti di ricarica usuali rende più secchi boschi e pianure e appassisce complessivamente il verde su tutto il territorio. E qui non conta più soltanto la mancanza di piogge, ma anche il consumo esagerato e lo spreco di acqua. Uno spreco le cui basi non si pongono solo nella stagione estiva torrida, bensì soprattutto in quelle precedenti, magari durante gli inverni in cui cade pochissima neve. Per ragioni esclusivamente di profitto, l’acqua dolce viene riconvertita in neve artificiale a ritmi che incrementano il ricorso ulteriore ai cannoni sparaneve, visto che continua a non nevicare, in un drammatico circolo vizioso che non si riesce né a risolvere né a spezzare. Tantomeno con la richiesta di uno stato di emergenza che non dovrebbe essere incoraggiata, se non quando tutto il possibile non fosse stato fatto in termini di previsione e sorveglianza. Una volta poi che l’incendio viene appiccato, può accadere che il vento aggiunga problematiche, ma è sempre a terra che le situazioni diventano critiche e precipitano. In condizioni naturali gli incendi sono fenomeni inevitabili che rinnovano paesaggio e flora. Si estinguono da soli e vengono alla fine riassorbiti da ecosistemi sani che così si rigenerano. Ma da quando gli uomini abitano stabilmente la Penisola gli incendi spontanei non si propagano più e l’autocombustione è diventata un fenomeno di fantasia: quasi tutti gli incedi sono dolosi (raramente colposi). Per questa ragione sono più pericolosi: sono diventati meno prevedibili e vengono appiccati quando l’attenzione è bassa, rispondendo a strategie speculative la cui soppressione sarebbe l’unico modo per fermare il fuoco. Su questo contesto artificialmente compromesso influisce in maniera negativa la situazione delle nostre campagne e montagne, cambiate radicalmente nel corso di questi ultimi cinquant’anni. Il sottobosco non ripulito con attenzione costituisce un’esca fantastica, così come gli eventuali accumuli di tronchi e legname abbandonato. Non vengono più intagliate le fasce tagliafuoco che, almeno, servivano a evitare la propagazione degli incendi. Senza piogge ogni ceppo è diventato potenzialmente un focolaio. Il meteo locale fa il resto. Ma non è problematica che si possa risolvere dal cielo. Si discute molto delle difficoltà di manovra dei Canadair in condizioni critiche di visibilità, ma ci si dimentica di sottolineare che quando si ricorre all’aiuto aereo, la battaglia contro gli incendi è già persa. Quella battaglia va combattuta, se possibile prima, a terra, contrastando gli inneschi e controllando le possibilità di espansione delle fiamme. Anche se le leggi vietano di costruire nelle zone incendiate, non è facile ricostruire il perimetro dei boschi una volta che sono stati inceneriti ed è così comunque più facile costruire o chiedere di farlo in aree che non presentano più, evidentemente, il pregio che la foresta gli conferiva. I parchi naturali, visti come un vincolo alle ansie costruttive o di sfruttamento turistico, sono poi il secondo motivo di attacco con il fuoco, con l’aggravante che si tratta in molti casi di foreste primigenie, che si ricostituiscono solo in secoli. Una perimetrazione accurata dei boschi, il catasto obbligatorio delle aree incendiate, il divieto assoluto di ricostruire nelle aree bruciate e la sorveglianza satellitare nelle aree protette possono ridurre il rischio, a patto di trovare e perseguire i criminali del fuoco, unico deterrente che sembra funzionare davvero.
Continua a bruciare il Piemonte. Per Libero, “Si stanno bruciando da soli…”? Continuano gli incendi in Piemonte. Evacuate sessanta persone nella Val di Susa. Il Parco del Gran Paradiso in pericolo. Cosa dirà ora Libero? Scrive Rosario Scarcelli il 29 ottobre 2017 su "Napoli più". Continua a bruciare il Piemonte. Nella Val di Susa (dove sono state evacuate sessanta persone), nel Canavese, e nella Valle Sangone, sono stati trovati inneschi incendiari. Alcuni hanno funzionato e alcuni no. Il fumo acre, rende l’aria irrespirabile, e c’è paura pure per il Parco del Gran Paradiso, dopo che le fiamme hanno già devastato il parco regionale del Campo dei Fiori, e i boschi delle Alpi Orobie nei pressi di Sondrio. Una situazione difficile da gestire, anche perchè le ultime raffiche di vento, non stanno di certo, dando una mano. Sembra di rivivere l’inferno vesuviano, quello che abbiamo assistito tristemente l’ultima estate. Difficile dimenticare il sarcasmo italiota. Tutto racchiuso in quella vergognosa prima pagina di Libero dal titolo “Si bruciano da soli”, e le solite marachelle nordiche che già tutti conosciamo. Che dire. La ruota quando gira, è impietosa e non si ferma di fronte a niente. Ricordo pure il giusto disgusto (provammo lo stesso anche noi) quando trapelò la notizia che per gli incendi vesuviani si faceva uso di animali, quali gatti e cani randagi come innesco. Lo stesso sta capitando in Piemonte. Oddio la storia non è proprio la stessa, ma racconta di cacciatori che aspettano al varco gli animali che scappano stremati dalle fiamme, per poi ammazzarli. Insomma, fa schifo lo stesso, non c’è che dire. Ma sicuramente questi cacciatori si chiameranno Gennaro Esposito detto ‘à carogna’, e Ciruzzo ‘ò malomm’. Altrimenti non si spiega tanta atrocità. Vero? Che sia chiaro, tutto ciò è di grande dispiacere, perchè sta andando in rovina un patrimonio paesaggistico del nostro paese dal valore inestimabile, così come per noi resta il nostro Vesuvio. Ma il tutto è per far capire che l’uomo, quello di sani principi, non può farci nulla di fronte a certi avvenimenti, o a certi sistemi. Che questo sia napoletano o piemontese. Sperando che il tutto possa risolversi per il meglio e quanto prima.
Le ultime parole famose…razziste. "Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Di Vittorio Feltri
La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Da quel pulpito non può venire altro che quella predica…
Referendum, Berlusconi: "Soddisfatto, non è contro lʼUnità nazionale". "Se Veneto e Lombardia crescono ne guadagna il Paese intero", scrive il 23 ottobre 2017 TGcom 24. Silvio Berlusconi si dice "soddisfatto per il risultato dei referendum della Lombardia e del Veneto, che abbiamo sostenuto con convinzione e con impegno attivo". Secondo il leader di Forza Italia, "era giusto consentire ai cittadini di esprimersi, ed ora è necessario che da questo voto nasca un processo di riforma federalista, che avvicini le scelte di governo alla gente. Non è un risultato che va contro l'unità nazionale, che per noi è sacra". "L'unità nazionale è sacra", dice Berlusconi che aggiunge: "Sono convinto che se Lombardia e Veneto potranno crescere più velocemente, tutto il paese ne guadagnerà". Per il leader di Forza Italia, in una nota. "Il principio di sussidiarietà, quello secondo il quale il pubblico non deve fare ciò che può fare il privato, e nel pubblico le decisioni vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini, è da sempre al centro dei nostri programmi. Gli elettori del Veneto e della Lombardia hanno dimostrato di condividerlo - prosegue Berlusconi -. Ora comincia una fase nuova: credo che toccherà a noi, quando torneremo alla guida del paese dopo le elezioni, dare compiuta attuazione a una riforma che potrà riguardare tutte le regioni italiane".
Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom24". Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto è un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.
Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».
«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.
L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.
OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.
«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.
II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
Berlusconi, il ritorno: dal “bidet per scopatori africani” all’apprezzamento per moglie e figlia di Trump, scrive Gisella Ruccia il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gag, barzellette, freddure, ode per gli animali “esseri senzienti”, battute pruriginose assortite. Silvio Berlusconi non smentisce il suo tradizionale repertorio nel lungo “one man show” tenuto a Ischia per presentare i punti del programma di Forza Italia. Lo spauracchio principale del Cavaliere è il M5S, movimento “pericoloso, incapace e pauperista”, che, a suo dire, ha un frontman chiamato Luigi Di Maio, con un deus ex machina che è nientepopodimeno che il magistrato Piercamillo Davigo: “So che ci sono stati tre incontri tra Grillo, Casaleggio e Davigo che ora smentisce. Guardate chi è Davigo: è un concentrato di odio, invidia e rabbia. I suoi collaboratori dicono che non l’hanno mai visto sorridere nemmeno una volta. Non so perché abbia dei brutti denti oppure perché non ne sia proprio capace”. Via libera quindi agli strali contro i giustizialisti pentastellati, occasione per annunciare la riforma della giustizia secondo Silvio: cambiamento assoluto delle intercettazioni, non appellabilità delle sentenze di assoluzione, pm con stessi diritti degli avvocati della difesa, carcere prima del processo solo a chi commette atti di violenza, per tutti gli altri varrà invece la cauzione, secondo il modello americano. “C’è qualcuno di voi che ancora si fida di dire al telefono alla propria mogliettina un complimento birichino?”, chiede Berlusconi al pubblico. Poi un tributo a Donald Trump: “Che pena vedere i candidati alle presidenziali che gli americani hanno messo in campo. C’è un’incredibile crisi di leadership a livello internazionale. Ora c’è questo signor Trump, di cui ammiro la moglie e la figlia”. Immancabile il ricordo di Gheddafi: “Sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari e ho pensato: ‘Voglio insegnare a questi scopatori africani che anche i preliminari sono importanti’. Vedo che la signora Carfagna in prima fila si è scandalizzata, e questo va bene”. Infine, una battuta sul Paradiso: “Dio mi ha chiamato e mi ha detto: la tua idea di trasformare il Paradiso in società per azioni e quotarla, mi è piaciuta moltissimo. C’è solo una cosa che non capisco: perché dovrei fare il vicepresidente?”
Saviano: «I piemontesi non facevano il bidet». Lo scrittore risponde ad Amandola. Scrive "Lettera 43" il 22 ottobre 2012. Il tweet di Roberto Saviano dopo la dichiarazione del giornalista del Tgr Piemonte, Giampiero Amandola. La frase infelice che il giornalista della Rai, Giampiero Amandola durante il Tgr Piemonte ha espresso nei confronti dei napoletani («Puzzano») ha sconvolto anche il giornalista e scrittore campano Roberto Saviano. Su twitter, lunedì 22 ottobre, ha espresso il suo disappunto: «Quando i piemontesi videro il bidet nella Reggia di Caserta lo definirono oggetto sconosciuto a forma di chitarra». Amandola intanto è stato sospeso. La decisione è stata presa dalla Rai che ha definito il comportamento del giornalista «inqualificabile». Il mister dei partenopei Walter Mazzarri era entrato a gamba tesa: «Spero che chi ha sbagliato paghi. Se la giustizia permette che si sentano i cori che ho sentito io (i cori razzisti cantati allo Juventus Stadium, ndr), è una vergogna. Gli organi competenti facciano quel che si deve. Vale per tutti, che lo facciamo noi o i tifosi Juve. Spero paghino». «VOI LI DISTINGUETE DALLA PUZZA?». A scatenare la furibonda reazione dei napoletani è stato un momento del servizio del Tg regionale piemontese trasmesso sabato 20. «I napoletani sono ovunque, come i cinesi», ha detto un tifoso bianconero. Amandola ha rincarato la dose: «E voi li distinguete dalla puzza, a quanto pare...».
Certo, però, che al piemontese Gramellini la puntualizzazione non è andata giù.
Fogne e bidet, scrive il 23/10/2012 Massimo Gramellini su “La Stampa”. Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli.
Son razzisti anche se comunisti…Scrive Stefano Di Michele per "il Foglio" il 22 ottobre 2012. Prima l'uovo o la gallina? Oppure: prima il bidet o la fogna? Non bastassero le primarie ad aprire epocali questioni a sinistra - sotto le palme alle Cayman o alla pompa a Bettola? - ora è il momento della disputa: ha da considerarsi segno di maggiore civiltà l'oggetto che consente agevolmente di detergere le terga o la destinazione finale, diciamo così, della produzione fuoriuscita dalle stesse? Tra molte dispute che in zona sfiorano temerariamente il sanitario - intese quali questioni che richiedono conforto e spiegazioni di appositi luminari, adesso si è passati più prosaicamente allo scontro intorno ai sanitari - intesi quali manufatti che richiedono innanzi tutto il conforto di capaci idraulici. E' una questione esplosa tutta all'interno del faziano programma "Che tempo che fa" - con un'impennata che a questo punto necessita non solo di meteorologiche previsioni sull'anticiclone, ma anche di condominiali valutazioni sui tubi di scarico. E' come rivedere in campo Sua Maestà borbonica e Sua Eccellenza il conte di Cavour - nella fattispecie, Roberto Saviano (dal Regno delle Due Sicilie) e Massimo Gramellini (dal Regno di Sardegna). Tutto è cominciato con quel giornalista della Rai piemontese che ha avuto la bella pensata di chiedere ai tifosi juventini, in attesa della squadra dei napoletani, se dalla puzza avrebbero riconosciuto i medesimi. A parte la battuta godibile (per non allontanarsi dalla metafora) come una merda di cavallo sotto i piedi, la questione del puzzare più a nord o più a sud ha richiesto l'intervento dei due più avvertiti intellettuali del cenacolo regolato e adunato da don Fazio: appunto Saviano e dunque Gramellini - "i gioielli preferiti", ironizza il Corriere del Mezzogiorno.
Il primo ha espresso subito il suo disappunto igienico-borbonico-antirisorgimentale con un tweet, rievocando lo stupore dei piemontesi quando nella Reggia di Caserta si trovarono davanti l'innovativo bidet, e ignorando sia la forma sia la praticità del manufatto, con gaddiano trasporto lo definirono "oggetto sconosciuto a forma di chitarra" - il che, peraltro, non pochi dubbi accende tanto sullo stato igienico sottostante dei militi nordici, quanto sulla loro personale arguzia.
Gramellini (cavouriano: si desume dal collo delle camicie, oltre che dal ritratto del Conte che spicca sopra il suo letto), non volendo essere da meno, ha immediatamente fatto conoscere il proprio fervido disappunto igienico- savoiardo-risorgimentale sulla prima pagina della Stampa, concedendo l'onore del bidet al napoletano, ma rivendicando ai piemontesi quello non meno fondamentale delle fogne, "mentre i rimpianti Borboni, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma". Polemica di sostanza e sapori (per non dire odori) forti. Urge in trasmissione rapida convocazione di filosofi e storici a consueta transumanza faziana - oltre alla cara Littizzetto, che dibattendo così spesso tanto del "Walter" quanto della "Jolanda" (nello specifico: Quello e Quella) né sul bidet né sulle fogne dovrebbe mostrarsi impreparata. E all'uovo e alla gallina, pertanto, si torna: si può avere il bidet senza fogne? e se c'hai le fogne ma non il bidet, con le fogne che ci fai? C'è materia per un'intera prima serata su RaiTre, così da consentire alle due colonne portanti della trasmissione di poter pubblicamente e una volta per tutte chiarire la vexata quaestio. E invece del solito raffinatissimo gruppo musicale, al centro dello studio una riproduzione della famosa fontana, da ognuno inteso "pisciatoio", di Duchamp: così che nei pressi, sia Cavour sia Franceschiello possano finalmente liberarsi (di ogni dubbio storico).
Bidet. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il suo nome deriva dal francese bidet, termine che indica anche il pony. L'omonimia è dovuta alla somiglianza della posizione che si assume durante l'utilizzo del bidet con quella della cavalcata del pony. La parola deriva dalla radice celtica bid, col significato di piccolo, e bidein, piccola creatura.
Il bidet inizia a comparire negli arredamenti francesi tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, ma non si conosce ovviamente né la data certa né il nome del suo inventore. La prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui tale Christophe Des Rosiers, lo installò presso l'abitazione della famiglia reale francese. In realtà i bidet, immediatamente dopo l'introduzione, furono poco utilizzati in Francia; a Versailles ne esistevano in circa cento stanze, ma furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d'appuntamenti. Nella seconda metà del Settecento la Regina di Napoli Maria Carolina d'Asburgo-Lorena volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorandone l'etichetta di "strumento di lavoro da meretricio". Secondo l'anedottica l'inizio della diffusione di questo sanitario in Italia coinciderebbe con questo evento e, sempre secondo una leggenda priva di riscontri, dopo l'unità d'Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari chiamati a redigere l'inventario dei beni si sarebbero trovati di fronte al bidet che non conoscevano e l'avrebbero catalogato come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra". In realtà il bidet si è diffuso in Italia in tempi relativamente recenti dopo il secondo dopoguerra. Tanto i gabinetti comuni delle case operaie dei grandi centri urbani, quanto le latrine contadine ne erano generalmente privi. Ancora negli anni '60 del Novecento non era raro che soprattutto i nuovi immigrati nelle grandi città del nord usassero il bidet come lavatoio per i panni o "pulisci piedi".
Dal 1900, durante l'età vittoriana, con la diffusione delle tubature all'interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il pitale tenuto in camera.
Nel 1960 invece ci fu l'introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall'unione del water con il bidet, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto "bidet elettronico", ma in Italia non ha incontrato favore e non si è diffuso.
I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei: sono comuni solo in Grecia, Spagna, e soprattutto in Italia e in Portogallo, paesi nei quali l'installazione di un bidet fu resa obbligatoria nel 1975. Secondo un sondaggio francese del 1995, è l'Italia il paese in cui il bidet è utilizzato più di frequente (97%), seguito dal Portogallo al secondo posto (92%) e dalla Francia al terzo (42%); in Germania il suo uso è raro (6%) e in Gran Bretagna rarissimo (3%). In America Latina i bidet si trovano in Brasile, Paraguay e Cile, e soprattutto in Argentina e Uruguay, dove sono installati nel 90% delle case private; sono abbastanza comuni anche in Medio Oriente. In Giappone, pur essendo pressoché assenti, sono però sostituiti nella funzione da un sanitario che unisce le funzioni del water e quella del bidet, detto washlet, presente nel 60% delle case private e non raro negli alberghi. In Francia, Paese d'origine del bidet, a partire dagli anni settanta, per ragioni di economia e di spazio, sono raramente installati bidet nei nuovi appartamenti (dal 95% di presenza nei bagni nel 1970, la percentuale è scesa al 42% nel 1993) e una grande quantità di persone ha eliminato il bidet dalla propria casa. Un fenomeno analogo si sta riscontrando in Spagna, dove è sempre più frequente la mancanza del bidet nelle nuove abitazioni e nelle vecchie case ristrutturate, per un uso diverso dello spazio, sebbene gli appartamenti di lusso e con almeno due stanze da bagno continuino a esserne equipaggiati. I residenti di paesi in cui il bidet domestico è raro (come gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito, ad esempio) spesso non hanno alcuna idea di come usarlo quando ne trovano uno all'estero. Gli statunitensi hanno visto per la prima volta il bidet nei bordelli francesi durante la seconda guerra mondiale e ancora collegano questo sanitario all'idea che le prostitute lo usassero per lavarsi i genitali in seguito ai rapporti sessuali. I pregiudizi sono comuni tra gli abitanti di questi paesi, che a volte considerano il bidet un oggetto strano e anche sporco; ciò fa parte dei tabù legati all'igiene personale.
Quando al nord ancora mangiavano con le mani...
Dopo il bidet un altro primato meridionale: la forchetta, scrive il 20 ottobre 2014 Angelo Calemme. Lo sapevate che la forchetta con cui quotidianamente tutto il mondo attorciglia gli spaghetti è un’invenzione napoletana? In stretta controtendenza con lo “SputtaNapoli” e le menzognere letture risorgimentali e filosabaude della storia d’Italia diffondiamo questa notizia curiosa che in questi giorni grande clamore e consensi sembra suscitare sul web e, soprattutto, sui social network: la forchetta a 4 rebbi è un’invenzione duosiciliana e, più precisamente, napoletana. La forchetta ha origini antiche e, in base agli ultimi studi storici e archeologici, si presume sia una specificità della civiltà antica, mediterranea e romana. La forchetta venne sin da subito concepita come uno strumento da affiancare ai ditali d’argento con i quali i delicati polpastrelli delle famiglie patrizie greche e romane preferivano non ustionarsi durante i banchetti. Con la scomparsa della civiltà romana d’Occidente la forchetta sopravvisse solo nell’Impero romano d’Oriente e reintrodotta in Europa a partire dal 1003 dai veneziani, in seguito al matrimonio tra Maria Argyropoulaina, nipote di Costantino VIII, e Giovanni Orseolo, figlio del Doge Pietro II Orseolo. In seguito al boicottaggio della Chiesa che la definì un “demoniaco oggetto” essa ebbe una diffusione travagliata per circa 767 anni fino a quando il Regno di Ferdinando IV di Borbone e la regina Maria Carolina, nella persona del gran ciambellano Gennaro Spadaccini, non la secolarizzò, e ridisegnò, con 4 punte, ribattezzandola con il nome di modello broccia o napolitania.
Quest’ultima è la forchetta che tutto l’Occidente in particolare e la ristorazione in generale utilizza quotidianamente e che, solitamente, viene associata alla degustazione degli spaghetti al sugo di pomodoro.
Peccato Gramellini…anche le fogne in Italia sono nate prima al sud.
Fognatura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per fognatura (più formalmente sistema di drenaggio urbano o impianto di fognatura, volgarmente chiavica) si intende il complesso di canalizzazioni, generalmente sotterranee, per raccogliere e smaltire lontano da insediamenti civili e/o produttivi le acque superficiali (meteoriche, di lavaggio, ecc.) e quelle reflue provenienti dalle attività umane in generale. Le canalizzazioni, in generale, funzionano a pelo libero; in tratti particolari, in funzione dell'altimetria dell'abitato da servire, il loro funzionamento può essere in pressione (condotte prementi in partenza da stazioni di pompaggio, attraversamenti, sifoni, ecc.). Le prime testimonianze storiche di fognature risalgono ad un periodo compreso tra il 2500 e il 2000 a.C. circa e sono state trovate a Mohenjo-daro, nell'attuale Pakistan. Dai resti si è potuta ricostruire la fisionomia della città che, sotto il livello stradale, presentava una vasta rete di canali in mattoni in grado di convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni. Anche la città di Ninive, capitale del regno assiro tra l'VIII e il VI secolo a.C. era fornita di una rete fognaria. Le fognature antiche più efficienti furono però quelle di Roma. La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.C. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario. La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, la cui costruzione fu avviata nel VI secolo a.C. sotto il leggendario re di Roma di origine etrusca Tarquinio Prisco. Con la cloaca massima (inizialmente era un canale a cielo aperto ma successivamente fu coperto per consentire l'espansione del centro cittadino), di cui si possono vedere alcuni tratti e lo sbocco presso i resti del Ponte Rotto, i romani ci hanno tramandato uno dei più importanti esempi di ingegneria idraulico-sanitaria. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate. Solo molto più tardi, nel XVII secolo, si sentì nuovamente l'esigenza di costruire fognature a seguito della forte urbanizzazione di città come Parigi e, dal XIX secolo, Londra.
DIECI COSE CHE NON SAI SULLE FOGNE Cosa c'è da sapere sulle fogne? Tante cose, almeno 10. Eccole! Scrive "Focusjunior.it".
1. Fogna, chiavica, cloaca sono tutti nomi che indicano la stessa cosa: un sistema di canalizzazioni per raccogliere e smaltire le acque di scarico. La più antica che si conosca è stata ritrovata fra i resti di Mohenjo-Daro, una città della Valle dell’Indo, nell’attuale Pakistan, e risale al 2500 a. C.
2. Roma può vantare la rete di scarico più efficiente dell’antichità. L’asse portante era la Cloaca Maxima, un canale di scolo sotterraneo che, nel punto di maggiore ampiezza, era alto 3,3 metri e largo 4 metri e mezzo!
3. Le fogne più famose dell’età moderna sono quelle di Parigi. I cunicoli descritti nei Miserabili di Victor Hugo sono una vera città sotto la città: a ogni strada in superficie corrisponde la sua galleria sotterranea, con tanto di segnaletica, per un totale di 2.300 chilometri di percorso.
4. Nell'Ottocento a Londra c'erano solo 24 km di fognature: il grosso dei rifiuti organici finiva nei pozzi neri, che nessuno svuotava. Nel 1858 il fetore era così forte che non si poteva uscire di casa senza un fazzoletto sul naso: ancora oggi è ricordato come l'anno della Grande Puzza.
5. Non era solo questione di odori: la mancanza di igiene era una continua fonte di malattie. Dopo l’episodio della Grande Puzza (v. punto 4), a Londra si iniziarono i lavori per 2.000 km di tunnel fognari che in pochi anni misero fine alle epidemie di colera, prima frequentissime.
6. Mai sentito parlare di coccodrilli nelle fogne di New York? È ovviamente una leggenda metropolitana, ma con un fondo di verità. Nel 1935, sotto la 123a strada fu realmente avvistato (e catturato) un alligatore di 2 m, forse fuggito dal carico di una nave ormeggiata al porto.
7. Spesso nelle fogne finisce anche l’olio usato, che oltre a essere inquinante rischia di provocare danni anche seri. Nel 2013 i tecnici chiamati a ispezionare le fogne di Londra per un’ostruzione, trovarono un enorme grumo di grasso di 15 tonnellate. Per rimuoverlo ci sono voluti 3 giorni di lavoro.
8. Nelle fogne c’è anche chi ci abita. Nel 2013 la polizia di Bucarest ha fatto sgomberare un canale fognario divenuto la dimora di 35 ragazzi. Purtroppo non è una storia nuova: da tempo la sorte dei ragazzi di strada romeni è stata denunciata dal clown francese Miloud, che dal ’92 li coinvolge nei suoi spettacoli.
9. Mai sentito parlare del Musée des Egouts? È il museo delle fogne di Parigi, visitato ogni anno da circa 100 mila persone. Si entra (ovviamente) da un tombino, al 93 di quai d’Orsay, e si percorrono circa 500 metri nel sottosuolo, alla scoperta della storia e del funzionamento della rete fognaria.
10. “Oggi mi sento una cacca”. Al museo della Scienza e della tecnica di Tokyo si è tenuta un’interessante mostra sulle toilette dove, calandosi con uno scivolo in un enorme water, si poteva provare l’ebbrezza di un viaggio virtuale nelle fogne. Obbligatorio, però, indossare un casco protettivo... a forma di escremento!
Le fogne borboniche e la melma… di Venezia, scrive il 24 ottobre 2012 Angelo Forgione. Riflessivo sul bidet e colto da un impeto d’orgoglio piemontese, Massimo Gramellini nega che nella Napoli borbonica esistesse una rete fognaria e dice che dappertutto fosse melma. Lo scrittore si è infilato in un vicolo cieco dal quale è uscito scrivendo su Facebook di voler approfondire la lettura della storia dei Borbone ma non rettificando le sue inesattezze sul giornale dove le aveva scritte. Nella foto tratta da una relazione del Centro Speleologico Meridionale si può notare una fogna borbonica in disuso. Certo, la rete fognaria era statica, proprio perché antica; divenne sempre più inadeguata con l’espansione demografica e urbana, non vi è alcun dubbio, e si arrivò al punto di dover mettere mano al sottosuolo di Napoli all’epoca del “Risanamento”, ma accadde 34 anni dopo l’unità d’Italia, non 5 e nemmeno 10. Del resto, come dimostrano i tecnici del Comune di Napoli in una relazione sugli “interventi di razionalizzazione del sistema fognario cittadino” di qualche anno fa, “il mutato assetto degli insediamenti sul territorio richiedeva interventi urgenti sulla rete fognaria cittadina, in parte risalente ad epoca borbonica”. D’altronde, quando due settimane fa Napoli si allagò per il primo temporale autunnale, tutti i quotidiani si affrettarono a scrivere che “Napoli è dotata di un impianto fognario che risale all’epoca dei Borbone…”. La melma a Napoli? Wolfgang Goethe raccontò nel Viaggio in Italia del 1787 la pulizia delle strade della città dovuta anche ad un formidabile riciclaggio degli alimenti in eccesso che si attuava tra la città e le campagne tutt’intorno, un’operosità che faceva persino in modo che, nonostante girassero numerose carrozze per le strade della città, lo sterco dei cavalli fosse praticamente inesistente. Lo descrisse così: “E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli”. A Napoli, in pratica, si faceva una specie di “compost” ante litteram. Una pulizia che lo scrittore tedesco (tedesco!) reputò superiore agli altri posti visitati: Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, e poi le città siciliane. E vide pure la melma, si, proprio quella buttata da Gramellini su Napoli, ma non a Napoli bensì a Venezia, che trovò sporchissima. Per la precisione la definì “melma corrosiva” lungo le strade. Inutile far notare che il viaggio in Italia del grande letterato tedesco non passò per Torino. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perchè la città pulita del Sette-Ottocento sia divenuta sporca nel Novecento.
Referendum per l’autonomia: pensavamo di essercene liberati, invece ritorna la fiera delle identità, scrive Francescomaria Tedesco il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvinie di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile. Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà”.
Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissima crisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici. Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte. Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.
Referendum Lombardia Veneto, a ribellarsi dovrebbero essere le persone del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Oggi, in Italia, una parte di una parte del Paese chiede di tenere per sé più risorse perché in questa fase storica il suo reddito pro capite è più alto e, per mantenere standard di servizi più alti per i propri cittadini, decide bene di spendere circa 70 milioni di euro per un referendum dall’orizzonte quanto meno fumoso. Sempre positivo il ricorso alle urne, ma il fine non giustifica i mezzi, in alcuni casi, dato che le Regioni hanno ben altri strumenti, senz’altro più economici, per invocare più autonomia. È il caso del referendum Lombardo-Veneto, basato sull’idea che troppo alto sarebbe il residuo fiscale delle regioni coinvolte: intorno ai 50 miliardi. In realtà, secondo Paolo Balduzzi, l’ammontare vero di quel residuo, sarebbe circa la metà. Mi pare sempre più frequente il ricorso all’immagine comoda e rassicurante dello steccato, a livello globale. Da Donald Trump, che sostiene: “A Nation Without Borders Is Not A Nation” ai referendum autonomisti, fino alla Brexit. Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali. Eppure, in Italia vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Parole che rischiano di rimanere una dichiarazione formale e vuota, se tutti i cittadini italiani non vedono riconosciuti eguali diritti: la Costituzione rischia sempre più di esser violata nella sostanza e tutto ciò che conduce verso una simile aberrazione è in conflitto con quel dettato, violandone i principi fondamentali. L’esperienza quotidiana insegna, purtroppo, che in molte regioni (meridionali) il livello dei servizi offerti ai cittadini è sempre più basso. Trasporti, sanità, asili, scuola, università. Le migliaia di studenti che emigrano nelle università del Nord e l’emorragia di capitale umano hanno fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Infatti, il Sud ha perso 716 mila persone, in questi anni, di cui circa 198 mila laureati, solo negli ultimi anni. Queste ingenti somme il residuo fiscale, evidentemente, non le conta. Come il quotidiano acquisto di prodotti e servizi. E che dire della spesa drammatica dei migranti della sanità che, per avere cure migliori, si trasferiscono quotidianamente al Nord con un triste indotto collegato? Chi solletichi le paure e gli egoismi della gente, sa perfettamente che un Pil più alto oggi è il frutto di spese sostenute da tutto il Paese per arricchire aree più sviluppate e farne “locomotori” che avrebbero dovuto trainare tutto il paese. E invece non trainano nulla a quanto pare. Bisognerebbe metter mano alla gravissima discrepanza tra trasferimenti alle Regioni e livelli dei servizi, mettere a nudo l’inettitudine di chi i fondi trasferiti non riesce a metterli a frutto, invece di aggiungere confusione demagogica. Un bell’articolo di Francesco Sabatino su Lettera43 ricorda che “il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centro settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive”. Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni? Dovrebbe esser la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse. Infine, le interdipendenze dell’economia globale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista. Il concetto di confine è superato e scandaloso e rischia di mettere in discussione il più nobile progetto europeo che, pur con gravi defaillance, è riuscito ad avvicinare le popolazioni del nostro continente come mai nella storia. Non confondiamo l’oro con le patacche. Ringrazio Natale Cuccurese per le gradevoli conversazioni sul Sud.
Referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, le scomode verità da non dire, scrive Lavoce.info il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati. Di Paolo Balduzzi (Fonte: lavoce.info).
La questione dei residui. Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze. L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione. Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica). Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo Stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.
Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.
Cosa farà il governo? Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo Stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica. Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti. Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.
Referendum sull'autonomia, i numeri del divario Nord-Sud. Rispetto alle tasse pagate, nelle due Regioni non tornano complessivamente 8.400 euro per cittadino. Dal crollo degli investimenti nel Mezzogiorno alla fuga di braccia e cervelli: la situazione ai raggi X, scrive Francesco Pacifico il 21 ottobre 2017 su "Lettera 43". Prima della crisi ogni cittadino della Lombardia, rispetto alle tasse pagate, si vedeva restituire quasi 6 mila euro in meno rispetto a quanto aveva versato. Il Veneto ha visto scendere da quasi 3 mila euro a poco meno di 2.400 la differenza. Contemporaneamente la Campania, che storicamente ottiene in trasferimenti più di quanto versa in tributi, ha perso quasi 1.000 euro procapite, la Sicilia 375. Sulla Voce.info gli economisti Paolo Di Caro e Maria Teresa Monteduro hanno chiarito quanto valgono i residui fiscali nelle Regioni che sono andate al referendum. Non a caso il cavallo di battaglia dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che in nome della perequazione e con questo voto chiedono una non meglio specificata autonomia, che potrebbe tradursi in minori trasferimenti verso il centro, mantenendo più risorse sul proprio territorio. Eppure questo dato rischia di creare confusione, perché il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centri settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive.
CROLLO DEGLI INVESTIMENTI AL SUD. Tra il 2015 e il 2016 il Sud è cresciuto più del Nord perché la spesa per investimenti (+2%) ha guardato soprattutto in direzione della parte più debole del Paese. Un’eccezione, perché non sempre le cose sono andate così. Soltanto nel 2014 la spesa pubblica in percentuale del Pil in conto capitale era calata nel Mezzogiorno del 2,1% contro lo 0,8 del Centro-Nord, con un effetto depressivo sia sui servizi sia sui consumi. Non a caso lo Svimez ha fatto notare che soltanto negli anni della crisi, «a livello settoriale, c'è stato un crollo epocale al Sud degli investimenti dell'industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%)».
CERVELLI E BRACCIA IN FUGA. Prima del riequilibrio avuto con i nuovi parametri di valutazione della ricerca, l’università meridionale si è vista tagliare le risorse di un valore superiore al 15%. In base alla qualità dei servizi offerti e alle altissime aliquote legate al dissesto dei conti della sanità, i cittadini meridionali finiscono per spendere di più proprio attraverso strumenti di rientro come i ticket. Ed è anche per questo che nel Mezzogiorno, come avverte la stessa Svimez, circa 10 abitanti su 100 vivono in povertà assoluta, contro i sei del Centro Nord. Senza contare che negli ultimi cinque anni sono emigrati dall’area più debole del Paese 1,7 milioni di persone a fronte di 1 milione di rientri: la perdita secca è stata di 716 unità, il 72,4% under 34 e 198 mila i laureati. Cervelli e braccia che per lo più stanno arricchendo il Nord con il loro lavoro e le loro competenze.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
LA DEMERITOCRAZIA.
La demeritocrazia che uccide. Luana Ricca, dopo una brillante carriera da chirurgo a Parigi, torna in Italia e si suicida, scrive Ilaria Bifarini il 6 febbraio 2016 su "L'Intellettuale dissidente". È la storia di un controesodo, del ritorno in patria di un cervello in fuga. Un rientro desiderato, ambito, sospirato. Era il 2014 quando Luana raccontava la sua storia a Radio24 “Sono Luana, ho 36 anni, sono una mamma ed un chirurgo (…) Per lavorare vivo a Parigi con mio figlio di 5 mesi, mentre mio marito vive e lavora a Roma, facendo i tripli salti mortali per vederci. Dopo avere inviato diverse domande per concorsi pubblici, in Italia attualmente non ho alcuna possibilità”. Un curriculum di tutta eccellenza il suo, che racconta una storia fatta di esodi e di speranze, che la veda giovanissima abbandonare la natìa Sicilia per andare a studiare a Roma, in uno dei migliori atenei di Medicina, dove si laurea a solo 23 anni. Segue la specializzazione in Chirurgia Generale alla Sapienza e Luana decide di arricchire la sua formazione con stages all’estero: Londra, Barcellona e Parigi. Proprio nella capitale francese trova la sua prima occupazione da chirurgo nel primo centro francese di trapianti di fegato e di chirurgia epato-biliare, “gratificante in termini di responsabilità e remunerazione”, come racconta agli utenti radiofonici italiani. Il desiderio di migliorarsi e la passione per la sua professione rendono inarrestabile il suo impegno: effettua più di 1500 interventi chirurgici, scrive su riviste chirurgiche internazionali e parla tre lingue straniere (inglese, francese e spagnolo). Dal 2012 comincia un doppio dottorato di ricerca in oncologia, in italiano e francese, alla ricerca di una via di ritorno in Italia che riunisca la sua famiglia. Dopo anni di sospiri arriva il concorso all’Ospedale Regionale de L’Aquila e Luana lo vince, arrivando quinta. Ma l’esultanza dura poco. Viene spedita al distaccamento di Sulmona, a ore di auto da L’Aquila, dove risiede con il marito che fa la spola con Roma, a occuparsi di endoscopie digestive. Si apre un periodo buio nella vita di Luana, il suo brillante percorso formativo e professionale si interrompe, anni di studio e di esperienza vanno in fumo; la giovane chirurgo nell’ambiente medico italiano si sente isolata, incompresa, per la prima volta impreparata. Anni all’estero di studio e lavoro, di risultati e gratificazione conseguiti con l’impegno e la passione non l’hanno formata per sopravvivere alla realtà lavorativa italiana, in cui per andare avanti le logiche meritocratiche non solo non aiutano ma ostacolano. Per mettere in campo le proprie capacità e competenze bisogna accettare le logiche clientelari e corrotte, conoscerle e saperle cavalcare. Luana, con la sua brillante carriera all’estero alle spalle, non ce l’ha fatta, troppo estranee alla sua forma mentis acquisita studiando e lavorando sodo. Si è ammalata di uno dei mali più oscuri anche per i medici come lei: la depressione. Così, nel silenzio generale della stampa e dei media, pochi giorni dopo Natale si è suicidata. Vittima di mobbing, di demansionamento, di aspettative infrante. In una sola parola, demeritocrazia.
Poi c'è il caso di Antonio Palma, il ragazzo commerciante non omologato ed inviso dai suoi compagni comunisti (moralisti ipocriti, che magari le merendine a nero le avevano comprate), perchè esercitava al di fuori delle regole dettate da uno Stato ladrone.
Torino, vendeva merendine in nero: sospeso un 17enne a Torino. Avrebbe iniziato un traffico nero di merendine nonostante fosse stato sospeso lo scorso anno per 10 giorni: il consiglio di classe deciderà a breve le sanzioni, scrive Enrica Iacono, Lunedì 21/11/2016, su "Il Giornale". All'Istituto Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, uno studente è stato sospeso dopo aver avviato un commercio nero di merendine. La vicenda ha dell'incredibile ma, come riporta La Repubblica, tutto sarebbe iniziato durante lo scorso anno scolastico quando il ragazzo diciassettenne aveva iniziato a comprare delle merendine al supermercato per poi rivenderle a un prezzo più basso del bar della scuola ai numerosi studenti. La sospensione di 10 giorni è stata inevitabile ma anche quest'anno lo studente ci è ricascato. La scorsa settimana infatti è stato scoperto nuovamente dagli insegnanti mentre ricominciava, da vero imprenditore, il suo "traffico di merendine". Il preside dell'istituto Pininfarina Stefano Fava si è detto molto risentito del comportamento dell'alunno: "Questo è un problema di legalità. La scuola, insieme ai saperi, alle conoscenze, alle abilità, deve anche insegnare a questi ragazzi a essere cittadini e dunque a rispettare le leggi. Non vogliamo inibire la sua vena imprenditoriale, ma dobbiamo pensare al benessere e alla salute dei nostri studenti. Non sappiamo da dove provenissero quelle merendine, né se fossero scadute o mal conservate. E se i nostri allievi fossero stati male? A me le famiglie consegnano ragazzi sani e si aspettano che glieli restituisca tali". Le sanzioni nei confronti del ragazzo recidivo saranno decise dal consiglio di classe anche se lo studente sembra non voler imparare la lezione certamente affascinato dal mondo dell'imprenditoria.
Lo strano caso delle merendine, scrive Econoliberal il 16 dicembre 2016. Qualche giorno fa appare la notizia di uno studente di un istituto tecnico di Moncalieri (TO) premiato dalla Fondazione Einaudi per aver venduto merendine a scuola, subendo per questo una sospensione. Faccio un salto sulla sedia: la Fondazione Einaudi di Torino ha la fama di essere una istituzione seria. Perchè dovrebbe premiare uno studente sospeso due volte in due anni? Basta qualche controllo per capire che il premio (500 euro) arriva dall'omonima fondazione con sede a Roma, che non ha un comitato scientifico composto da seri economisti ma è formata per lo più da politici e giornalisti uniti da una comune passione contro le imposte e lo Stato. Cosa faceva di grave lo studente? Comprava merendine uguali a quelle del distributore automatico e le vendeva a scuola a un prezzo inferiore a quello del distributore automatico, ottenendo guadagni non irrilevanti (pare 15 mila euro in alcuni anni), naturalmente esentasse. E' stato sospeso due volte in due anni e tutto sarebbe finito lì se non fosse che la Fondazione Einaudi di Roma ha deciso di premiarlo con una borsa di studio e qualche intervista, nella quale si dice pronto a andare a vivere in Portogallo perchè le imposte sono basse. Battaglia ideologica che rischia di costargli cara: dopo il premio sono arrivate le proteste dei compagni di scuola, e qualche minaccia. Così il Tribunale di Torino si sta chiedendo quale sia stato il ruolo del padre del ragazzo (che rischia di subire qualche provvedimento del Tribunale dei Minori) mentre il fisco è interessato a indagare sui guadagni del piccolo commercio.
Pininfarina: gli studenti scendono in piazza contro il premio al compagno "venditore di merendine". Benedetto (Fondazione Einaudi):"Pronti a confrontarci con loro per spiegare", scrive Jacopo Ricca il 12 dicembre 2016 su "La Repubblica". Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi Gli studenti del Pininfarina si schierano contro la decisione della fondazione Luigi Einaudi di premiare il loro compagno Antonio, il venditore abusivo di merendine dell'istituto di Moncalieri che è stato sospeso per 15 giorni dalla scuola proprio per questa sua attività. “Non ci sembra giusto premiare un comportamento illecito. Non è un messaggio corretto per i tanti che si impegnano a rispettare le regole” attaccano i rappresentanti degli studenti che domattina saranno fuori dalla scuola insieme ai loro compagni per manifestare il dissenso. Hanno scelto di scendere in piazza domattina quando il ragazzo sarà con suo padre a Roma nella sede della fondazione Einaudi per ritirare la borsa di studio che il centro dedicato a uno dei più importanti autori liberali d'Italia ha deciso di offrirgli: “Il suo spirito d’iniziativa non è da perseguire, ma da promuovere – recita la motivazione – In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Questa scelta, ma anche le tante offerte di lavoro arrivate ad Antonio non hanno convinto i suoi compagni: “Sia chiaro che non è una manifestazione contro di lui – continuano i rappresentanti – Noi non ce l'abbiamo con lui, ma ci sembra scorretto dare riconoscimenti a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche in questa scuola”. La vicenda del venditore di merendine insomma continua a scatenare polemiche, anche dentro la scuola. Il preside Stefano Fava considerava la vicenda chiusa dopo che la sospensione di due settimane, spalmata su tutto il 2017, da passare in un'associazione di volontaria decisa dalla scuola, era diventata definitiva nonostante la richiesta che il consiglio di classe aveva fatto al consiglio d'istituto di inasprirla. La presenza del programma tv “Le iene”, che aveva intervistato Antonio e suo padre, confermando, quanto sempre sostenuto dai ragazzi, che il business dietro alla vendita di merendine fosse di alcune decine di migliaia di euro ha ulteriormente inasprito gli animi. E ora si arriva addirittura a una manifestazione: “Staremo fuori dalla scuola per far sentire la nostra voce e far capire che anche al Pininfarina c'è chi rispetta le regole” concludono gli studenti. Nei giorni scorsi la fondazione Einaudi ha invitato anche il preside della scuola, Stefano Fava, alla premiazione di domani. “La sua storia ci ha colpito molto e mi sembra che la sua sia stata una scelta d'impresa applicata – aveva spiegato il presidente della fondazione, l'avvocato Giuseppe Benedetto, – Non credo che quella di questo giovane sia un'attività illecita, ho sentito parlare di nero, ma non mi pare sia questo da mettere in evidenza in questa storia”. In queste settimane la fondazione è rimasta in contatto constante con la famiglia del ragazzo e si è detta anche disponibile a confrontarsi con gli altri studenti della scuola per spiegare la scelta.
TGcom 24 del 13 dicembre 2016: Sospeso dalla scuola perché vende snack in nero e premiato da una Fondazione, Regione: "Sbagliato". Il giovane era stato sorpreso mentre spacciava merendine a un prezzo più basso delle macchinette. La Fondazione Einaudi lo ha premiato per spirito imprenditoriale. Fioccano le polemiche a Moncalieri. Presidio dei compagni davanti alla scuola per protesta. "E' comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni". Lo ha affermato l'assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. Il giovane era stato sospeso per aver creato uno spaccio di merendine, che comprava al supermercato e poi le rivendeva ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. La notizia del premio ha fatto scoppiare le polemiche. "Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un'innovativa capacità imprenditoriale - ha aggiunto l'assessora regionale -. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è". "Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l'unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda - ha concluso - è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata". La protesta: "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma il premio è sbagliato" - "Non ce l'abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola", è la presa di posizione dei rappresentanti dell'istituto, che sono scesi in piazza per protestare contro la borsa di studio che ritengono ingiusta. "Staremo fuori dalla scuola, per far sentire le nostre ragioni", dicono annunciando il presidio.
“No alla borsa di studio ad Antonio”: un terzo degli studenti del “Pininfarina” di Moncalieri diserta le lezioni, scrive "Torino Oggi" martedì 13 dicembre 2016. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Prende le distanze anche l'assessora Pentenero. All’insegna di un emblematico "Le borse ai fuorilegge, no a chi legge", 500 dei 1.600 studenti che frequentano l'Istituto Pininfarina di Moncalieri non hanno preso parte alle lezioni, stamani per protestare contro la decisione della fondazione Einaudi di Roma di assegnare una borsa di studio ad Antonio, il loro compagno diciassettenne sorpreso per ben due volte a vendere abusivamente di merendine. La protesta, dicono gli studenti, non sarebbe contro Antonio ma contro quelli che hanno deciso di premiarlo. Ma la verità sarebbe assai diversa e la sensazione è che la situazione potrebbe anche diventare davvero difficile da gestire, da parte delle autorità scolastica dell’Istituto. Questa mattina, infatti, alcuno studenti avevano in mano il cellulare con alcuni messaggi non propriamente “accomodanti” (anzi) inviati dallo stesso Antonio via WhatsApp: "Io andrò in tv e anche quelli del Pininfarina là fuori a protestare come cog... con il freddo, tanto la borsa di studio la prendo comunque" oppure "Sono solo degli handicappati loro". Nel tritatutto delle polemiche è finita così la Fondazione Luigi Einaudi, dipinta come colei che premia l’illegalità e – dopo i messaggi inviati da Antonio, che nel frattempo ha denunciato di essere stato aggredito da un paio di dozzine di compagni più grandi nel corso dell’intervallo di ieri – anche l’arroganza e la strafottenza. La Fondazione ha un bel dire che il suo intento è quello di premiare “lo spirito d'iniziativa imprenditoriale del giovane ": i compagni di Antonio all’esterno del Pininfarina, hanno allestito un paio di bar "abusivi", per protesta contro quanto avvenuto all’interno della scuola ed il successivo “premio”. Il tutto sotto gli occhi discreti dei carabinieri di Moncalieri. Sulla stessa lunghezza d'onda degli studenti anche l'Assessora all'Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero: "E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni. Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale. Senza voler criminalizzare nessuno o esacerbare gli animi, penso tuttavia che punizioni o, al contrario, riconoscimenti finiscano per essere fini a se stessi se non aiutano il giovane a distinguere tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Con la premiazione di oggi il rischio concreto è che l’unico insegnamento che il ragazzo trarrà da questa vicenda è che chi è più furbo avrà sempre la strada spianata".
Spacciatore di merendine tradito dai compagni: no al premio, studenti in piazza, scrive il 13 dicembre 2016 Manlio Grossi su "Skuola net". Sembra davvero senza fine la vicenda che coinvolge l’ormai noto spacciatore di merendine dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri. Dopo esser finito su tutti i giornali per la sua attività illecita, aver ricevuto proposte di lavoro da più aziende ed esser stato sospeso per due settimane dal Consiglio d’Istituto, il giovane si trova oggi a Roma per ricevere una borsa di studio dalla fondazione Luigi Einaudi. Proprio questo premio ha scatenato le razione dei suoi compagni di classe, scesi in piazza per manifestare il loro dissenso. Secondo gli studenti del Pininfarina, il premio dato al loro compagno non è un messaggio corretto da dare, soprattutto nei confronti di chi rispetta le regole. Alla base del premio che la fondazione Luigi Einaudi ha voluto dare al giovane, il suo spirito di iniziativa che secondo l’istituto “Non è da perseguire ma da promuovere, in un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi”. Dopo aver saputo delle polemiche nate al Pininfarina proprio per questo premio, la fondazione si è detta disponibile a confrontarsi con gli studenti per chiarire meglio e far comprendere la decisione presa. La vicenda dello spacciatore di merendine, sembra quindi destinata a continuare…
Nobel allo spacciatore di merendine: studente di Torino premiato con una borsa di studio. È polemica tra gli studenti del Pininfarina di Moncalieri per il premio conferito dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma, scrive Giulia Morici su "Pontile news" il 13-12-2016. Chissà se un giorno, tra i vari premi Nobel, spunterà fuori anche quello delle merendine. Per il momento, lo studente dell’Itis Pininfarina di Moncalieri, in provincia di Torino, dovrà accontentarsi di una bella borsa di studio conferita dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Andando indietro nel tempo, fino ad arrivare alla fine del novembre scorso, si ricorderà che il giovane in questione balzò agli onori della cronaca per il suo spirito imprenditoriale, grazie al quale diede vita a un traffico illecito di merendine all’interno dell’istituto scolastico. Un episodio che gli costò un provvedimento disciplinare, tanta notorietà e l’apprezzamento da parte di alcuni imprenditori; oggi a questa lista va aggiunta la borsa di studio conferitagli dalla Fondazione Einaudi. La creatività, in tempi di crisi, non è di certo una questione da sottovalutare, ma l’episodio di Moncalieri, ragionevolmente, ha suscitato non poche critiche le quali, oggi, hanno assunto i toni di una vera e propria protesta sfociata tra gli studenti del Pininfarina. A spingere la Fondazione a conferire la borsa di studio allo studente imprenditore, come è riportato sul sito web, vi è stata la volontà di promuovere lo spirito di iniziativa del giovane: «In un Paese dove l’iniziativa privata è spesso ostacolata riteniamo che il ragazzo abbia invece messo in pratica molti degli insegnamenti di von Hayek e dello stesso Einaudi», si legge nell’articolo. Proprio stamani, il giovane imprenditore di merendine e la sua famiglia sono stati ospiti nella sede di Roma dell'ente erogatore del premio, presso la quale al ragazzo è stata conferita la borsa di studio. Un’occasione, quella di oggi, «per condividere assieme alla Fondazione Einaudi una bella giornata all’insegna della libertà e della creatività dello spirito imprenditoriale». Eppure, messaggio peggiore non sarebbe potuto passare dall’episodio in questione. Viva il liberalismo, viva lo spirito imprenditoriale, potrebbero sostenere alcuni difensori di tale corrente di pensiero, ma un dubbio sorge spontaneo: dove la mettiamo la legalità? Seppur i guadagni del giovane imprenditore non siano stati da capogiro, la sua azione non è di certo da incoraggiare, in quanto si poggia su basi scorrette, ovvero quelle dell’illegalità. Dunque, come dar torto a una lecita osservazione di uno degli slogan comparsi durante la protesta degli studenti del Pininfarina, il quale recitava «cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel»?
Torino, borsa di studio a studente che vende merendine a scuola. Protesta dei compagni: “Immeritata”. La decisione della Fondazione Einaudi di premiare il 17enne (già sospeso per 15 giorni) per il suo spirito imprenditoriale ha scatenato l'ira degli altri alunni Itis Pininfarina di Moncalieri. Assessore Regionale: "Messaggio sbagliato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 13 dicembre 2016. Merendine comprate al supermercato e rivendute ai compagni a un prezzo più basso rispetto agli snack della scuola. Per l’istituto, il comportamento del 17enne torinese è scorretto, tanto che il ragazzo è stato sospeso per 15 giorni. Di tutt’altro parere la Fondazione Einaudi, che ha voluto premiare lo studente con una borsa di studio per il suo “spirito imprenditoriale”. Una decisione che ha scatenato le proteste dei compagni di scuola che questa mattina, mentre a Roma il ragazzo riceveva il premio, hanno organizzato un presidio davanti all’Itis Pininfarina di Moncalieri, alle porte di Torino. “E’ un premio immeritato: un illecito in una scuola non è un motivo serio per dare una borsa di studio”, dice uno studente. “Hanno dato una borsa di studio a caso”, aggiunge un rappresentante dei circa 500 studenti presenti alla manifestazione. E ancora: “Al Pinin non vince il dieci ma gli evasori”, “borse di studio anche per noi”, “cervelli in fuga, venditori di snack abusivi da Nobel”, sono alcuni dei cartelli esposti davanti alla scuola dagli studenti, che hanno anche mostrato alcuni messaggi dello studente-imprenditore in cui li prenderebbe in giro. “Noi non ce l’abbiamo con il nostro compagno, sia chiaro – dicono i ragazzi – ma riteniamo che questa borsa di studio sia stata data a caso”. Interviene anche la Regione Piemonte, che si schiera con gli studenti. “E’ comprensibile che la decisione della Fondazione Einaudi di assegnare una borsa di studio allo studente del Pininfarina, sospeso per aver venduto abusivamente merendine, susciti un certo sconcerto tra i suoi compagni”, afferma in una nota l’assessora all’Istruzione della Regione Piemonte, Gianna Pentenero. “Credo infatti sia sbagliato far passare il messaggio secondo il quale non rispettare le regole viene letto come un’innovativa capacità imprenditoriale”, aggiunge Pentenero. E così la storia di Antonio, papà operaio, mamma casalinga e un grande fiuto per gli affari, da giorni fa discutere tra i banchi dell’Itis di Moncalieri, e non solo. “Ho iniziato per scherzo, i compagni mi ordinavano la roba perché risparmiavano”, ha raccontato lo studente che si era inventato anche una chat su Whatsapp per raccogliere le ordinazioni. “Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta costano un euro”, ha spiegato il giovane che con questa attività avrebbe intascato, secondo alcuni, qualche migliaia di euro. “Saranno stati cento euro al mese”, ha sostenuto invece il ragazzo, che sogna di aprire un locale da gestire con i genitori e la famiglia. L’iniziativa di Antonio non è passata inosservata al preside dell’istituto, che lo ha punito per quello che era diventata una vera e propria borsa nera delle merendine. Quindici giorni di sospensione, spalmati su tutto l’anno, da passare in un’associazione di volontariato, perché “le regole vanno rispettate”, è stata la spiegazione, e perché “non sappiamo da dove provenissero le merendine ed è un problema di sicurezza alimentare”. Eppure per la Fondazione Luigi Einaudi, che dal 1962 promuove la diffusione del pensiero liberale, quello spirito d’iniziativa non è da punire, ma da promuovere. Per questo motivo, presso la sua sede romana di largo dei Fiorentini, il presidente Giuseppe Benedetto ha conferito un assegno e dei libri dei maestri del liberismo. “Con questa iniziativa non vogliamo certo premiare una attività illegale, che anzi condanniamo, ma semplicemente lo spirito di iniziativa imprenditoriale del giovane studente”, spiega Benedetto, che alla cerimonia ha anche invitato la famiglia dello studente e il suo preside. “Non ce l’abbiamo con Antonio, ma riteniamo sbagliato attribuire un premio a lui e non ai tanti studenti meritevoli che ci sono anche nella nostra scuola”, è la presa di posizione dei rappresentanti dell’istituto.
Moncalieri, la Procura apre un'inchiesta sul venditore di merendine: verifica fiscale sugli incassi. "Palma t'ammazzo" e "Muori male": alcune delle minacce comparse davanti al "Pininfarina" contro lo studente venditore di merendine. L'indagine affidata ai carabinieri, decisa dopo le minacce di morte allo studente comparse davanti al Pininfarina, si allarga a tutti gli aspetti della vicenda, scrive Jacopo Ricca il 16 dicembre 2016 su "La Repubblica". Finisce in procura la vicenda del venditore abusivo di merendine del Pininfarina di Moncalieri. I carabinieri della cittadina alle porte di Torino stanno preparando un rapporto su quanto accaduto nella scuola del ragazzo, dalla vendita abusiva di snack fino alle minacce ricevute negli ultimi giorni dal giovane. Da tempo il preside è in contatto con le forze dell'ordine che stanno monitorando la situazione: ieri è stato ascoltato come persona informata sui fatti per la relazione che i militari invieranno in procura. Tra le testimonianze raccolte dai mezzi d'informazione ci sono anche quelle dei compagni del diciassettenne che attribuiscono al padre del ragazzo un ruolo attivo nella vendita di merendine. Accuse sempre respinte dalla sua famiglia, ma che potrebbero portate a un coinvolgimento del tribunale dei minori e dei servizi sociali. Altro filone è quello del mancato pagamento delle tasse sui ricavi del business abusivo di merendine: secondo alcuni il guadagno in tre anni avrebbe raggiunto 15mila euro, ma è stato lo stesso venditore a riconoscere che negli ultimi tempi l'incasso mensile aveva raggiunto quota 800. Per questo l'informativa dei carabinieri sarà inoltrata anche all'Agenzia dell'Entrate e agli uffici comunali componenti che valuteranno se ci siano gli estremi per un intervento del Fisco.
Lo Studente sospeso: ai pusher però non fanno niente, scrive Martedì 22 Novembre 2016 "Leggo". L'idea era semplice ma geniale: dal momento che snack e bibite venduti nei distributori automatici della scuola erano troppo costosi, studiava appositamente le offerte di tutti i supermercati della zona e acquistava i prodotti più richiesti negli esercizi commerciali con i prezzi migliori, per poi rivenderli a scuola. Un piccolo business nato per gioco, ma illegale, che è già costato caro ad uno studente 17enne di Moncalieri (Torino) e che ora rischia di costare carissimo. «Tutto era cominciato lo scorso anno, quando mi resi conto che era troppo far pagare agli studenti 1,50 euro un tè freddo che al supermercato costa non più di 35 centesimi, o merendine da 30 centesimi addirittura un euro. Così iniziai a organizzarmi e a fare la spesa per i miei compagni di classe» - racconta Antonio, lo studente che gestiva il mercato parallelo - «Non vendevo a prezzi eccessivamente maggiorati, i margini di guadagno erano bassi ma chi comprava poteva risparmiare moltissimo rispetto alle macchinette. Poi mi sorpresero e fui prima sospeso e poi bocciato. Per parecchio tempo mi fu anche impedito di uscire dalla classe durante la ricreazione». Con l'arrivo del nuovo anno scolastico, il ragazzo ha riprovato l'avventura imprenditoriale, ma è stato colto sul fatto e sospeso ancora una volta. Il padre lo difende: «L'anno scorso lo sgridai e decisi di punirlo, poi mi aveva detto che alcuni compagni di classe continuavano a chiedergli quel favore. D'altronde, questa volta è stato sorpreso con poche merendine e qualche bottiglietta di tè. Antonio è un bravo ragazzo, molto timido. Non beve, non fuma, non si droga e non ha piercing né tatuaggio». Il ragazzo però non vuole accettare una nuova sanzione da parte della scuola: «C'è chi in classe porta e vende droga, ma a loro non fanno nulla. Perché?». La scuola fa sapere che si tratta di una decisione doverosa: quegli snack e bibite potrebbero essere scaduti o mal conservati. Antonio però non ci sta: «Li compravo il giorno prima al supermercato, non potevano essere scaduti». Il preside dell'Itis Pininfarina, Stefano Fava, avrebbe però in mente una sanzione alternativa: «Merita di essere punito ma non di essere lasciato solo, potremmo anche inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità e ai giovani». Il ragazzo, comunque, non ha dubbi sulle aspirazioni future: «Mi piacerebbe aprire un'attività per aiutare la mia famiglia, ma papà fa l'operaio e abbiamo solo il suo reddito».
Torino, snack a scuola. Parla Antonio: "Io, venditore di merendine, sospendono me e non i pusher". Il ragazzo di 17 anni che nella sua classe di Moncalieri smerciava spezzafame e bevande ai compagni "Nell’istituto gira droga, ma a loro non fanno niente", scrive Stefano Parola su "La Repubblica" il 22 novembre 2016. Il vicepreside lo ha visto entrare con uno zaino enorme e si è insospettito. Ora rischia una sospensione ancora più lunga della precedente, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione "alternativa": "Proporrò al consiglio di classe di inserirlo in un progetto legato all'imprenditorialità. Vogliamo lavorare per il successo dello studente, non lo lasceremo indietro", assicura. Faccia da bravo ragazzo, papà operaio, mamma casalinga, una famiglia numerosa. Antonio racconta a Repubblica la sua versione dei fatti con il papà al suo fianco, che lo definisce "bravo, timido: non fuma, non si droga, non beve, non ha piercing né tatuaggi".
Partiamo dall'inizio: dopo aver letto quell'articolo, come le è venuto in mente di passare all'azione?
"Quando ho notato che gli snack a scuola erano cari. Un tè freddo da mezzo litro costa 1,50 euro, quando al supermercato va dai 29 ai 35 centesimi. Ho iniziato per scherzo: i compagni mi ordinavano la roba, perché risparmiavano".
E una merendina dopo l'altra, il mercato si è ingrandito. Dicono che lei avesse un bel giro d'affari, è così?
"Ma no, mi usciva a malapena una ricarica telefonica al mese. Durante il mio periodo di attività mi sono comprato un cellulare usato da 300 euro, niente di più. È vero che nel mio istituto ci sono 1.700 allievi, ma mica compravano tutti da me".
Quanti clienti aveva?
"Guardi, quando mi hanno beccato la settimana scorsa nello zaino avevo 20 snack, 10 lattine di bibite e 10 tè freddi".
Com'erano le tariffe?
"Pagavo gli snack 30 centesimi, li rivendevo a 50. Alla macchinetta, però, costano un euro. I margini erano minimi, faccia lei i conti. Saranno stati cento euro al mese".
A scuola si parla di cifre ben più alte.
"Girano tante voci, qualcuno è invidioso".
Dicono che fosse anche molto attento ai gusti dei suoi compagni.
"Avevamo una chat su Whatsapp e loro mi dicevano cosa avrebbero voluto. Io andavo al supermercato e compravo ciò che serviva".
E i compagni? Tutti soddisfatti?
"Erano tutti contenti perché risparmiavano. Ecco, la cosa che mi fa arrabbiare è che a scuola gira droga, ma a chi la porta non viene detto nulla. A me invece...".
Però anche vendere prodotti in nero è illegale. Infatti lo scorso anno lei era già stato sospeso, no?
"Per dieci giorni. In più, per 20 giorni sono stato piantonato in classe durante i due intervalli, delle 10 e delle 12, in modo che non potessi smerciare gli snack".
Il preside ha fatto notare che in ballo c'era anche una questione di sicurezza alimentare: come potevano essere sicuri che i suoi prodotti non fossero scaduti o mal conservati?
"Li compravo poco prima al supermercato, lì mica vendono le cose scadute".
Nonostante la punizione, la settimana scorsa ci è ricascato: perché?
"Tutti i miei compagni continuavano a chiedermi la roba".
E i suoi genitori non si sono accorti di nulla?
Qui interviene il papà di Antonio: "L'altra volta l'ho punito. Poi mi diceva che i suoi compagni continuavano a chiedergli di portare merendine e io pensavo fossero quattro, cinque, dieci compagni. Poi, appunto, quando l'hanno scoperto aveva una ventina di snack, parliamo di una classe".
Antonio, da grande cosa vorrebbe fare?
"Il mio sogno sarebbe aprire un locale per far lavorare la mia famiglia e i miei fratelli. Mi piace avere a che fare con le persone. Ma è un sogno irrealizzabile, papà fa l'operaio, abbiamo solo il suo reddito".
Spacciatore di merende, scrive il 23/11/2016 Massimo Gramellini su "La Stampa". Per capire l’aria di rivolta che si respira in giro, l’adolescente di Moncalieri punito dalla scuola perché vendeva merendine è già un eroe nazionale. Le notizie che lo riguardano sono tra le più condivise sul web e la sua storia di intraprendenza al di fuori delle regole, lungi dallo scandalizzare, affascina. Anche me. Di lui colpisce la capacità di mettersi nei panni degli altri per coglierne i bisogni e trasformarli in affari. Quanti manager strapagati la possiedono ancora? Ai vertici di troppe aziende pascolano individui che se ne infischiano dei clienti e pensano solo a fare carriera con le pubbliche relazioni. I veri affossatori del capitalismo sono loro. Il giovane Antonio osserva gli snack nelle macchinette della scuola e si accorge che costano il quintuplo rispetto al supermercato. Allora va a fare la spesa, riempie lo zaino di merendine e le rivende ai compagni a un prezzo lievemente superiore, ma pur sempre conveniente. L’abicì del commerciante di razza. Di lui piace la diversità che lo rende inviso al sistema, messo in crisi dal suo spirito di iniziativa. E il sistema reagisce, normalizzando il diverso in nome delle regole. Quelle stesse regole che i conformisti possono invece violare ogni volta che vogliono. Antonio dice: puniscono me e non il pusher che nello stesso corridoio smercia la droga. Per fortuna nel sistema c’è una crepa: un preside intelligente. Ribalta la decisione dei sottoposti di sospendere lo spacciatore di merendine e propone di affidargli un progetto imprenditoriale. Applausi (e tasse, ma in modica quantità).
Torino, tutti vogliono assumere il ragazzo che vende merendine. Ha fatto breccia tra gli imprenditori la storia dello studente del Pininfarina, scrivono Stefano Parola e Jacopo Ricca su "La Repubblica" il 23 novembre 2016. Dopo aver ricevuto tanta solidarietà da tutta Italia (ma pure molti rimbrotti e inviti a rispettare le regole, per il ragazzo che aveva creato un mercato alternativo e abusivo di merendine a basso costo nell'Istituto Pininfarina di Moncalieri sono arrivate pure delle offerte di lavoro. Andrea Visconti, co-fondatore di una startup torinese chiamata Sinba, dice di avere una proposta di assunzione pronta: "È strutturata in modo che Antonio possa finire la scuola", assicura l'imprenditore, che spiega di aver vissuto un'esperienza simile al liceo. "Abbiamo ricevuto investimenti importanti e li vogliamo utilizzare per puntare sui giovani talenti italiani: lui è esattamente il prototipo di talento che stiamo cercando" dice Visconti, che ha costruito la propria azienda attorno a un'applicazione per cellulari che consente di pagare senza fare code in cassa. Anche Michele Valentino, giornalista e co-proprietario di M&C Media, una piccola società di comunicazione, ha scritto al Pininfarina per offrire "uno stage formativo al fine di indirizzarne in modo positivo lo spirito di imprenditorialità, di creatività e di iniziativa". Insomma, la storia di Antonio (questo il nome di fantasia usato da Repubblica per raccontare la sua storia) ha fatto breccia nei cuori degli imprenditori, nonostante le regole infrante. Sarà il consiglio di classe di venerdì a stabilire quale punizione infliggergli, anche se il preside Stefano Fava sta pensando a una soluzione per veicolare l'intraprendenza del ragazzo nella giusta direzione. Su tutto il resto, il dirigente predica calma: "Ci sono arrivate proposte ma le valuteremo nei prossimi giorni, quando richiamerò chi ce le ha inviate. In questo momento voglio tutelare sia lo studente coinvolto sia i tanti allievi della mia scuola. Il mio obiettivo sono loro". Anche l'I3p, l'incubatore d'impresa del Politecnico di Torino, è pronto a dare una mano: "Con il Pininfarina abbiamo già avviato un progetto di avviamento all'imprenditorialità e siamo pronti a rafforzarlo ancora" assicura il presidente Marco Cantamessa. La storia di Antonio ha colpito pure lui: "Ci sono talenti che vanno stimolati, ovviamente vanno aiutati, ma mai e poi mai vanno considerati come malati". In fondo, dice il docente del Poli, "è normale che l'imprenditore sia un po' matto e che talvolta si ponga ai confini delle regole. Ovvio, le norme vanno rispettate. Ma non possiamo pensare di 'normalizzare i nostri ragazzi più intraprendenti". Domani Alberto Barberis, presidente del gruppo Giovani imprenditori dell'Unione industriale di Torino, incontrerà il preside del Pininfarina: "Vogliamo dare la nostra disponibilità per insegnare al ragazzo come diventare imprenditore attraverso un percorso di tutoraggio", spiega il numero uno degli industriali under 40. E commenta: "La sua intuizione è apprezzabile: ha individuato un bisogno e ha cercato di soddisfarlo. I modi invece non lo sono e probabilmente questo è dovuto al fatto che lo studente non è stato formato adeguatamente su cosa significhi essere imprenditore e avere un'attività. Per questo crediamo che anziché condannarlo sia meglio formarlo".
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su "ItaliaOggi". Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti). Ne consegue una constatazione ovvia, per quanto dolorosa, che nulla toglie al merito – a volte condotto fino all'eroismo – di singoli magistrati che sacrificano le loro giornate e a volte la loro vita per compiere al meglio un dovere esigentissimo: la constatazione è che di tanti singoli magistrati ci si può fidare, della magistratura come «sistema» no. Essa è parte del problema generale dell'inefficienza di una macchina statale e burocratica che rappresenta il vero male oscuro (mica tanto oscuro) dell'Azienda Italia. Pensare che questa magistratura, così com'è, sia la soluzione al problema generale della cattiva amministrazione è quantomeno ingenuo. I vizi del nostro pubblico impiego – talmente eclatanti da essere meritatamente tema costate della commedia all'italiana – ricorrono tutti anche nella «casta delle toghe»: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressappochismo. Bisognerebbe riformare la magistratura: ma non può farlo nessuno, se non essa stessa. Chi ci prova dall'esterno – compreso Renzi – viene respinto con perdite e anatemi. E immediatamente comincia a temere, forse a torto forse no, rappresaglie. Allora che la magistratura si autoriformi. Piercamillo Davigo, il segretario dell'Associazione magistrati, è certo un magistrato duro, serio e severo. Non sarà contento che le nuove leve della categoria siano selezionate grazie ai geroglifici che segnano sui compiti per farli riconoscere dagli esaminatori imbroglioni.
Per Montesquieu (1748): «Chiunque abbia potere è portato a abusarne, egli arriva fin dove non trova limiti». Ci vuole «il potere che arresti il potere», scrive Serena Gana Cavallo su "ItaliaOggi". Numero 206 pag. 10 del 31/08/2016. Recentemente su queste pagine (ItaliaOggi del 20/08/2016) Sergio Luciano ha trattato il caso, rivelato da Il Fatto Quotidiano, dei concorsi per la magistratura vistosamente e diffusamente truccati. Luciano, invitando ad una riflessione sullo stato della Magistratura, ha invocato una riforma, o meglio una autoriforma, promossa magari da Piercamillo Davigo, di recente assurto al ruolo di Segretario della corrente sindacale (maggioritaria) Magistratura democratica. Condividendo molte delle affermazioni di Luciano, trovo tuttavia alquanto irrituale, se non impraticabile, l'idea che una sindacato, o meglio una corrente sindacale, possa e voglia procedere ad una «autoriforma», anche perché la bandiera, in genere di un sindacato, ma in particolare sventolata da sempre da Magistratura Democratica, è la difesa ad oltranza della categoria, di cui si paventano sempre, e da sempre si denunciano, biechi tentativi di instaurare un «limite all'autonomia dei magistrati», che scorrono per li rami dei governi, che si impersonificano in ogni tentativo di riforma, ma financo e addirittura, nella drammatica imposizione di una diminuzione delle ferie. La teoria della divisione dei poteri ha una storia lunga, ma il suo massimo teorizzatore, da cui traggono origine i moderni assetti costituzionali, fu Montesquieu che la enunciò nel 1748, con una premessa fondamentale e, nell'attualità del tema di cui trattiamo, da tenere molto a mente: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne: egli arriva sin dove non trova limiti. ( ) Perché non si possa abusare del potere occorre ( ) che il potere arresti il potere.» In Italia questo principio ha trovato, in senso non metaforico, una sua concretezza quando il potere giudiziario ha letteralmente arrestato il potere esecutivo, ma, sempre in Italia, il potere giudiziario, nel nome dell'autogoverno, non ha limite e men che meno chi (metaforicamente, ma anche materialmente) lo arresti. Montesquieu non lo aveva pensato così, anzi, essendo i principali poteri fondamentali quello legislativo (formato dati i tempi, da una parte di nobili ed una parte di rappresentanti del popolo), e quello esecutivo (all'epoca il monarca), avevano comunque entrambi una possibilità di interdizione reciproca. Il potere giudiziario veniva definito un «potere nullo», che avrebbe dovuto essere affidato a giudici «tratti temporaneamente dal popolo», in pratica con una legittimazione elettiva (come avviene ad esempio negli Usa) e non sempiterna. In definitiva si potrebbe dire che l'amministrazione della giustizia era considerata come un «servizio» al popolo, sotto il controllo del popolo. Andando avanti di qualche secolo, in un sistema democratico non vi dovrebbe poter essere alcuna forma di «potere» senza un mandato del popolo (nel nome del quale, così si racconta, si amministra la Giustizia in Italia) e men che meno senza un suo «periodico» controllo esterno, comunque lo si voglia configurare, al pari di quel che sono le periodiche elezioni per potere legislativo ed esecutivo. In pratica andrebbe abolito il mito del (buon)autogoverno, e ancor più l'auspicio di una autoriforma, concetto irrealistico, che implica che la Magistratura è una specie di zona extraterritoriale dove tutto il bene e tutto il male si sviscerano (a piccole dosi per il male) solo al suo interno. Dopo aver reso il sempre dovuto omaggio al merito di «singoli magistrati che sacrificano le loro giornate [per questo son pagati n.d.a] e, a volte la loro vita [come molte altre categorie n.d.a.] per compiere al meglio un dovere esigentissimo [come quello di un medico o di un pompiere n.d.a.]», Luciano giustamente conclude che la magistratura deve cambiare e che in essa «i vizi del nostro pubblico impiego ( ) ricorrono tutti nella casta delle toghe: clientelismo, furbettismo, «demeritocrazia», pressapochismo». Luciano dimentica purtroppo un altro «vizio» alquanto diffuso: la corruzione, ché in nessun altro modo può essere definita la prassi di un concorso fasullo e truccato, ciascuno col suo segnale o scarabocchio identificativo, e che arriva peraltro anche all'onore delle cronache quando la «corporazione» si rende conto che non c'è difesa possibile, salvo, dopo, trascinare interminabili processi che comportano l'estinzione di un bel po' di reati (come abbiamo già scritto in passato su queste pagine). Sulla deriva della magistratura, politica, funzionale e disciplinare, Luciano ricorda il bel libro di Liviadotti, «L'ultracasta», ma anche altri varrebbe la pena di citare «Io non avevo l'avvocato», Mondadori, 2015, di Mario Rossetti, scritto tra l'altro proprio con Sergio Luciano, Mondadori, 2015, e, tra i tanti di magistrati (che in genere scrivono dopo essere o essersi pensionati e questo la dice lunga sulle correnti sindacali della categoria) Piero Tony, «Io non posso tacere», Einaudi 2015, che tra l'altro indica alcune indispensabili modifiche per la riforma del sistema giudiziario, a partire da quella separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti, che, esecrata dalla categoria, sarebbe un cambiamento che darebbe un minimo di decenza al processo accusatorio con accusa e difesa simmetriche e veramente autonome, senza ibride e pregiudizievoli (per la Giustizia ancor prima che per il cittadino) contiguità. Le ricette non mancano, è il medico che non si vede e che certo non può essere il malato.
L’Italia della de-meritocrazia, scrive Giulia Cortese l'11 febbraio 2016. Futuro Europa Il concetto di “meritocrazia” è molto utilizzato nel dibattito pubblico, non solo dai giornalisti, ma anche da imprenditori, politici, insegnanti e qualche volta anche dai sindacalisti. Il termine è certamente sfuggente, controverso e si presta a numerose polemiche. Secondo la definizione sul vocabolario on line Treccani, si tratta di una “concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, in particolar modo le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli”. Almeno in linea di principio, tutti concordano che in Italia di “meritocrazia” ve ne sia ben poca. Qualche anno fa, quando Paolo Casicci e Alberto Fiorillo hanno iniziato a scrivere “Scurriculum. Viaggio nell’Italia della demeritocrazia”, hanno trovato un mucchio di storie esemplari. Storie che dimostrano in modo inequivocabile come l’attuale sistema mortifichi i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza e la loro preparazione alle università, alle aziende, ai Paesi stranieri e premi, al contrario, quanti hanno in tasca la tessera “giusta” o il numero del “deputato giusto”, mentre le aziende statali o comunali vengono utilizzate come sfogatoio per i trombati o premio per i fedelissimi; o ancora per agganciare vistose signorine dai curricula evanescenti. Un sistema distorto ed autolesionista che infetta la società italiana, rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra. Segnalazioni, suggerimenti, nomi e cognomi detti al momento giusto e alla persona giusta. L’Italia dei raccomandati funziona così. Ma quante sono nel nostro Paese le persone che devono il proprio posto alla cosiddetta spintarella? Per rispondere all’annosa questione arriva uno studio dell’Isfol (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori), condotto nel 2015 su 40mila individui fra i 18 e i 64 anni. A detta degli intervistati, la raccomandazione in Italia è ancora il canale principale per entrare nel mondo del lavoro: il 30,7 per cento dice infatti di avere ottenuto l’impiego attuale grazie ad un amico o un parente che ha fatto da “intermediario”. E le cifre salgono se si considerano soltanto i lavoratori più giovani, fra i quali ci sarebbero addirittura quattro raccomandati su dieci. Si può misurare la meritocrazia? Si può cercare di farlo costruendo un indicatore che sintetizza le varie dimensioni in cui si articola un sistema sociale ed economico orientato, appunto, alla promozione del merito. Rispetto agli altri paesi europei, i risultati dell’Italia sono sconfortanti. L’associazione no-profit Forum della Meritocrazia, con la collaborazione di un pool di ricercatori ed esperti dell’Università Cattolica di Milano, ha provato a misurare lo “stato del merito – come si legge nel rapporto finale dell’indagine – in un Paese”, utilizzando dati forniti da Commissione Europea, Ocse, The Economist, World Justice Project e altri enti, rapportando il tutto a livello europeo e cercando di capire come siamo messi in Italia. E tutte le impressioni sembrano essere confermate: siamo messi male. L’Italia si colloca al non-sorprendente ultimo posto della classifica sui dodici Paesi europei presi in esame; in cima, le prime quattro posizioni sono occupate da Finlandia, Danimarca, Norvegia e Svezia. E fin qui, nulla di strano. Il dato più interessante, però, riguarda i risultati rilevati nei singoli indicatori: nonostante nessuno riesca a fare peggio di noi, dati particolarmente negativi sono stati riscontrati alle voci trasparenza, libertà e regole (il rapporto è disponibile on-line). Che vogliate essere esterofili o no, i dati parlano chiaro: in Europa siamo indietro anni luce alle spalle di Paesi – con i quali coesistiamo nella stessa Unione – che avranno sì i loro problemi, di ordine diverso rispetto ai nostri, ma rappresentano baluardi di civiltà su punti che dovrebbero costituire le fondamenta di una società contemporanea giusta e, appunto, meritocratica. Marco Pacetti, Rettore del Politecnico di Ancona, la mette così: “Negli Stati Uniti la rete di conoscenze è sì importante, ma bisogna soprattutto essere in gamba. In Italia invece, nessuno crede che coloro che si affidano alla raccomandazione abbiano anche competenza e merito”. “È questa la differenza fra una lettera di raccomandazione e una “raccomandazione”, aggiunge Pacetti con riso beffardo. In America, “chi scrive la lettera di referenze, si prende la responsabilità di segnalare una persona preparata, non un idiota.” Dal punto di vista economico, la carenza di merito si associa all’idea di un sistema poco efficiente, perché non consente un’allocazione ottimale delle risorse, cioè di far giungere nel posto giusto chi può svolgere meglio quel ruolo. Tutto ciò finisce per comprimere la mobilità sociale, come molti studi documentano, facendo dipendere gli esiti individuali più da luogo e famiglia di origine che dall’impegno personale, competenze e capacità. “All’estero la raccomandazione ha una connotazione positiva – afferma Alessandro Fusacchia presidente dell’associazione RENA – se qualcuno decide di sponsorizzarti lo fa perché sei bravo, perché crede in te, e ci mette la faccia insieme a te. In Italia è tutto l’opposto: ci si sente più forti se si riesce a piazzare uno che bravo non è”. Il “benefattore”, poi, lavora nell’ombra, contribuendo ad alimentare un sistema che è parte della cultura del Bel Paese. “Un problema che non è legato soltanto alla classe politica – conclude Fusacchia – perché in Italia alle raccomandazioni si ricorre per tutto, dal posto di lavoro al permesso per il parcheggio sotto casa”. C’è qualcosa che i politici, e in particolare il nuovo governo, dovrebbero fare? “Semplicemente cominciare a dare l’esempio, per avviare un cambiamento che dovrebbe coinvolgere gradualmente l’intera società civile”.
Meritocrazia e demeritocrazia di Eva Zenith. Una società non può essere meritocratica senza essere anche demeritocratica. Non possiamo mettere al centro di una cultura il merito, cioè il talento e l'impegno, se non mettiamo al centro anche il demerito, cioè l'incompetenza e i fallimenti. L'Italia è un Paese dove il merito viene soffocato dall'invidia, dalla svalutazione (chi studia molto è un secchione, chi lavora molto è uno stakanovista) e dalla cultura della clientela. Allo stesso tempo è un Paese dove il demerito viene premiato. Se le cose vanno bene, il merito non è di qualcuno, è di tutti. Se le cose vanno male, il demerito non è di nessuno, oppure di un bel capro espiatorio. Per essere responsabile di qualcosa, in Italia, devono trovarti mentre svuoti la cassa o uccidi qualcuno: e non è detto che anche allora tu non possa cavartela. Siamo un Paese per niente meritocratico ma molto comprensivo! In una società del merito e del demerito, i ricercatori che hanno sbagliato tutti i sondaggi delle ultime elezioni dovrebbero sparire dai mass media. Invece no. In una società del merito e del demerito, un amministratore pubblico che dopo un mandato lascia l'organizzazione in condizioni peggiori di come l'ha trovata, dovrebbe essere cancellato dalla lista degli amministratori pubblici. Invece no: noi lo confermiamo o lo promuoviamo. In una società del merito e del demerito, un politico che perde le elezioni dovrebbe essere cacciato: invece no. Vincitori e vinti si alternano restando abbarbicati alle loro sedie per vent'anni o più. In una società del merito e del demerito, un economista che sbaglia clamorosamente una previsione dovrebbe essere punito come un medico che sbaglia una diagnosi. In Italia no: i nostri economisti sostengono un'idea e il suo contrario, fanno previsioni regolarmente errate, propongono ricette fallimentari ma nessuno li priva mai di un posto da consulente ministeriale, da saggio o da Presidente del Consiglio. Unanimemente, tutti dichiarano che la legge elettorale in vigore è orribile. Ma quelli che hanno ideato e votato quella legge sono ancora sulla scena a blaterare delle future leggi elettorali. In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti attribuiscono la crisi dell'euro all'assenza di una Banca centrale che possa battere moneta. Lo dicono anche quelli che hanno voluto questo euro. Non sapevano allora che l'assenza di un'autorità monetaria avrebbe messo tutti nei guai? In un Paese meritocratico, i firmatari di quella legge sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Unanimemente, tutti odiano Equitalia e la considerano una sciagura. Il fatto è che Equitalia non è stata data alla luce e regolata da un folletto diabolico. La sua protervia, la sua crudeltà, i suoi interessi "usurari", i suoi modi da Kgb non sono (solo) il frutto di burocrati sadici: sono stabiliti da leggi, norme e regolamenti prodotti da ministri, governi e parlamentari con nomi e cognomi. In un Paese meritocratico, i firmatari di quelle leggi, norme e regolamenti sarebbero messi in una lista di allontanamento perenne dalla politica. Quando trova un finto invalido, un Paese che dà valore al merito, non solo punisce lui, ma anche il medico e i funzionari che hanno firmato la pratica, e magari il responsabile dell'INPS locale che non si è accorto di niente. Noi siamo così disinteressati al demerito che non divulghiamo nemmeno i nomi di tutti questi figuri. I mass media non si fanno nessun problema a mettere in piazza le vite private di donne stuprate e ammazzate, ma mai sentirete da loro il nome di un medico che ha creato 300 o 400 finti invalidi. Non è elegante. Quando trova dipendenti pubblici che fingono di stare al lavoro mentre vanno a fare la spesa, o a giocare con le slot machines, un Paese che dà valore al merito, non si limita a punire loro. Punisce anche i loro capi/reparto o capi/ufficio che non si accorgono di avere collaboratori presenti ma assenti. E punisce anche i dirigenti, strapagati per non dirigere alcunchè; e magari punisce anche gli amministratori, per manifesta incapacità. Invece no: non sarebbe rispettoso. Tutto finisce con un rimbrotto e una risata, alla faccia dei dipendenti pubblici che stanno sempre al loro posto, dei capi che li controllano davvero, dei dirigenti che dirigono sul serio, e degli amministratori capaci. D'altronde perchè i capi, i dirigenti e gli amministratori dovrebbero fare il loro mestiere sul serio visto che le loro carriere non dipendono dai meriti ma dalle affiliazioni? Quanti docenti universitari sono stati cacciati dalle loro cattedre per aver palesemente truccato un concorso? Quanti magistrati, avvocati e notai hanno pagato per i loro mostruosi errori giudiziari o legali? Quanti medici hanno dovuto cambiare lavoro dopo i 5/6 morti che non hanno salvato? Quanti segretari comunali sono stati puniti per gli appalti truccati? Quanti generali e capi della polizia hanno perso il posto per aver consentito il nonnismo fra le truppe o i pestaggi dei dimostranti? Quanti sindacalisti hanno pagato per aver taciuto sulle illegalità dell'impresa? I politici che si sono fatti derubare dai loro tesorieri, sono stati puniti per connivenza o manifesta stupidità? E ancora si presentano per chiedere di amministrare l'Italia? Insomma, è chiaro a tutti ormai che le prediche dei tromboni del regime sul necessario riconoscimento dei meriti (specie dei giovani) e delle responsabilità (specie della casta), sono un esercizio di manipolazione. L'Italia è un Paese fondato sul demerito e se ne vanta. Volete la meritocrazia? Emigrate, please!
Demeritocrazia. Perchè l’Italia merita tutti i problemi che ha, scrive il 17 gennaio 2012 "Libertiamo". Siamo così ricchi di autoironia, e probabilmente anche di scarso pudore, da aver intitolato “I raccomandati” un talent show, ovvero una gara che premia il talento, e quindi il merito. Nonostante questo, è impossibile fare a meno di notare certe facce e certi corpi deambulanti tra Montecitorio e i palazzi della Regione, i quali confermano che l’Italia è un paese fondato sulla spintarella. Come quella piuttosto evidente e vigorosa che ha sbalzato l’ormai leggendaria Nicole Minetti dalle scenette di Colorado Café ai piani alti del Pirellone. Viene in mente a proposito anche Renzo Bossi, il primogenito del leader del Carroccio Umberto Bossi, noto anche come “il Trota”. Questo perché, ci conferma suo padre, gli manca il fosforo per essere un delfino. Qualche sospetto, in effetti, verrebbe anche noi, ma non ci stupisce nemmeno che il cognome abbia favorito Renzo nel passaggio da ripetente di professione a Consigliere Regionale. Che dire, poi, degli svarioni grammaticali della deputata pidiellina Micaela Biancofiore? E’ l’ennesima conferma del fatto che nel cosiddetto “belpaese” contano ben poco la Conoscenza, anche dell’italiano, rispetto alle conoscenze, specie se berlusconiane. Arcore e Palazzo Grazioli, infatti, si sono rivelati ottimi uffici di collocamento: oltre al lavoro, in molti casi hanno garantito anche vitto e alloggio, in una strada di Milano divenuta ormai celebre: Via Olgettina. Una volta si usava spartirsi le poltrone dei Tg, e il refrain era: “assumiamo sette giornalisti: tre democristiani, due socialisti, un comunista e uno bravo”. Di questi tempi vengono lottizzate anche le fiction televisive. Abbiamo ogni buona ragione per dire che si è creata una sorta di Costituzione orale della Seconda Repubblica, che si è manifestata, ad esempio, nelle telefonate dell’ex premier Silvio Berlusconi all’ex dirigente Rai Agostino Saccà. Telefonate che avevano come obiettivo quello di sistemare in tv, ragazze di dubbia serietà come Elena Russo, Camilla Ferranti e Eleonora Giaggioli. E’ una novità di questi tempi, questo salto di qualità nella raccomandazione. La “spintarella”, di per sé, non è niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe commentare. Il ricorso a questa arte tutta italica è uno sport nazionale, che come abbiamo visto viene festeggiato anche dalla stessa Tv e dai suoi programmi. Si tratta di una condotta, una delle tante, che ci distingue nettamente da tutti gli altri paesi europei. Certo, qualcuno potrebbe ribattere facilmente che è da moralisti indignarsi se l’Italia mantiene in vita un costume tradizionale, da furbetti è vero, ma tutto sommato utile a sopperire a delle grosse mancanze strutturali. Il fatto è che la furbizia italica e la logica che ha permesso e favorito il sistema del clientelismo, oltre a consolidare in noi italiani un’attitudine di scarso senso civico e di rigore morale, oltre a farci dimenticare principi quali giustizia e meritocrazia, sono in realtà strumenti obsoleti e inadeguati in uno scenario sociale e soprattutto economico che è mutato profondamente negli ultimi decenni. L’aspetto più drammatico dello scenario descritto finora è che la demeritocrazia non solo offende l’etica e la voglia di fare delle persone oneste e magari anche di talento, ma strozza anche l’economia. Quella italiana, non per niente, mostra di essere in frenata e di avere una grossa difficoltà di ripresa, mentre paesi dinamici e meritocratici come la Germania sono cresciuti al 5% l’anno anche in tempi di profonda crisi. A proposito di questo viene in mente una citazione dell’economista Tito Boeri: “Tutti battono sul tasto della morale, io vorrei concentrarmi su quanto ci costa ignorarla. I danni economici sono evidenti: la demeritocrazia inibisce la crescita, frustra la produttività, manda in fuga i cervelli”. Le statistiche, infatti, ce lo confermano: sono 6 mila i lavoratori italiani altamente qualificati che ogni anno scappano verso i civili Stati Uniti. Se 20 anni fa a emigrare erano soprattutto le persone con i gradi minori di istruzione, oggi l’emigrante tipo è il laureato con i voti migliori. La cosa peggiore è che, una volta espatriati, questi giovani preferiscono rimanere nel paese dove si sono trasferiti, perché lì viene maggiormente premiato il loro talento e si sentono maggiormente sostenuti, hanno maggiori chance di fare carriera e stipendi più alti. Vi è poi il problema della “stagnazione” delle università italiane, che sono notoriamente prigioniere dei baroni, nonché uno degli habitat naturali della demeritocrazia. A descrivere in modo efficace la situazione in cui riversano i nostri atenei è una frase di Indro Montanelli: “Più che sui generis, i concorsi universitari sono sui cognatis”. La competenza non conta nulla, il curriculum vitae ancora di meno, conta solo il sangue, nel senso di parentela. Qualche esempio? Alla Sapienza di Roma, il magnifico rettore è Luigi Frati, che qualcuno dava in odore di ministero (alla Sanità) nel governo Monti. Nella Facoltà di Medicina di cui è stato preside, tra l’altro, hanno ottenuto una cattedra la moglie Luciana, laureata in lettere, e il figlio Giacomo, ordinario a “soli” 36 anni (traguardo impossibile per i comuni mortali accademici italiani). A poca distanza, a Roma Due, è professore straordinario di Bioetica la figlia Paola, giurista. Viene difficile pensare che si tratti di pure coincidenze. Scendendo verso la parte bassa dello stivale, a Palermo, nel dipartimento di Economia dei sistemi agroforestali, 10 docenti su 19 sono imparentati tra loro. A Bari, poi, ci sono otto Massari, tutti consanguinei. Non si tratta della solita questione di arretratezza del meridione, e ne è prova il fatto che alla Statale di Milano i casi accertati di parentela sono 54, mentre alla facoltà di Medicina di Udine ci sono quattro Bresarola: il capostipite Fabrizio, due figli, di cui uno laureato in filosofia, e una nuora. “Parentopoli” non è nemmeno l’unica fonte di collocamento, perché a dare la “spintarella” ci pensa anche la massoneria e più in generale, le lobby (“bianche”, “rosse”, “nere” e Comunione e Liberazione). A questo punto, forse sarebbe anche il caso di abolire i concorsi, visto che in questo stato di cose non hanno alcuna credibilità. Costano 40 milioni di euro all’anno, tra l’altro, e l’esito è già prestabilito. Chi non sta alle regole, è fuori. Si tratta di un sistema tanto chiacchierato e oggetto di generale indignazione, ma che fino a oggi tutti hanno accettato. L’importante è cercare di fare meno nomi possibili, funziona così l’università italiana. Studenti, dottorandi e ricercatori, magari dopo una vita di studio, esperienze all’estero e pubblicazioni in riviste autorevoli, aspettano il loro turno, ma non è detto che ce la facciano. Per questo sono nati centinaia di blog e siti internet che danno voce alla loro frustrazione: per difendere l’università pubblica e la voglia di un futuro più onesto e più giusto. Vi è lo stesso identico andazzo anche negli ospedali, dove sono stati praticamente aboliti i concorsi per diventare primari, visto che a essere selezionati sono quasi sempre quelli con la tessera politica giusta, a scapito dei più meritevoli. Ne consegue che sono aumentate le denunce per mala sanità e gli ospedali sono a volte costretti a pagare dei risarcimenti ai pazienti-vittime. C’è solo da sperare che si smetta di promuovere gli incompetenti, visto che, oltretutto, è poco conveniente da un punto di vista economico. L’etica e la reputazione, si sa, non sono certo delle priorità. Di demeritocrazia si può anche morire professionalmente, almeno in Italia, anche nei casi di persone che, se fossero altrove, avrebbero un percorso decisamente più immediato, ma solo grazie alla loro preparazione e talento, e non certo per le conoscenze. Siamo arrivati a un punto, dunque, in cui le carriere si trasmettono per via ereditaria, come le monarchie o le malattie genetiche? Una risposta ce la dà una ricerca del think thank Italia Futura, secondo cui il 44% degli architetti è figlio di architetti, cifra che è leggermente inferiore per avvocati e notai (42%) e farmacisti (40%). Eppure, la meritocrazia è un tema che piace a un buon numero di italiani. Ne stanno parlando i blog, si fanno dibattiti in radio e in Tv, il tema è stato abbordato perfino dal Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano. L’esigenza di meritocrazia in qualche modo è “rispecchiata” dal nuovo governo di professori, tutti esperti dai capelli grigi. Nel nuovo governo sono numerose le donne ad avere ruoli di prestigio, ma fortunatamente nessuna di esse è arrivata alla politica tramite concorsi di bellezza, o ha un passato da velina. Per fortuna c’è anche chi sceglie la via del rigore e del duro lavoro, del farsi strada con le proprie forze e senza scorciatoie. Vi è un gruppo di ragazzi che vuole cambiare in meglio l’Italia, a colpi di talento e di tenacia: sono i giovani che hanno aderito al think thank “Forum della meritocrazia”, presieduto dall’imprenditore Arturo Artom, che ha come obiettivo principale quello di iniettare entusiasmo tra i giovani e di essere per loro un punto di riferimento. Vuole essere il mezzo e il messaggio, come diceva Marshall Mc Luhan. L’Italia ha bisogno che si diffonda la cultura dell’esempio, contro le mele marce che rovinano il cesto e fanno sentire sconfitti. Anche per questo, alle prossime elezioni il “Forum della meritocrazia” farà una certificazione di tutti i candidati. La cosa sarà senz’altro divertente anche per noi. Per quanto riguarda la terza repubblica, l’Italia post spread e si spera anche post raccomandazioni, possiamo solo augurarci che si venga a creare, una volta per tutte, un mantra contro caste, raccomandazioni, listini bloccati in politica, nepotismo e tutte quelle opacità che trovano spazio negli ospedali, nelle università, nell’impresa e nel palazzi del governo, dove i principali criteri di assunzione sono stati finora decisamente poco nobili e per nulla meritocratici. Se si vuole cambiare veramente le cose nel nostro Paese, sarà importante che, a poco a poco, coloro che vogliono “giocare pulito” facciano rete, radicandosi a poco a poco su tutta la penisola. Perché, la cosa è certa, l’Italia ha bisogno soprattutto di persone come loro.
“Se perdo al referendum non mi vedrete più”. Tutte le promesse non mantenute di Renzi e Pd. Siccome le parole sono importanti è tempo di pubblicare la raccolta definitiva di tutte le volte in cui l'ex premier, Maria Elena Boschi e i colleghi democratici hanno promesso di abbandonare definitivamente governo e vita politica in caso di vittoria del No al referendum, scrive Wil Nonleggerlo il 14 dicembre 2016 su "L'Espresso". “Se vince il No finisce la mia storia politica”, “cambio mestiere e non mi vedrete più”, “con che faccia potrei restare?”, “il Pd si troverà un altro segretario”. E dai democratici, in coro: “non avremmo più autorevolezza, impossibile restare attaccati alla poltrona”, “lascerei pure io”, “e pure io!”. Oggi Matteo Renzi è saldamente ancorato alla guida del Partito Democratico, il #governofotocopia di Paolo Gentiloni ha ottenuto la fiducia e Maria Elena Boschi è rientrata immediatamente a Palazzo Chigi nonostante il fallimento referendario e la promessa di andarsene in caso di sconfitta. Il No ha stravinto, sul resto giudicate voi.
- MATTEO RENZI, DA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
La fine dell'esperienza politica (Consiglio dei Ministri, 12 marzo 2014): "Lo dico qui, prendendomene la responsabilità, che se non riesco a superare il bicameralismo perfetto non considero chiusa l'esperienza del governo, considero chiusa la mia esperienza politica".
Fine (Tg2, 30 marzo 2014): "O facciamo le riforme, o non ha senso che io stia al governo. Se non passa la riforma del Senato, finisce la mia storia politica".
Del tutto evidente (Conferenza stampa di fine anno, 29 dicembre 2015): "È del tutto evidente che se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica".
Precise responsabilità (Repubblica.tv, 12 gennaio 2016): "Intendo assumermi precise responsabilità. È un gesto di coraggio e dignità. Se perdo il referendum io non solo vado a casa, ma smetto di far politica".
La dignità (Aula del Senato, 20 gennaio 2016): "Lo ripeto anche qui: se perdessi il referendum considererei conclusa la mia esperienza politica. Credo profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica".
La borsettina (Quinta Colonna, 25 gennaio 2016): "Io non sono come gli altri, se gli italiani diranno No, prendo la borsettina e torno a casa".
E le vostre idee? (Scuola di formazione del Pd, 7 febbraio 2016): "Se vince il No prendo atto del fatto che ho perso. Dite che sto attaccato alla poltrona? Tirate fuori le vostre idee, ecco la mia poltrona".
The end (Scuola di formazione del Pd, 12 marzo 2016): "Se perdiamo il referendum è doveroso trarne conseguenze, è sacrosanto non solo che il governo vada a casa, ma che io consideri terminata la mia esperienza politica".
Non mi vedrete più (Congresso dei Giovani Democratici, 20 marzo 2016): "Io ho già la mia clessidra girata. Se mi va male, se perdo la sfida della credibilità o il referendum del 2016, vado via subito e non mi vedete più".
Se perdi una sfida epocale (Durante il #matteorisponde, Facebook, 28 aprile 2016): "Sto personalizzando? No, se perdi una sfida epocale che fai? Racconti che i cittadini hanno sbagliato? No, hai sbagliato tu".
A casa (Ansa, 2 maggio 2016): "La rottamazione non vale solo quando si voleva noi. Se non riesco vado a casa".
Vinavil (Rtl 102.5, 4 maggio 2016): "Non sono come i vecchi politici che si mettono il vinavil e che invece di lavorare restano attaccati alla poltrone".
Smetto proprio, con che faccia rimango? (Che tempo che fa, 8 maggio 2016): "Non è personalizzazione, ma serietà. Se io perdo, con che faccia rimango? Ma non è che vado a casa, smetto proprio di fare politica".
Fine carriera (Radio Capital, 11 maggio 2016): "Se non passa il referendum la mia carriera politica finisce qui. Vado a fare altro".
Destinazione paradiso (Ansa, 11 maggio 2016): "Non sto in paradiso a dispetto dei santi. Se perdo, non finisce solo il governo: finisce la mia carriera come politico e vado a fare altro".
Libero cittadino (Porta a Porta, Rai 1, 12 maggio 2016): "Se vince il No, mi dimetto il giorno dopo e torno a fare il libero cittadino".
Personalizzazione? (L’Eco di Bergamo, 21 maggio 2016): "Se perdiamo il referendum, vado a casa. Questa è personalizzazione? No. Questa è serietà".
Quel galantuomo di Napolitano (Comizio a Bergamo, 21 maggio 2016): "Non sono andato a palazzo Chigi dopo aver vinto un concorso, mi ci ha messo quel galantuomo di Napolitano con l'impegno di fare le riforme. Se non ottengo questo risultato, l'Italia continuerà a essere il Paese degli inciuci e del Parlamento più costoso del mondo. Se l'Italia vuole questo sistema, è giusto che lo faccia senza di me".
Tutti via in caso di sconfitta (In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016): "Se il referendum dovesse andare male non continueremmo il nostro progetto politico. Il nostro piano B è che verranno altri e noi andremo via". (Nel governo Gentiloni tutti confermati, tranne il ministro Giannini).
Via pure dalla segreteria Pd (Virus, Rai 2, 1 giugno 2016): "Se perdo il referendum troveranno un altro premier e un altro segretario".
Cambierò mestiere (Il Foglio, 2 giugno 2016): "Io sono fiducioso che vinceremo bene. Ma se il referendum andrà male continuerò a seguire la politica come cittadino libero e informato, ma cambierò mestiere. Vuole uno slogan semplice? O cambio l'Italia o cambio mestiere".
Pollo da batteria (eNews, 29 giugno 2016): "Secondo voi io posso diventare un pollo da batteria che perde e fa finta di nulla?".
È stato gli altri (La Repubblica, 31 luglio 2016): "Personalizzare questo referendum contro di me è il desiderio delle opposizioni, non il mio".
Governicchi mai (Ansa, 17 novembre 2016): "Io non posso essere quello che si mette d’accordo con gli altri partiti per fare un governo di scopo o un governicchio".
Curriculum (#matteorisponde, Facebook, 21 novembre 2016): "Non sto qui aggrappato al mantenimento di una carriera. Non ho niente da aggiungere al curriculum vitae".
Il boy scout (Matrix, Canale 5, 30 novembre 2016): "Io sono un boy scout, non voglio diventare come gli altri, il mio lavoro deve servire a cambiare il paese. Se vogliono un bell'inciucione, se lo facciano da soli...".
No agli accordicchi (Comizio ad Ancona, 30 novembre 2016): "Non sono quello che fa accordicchi alle spalle dei cittadini. Per questo possono chiamare qualcun altro".
I pop-corn (Repubblica.tv, 30 novembre 2016): "Se gli italiani dicono No, preparo i pop-corn per vedere in tv i dibattiti sulla casta".
- LE CONFERME DEL PD
L'allora ministro Maria Elena Boschi a Otto e Mezzo, La7, 27 aprile 2016: "Se un governo ha avuto il mandato da Napolitano a fare le riforme e queste poi non passano, è normale che ne prenda atto".
Il ministro Dario Franceschini a Repubblica, 29 maggio: "Il ritiro in caso di vittoria del No non è una minaccia, a me sembra una con-sta-ta-zio-ne. Questo governo nasce per fare le riforme. Se le riforme non si fanno chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio". (Franceschini è stato confermato al ministero dei Beni Culturali dal nuovo premier Gentiloni, e la legislatura prosegue).
Valeria Fedeli, da vicepresidente del Senato, a L'aria che tira, La7, 4 dicembre 2016: "Se vince il No il giorno dopo bisogna prenderne atto, non possiamo andare avanti perché non avremmo più l'autorevolezza. Sarebbe giusto rimettere il mandato da parte del premier ma anche da parte dei parlamentari: tolgo l'alibi a chi pensa 'tanto stiamo lì fino al 2018', perché pensano alla propria sedia. Io non penso alla mia sedia". (Valeria Fedeli è appena stata nominata Ministro dell'Istruzione del Governo Gentiloni).
Maria Elena Boschi a In mezz'ora, Rai 3, 22 maggio 2016: "Noi vinceremo, quindi questo problema non si porrà. Ma comunque sì, noi siamo molto serie e se Renzi perde anch'io lascio la politica, perché è un lavoro che abbiamo fatto insieme. Come potremmo restare e far finta di niente?". (Maria Elena Boschi è appena stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, entrando così di fatto nel nuovo Governo Gentiloni).
Maurizio Crozza nel paese delle meraviglie, ultima puntata su La7 con il saluto finale di Maurizio, scrive Fabio Traversa venerdì 16 dicembre 2016. La Finocchiaro era relatrice della riforma istituzionale, poi bocciata al referendum, "e ora è ministro delle Riforme. Allora vale tutto!". E la Madia? "Aveva presentato la riforma della P.A., la Consulta gliel'ha stroncata, e ora lei è di nuovo ministro della P.A. In Italia vige la demeritocrazia!". Crozza ne ha anche per la neo-ministra dell'Istruzione che non sarebbe laureata: "E' solo diplomata, ma non ha il diploma di maturità bensì di tre anni di magistrali, l'hanno nominata ministro alla scuola per fargliela finire!". Crozza si è già affezionato al ministro degli Esteri Alfano: "Conosco più io la biologia molecolare che lui l'inglese". E viene mostrato il filmato mentre "parla" a Bruxelles in quella lingua con una rappresentante svedese. Crozza, ovviamente, non ha pietà...
Fedeli, un ministro all’istruzione senza laurea, scrive il 14/12/2016 La Nuova BQ. Si viene a scoprire che il neo-ministro all’istruzione Valeria Fedeli, dicastero che ricomprende anche l’Università, non è nemmeno laureata. Sul suo sito si legge che ha ottenuto un «diploma di laurea in Scienze sociali» conseguito presso la Scuola per assistenti sociali Unsas di Milano. Ma all’epoca non esisteva simile laurea. Il titolo da lei ottenuto è un semplice diploma post-maturità. Lei ribatte che oggi sarebbe considerata una laurea. Ma c’è una bella differenza tra un diploma che potrebbe essere omologato ad una laurea e l’effettiva equiparazione che nel caso della Fedeli non è avvenuta. Mario Adinolfi interviene sul caso: «Valeria Fedeli mente sul proprio titolo di studio, niente male per un neoministro dell’Istruzione. Dichiara di essere laureata in Scienze sociali, in realtà ha solo ottenuto il diploma alla Scuola per assistenti sociali Unsass. Complimenti Gentiloni: a dirigere scuola e università in Italia mettiamo non solo una che non è laureata, ma una che spaccia in Laurea in Scienze sociali un semplice diploma della scuola per assistenti sociali». E così conclude: “La spacciatrice di menzogne sul gender è abituata a dire bugie. Il problema non è neanche che non è laureata, ma che mente spudoratamente. Per un atto del genere in qualsiasi Paese del mondo dovrebbe dimettersi seduta stante o essere costretta a farlo”. E così salgono a quattro i ministri senza laurea nel presente governo: Valeria Fedeli, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando e Giuliano Poletti.
Fedeli: «Il diploma di laurea? Una leggerezza, ma troppa aggressività». La ministra all’Istruzione e il curriculum corretto: «Se volevo truffare non avrei mai messo diploma di laurea ma solo laurea». Dal premier Gentiloni «piena fiducia», scrive Fiorenza Sarzanini il 14 dicembre 2016 su "Il Corriere della sera". Al termine di un’altra giornata segnata dagli attacchi delle opposizioni e dall’ironia sui social network, Valeria Fedeli, neoministro all’Istruzione, si rifugia nel suo nuovo ufficio. E si sfoga. «Perché posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato». È affranta, ma a mollare non ha mai pensato. «Scherziamo? Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta». Il caso è fin troppo noto. Denunciato con un messaggio inviato due giorni fa al sito Dagospia dall’ex deputato Pd Mario Adinolfi, diventato adesso uno dei leader del popolo del Family day. «La ministra — aveva evidenziato Adinolfi spalleggiato da Massimo Gandolfini, che del Family day è inventore e promotore — sostiene di avere un diploma di laurea in assistente sociale, ma mente. Quello è soltanto un diploma. Quindi deve dimettersi». Ieri la scheda ufficiale sul sito personale della ministra è stata modificata in modo, hanno spiegato i suoi collaboratori, «da evitare ogni ambiguità». Il confronto avuto con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni l’ha rassicurata, perché le è stata espressa «piena fiducia». I messaggi di solidarietà sono stati moltissimi. Ma certo gli attacchi bruciano «soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l’ho mai usato, non mi è mai servito. Nel 1987 c’è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa». Fedeli ha un temperamento forte, un carattere deciso. La sua chioma rosso fuoco è diventata famosa dentro e fuori il Parlamento. Convinta sostenitrice del Sì al referendum sulle riforme era intervenuta qualche giorno prima della consultazione a L’Aria che tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, per assicurare che avrebbe lasciato la poltrona. E anche per questo adesso è finita al centro delle polemiche che infuriano contro tutti coloro — Renzi e Boschi in testa — che avevano preso l’impegno pubblico di «abbandonare la politica in caso di sconfitta». Fedeli è consapevole che la bufera non passerà in tempi rapidi, ma non si scoraggia. «Io vivevo a Milano e facevo la maestra d’asilo. Poi ho frequentato la Unsas, scuola laica per diventare assistente sociale, ma è un mestiere che non ho mai fatto. Sono andata a lavorare al Comune di Milano entrando al 7° livello e andando via allo stesso livello. Io sono sempre stata sindacalista. E non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta. Capisco e comprendo tutto, ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività». Due giorni fa, appena la vicenda era diventata pubblica aveva espresso la convinzione che fosse «un caso montato ad arte». Perché, aveva argomentato «guarda caso sono stati quelli del Family day a tirare fuori questa storia. Loro mi detestano per essermi schierata contro, per aver difeso la teoria del gender ed evidentemente non possono accettare che mi occupi di scuola. Eppure per me parla la mia storia politica, io sono sempre stata seria e coerente nell’affrontare i problemi. E lo farò anche adesso, senza farmi intimidire». Una posizione ribadita ieri: «Spero di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione». In attesa che la bufera passi davvero.
Laurea falsa, la Fedeli si auto-assolve e accusa: "Contro di me troppa aggressività". La Fedeli non chiede scusa per aver mentito sul suo titolo di studi: "Ho commesso una leggerezza". E attacca: "Sono sconcertata da tanta aggressività", scrive Sergio Rame, Giovedì 15/12/2016, su "Il Giornale". "Posso aver commesso una leggerezza, ma finire sotto accusa in questo modo davvero non me lo sarei mai aspettato". Non solo si auto-assolve ma sale addirittura in cattedra per attaccare chi giustamente le ha fatto notare che non si era mai laureata. "Comprendo tutto - tuona il neo ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, in una intervista al Corriere della Sera - ma sono veramente sconcertata da tanta aggressività". Più che di polemica, si potrebbe parlare di indignazione popolare. Perché la Valeri ha spacciato per laurea un semplice diploma. Nulla contro chi non ha conseguito un pezzo di carta all'università, ma il neo ministro è l'ennesimo personaggio che si sente in diritto di poter mentire sul proprio titolo di studio e farla franca. Come se niente fosse, infatti, si autoassolve parlando di un disguido verbale e tira dritto. Non una scusa agli italiani a cui ha provato a farla sotto il naso. Di lasciare l'incarico affidatole dal neo premier Paolo Gentiloni non le passa nemmeno per la testa. "Scherziamo? - reagisce Fedeli - io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum diploma di laurea, ma avrei scritto laurea e basta". Una tesi quantomeno discutibile. Ma tant'è. L'ex sindacalista resterà ancorata alla sua poltrona. Non importa se, prima del referendum sulle riforme costituzionali, ha detto che, in caso di vittoria del No, avrebbe fatto un passo indietro (guarda il video). L'ha fatto avanti. È restata e si è pure portata a casa una poltrona da ministro. Nell'intervista al Corriere della Sera, la Fedeli si lamenta degli gli attacchi ricevuti. "Bruciano soprattutto per una come me che ha sempre fatto la sindacalista e non ha mai sfruttato nulla. Lo voglio ripetere in maniera chiara: questo titolo non l'ho mai usato, non mi è mai servito". E racconta: "Nel 1987 c'è stata la possibilità di farlo equiparare, ma io già facevo la sindacalista, avevo preso una strada completamente diversa". La bugia resta ugualmente. A Palazzo Chigi, però, nessuno si è scomposto. La stessa Fedeli rivela che Gentiloni le ha espresso "piena fiducia". "Spero - conclude - di potermi occupare della scuola, dei problemi veri. Di questo voglio parlare, degli studenti, degli insegnanti, di quello che si deve fare per far funzionare la pubblica istruzione". Ma cosa insegnerà agli insegnanti e, soprattutto, agli studenti? Che si può mentire tranquillamente e, se pizzicati, si può fare spallucce e tirare dritto come se niente fosse?
Il ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli non ha il diploma di maturità (ma ha quello magistrale triennale). Nuova bufera sui social, scrive su "L'Huffington Post" Claudio Paudice il 15/12/2016. Nuova bufera sulla neo ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli. Dopo le polemiche scatenate per le false informazioni riportate sul suo curriculum, nel quale si dava conto di una laurea in Scienze Sociali mai conseguita, ora l'attenzione si concentra sul suo trascorso scolastico. Anche questa volta a sollevare per primo il caso è il direttore de La Croce Quotidiano Mario Adinolfi: "La Fedeli non ha fatto mai manco la maturità, ma solo i tre anni per fare la maestra. Poi diplomino da assistente sociale, privato. Questo è il nuovo ministro della Pubblica Istruzione che si dichiarava 'laureata in Scienze Sociali'. Spero che studenti e docenti a ogni incontro la sotterrino di pernacchie". Lo staff del ministro, contattato dall'Huffpost, ha confermato: "Lo avevamo già spiegato nei giorni scorsi, lei ha fatto una scuola per conseguire il diploma di maestra nelle scuole materne che dura tre anni" e poi l'oramai famosa scuola per assistenti sociali. "Niente di nuovo, Adinolfi esprime legittimamente la sua opinione su quali titoli debba avere o non avere" un ministro dell'Istruzione. Differentemente dal "diploma di laurea" inserito per "leggerezza" - come lei stessa si è giustificata in un colloquio con il Corriere della Sera - il diploma di maturità non è menzionato nel suo curriculum vitae. Fedeli si è detta "sconcertata" per gli attacchi subiti in questi giorni, difendendo il suo passato di "sindacalista: lo sono sempre stata". E, ha precisato, "non ho mai avuto alcun beneficio da quel pezzo di carta". Tuttavia il fatto che il ministro dell'Istruzione non abbia conseguito il diploma di maturità, pur non essendo un requisito necessario per legge per ricoprire quel ruolo, alimenta nuove polemiche. Non a caso: il settore della scuola ha subito negli anni diverse modifiche nella normativa per l'accesso all'insegnamento, causando non pochi disagi agli aspiranti docenti. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato ad aprile scorso l'orientamento adottato con diverse sentenze dalla VI sezione consentendo l'accesso alle Gae, le graduatorie ad esaurimento, a coloro che hanno conseguito il diploma magistrale ante 2001/2002. Ma è sempre il Consiglio di Stato ad aver scritto, nel dicembre 2013, che tale titolo non è equiparabile ai diplomi rilasciati a chiusura dei corsi di scuola secondaria di secondo grado di durata quinquennale: solo questi ultimi consentono "l’accesso ai corsi di laurea universitari e alle carriere di concetto presso le Pubbliche amministrazioni e valgono ogniqualvolta la legge richiede il possesso di un diploma come requisito professionale". Da qui nascono le (nuove) polemiche sull'opportunità che a Viale Trastevere ci sia un ministro dell'Istruzione senza "maturità".
Lo staff della Fedeli conferma: mai fatto l'esame di maturità. Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: il ministro non ha mai sostenuto l'esame di maturità, scrive Franco Grilli, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Dopo le accuse di Adinolfi al neo-ministro dell'Istruzione, Valeria Fedeli, arriva una conferma dal suo staff: "Non ha mai sostenuto l'esame di maturità". Insomma la Fedeli non solo non ha nessun titolo accademico ma di fatto non si è mai seduta tra i banchi per sostenere l'esame di maturità. Tutto parte da un post su Facebook di Mario Adinolfi che dopo aver smascherato il ministro sulla tanto contestata laurea in Scienze Sociali, ha messo nel mirino il ministro sulla maturità: "Fedeli - assicura Adinolfi - non ha mai fatto neanche la maturità, ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d'asilo e poi il diplomino privato all'Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze Sociali. Abbiamo il record mondiale di un ministro della Pubblica Istruzione che non solo mente sui propri titoli di studio, non solo non è laureato, ma non ha mai neanche sostenuto quell'esame di maturità che ogni anno agita così tanto centinaia di migliaia di studenti". E così lo staff, contattato da Libero non ha potuto far altro che confermare le parole di Adinolfi. Il corso frequentato - sottolineano dallo staff - è quello triennale della Scuola magistrale. E alla fine del percorso di studio non è previsto l'esame di maturità. Inoltre affermano, sempre dallo staff, che in questo caso il ministro non ha mai inserito nel Cv informazioni imprecise su questo punto.
Ministra Fedeli, manca la laurea e anche la maturità, scrive Chiara Pizzimenti il 16.12.2016 su "Vanity Fair". Arrivano quasi tutti dal fronte del Family Day, ma arrivano forti gli attacchi alla nuova ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. E il campo di battaglia è la scuola. L’ultimo colpo arriva da Mario Adinolfi, ex deputato Pd, ora presidente del Popolo della famiglia. Secondo quanto dice Adinolfi non avrebbe fatto l’esame di maturità, «ma solo i tre anni di magistrali necessari a prendere la qualifica di maestra d’asilo e poi il diplomino privato all’Unsas da assistente sociale, quello spacciato per diploma di laurea in Scienze sociali». Era stato lo stesso Adinolfi a portare alla ribalta la questione della laurea in scienze sociali, inesistente, ma segnalata nel curriculum vitae della Fedeli, poi corretto con la dicitura «diploma per assistenti sociali presso Unsas». Nessuna bugia sulla maturità, da nessuna parte è scritto che l’abbia fatta. Al tempo erano sufficienti i tre anni di magistrali per fare la maestra d’asilo. Ma ogni via è buona per la polemica e ad Adinolfi si aggiungono i Cinque stelle: «Certamente i titoli di studio non sono tutto nella vita ma qui siamo di fronte a un ministro, il titolare dell’Istruzione, che ha mentito sul titolo di studio. Il Miur e il comparto istruzione non meritano anche questa umiliazione». Una polemica che è sui titoli di studio, ma riguarda più in generali il percorso della Fedeli in particolare nella lotto contro le discriminazioni di genere. Il senatore Carlo Giovanardi l’ha ricordata come prima firmataria del ddl 1680 sull’introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle scuole, che lui chiama un «tentativo di colonizzazione ideologica della scuola pubblica». In realtà la vita politica della Fedeli ha le sue basi soprattutto nel movimento sindacale e in particolare nel settore tessile. Si ritrova nel posto di Stefania Giannini (una delle poche tagliate rispetto al governo Renzi da Gentiloni) a fare i conti con una riforma che non piace alla maggior parte degli insegnanti.
Fedeli: "Ho lavorato una vita nel sindacato, posso fare la ministra anche senza laurea". La titolare dell’Istruzione replica alle polemiche sul suo titolo di studio: "Il mio metodo da quarant’anni è l’ascolto, mi aiuterà anche qui", scrive Corrado Zunino il 17 dicembre 2016 su "La Repubblica".
"Posso fare la ministra - ministra, ci tengo - dopo una vita così intensa nel sindacato. Sono stata apprezzata, promossa, chiamata a Roma, poi a Bruxelles a guidare il sindacato europeo dei tessili. Ho contribuito a salvare grandi aziende, ho portato nella Cgil le competenze dei ricercatori della moda, mi sono occupata di Wto e dei round per far entrare i cinesi nel commercio internazionale. Sono diventata vicepresidente del Senato e ora sono qui, al ministero dell'Istruzione, e fino a quando questo governo esisterà cercherò di migliorare la scuola, l'università e la ricerca italiana 24 ore al giorno".
Ministra, l'esordio è stato difficile. Nel suo curriculum online aveva scritto di aver conseguito un diploma di laurea, in un secondo curriculum era evidenziata una laurea in Scienze sociali. Lei non ha la laurea.
"Non l'ho mai sostenuto. Non ricordo il curriculum con la dicitura laurea, ma quello con su scritto diploma di laurea, rilasciato dopo tre anni dall'Unsas, è stato solo una leggerezza. La laurea è una cosa a cui non ho mai pensato. Ho 40 anni di vita rigorosa nel sindacato, non ho mai usato quel diploma, sono stato sempre una distaccata di settimo livello, maestra d'infanzia distaccata".
Ministra, il giorno dopo le polemiche lei ha cambiato il curriculum: solo diplomata, si legge adesso. Definirsi laureata è dipeso forse da un complesso psicologico? All'ex sottosegretario Faraone i docenti precari hanno sempre rinfacciato il fatto che non avesse il titolo, fino a quando lui non ha ripreso gli studi e dato la tesi.
"Io non mi sono laureata perché il sindacato mi ha preso e portata via, è diventata la mia vita. Non una carriera, la vita. Alla laurea non ho mai pensato. Nel 1987 avrei potuto equiparare quei tre anni come assistente sociale al titolo di laurea, ma non l'ho fatto perché era fuori dal mio mondo. Riunioni, incontri con gli operai, viaggi a Bruxelles, e chi l'aveva il tempo per la laurea?".
Lei, dopo i tre anni delle superiori, ha fatto la maestra d'infanzia?
"Sì, ero giovanissima. E il fatto che abbia voluto studiare per altri tre anni alla scuola per assistenti sociali senza averne bisogno, avevo già un'occupazione, dimostra che il gusto della conoscenza l'ho sempre avuto. Poi, ho trovato ostacoli nella mia vita e, dopo l'esplosione del '68, è arrivato il sindacato. In quegli anni ti assorbiva completamente".
Che tipo di ostacoli?
"Non vengo da una famiglia ricca e molto presto mi sono resa autonoma: da Treviglio sono andata a vivere a Milano. Mio fratello ha fatto Giurisprudenza, io ho abbracciato la Cgil".
Non si sentirà in difficoltà quando dovrà incontrare una docente ancora precaria con due lauree o parlare di Technopole con la scienziata Elena Cattaneo?
"Il mio metodo è l'ascolto e ascolterò con attenzione chi ha competenze straordinarie. Cresceranno le mie. Ascoltare, capire, conoscere. Quarant'anni di applicazione di questo metodo mi aiuteranno anche al ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca".
A La7 lei disse: "Il giorno dopo, se ha vinto il no, tu ne devi prendere atto, non puoi andare avanti perché non hai l'autorevolezza. Io non penso alla mia sedia". Lei, però, ora fa la ministra.
"L'aver detto che bisogna prendere atto della sconfitta è coerente con la nascita di un governo che deve affrontare le urgenze del Paese".
Ministra, quale sarà il suo primo atto per migliorare la scuola italiana?
"Le prime telefonate le ho fatte ai cinque sindacati rappresentativi, lunedì li incontrerò. Vorrei il loro punto di vista sulla Buona scuola, dopo il lungo conflitto che c'è stato".
Le piace la Legge 107?
"L'ho votata, al Senato. Ha dentro cose importanti, innovative, immaginate dalla ministra Carrozza e approdate con la Giannini. È legge vigente, la si deve far funzionare senza tradire il progetto".
I sindacati le chiederanno di fermare gli spostamenti dei docenti dal Sud al Nord.
"È una questione centrale e dovremo trovare nuove soluzioni, magari sperimentali. Con grande attenzione, tocchi una cosa e ne viene giù un'altra".
La chiamata del preside?
"Cercheremo criteri oggettivi con i quali, poi, il dirigente scolastico potrà scegliere i docenti".
Ereditate nove deleghe dal governo Renzi, una Buona scuola bis: il 15 gennaio scadono.
"Voglio portarle in fondo tutte, ma prima studiarle bene. Chiederemo al Parlamento di rivotare quelle in scadenza. La legge 0-6, che prevede la materna unica e l'assunzione di maestre d'infanzia, è pronta. Sono stata la seconda firmataria".
Viva la Fedeli, abbasso la laurea. La presunta bugia della neo ministra all’Istruzione non è che la conseguenza di un rapporto malato tra l’Italia e il “pezzo di carta”. Un Paese in cui tutti vogliono essere laureati, ma in cui la laurea non serve a nulla, scrive Francesco Cancellato il 14 Dicembre 2016 su “L’Inkiesta”. E ti pareva che non succedesse di nuovo. Che qualcuno - nella fattispecie Mario Adinolfi - non tirasse fuori una presunta millantata laurea di un’avversaria politica - nella fattispecie la neoministro alla pubblica istruzione Valeria Fedeli - per delegittimarla in partenza. Che, poi, alla fine, di inciampo lessicale pare proprio trattarsi, visto che il titolo di studio della Fedeli è effettivamente un diploma di laurea, antesignano dei diplomi universitari degli anni novanta e delle lauree triennali di oggi. Ma non è qui il problema. La Fedeli, pur non essendosi mai giovata di questa bugia per fare carriera, potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell'Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. Un Paese che ha il più basso numero di laureati in Europa, ma in cui anche il più umile analfabetizzato funzionale ha avuto il suo «Buongiorno Dotto’» di celebrità. Un Paese che spende una marea di soldi per far studiare i propri figli, che non ne accetta l’inadeguatezza allo studio, che accetta di buon grado che rimangano sui banchi di scuola fino alla crisi di mezza età, pur di invitare i parenti al pranzo di laurea. E che poi non sa che farsene dei laureati e li costringe, nei fatti, a fare la fila alle agenzie interinali per un posto da magazziniere, o a emigrare. Ancora: un Paese che in coda a tutte le classifiche per la spesa in istruzione e ricerca e assente in quelle delle università migliori al mondo, con decine di atenei sotto casa costruite «per l’indotto sul territorio», in cui la baronia e la trasmissione ereditaria della cattedra sono elevate a forma d’arte. Un Paese in cui la percentuale di antivaccinisti s’impenna tra laureati e dottorati, con buona pace di chi ha frequentato l’università della vita. Un Paese con uno dei più altimismatch del mondo Ocse tra domanda e offerta di lavoro, tra professionalità sul mercato e posti di lavoro disponibili. Un Paese, per dirla in meno di dieci parole, in cui poche cose servono meno di una laurea. La Fedeli potrebbe pure aver mentito sul suo titolo di studio per una questione di vanità personale o per un malcelato complesso d’inferiorità. Ma la bugia - da stigmatizzare in quanto tale, nel caso - non sarebbe che il triste epifenomeno di un rapporto malato dell’Italia, più che col Sapere con la S maiuscola, con il “pezzo di carta” che, in teoria, dovrebbe certificarlo. E allora abbasso un’istruzione - superiore e non solo - da rivoltare come un calzino e viva chi sta provando a farlo e chi ci vorrà provare. Abbasso il valore legale del titolo di studio, strumento classista e inadeguato a valutare il merito tanto quanto lo è una raccomandazione, perlomeno ora e qui. E, nel frattempo, viva la Fedeli, il suo diploma universitario, la sua gavetta politica, se le metterà al servizio - nel poco tempo a sua disposizione - per cambiare almeno un po' le cose. E ancora: viva Oscar Giannino, che si appunti al petto come una medaglia che un Presidente del Consiglio sia costretto, per averne ragione in un dibattito da ko tecnico, a ricordare il caso dei suoi millantati titoli di studio. Viva il Premio Oscar Roberto Benigni, i Premi Nobel Dario Fo ed Eugenio Montale, direttori di giornale e telegiornale come Enzo Biagi, Enrico Mentana e Giuliano Ferrara, moloch della divulgazione scientifica come Piero Angela e dell’intrattenimento televisivo come Maurizio Costanzo, viva la spregiudicatezza visionaria di Enrico Mattei e Michele Ferrero, il talento politico di Fausto Bertinotti e Walter Veltroni e i calli sulle mani di sarti e cuochi oggi diventati stilisti e chef come Giorgio Armani e Carlo Cracco. Viva tutte quelle persone che non si sentono in diritto di accampare alcuna pretesa per una riga in più nel curriculum vitae e che hanno costruito la loro fortuna e quella del Paese usando come mattoni le loro idee, la loro ambizione, la loro cultura del lavoro. Viva chi se ne fotte dei giudizi delle aristocrazie vuote del sapere col parrucchino. Viva la loro fame e la loro follia, come disse ai neolaureati di Stanford, nel suo discorso più famoso, Steve Jobs, che laureato non era, nemmeno lui, come del resto non lo è Bill Gates. Chissà che quante gliene avrebbe dette, il Dottor Mario Adinolfi.
Ridateci Croce e Gentile come Ministri dell’Istruzione! Scrive Francesco Boezi su “Il Giornale" il 16 dicembre 2016. Una nazione che ha avuto Benedetto Croce come Ministro della Pubblica Istruzione non può giudicare un governante dai titoli. Non è questo il punto. Ognuno di noi conosce moltissime persone prive della laurea, ma validissime nei settori in cui operano. Allo stesso modo, esistono plurititolati privi di qualunque capacità. Questo è un fatto rinomato. Certo è che il settore in questione, quello dell’istruzione, meriterebbe un trattamento di favore nella scelta di persone specificatamente formate per dettarne le linee guida. Un comandante, insomma, deve sapere com’è fatta la nave per evitare che affondi. Specie nel caso in cui, come questo, la nave sia parecchio importante e sembri imbarcare parecchia acqua. La Fedeli, prescindendo dalla mancanza della laurea e dalla questione riguardante il diploma privato, viene dal sindacalismo. Cosa c’entra con la cultura italiana? Servirebbe altro. Non un tecnico, ma una persona dotata di una visione, di una Weltanschauung in grado di tirare fuori la scuola dalle sacche sessantottine in cui è tragicamente finita. Il nostro è un modello che si allontana sempre di più dalle radici umanistiche ed identitarie, per inseguire una scimmiottatura americaneggiante fatta di convenzioni con i fast food, sperimentazioni educative ed un’infinità di progetti pomeridiani poco sensati, spesso costruiti addosso alle passioni private dei docenti. Il tutto senza alcuna visione di insieme, nel breve e nel lungo periodo. Così, mentre assistiamo al ritorno del fenomeno dell’analfabetismo, noi ci occupiamo di gender, di neutralizzare i pronomi in nome del politically correct e di introdurre legislativamente forme di rispetto per le differenze di genere, partendo quindi dal presupposto che gli insegnanti non siano capaci di educare gli studenti in modo autonomo ed abbiano bisogno di direttive verticistiche. Questo dirigismo valoriale, si sa, preoccupa molto il mondo cattolico. La petizione promossa su Citizengo.org, sponsorizzata, tra gli altri, dal Comitato “Difendiamo i Nostri Figli” e da “La Manif Italia”, segnala come la scelta della Fedeli possa essere stata mossa dallo spirito di vendetta che il Partito Democratico sembrerebbe nutrire verso le organizzazioni citate, in funzione del loro impegno per il No al referendum costituzionale. Se questo fosse il movente, non sarebbe positivo. La Fedeli, d’altro canto, è la pasionaria del disegno di legge sull’educazione di genere risalente al 2014. La scuola italiana rischia di finire in una guerra ideologica di cui non ha alcun bisogno. La missione del sistema educativo dovrebbe essere quello di formare gli italiani del domani in un contesto laico e privo di strutture e sovrastrutture dottrinali imposte dai desiderata antropologici di una parte politica. Dai recenti studi dell’ex Ministro De Mauro, esemplificativamente, viene fuori che solo un terzo degli italiani avrebbe livelli sufficienti di comprensione della scrittura e del calcolo per poter vivere all’interno della società contemporanea senza enormi disagi. Spicca, soprattutto, la questione della regressione in età adulta all’analfabetismo funzionale, fenomeno che finisce per interessare l’efficienza economica-produttiva della nostra nazione. Per quel che concerne chi da scuola è uscito. Per quelli che ancora sono dentro, parlano le annuali statistiche sulla crisi della lettura, sull’analfabetismo matematico e sul livello qualitativo complessivo dell’istruzione italiana. Tutti questi fenomeni non saranno forse legati al progressivo abbandono dei classici? Alla svalutazione del sapere umanistico, etichettato tanto frettolosamente quanto stupidamente come inutile? Non sarà stato il clichè della “riforma sempre e comunque” a destrutturare dalle fondamenta un modello culturale che aveva sfornato i migliori in ogni campo del sapere umano? Oppure nessuno si ricorda più di cosa fu capace la generazione cresciuta sui banchi della riforma Gentile? Non sarà, magari, che il sapere liquido, ideologico, nozionistico, economicistico e slegato dalla storia porti con sè l’enorme problema di essere solo un mezzo temporaneo e mai un bagaglio personale definitivo? Di questo sarebbe necessario preoccuparsi, non del gender. Altro che Fedeli! Ridateci Croce e Gentile!
Quanto veleno se la poltrona va a chi non è laureato. Uno su quattro degli incaricati da Renzi non ha il titolo di dottore, ma neanche Marconi ce l'aveva e ha cambiato il mondo. Conta solo il lavoro che sapranno fare, scrive Vittorio Feltri, Domenica 23/02/2014, su "Il Giornale". Tradizione rispettata. Anche questo governo, fortemente voluto da Matteo Renzi detto Fenomeno, pur non avendo ancora mosso un dito, è già stato subissato di fischi per vari motivi, uno soprattutto: è colpevole di essere nato. Succede così da sempre. Seguo da cronista la politica da mezzo secolo e non mi è mai capitato di udire elogi unanimi diretti a un neopremier o ai neoministri. Perfino Alcide De Gasperi fu salutato con sospetto. Con l'andare del tempo divenne antipatico addirittura agli amici del suo partito, la Dc, i quali brigarono per rispedirlo in Trentino affinché cedesse il posto a giovani (si fa per dire) rampanti. Missione compiuta. Una volta morto, lo statista fu elevato agli altari. Oggi chiunque loda le sue opere. Dubito che Renzi sia la reincarnazione di De Gasperi, però non me la sento di definirlo sciocco il primo giorno di scuola. C'è chi invece si è già scagliato contro di lui e la sua squadra. Lo biasimano perché dice una cosa e ne fa un'altra, tradendo il desiderio di entrare a Palazzo Chigi anche a costo di piegarsi alle pretese delle segreterie e agli ordini del Colle, come se fosse facile ignorare le prime e i secondi. Sui nomi dei prescelti dal presidente del Consiglio si è aperta una gara a chi li bastona di più. Un esercizio abbastanza semplice. È sufficiente consultare il dizionario dei sinonimi per trovare epiteti originali con cui deridere i fortunati vincitori delle cadreghe ministeriali: otto uomini e otto donne, in omaggio alla moda delle pari opportunità. Molti responsabili di dicastero sono volti nuovi, altri meno: in linea di massima, comunque, gente sconosciuta o semisconosciuta al grande pubblico. Pertanto chi fa il mio mestiere ha indagato in fretta e furia per rintracciare qualche dettaglio biografico degno di nota e idoneo a imbastire articoli pepati su questo o su quel personaggio. Cosicché alcune penne intinte nel veleno hanno raccontato che un quarto dei 16 componenti della compagine governativa è privo di laurea. Ecco l'elenco: Beatrice Lorenzin (Sanità), Maurizio Martina (Politiche agricole), Andrea Orlando (Giustizia) e Giuliano Poletti (Lavoro e welfare). In che cosa consista lo scandalo non è chiaro. Tuttavia il tono con cui si scrive sul conto di costoro è sfottitorio. Come dire: che aspettarsi da politici che non hanno neppure concluso gli studi universitari? E si sorvola sul fatto innegabile che è più importante aver imparato a stare al mondo che non aver conseguito un diploma al massimo livello accademico. Ma, quando si tratta di prendere in giro una persona assurta ad alte responsabilità, è comodo sbattergli in faccia la patente di ignorante: non comporta nemmeno lo sforzo di verificare se ciò corrisponda a realtà. Può darsi che un signore e una signora privi di laurea siano impreparati a gestire un ministero, ma può anche essere che un laureato non sia in grado di mandare avanti un negozio di frutta e verdura. La storia ci insegna che un alto numero di autodidatti è stato premiato con il Nobel non certo perché abbia conseguito brillantemente titoli di studio, bensì per meriti legati ad attività professionali egregiamente svolte. Lo abbiamo ricordato spesso, ma giova rammentarlo ancora: a parte Luigi Pirandello, tutti gli altri Nobel italiani per la letteratura - Grazia Deledda, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale - non erano laureati. Non citiamo Dario Fo per decenza. Segnaliamo inoltre che Benedetto Croce e Gabriele D'Annunzio l'università la videro col binocolo. E Guglielmo Marconi? Mai frequentato corsi scolastici superiori con regolarità. Ciononostante, egli è lo scienziato che ha segnato una svolta nella storia dell'umanità con un'invenzione da lasciar senza fiato. Con questo non stiamo sostenendo che i quattro rimorchiati da Renzi, benché sprovvisti di titoli, siano dei geni apparecchiati per risolvere i problemi del Paese, tutt'altro. Ma siamo convinti che il loro rendimento al tavolo dell'esecutivo non dipenderà dalle pergamene (che non hanno) ma dalle capacità che ci auguriamo abbiano. Nei casi della Lorenzin e di Orlando sarebbe lecito azzardare un giudizio, poiché entrambi non sono esordienti nel ruolo di ministri. Ma ci zittiamo per prudenza, essendo consapevoli che con un capo diverso da Enrico Letta, cioè Renzi, essi potrebbero fare meglio del peggio combinato nella precedente esperienza. È solo un auspicio. Intendiamo sottolineare che polemizzare sulle lauree in mancanza di argomenti più seri è una manifestazione di meschinità. Lo è tanto più in un momento, quale il presente, caratterizzato dalla crescente disoccupazione giovanile, particolarmente accentuata fra i laureati. Dal che si evince che conviene saper esercitare un mestiere ben retribuito che non farsi chiamare dottore gratis.
Al governo senza laurea: Poletti, Orlando e Lorenzin hanno solo la maturità, scrive il 9 giugno 2014 "Corriere Università". E’ la vecchia storia dei governanti e dei governati. Sì, perché la squadra messa insieme dal premier Matteo Renzi sarà pure la più giovane in base alla media d’età (47,8 anni) ma, di sicuro, non è il massimo in termini di istruzione. Giuliano Poletti, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando: tre dei ministri che reggono dicasteri fondamentali, infatti, non sono laureati. Nemmeno al primo livello. Orlando, ministro della Giustizia, si è fermato alla maturità scientifica. Beatrice Lorenzin, ministro della Sanità già presente nella legislatura di Letta, vanta una maturità classica. E Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, è perito agrario. Il grafico pubblicato da Linkiesta è lo specchio di un Paese che troppo spesso delega le funzioni importanti a chi per quei ruoli non ha nemmeno studiato. Il 23,5% di coloro che ci governano – scrive il magazine – non ha nemmeno la laurea. Pochissimi hanno un master, qualcuno un dottorato di ricerca. L’Italia, dunque, conquista un’altra maglia nera in Europa, dove invece la preparazione e la competenza contano. In Francia tutti i ministri hanno almeno la laurea, in Germania un solo non laureato viene compensato da tantissimi ricercatori. E se guardiamo agli Usa, la situazione peggiora (per noi): pochi laureati, molti con master e dottorato.
8 ministri italiani che non hanno mai preso la laurea, scrive il 14 dicembre 2016 Carmine Zaccaro su "Skuola.net". La polemica sulla laurea della neo ministra Valeria Fedeli ha scatenato il web. Nelle scorse ore infatti, il nuovo responsabile di Viale Trastevere si è dovuta difendere da attacchi e ironie, partite dopo il post di Mario Adinolfi, ex giornalista e leader del Popolo della Famiglia, che la accusava di non aver conseguito un titolo di studio equiparabile alla laurea. E mentre dal ministro sono arrivati i chiarimenti sulla vicenda - un presunto "problema lessicale" fatto in "buona fede" - quella della laurea non sembra rappresentare un elemento imprescindibile per fare carriera. Noi di Skuola.net siamo andati a spulciare nei curricula di 8 ministri ed ex ministri italiani, che ricoprono o hanno ricoperto posizioni rilevanti nella guida del paese, e di laurea non c'è nemmeno l'ombra.
8. Francesco Rutelli. Classe 54' di origine romano, Rutelli è stato co-presidente del Partito Democratico Europeo. Eletto sei volte in Parlamento. Sindaco di Roma nel 1993. E'stato Ministro dei beni e delle attività culturali. Ha ricevuto Lauree honoris causa dalla John Cabot University, dalla Temple University e dall’American University in Rome, ma non l'ha mai presa in gioventù: si è iscritto nuovamente all'università proprio qualche mese fa, con l'obiettivo di ottenere (stavolta) il titolo.
7. Altero Matteoli. Politico italiano di lungo corso. Classe 40' cresce sotto l'ala dell'On. Beppe Niccolai, esponente storico pisano del MSI. Dall'8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 è stato Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel Governo Berlusconi.
6. Massimo D'Alema. Romano di origine. Sposato, con due figlie. E' un giornalista professionista e vanta collaborazioni anche con l'Unità, di cui è stato direttore nel biennio 1988-1990. Ha studiato al liceo classico. Entra alla Camera dei deputati nel 1987. Dal 21 ottobre 1998 all'aprile del 2000 è stato Presidente del Consiglio dei Ministri. Il 17 maggio 2006 diventa Ministro degli Esteri nel Governo Prodi.
5. Walter Veltroni. Politico italiano classe 55' di Roma. Prima di intraprendere la carriera politica è stato giornalista professionista, ha anche diretto lo storico quotidiano l'Unità. La politica entra nella sua vita nel 1976, quando viene eletto consigliere al comune di Roma rimanendo in carica per cinque anni. Eletto in Parlamento nel 1987. Romano Prodi lo chiamò nel 1996 a condividere la leadership del partito "l'Ulivo" nell'anno della vittoria di quella coalizione, assumendo in seguito l'incarico di vicepresidente del Consiglio e Ministro dei Beni Culturali e Ambientali con l'incarico per lo spettacolo e lo sport. Nel 2003 riceve la laurea Honoris causa dalla John Cabot University di Roma. Oggi scrive libri e dirige film, ma la laurea non è mai stata una priorità per la sua carriera.
4. Umberto Bossi. L'energico Umberto Bossi, capo-popolo delle fila della Lega Nord non ha conseguito la laurea durante il suo percorso formativo. Si ferma alle superiori, dove consegue il diploma di perito tecnico. Si iscrive alla facoltà di Medicina di Pavia senza conseguire la laurea. Ma questo non gli ha impedito di diventare senatore della Repubblica ed europarlamentare. Ha fondato il partito che ad oggi raccoglie il sentimento di una vasta fetta di elettori italiani. E' stato Ministro per le Riforme Istituzionali durante il governo Berlusconi.
3. Giorgia Meloni. Rampante politica e giornalista di origine romana. Ha speso gli anni della gioventù alla carriera politica. A 15 anni ha fondato il coordinamento studentesco "Gli Antenati". Diventa responsabile nazionale di diventa responsabile nazionale di Azione Studentesca, il movimento studentesco di Alleanza Nazionale e rappresentante al Forum delle associazioni studentesche. Nel 2006 entra alla Camera dei Deputati con Alleanza Nazionale e fino al 2008 ricopre la carica di Vicepresidente. Il 21 aprile di questo anno è stata impegnata nella campagna elettorale per diventare sindaco di Roma. Anche per lei la laura non è stata la prima preoccupazione, ma neanche un ostacolo ai successi personali. E' stata Ministro per la gioventù con il governo Berlusconi.
2. Giuliano Poletti. Attuale Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Al centro di un putiferio che fece arrabbiare qualche studente, quando propose meno vacanze estive per fare qualche lavoretto costruttivo. Riconfermato come ministro nel Governo di Responsabilità che fa capo a Paolo Gentiloni, la carriera politica non è stata frenata dalla mancanza del titolo di laurea.
1. Beatrice Lorenzin. Tra le donne al vertice del Governo Renzi. Riconfermata con Poletti. Il ministro Beatrice Lorenzin a capo del dicastero della Sanità non ha una laurea, sebbene nel corso degli anni la sua vita sia stata segnata da vari successi personali e professionali.
Primo guardasigilli non laureato, nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive il 27 Febbraio 2014 Federico Altea su "Elzeviro". Ministri discutibili. Il ministro della giustizia. Orlando, poca competenza in materia, parlò di abolizione di ergastolo e revisione del 41 bis. Il neoministro della Giustizia nel Governo Renzi è l'onorevole Andrea Orlando, già ministro dell'Ambiente del governo Letta. Una scelta piuttosto discutibile, considerato che a capo del dicastero dell'Ambiente è stato posto un signore senza particolari competenze e afferente alla formazione politica casiniana (7 deputati su 630). Andrea Orlando, signore che ha sempre mangiato a pane e politica, milita nei giovani comunisti fin dagli anni Ottanta. Dal Partito comunista fa la classica trafila nel PDS, nei Ds ed infine nel Pd. Avendo ricoperto incarichi di responsabilità negli enti locali sarebbe forse stata comprensibile una sua nomina nel dicastero degli Affari regionali. Un governo nominato (susseguente ad altri due sorti nella medesima maniera) non dovrebbe essere così spiccatamente politico, tanto più quando si parla di fare riforme (una al mese, addirittura) che siano massimamente condivise e non pronte per essere disgregate dal governo successivo. Nonostante non avesse competenze che trasparissero con evidenza dal suo curriculum in campo ambientale, Orlando si è occupato nel suo mandato annuale nel governo Letta di temi molto scottanti, come l'Ilva e la terribile emergenza ambientale che affligge la Terra dei fuochi, a proposito della quale è stato promotore di una legge. La legge in questione introduce il reato di combustione dei rifiuti abbandonati o depositati in aree non autorizzate (condanne da due a cinque anni che possono ulteriormente aumentare se ad appiccare i roghi è un'impresa). La sua applicazione, ad oggi, lascia tuttavia a desiderare: nelle periferie delle grandi città e nei parchi le prostitute, alle quali potrebbe facilmente essere applicata questa legge, seguitano a bruciare copertoni per riscaldarsi, inquinando così come non mai le aree urbane, mentre sull'operato delle aziende l'iniziativa dei magistrati si è forse rivelata troppo blanda. L'emergenza della Terra dei fuochi sarebbe stato un problema da non sbolognare all'ennesimo ministro eletto come tappabuchi (ci riferiamo al ministro Galletti). Quarantacinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro, ma anche ad una revisione del 41 bis, se così si può interpretare la frase: "Non ci sono ancora i tempi per superarlo (il 41 bis), ma è necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia". Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un penalista serio che riformi completamente il sistema penale e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema delle attenuanti (incredibilmente quasi sempre concesse). Una persona che abbia le competenze per ricostruire il sistema penitenziario da rivedere dal primo all'ultimo articolo e nella sua applicazione, comprese le interessanti innovazioni apportate di recente all'istituto della detenzione domiciliare (braccialetto elettronico). Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Chissà se Orlando intende fare qualcosa sulla patente a punti andando così a meritarsi gli auspici dell'Unione delle camere penali che sperano che un politico così navigato possa essere anche in grado di "interpretare alla lettera lo spirito garantista della Costituzione": considerato che nel 2010 Orlando ha subito il ritiro della patente dopo essere stato scoperto al volante con un tasso alcolemico superiore al consentito, magari vorrà essere molto "garantista" al riguardo...
La laurea dei politici italiani: ecco la classifica dei più sfigati, scrive l'1 Febbraio 2012 “Libero Quotidiano”. Dopo l'uscita del viceministro Martone, il settimanale Oggi stila la graduatoria: dal razzo Napolitano fino alla lumaca Scajola. Il più sfigato di tutti è Claudio Scajola che si è laureato a 53 anni. Giorgio Napolitano, Mario Monti, Romano Prodi erano dottori già a 22 anni. Dopo la dichiarazione choc del viceministro del Lavoro Michel Martone che ha definito sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, il settimanale Oggi ha stilato la classifica degli sfigati. Nelle ultime posizioni ci sono Stefania Prestigiacomo, dottoressa a quarant'anni, Gianni Alemanno che ha conquistato il titolo a 46 anni, ha dovuto aspettare altri sei anni Mario Baccini che ha discusso la sua tesi a 52 anni. Chi si è laureato tardi, fa notare il settimanale, ha avuto ottime scuse: da Antonio Di Pietro studente lavoratore: di giorno era impiegato civile dell'Aeronautica e di sera alle prese coi testi di diritto. Ma nonostante tutto si è laureato a 28 anni, esattamente come Nichi Vendola che ha discusso la sua tesi di Lettere su Pasolini lavorando come dirigente dei giovani comunisti e dell'Arcigay. L'ex ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini si è salvata per il rotto della cuffia visto che si è laureata a 27 anni, meglio Mara Carfagna e Daniela Santanché entrambe sono arrivate al traguardo a 26 anni. Molte ombre sono cadute sulla laurea di Alessandra Mussolini accusata con altri 180 studenti romani di aver comprato due esami nel 1982, un anno fa è stata bocciata all'esame di abilitazione ma alla fine ce l'ha fatta. La Prestigiacomo ha dovuto rinviare i suoi studi perché a 23 anni, quando le sue coetanee andavano all'Università, lei era presidente dei giovani industriali di Siracusa e quattro anni dopo divenne deputato. Claudio Scajola si è laureato a 53 anni, in Legge. Si era iscritto nel 1967 ma poi fu attratto dalla politica e, a 27 anni, dirigeva già un ospedale. Martone quando ha chiamato sfigato chi si laurea dopo i 28 anni, dimentica i suoi colleghi acquisiti (per carità, lui è un tecnico) che non sono neanche laureati. Da Francesco Rutelli a Massimo D'Alema...
La laurea di Angelino Alfano senza quid e gli analfabeti che sanno leggere, scrive Silvia Truzzi, Giornalista, l'11 maggio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il ministro dell’esterno Angelino Alfano – collezionista di gaffe e incidenti di varia natura, dalla rivelazione sull’arresto dell’assassino di Yara al ben più grave caso Shalabayeva – ha duramente attaccato il leader della Lega, con i consueti argomenti ineccepibili e ragionamenti di granitico rigore: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”. Naturalmente Alfano è laureato e pure in un’università teoricamente d’eccellenza – la Cattolica di Milano – eppure, nonostante il titolo prestigioso, l’ex amico B. lo definì, con chirurgica spietatezza, un senza quid. E forse sfugge all’ex Guardasigilli che l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando non dispone di laurea alcuna. Come Beatrice Lorenzin e Giuliano Poletti. Ma anche quando i ministri sono dottori, le cose non vanno meglio. Capita alla soave Maria Elena Boschi, “non sempre a suo agio con le materie costituzionali” come ha detto di lei Stefano Rodotà. La laurea (in legge a Brescia) e l’abilitazione da avvocato (a Reggio Calabria), non hanno salvato Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione!; dallo scivolone sul tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso nel 2011. E nemmeno, nel giugno dello stesso anno, da un clamoroso errore in una lettera ai maturandi nella quale ricordava il suo esame: “Ho scelto un tema su Fogazzaro, Palazzeschi e i crepuscolari. Argomenti che conoscevo bene”. Tanto bene da aver messo l’autore di Piccolo mondo antico tra i crepuscolari. E dire che nel 2010 aveva dato dello “studente ripetente” a Pier Luigi Bersani (il quale per tutta risposta aveva pubblicato su Internet il suo libretto, tutto 30 e 30 e lode) suscitando le curiosità dei cronisti sul suo curriculum accademico. Alessandra Arachi aveva fatto una chiacchierata sul Corriere della Sera con il relatore di tesi della dottoranda Mariastella, Antonio D’Andrea, docente di diritto costituzionale all’università di Brescia. Ecco come ricorda la sua studentessa: “Mariastella Gelmini si è laureata almeno tre anni fuori corso con un voto di 100 su 110. Aveva scelto una tesi con un titolo accattivante: ‘Referendum d’iniziativa regionale’. L’argomento era bello, ma lei lo ha trattato in maniera davvero sciatta. Per quella tesi non ho voluto dare neanche un punto in più alla media dei voti. Non soltanto per come era stata scritta, a tirar via, ma soprattutto per come la Gelmini venne a esporla in sede di discussione”. Per la famosa legge dell’orologio rotto, bisogna dar ragione a Salvini che ha risposto ad Alfano “meglio non avercele le lauree di Mario Monti ed Elsa Fornero”: visti i danni fatti dal governo dei professorini, non si può dargli torto. E comunque, (guarda cosa ci tocca dire), meglio Salvini di Oscar Giannino inciampato nella clamorosa balla su lauree e presunti master. Del resto Bossi, diplomato alla mitica scuola Radio Elettra, ha rifiutato una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni, liquidando l’iniziativa (sempre del ministro Gelmini, tout se tient) così: “Stupidaggini”. Tipo la memorabile uscita del brillante ex viceministro Michel Martone: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”. Del resto Eugenio Montale, un ragioniere che non aveva fatto studi classici né si era laureato ma aveva vinto il Nobel per la Letteratura nel 1975, giustamente notava in una famosa battuta che “gli analfabeti al giorno d’oggi sanno leggere”. Potremmo dire, nel caso dei nostri dotti politici e delle loro querelle sugli studi, “asinus asinum fricat”.
Ministri senza laurea e società civile con e senza titoli, scrive Romolo Ricapito il 17 Dicembre 2016. Impazza da giorni ovunque la notizia che una nuova ministra del governo non è, non sarebbe, laureata. Secondo alcuni, non costei si sarebbe nemmeno diplomata! In un articolo di un giornale importante, ho letto che comunque altri tre ministri del governo non sono in possesso di lauree. Impazzano allora i sondaggi e le proposte. Qualcuno addirittura propone l'obbligo di avere la laurea per ministri, parlamentari. Per me si esagera: la laurea è una specializzazione in un campo specifico. Ma spesso assistiamo a un'ignoranza di ritorno: quella di chi, laureato (ma anche diplomato...) non legge libri né giornali, non va al cinema, al teatro, al museo. Questa categoria di persone è più numerosa di quanto si creda. Spesso mi è capitato di frequentare anche occasionalmente persone che ignorano anche le notizie dei i tg, quelle più importanti, o quelle delle quali più si discute. Il trend segna che costoro sono donne, spesso indifferenti a tutto per ragioni personali. Ma tornando al ministro col diploma di laurea (o senza laurea): quante persone che tutti conosciamo, o abbiamo frequentato, a livello appunto di conoscenza e amicizia, fingono titoli di studio inesistenti? E tutto per essere alla pari, o probabilmente al di sopra degli altri, secondo loro incomprensibili motivi. La colpa è anche di chi ha mitizzato questo titolo di studio, la laurea, appunto. Spesso imponendolo ai figli, magari ragazzi svogliati che non avevano nessuna voglia di proseguire con l'Università e che adesso si ritrovano fuori corso con lauree generiche, strappate con voti minimi e dalle quali non hanno attinto particolari conoscenze.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
IL CRACK DEL PIEMONTE: FALLIMENTO SABAUDO.
Piemonte, Lazio e Campania vicine al default: il fallimento delle Regioni, scrive il 21 ottobre 2015 “Il Secolo D’Italia”. Più che le scaramucce politiche, forse ha pesato la voce per sua natura imparziale della Corte dei conti, la quale – riferendosi al Piemonte, sommerso da un disavanzo di quasi 6 miliardi ha esplicitamente ammesso che sarebbe «auspicabile un decisivo intervento legislativo che preveda per la Regione un piano di rientro dal disavanzo che sia economicamente sostenibile e al tempo stesso non blocchi gli investimenti necessari per il rilancio dell’economia». Quell’intervento urgente promesso dal governo alle regioni e poi annegato nella legge di stabilità, quindi reso di fatto mutile: sarebbe entrato in vigore l’anno prossimo. Secondo “la stampa”, la Corte dei Conti ha fornito a Sergio Chiamparino l’assist perfetto per alzare la voce e ricordare a Palazzo Chigi le promesse mancate. L’analisi dei magistrati contabili e l’affondo del presidente del Piemonte – «questa norma, che avevamo concordato, così serve a nulla» – hanno indotto il governo a un brusco dietrofront: il decreto salva-regioni si farà, verrà firmato la settimana prossima e sarà un provvedimento a sé, non annegato nella legge di stabilità. Ballano circa venti miliardi. E balla non solo il Piemonte, ma anche Lazio, Campania e buona parte delle regioni italiane, gelate da una sentenza della Corte Costituzionale sul bilancio 2013 del Piemonte ma valida per tutti: l’ente aveva ricevuto dallo Stato tre miliardi per pagare i debiti con i fornitori ma – anziché considerarli una anticipazione di cassa – li aveva utilizzati come fossero un mutuo, aumentando le proprie capacità di spesa. E, quindi, gonfiando il deficit: non 2 miliardi, come era stato iscritto a bilancio, ma 5, da coprire ora in sette anni, versando circa 800 milioni l’anno, il doppio dei 400 milioni “liberi” del bilancio, ovvero non vincolati a stipendi e spese fisse. Impossibile: ecco perché Chiamparino – cui pure la Corte dei conti imputa di posticipare le contromosse per rendere sostenibili i conti «con l’inevitabile conseguenza di trasferire alle generazioni future il peso del debito» – si è scagliato all’attacco del governo. Come presidente della Conferenza delle regioni qualche settimana fa aveva concordato una soluzione con i vertici del ministero dell’Economia: un decreto ad hoc che neutralizzasse subito parte del disavanzo e consentisse alle regioni di chiudere il bilancio a fine anno evitando il commissariamento. Invece il governo ha inserito la norma nella legge di stabilità. Particolare non secondario: la legge si approverà a fine anno ed entrerà in vigore nel 2016, quindi le regioni non potrebbero sfruttarla per raddrizzare i conti entro fine dicembre.
Conti pubblici, Piemonte in rosso per 5,8 miliardi. Chiamparino: “Governo intervenga o non chiudiamo il bilancio”. Il disavanzo rilevato dalla Corte dei Conti nasce dall'uso illegittimo dei fondi girati dal governo all'ente perché pagasse i debiti ai fornitori. Ora per coprirlo la regione paga una rata di 800 milioni l'anno. Dopo lo stop del Colle al decreto con cui l'esecutivo voleva metterci una pezza, la norma è stata ora inserita nella Stabilità. Ma secondo il governatore non si può aspettare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 ottobre 2015. Il disavanzo della regione Piemonte è salito l’anno scorso a oltre 5,8 miliardi di euro dai 5 del 2013. Lo ha certificato la Corte dei Conti, nel giudizio di parificazione del bilancio 2014 arrivato a venti giorni dallo stop del Quirinale al decreto “salva Regioni” messo a punto dal governo. Il governatore Sergio Chiamparino torna a sollecitare “un intervento legislativo urgente”, senza il quale, avverte, “non saremo in grado di fare un bilancio”. Ma un escamotage contabile come quello che era stato messo a punto da Tesoro e Palazzo Chigi non potrà comunque risolvere il problema di fondo: l’ente deve far fronte a una rata annuale di 800 milioni, che “su un bilancio di 400 milioni è praticamente impossibile”, come ha fatto presente l’esponente Pd che presiede anche la conferenza dei governatori. I magistrati della sezione regionale di controllo dal canto loro hanno avvertito che “la situazione finanziaria potrebbe ancora peggiorare” e per questo “appare auspicabile un decisivo intervento legislativo che preveda per la Regione Piemonte un piano di rientro che sia economicamente sostenibile e che al tempo stesso non blocchi gli investimenti necessari per il rilancio dell’economia piemontese”. A lasciare a Chiamparino la patata bollente, stando alla sentenza emessa lo scorso luglio dalla Corte costituzionale, è stata la giunta di Roberto Cota, in carica fino al giugno 2014: secondo la Consulta ha utilizzato in modo “improprio”, cioè per finanziare nuove spese, i fondi che lo Stato aveva girato all’ente per rimborsare i debiti arretrati nei confronti dei fornitori. Risultato: un “allargamento oltre i limiti di legge della spesa di competenza, l’alterazione del risultato di amministrazione e la mancata copertura del deficit”. Così a settembre la Corte dei conti ha certificato che nel 2013 il disavanzo si è attestato a quota 5 miliardi, contro i 360 milioni dichiarati. Nel frattempo, il servizio del debito ha fatto salire ulteriormente il conto. Per “salvare” Chiamparino ma anche gli altri governatori con problemi simili, il Tesoro e Palazzo Chigi intendevano consentire alle regioni di mettere a bilancio ogni anno i soldi ricevuti dallo Stato anche tra le entrate, indicando però come spesa effettiva solo la quota da rimborsare in quell’esercizio. Un trucco che avrebbe mascherato il problema senza risolverlo e che non è piaciuto a Sergio Mattarella: i dubbi del Colle, che ha chiesto “approfondimenti”, hanno impedito che il 29 settembre il Consiglio dei ministri varasse il provvedimento. Così il governo ha rinviato l’intervento alla legge di Stabilità, che però entrerà in vigore solo l’1 gennaio 2016. “Così al momento non ci serve a nulla”, hanno spiegato il governatore e l’assessore al Bilancio Aldo Reschigna davanti ai giudici contabili. Ora Chiamparino non solo chiede al governo di muoversi con urgenza, ma contesta anche i calcoli della Corte dei Conti. Sostenendo che circa 3,9 miliardi su 5,8 dipendono dalla “errata interpretazione” del decreto 35 del 2013, quello con le norme per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Interpretazione dichiarata illegittima dalla Consulta. “Se si risolvesse questo problema – ha detto Reschigna – resterebbe un debito di 1,3 miliardi e con una rata annuale di 230 milioni: una cifra che ci fa ugualmente venire i brividi, ma è un impegno che dobbiamo assumerci come amministrazione regionale”.
“Il Piemonte è tecnicamente fallito”: parola dell’assessore alla Sanità della Giunta Cota. Dopo lo scandalo delle autocertificazioni, nuova tegola sul governatore leghista: il responsabile regionale alla salute Paolo Monferino ha dichiarato che Palazzo Lascaris è sull'orlo del default per un debito di 6,4 miliardi di euro. Il presidente sta cercando una via d'uscita, le opposizioni lo attaccano, scriveva Stefano Caselli il 19 ottobre 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La Regione Piemonte è tecnicamente fallita”. Non bastava lo scandalo delle autocertificazioni (migliaia di euro netti in busta paga rimborsati a decine di consiglieri per non meglio precisate ‘missioni sul territorio’), ora arrivano le secche parole dell’assessore alla Sanità Paolo Monferino che colpiscono come uno schiaffone i membri della Commissione Bilancio di Palazzo Lascaris. Il Piemonte, insomma è sull’orlo del default e a poco servono le precisazioni dell’entourage del presidente Roberto Cota, secondo cui le parole dell’assessore non sarebbero altro che “un’esortazione a non far più finta di niente”. Monferino è uomo misurato (a differenza di tutti i suoi colleghi non ha mai chiesto un euro di rimborso) e il suo ingresso nella Giunta Cota risale all’agosto 2011, quando subentrò a Caterina Ferrero del Pdl, arrestata e rinviata a giudizio per una locale ‘sanitopoli’ nonché nuora di Nevio Coral, ex sindaco di Leinì sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa (proprio ieri a Torino si è aperto il maxiprocesso per l’operazione ‘Minotauro‘). Se arriva a dichiarare default, dunque, c’è da credergli. La drammatica situazione dei conti della Regione (6,4 miliardi di euro, ma potrebbero essere di più) non è infatti una novità. Come non è una novità che altre amministrazioni nello stesso territorio siano sull’orlo o già oltre il collasso: il comune di Alessandria è stato dichiarato in dissesto finanziario dalla Corte dei Conti, il capoluogo Torino è alle prese con un debito miliardario che ne condiziona le possibilità di spesa. Il grosso del buco – i cui meriti vanno equamente suddivisi tra le amministrazioni Ghigo (centrodestra), Bresso (centrosinistra) e Cota – riguarda ovviamente la sanità, le cui voci di spesa coprono i tre quarti del bilancio regionale. In particolare è critica l’esposizione debitoria delle Asl (ci sono fornitori che attendono pagamenti da oltre un anno) per quanto spesso sia stata mascherata con il rodato maquillage delle voci di cassa e di competenza. Oggi è in programma una conferenza stampa di Cota e dell’assessore Monferino. Il presidente potrebbe chiedere al Consiglio e alla giunta una delega in bianco per scongiurare il commissariamento, ma dovrà affrontare la richiesta di dimissioni avanzata dal Pd: “Siamo arrivati a questo – dichiara il capogruppo Aldo Reschigna – perché questa amministrazione ha elaborato un bilancio 2012 non veritiero, se ne occuperà la Corte dei conti, ma nell’assestamento di bilancio sposta sul 2013 volumi importanti di spesa sostenuta nel 2012 per oltre 400 milioni. Non è un bilancio tecnicamente falso, ma poco ci manca. Il debito della Regione non è certo storia di questi ultimi due anni, arriva da Ghigo e, sia chiaro, anche da Bresso. Ma con questa Giunta non è diminuito, anzi. Questa è responsabilità politica”. Ma Cota dovrà affrontare soprattutto, i malumori interni alla già litigiosa maggioranza di centrodestra. L’assessore alla Sanità proporrà un piano di risanamento con “la costituzione di un fondo chiuso immobiliare sul patrimonio regionale disponibile”, in pratica saranno messi in vendita gli immobili di proprietà, sedi istituzionali e ospedali. Il Movimento 5 Stelle, l’unica forza politica di una certa consistenza che non abbia governato il Piemonte negli ultimi 12 anni, attacca: “Il default? – dichiara il capogruppo Davide Bono – noi lo diciamo da due anni”.
DECENNI DI 'NDRANGHETA. BRUNO CACCIA E LA TORINO CRIMINALE.
Delitto Bruno Caccia, l’avvocato Repici: “Depistaggio simile a quello di via D’Amelio. Cambiano solo le latitudini”, scrive Simone Bauducco il 16 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Badate a quanto le latitudini cambino il senso delle cose: in Sicilia l’intervento del Sisde, nelle indagini di via d’Amelio, è sinonimo di depistaggio, mentre a Torino per l’omicidio Caccia, l’autorità giudiziaria ha rivendicato pubblicamente di aver incaricato il Sisde per svolgere le indagini, abusivamente”. A 35 anni dalla morte del procuratore Bruno Caccia, la famiglia del giudice, insieme al legale Fabio Repici, continua a chiedere che si faccia chiarezza sul delitto. Durante l’audizione in conferenza capogruppo al comune di Torino, il legale che segue anche la famiglia Borsellino nel processo Borsellino quater, ha evidenziato i punti ancora oscuri della vicenda: “L’omicidio di Bruno Caccia ha pagato pesanti depistaggi: si tratta dell’unico delitto nella storia della Repubblica dove le indagini sono state subappaltate dallo Stato a un mafioso detenuto, Francesco Miano, incaricato appositamente da un funzionario del Sisde”. Ad oggi, per il delitto Caccia sono stati condannati in via definitiva il boss Domenico Belfiore come mandante e in primo grado Rocco Schirripa come esecutore materiale. “C’è un’area di interessi e di concause che hanno portato all’omicidio Caccia che non si è voluto in nessun modo porre sotto la dovuta luce, si è voluto costruire una versione che è palesemente falsa derubricandola a vendetta privata di Domenico Belfiore e del suo gruppetto mafioso, ma nessuno ha voluto ne saputo accertare in sede giudiziaria la causale del delitto”.
Delitto Caccia, «Lacune nelle indagini». Il pg contro i pm: no all’archiviazione. La Procura Generale di Milano avoca l’inchiesta sul procuratore di Torino ucciso nel ‘83. «Mai sentiti i parenti», scrive Luigi Ferrarella il 23 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". L’avocazione a sorpresa dell’ultima indagine (con la Procura Generale di Milano che ieri la toglie alla Procura della Repubblica per l’asserita «non effettività» dell’investigazione) determina l’ennesimo colpo di scena giudiziario attorno all’omicidio, la sera del 26 giugno 1983, dell’allora procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, unico magistrato ucciso al Nord Italia dalla criminalità organizzata. Appena nel luglio dell’anno scorso, a 34 anni di distanza, il pool antimafia milanese, diretto allora da Ilda Boccassini, aveva ottenuto la condanna all’ergastolo di un panettiere calabrese, Rocco Schirripa, 64 anni, individuato nel 2015 come uno dei due esecutori materiali del delitto per il quale nel 1989 come mandante era già stato condannato all’ergastolo il boss di ‘ndrangheta Domenico Belfiore. Ieri la gip Stefania Pepe avrebbe dovuto esprimersi sulla richiesta dei pm di archiviare l’indagine sollecitata dalla famiglia del magistrato nei confronti di un indagato nel processo torinese di ‘ndrangheta «Minotauro», lì condannato a 9 anni per associazione mafiosa: Francesco D’Onofrio, per il quale il 18 maggio 2018 il pm milanese Paola Biondolillo (del pool ora guidato da Alessandra Dolci) aveva appunto chiesto l’archiviazione del fascicolo iscritto l’11 novembre 2016 dopo che il collaboratore di giustizia Domenico Agresta, in un verbale reso ai pm torinesi nell’ottobre 2016, aveva detto di aver appreso in carcere dal padre Saverio e da Aldo Cosimo Crea che «a farsi il procuratore» Caccia fossero stati Schirripa e D’Onofrio. Ma, a sorpresa, in aula ieri a rappresentare l’accusa al proprio posto la pm Paola Biondolillo trova un collega della Procura Generale, Galileo Proietto: che revoca la richiesta di archiviazione in forza di un provvedimento di avocazione dell’indagine recante la data dell’altro ieri e il visto del procuratore generale Roberto Alfonso, depositato in udienza alla gip ma sino ad allora né notificato né anticipato informalmente al procuratore Francesco Greco o al suo vice Dolci o alla pm titolare. Per la Procura della Repubblica, infatti, «nessun elemento di riscontro» ad Agresta era emerso né dai testi del processo a Schirripa, né dalle intercettazioni della Squadra Mobile di Torino (d’intesa con Milano) nel dicembre 2017/gennaio 2018 su D’Onofrio e sulla sua compagna, né dall’interrogatorio milanese di D’Onofrio il 6 marzo 2017.Al contrario per la Procura Generale (alla seconda avocazione di peso dopo quella nel caso Expo sul sindaco Beppe Sala), a parte l’interrogatorio di D’Onofrio, «è mancata una reale attività di indagine nei suoi confronti». Per esempio i familiari di Caccia «non risultano essere mai stati sentiti» su due episodi, come più volte chiesto dal loro avvocato di parte civile Fabio Repici, convinto che l’omicidio del procuratore di Torino debba essere inquadrato all’interno delle indagini (e anche dei rapporti con altre toghe invece opache) che l’«inavvicinabile» magistrato stava svolgendo sui «colletti bianchi» coinvolti nel riciclaggio di denaro della mafia catanese di Nitto Santapaola al Casinò di Saint Vincent. Il primo episodio sarebbe una lettera anonima indicante il nome di un detenuto che potrebbe «dirvi tutto». Il secondo è riportato dal libro «Tutti i nemici del Procuratore» scritto dal viceprocuratore onorario torinese Paola Bellone: lo scatto di nervi di Caccia («voi non capite, io rischio la vita») un giorno che i familiari gli chiedevano di abbassare il volume della radio dalla quale stava ascoltando una notizia.
"Sparai all'uomo sbagliato, lo scoprii dal giornale". Torino, risolto dopo 30 anni l'omicidio Rizzi. Vincenzo Pavia, il killer della famiglia Belfiore, ha ammesso di aver colpito la persona sbagliata per uno scambio di persona, scrive Gioele Anni, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Scoprì di aver ucciso l'uomo sbagliato solo la mattina dopo, leggendo il giornale. Ma per più di trent'anni mantenne il segreto. È la terribile storia confessata da Vincenzo Pavia, ex collaboratore di giustizia che negli anni Ottanta agiva a Torino come killer per il gruppo criminale guidato da Salvatore Belfiore. La vittima, Roberto Rizzi, somigliava a un altro uomo rivale del clan dei Belfiore. Si risolve così un giallo mai chiarito: l'assassinio di Rizzi era avvolto nel mistero. I fatti risalgono al 20 maggio 1987. Vincenzo Pavia, accompagnato da Saverio Saffioti, un altro membro della banda, entra nel bar 'I Tre Moschettieri' di via Pollenzo 37 a Torino. È convinto di trovarci un rivale, Francesco Di Gennaro detto 'Franco il rosso'. Invece nel locale c'è Rizzi, che con Di Gennaro ha una certa somiglianza. Pavia va a colpo sicuro: spara un colpo alla testa dell'uomo, poi torna in auto e scappa con il complice. Solo l'indomani si accorgerà dello scambio di persona. Soltanto pochi mesi fa, a giugno, Pavia ha confessato alla Polizia anche questo omicidio. Negli anni '90 ne aveva già ammessi 8, compiuti per i Belfiore di cui era il killer. Dell'omicidio Rizzi risponderà solo lo stesso Pavia: il complice Saffioti, infatti, è stato ucciso nel 1992 proprio su ordine dell'ex alleato Salvatore Belfiore. Francesco Di Gennaro, invece, sarà comunque ucciso sempre nello stesso bar ad agosto del 1988. Tra i vari crimini in cui è coinvolta la famiglia Belfiore c'è anche l'l’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia, nel giugno 1983.
Bruno Caccia, un omicidio senza giustizia. La famiglia del magistrato ucciso nell’83 accusa: «L’indagine di Milano non ha trovato i veri colpevoli. E il caso va riaperto». La controinchiesta commissionata dai figli arriva a conclusioni precise: non è stato soltanto un delitto di ’ndrangheta, scrive Fabrizio Gatti il 03 aprile 2017 su "L'Espresso". I fantasmi di quei temibili anni Ottanta riaffiorano ovunque. Perfino negli oggetti di cui a Milano è disseminata l’aula della Corte d’assise: il televisore Philips a tubo catodico da cui gracchia la testimonianza del pentito Vincenzo Pavia, il pavimento di linoleum con le venature rosse finto marmo, la vernice delle sbarre consumata da tre decenni di tormenti all’altezza delle mani. Riportano a quell’epoca anche i quadretti rossi e bianchi che dentro la gabbia danno un tocco roseo alla camicia di Rocco Schirripa, 63 anni, l’unico imputato: il panettiere calabrese nato a Gioiosa Ionica è accusato di essere uno dei due killer che spararono al procuratore di Torino, Bruno Caccia, assassinato sotto casa la sera di domenica 26 giugno 1983, in uno dei periodi più sanguinosi della Guerra fredda italiana. Sul processo in corso in questi giorni a Milano si è diviso un pezzo di magistratura. Da una parte il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Ilda Boccassini, il suo sostituto procuratore Marcello Tatangelo, ma anche il presidente della Corte d’assise, Ilio Mannucci Pacini e il giudice a latere, Ilaria Simi de Burgis, convinti che dietro l’agguato ci sia soltanto la ’ndrangheta. Dall’altra, i figli di Bruno Caccia e il loro consulente Mario Vaudano, magistrato legato alle indagini più delicate contro criminalità e corruzione, che con una dettagliata controinchiesta hanno evidenziato il coinvolgimento della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint-Vincent i guadagni della droga e dei sequestri di persona. Quella della famiglia Caccia è una denuncia circostanziata, che riporta la testimonianza di un altro storico sostituto procuratore milanese, Margherita Taddei: eppure per ben due volte la Dda l’ha invece iscritta tra gli atti non costituenti notizia di reato, tanto da provocare l’intervento severo del procuratore generale reggente, Laura Bertolè Viale, sull’ufficio di Ilda Boccassini. Proprio davanti ai giudici, sul banco della Corte d’assise, torreggia il faldone con le carte delle indagini. Lì in mezzo è depositato il foglio numero 507, verbale di istruzione sommaria che è già uno spartiacque: «Era accaduto», racconta il primo marzo 1984 Bruno Masi, amministratore delegato del casinò di Saint-Vincent, interrogato dall’allora sostituto procuratore Francesco Di Maggio, «che dovendo organizzare un convegno di magistrati sul tema magistratura e potere, insieme con il dottor Simi de Burgis, procuratore della Repubblica di Voghera, manifestai anche a costui le mie preoccupazioni circa l’opportunità di occuparmi io della organizzazione... Ricordo in una occasione, nel mese di settembre, che il dottor de Burgis, commentando con me la vicenda nella quale ero rimasto coinvolto, ipotizzò che mi si potesse attribuire (disse testualmente “quale novello Mefisto”) tutti i mali della Valle d’Aosta e comunque la responsabilità dell’attentato al dottor Selis e dell’assassinio del procuratore della Repubblica di Torino, dottor Caccia». L’allora procuratore di Voghera, Romeo Simi de Burgis, poi assolto in istruttoria con formula piena dalle accuse del boss catanese Angelo Epaminonda, è il papà del giudice a latere nel processo a Rocco Schirripa. È questo il terzo dibattimento sull’omicidio del procuratore Caccia. Il primo si è concluso con una sentenza passata in giudicato nel 1992: ergastolo come mandante per il capoclan della ’ndrangheta Domenico Belfiore, esecutori rimasti sconosciuti e il movente piuttosto generico secondo cui il magistrato è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Il secondo processo, interrotto per un grave vizio procedurale nel 2016, è quello contro Schirripa: un cognome indicato trentadue anni dopo l’omicidio in una lettera anonima autorizzata dalla procura di Milano e spedita dalla squadra mobile di Torino al boss Belfiore. Il terzo processo, l’attuale, è il replay che deve rimediare al vizio procedurale. Indizi e prove, fantasmi e mostri di quegli anni Ottanta resteranno comunque fuori dalle nuove udienze. Lo ha deciso la Corte d’assise con un’ordinanza che addirittura circoscrive la futura testimonianza dei figli di Bruno Caccia «limitatamente al loro ruolo di danneggiati». Il pubblico ministero Tatangelo e gli stessi giudici condividono la premessa secondo cui nessuno può mettere in discussione la sentenza definitiva su mandante e movente. E nemmeno la stessa attività investigativa di Francesco Di Maggio, morto nel 1996, magistrato che molti famosi colleghi di oggi considerano il loro maestro. Così, ancora una volta, Guido Caccia molto probabilmente non potrà riferire in aula quello che il padre gli ha confidato poche ore prima di essere ucciso. La famiglia del procuratore assassinato, grazie a un’indagine difensiva affidata all’avvocato Fabio Repici e al magistrato in congedo Mario Vaudano, ha infatti scoperto che Belfiore e la ’ndrangheta sono soltanto una parte della trama. Sopra di loro e accanto a loro si muoveva la mafia catanese che a Milano, Torino e Saint-Vincent in quegli anni rispondeva a Nitto Santapaola, ora in carcere a vita per le stragi di Cosa nostra. Il consorzio tra ’ndrangheta e mafia aveva un interesse comune: riciclare attraverso l’ufficio cambi del casinò della Valle d’Aosta i miliardi di lire incassati con i riscatti dei sequestri di persona e il colossale traffico di droga verso la Francia. Un piano che, se scoperto, avrebbe portato alla chiusura della casa da gioco.
Non è una pista alternativa, ma integrativa della condanna contro Belfiore: perché è già tutto scritto negli atti del primo processo, anche se poi la sentenza si è accontentata di una diversa valutazione. Per questo i figli Guido, Cristina e Paola Caccia hanno chiesto nuove indagini sui due nomi già identificati nero su bianco nelle carte depositate. Il primo nome, come ipotetico mandante, è Rosario “Saro” Cattafi: 65 anni, ex estremista di destra, ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sempre sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan Santapaola o viceversa, attualmente è imputato a piede libero in un procedimento per associazione mafiosa. L’altro, denunciato come ipotetico killer, è Demetrio Latella, 63 anni, Luciano per amici ed ex complici: già fornitore di pezzi di ricambio alla marina militare e alla guardia di finanza, in quegli anni sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino, Latella è un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent’anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti. La ragazza di 18 anni, rapita nel 1975 in provincia di Como, uccisa nonostante i genitori avessero pagato il riscatto di un miliardo. Dopo anni di ricerche negli archivi giudiziari, la famiglia Caccia presenta la sua prima denuncia nell’estate 2013. E la Direzione distrettuale antimafia, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, dimostra subito di non condividere la richiesta di nuove indagini, rese invece possibili dall’esistenza in vita di gran parte dei protagonisti. Pur trattandosi dell’omicidio di un magistrato, la denuncia è iscritta dalla Dda milanese a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Un trattamento di solito riservato a esposti palesemente inventati come l’eventuale furto del Colosseo, che permette l’archiviazione da parte della Procura senza sottoporre il caso all’esame di un giudice. Infatti la prima denuncia viene archiviata. Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono. Raccolgono altre notizie e testimonianze. E nell’estate 2014 consegnano alla Procura di Milano la seconda denuncia aggiornata con i nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Dda iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il consulente della famiglia, il magistrato Mario Vaudano, si rivolge alla Procura generale e ottiene l’intervento severo dell’allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. Si scopre così che il pm Tatangelo ha eseguito le direttive del procuratore aggiunto Boccassini e la prassi della Procura di Torino, da dove Tatangelo proviene. Solo grazie al rimprovero della Procura generale, Cattafi e Latella vengono finalmente iscritti nel registro degli indagati. Da lì a qualche mese, però, a fine 2015 Ilda Boccassini annuncia a sorpresa l’arresto del panettiere Rocco Schirripa. Mentre a fine gennaio di quest’anno il pm Tatangelo chiede l’archiviazione per Cattafi e Latella. Richiesta contro cui la famiglia Caccia ha presentato opposizione.
Il convincimento di un magistrato è insindacabile al di fuori dei riti del giudizio. Ma le osservazioni dei figli del procuratore assassinato sulle scelte investigative dell’allora pubblico ministero, Francesco Di Maggio, trovano conferma nelle migliaia di pagine, che L’Espresso ha potuto esaminare: «Il pm aveva raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo», spiega l’avvocato Repici: «La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento». Secondo gli atti depositati dallo stesso Di Maggio e dai colleghi di allora, la mafia comincia a colpire il 13 dicembre 1982. Giovanni Selis, 45 anni, pretore di Aosta, tira la levetta di accensione della sua 500 e l’auto esplode. Il magistrato resta incredibilmente illeso. La sera del 17 dicembre provano ad ammazzarlo sotto casa. Suonano al citofono per farlo uscire. Lui si insospettisce e si chiude dentro. In tutte e due le azioni, viene segnalata un’auto verde con targa francese. Anche l’esplosivo era di produzione francese. Da settembre Selis sta indagando sul casinò di Saint-Vincent: «Come possibile movente», mette a verbale il pretore davanti al sostituto procuratore di Milano, Corrado Carnevali, «richiamo le indagini che avevo in corso presso la casa da gioco... in particolare tra l’ufficio fidi della casa e taluni prestasoldi. Da tempo mi ero interessato all’attività di taluni personaggi. Mi riferisco in particolare a un certo avvocato Valentini di Milano... Aggiungo ancora che una specifica indagine demandata alla guardia di finanza aveva a oggetto l’individuazione della causale di un assegno emesso da un certo ingegner Mariani in favore di Masi, amministratore delegato della Sitav, società che ha la gestione del casinò». «Dopo l’attentato ai miei danni», aggiunge Selis, «mi telefonò il collega Marcello Maddalena, sostituto procuratore a Torino, chiedendomi un colloquio riservato. In esito a questo colloquio sono legato al segreto istruttorio. Posso però affermare che potrebbe sussistere un collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena, aventi a oggetto riciclaggio di denaro proveniente da sequestri di persona». Nella primavera 1983 il genero del procuratore Caccia, Gianvi Fracastoro, oggi professore al Politecnico di Torino, viene contattato da un ex compagno di scuola conosciuto durante gli studi a Catania.
L’amico ritrovato, Ettore Impellizzeri, una sera lo invita al ristorante “Giudice”, fuori città. Si presenta su una Porsche. A cena Impellizzeri gli rivela di conoscere Nitto Santapaola. E dice che in caso di furto dell’auto, il boss gliel’avrebbe fatta restituire. Poi a bruciapelo l’ex compagno di scuola chiede se il dottor Caccia è avvicinabile: «È uno con cui si può parlare?». Il genero del procuratore non risponde. Lì per lì pensa a una smargiassata. Dopo l’omicidio, l’amico ritrovato non si farà più sentire. Dal 17 maggio al 13 giugno di quell’anno, Bruno Caccia affida al suo sostituto Maddalena le indagini e il sequestro della documentazione sui conti correnti del casinò di Saint-Vincent, dei suoi amministratori e di alcuni cambiavalute. La guardia di finanza passa al setaccio uffici, case e banche, tra cui le sedi di Novara, Aosta e Milano della Banca Popolare di Novara. I mandati di perquisizione sono inequivocabili. Quei verbali ancora oggi ci ricordano che indagando sul riscatto per il sequestro degli imprenditori Tullio Fattorusso e Lorenzo Crosetto «risulta come le operazioni di riciclaggio venissero effettuate presso il casinò di Saint-Vincent, attraverso un meccanismo che potrebbe coinvolgere responsabilità di persone che operano sia all’interno che all’esterno del casinò, in qualità di cambiavalute o addirittura come responsabili dell’ufficio fidi». In quegli stessi giorni ad Alessandria si incontrano per parlarne quattro persone: l’amministratore delegato del casinò Masi; Franco Mariani, l’ingegnere messo sotto inchiesta dal pretore Selis nonché commerciante di armamenti e produttore di motori per i mezzi delle forze armate; il suo collaboratore Rosario “Saro” Cattafi e il capitano Rossi, alias Enrico Mezzani, un informatore del Sisde, il servizio segreto interno, in contatto con la guardia di finanza. Secondo Cattafi, poi interrogato da Di Maggio, Masi era alla ricerca di qualcuno ben introdotto nelle istituzioni capace di bloccare l’iniziativa giudiziaria: «Era anche preoccupato per talune pressioni che, nel corso della cena, disse di avere ricevuto da ambienti siciliani che avevano di mira l’accaparramento dell’ufficio cambi del casinò», sostiene Cattafi. Senza però rivelare che quegli “ambienti siciliani” sono i suoi. Lo racconterà mesi dopo, sempre a Di Maggio, il primo boss pentito Angelo Epaminonda: «Saro, un siciliano, sui 35 anni: dopo i primi convenevoli, nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società con altra persona ben introdotta nel casinò di Saint-Vincent e che si poteva impiantare nel casinò il lavoro del cambio assegni». Il pomeriggio di domenica 26 giugno, poche ore prima dell’agguato, Bruno Caccia e la moglie Carla Ferrari vanno a casa del figlio Guido. Hanno ospitato i nipotini nel fine settimana e gli riportano i bambini: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia di sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l’assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora. Ma su questo non sono mai stato interrogato».
Quasi quattro mesi dopo l’omicidio del procuratore, il 13 ottobre, l’avvocato di Milano Giuseppe Valentini, lo stesso su cui stava indagando il pretore Selis, scrive all’amministratore del casinò, Bruno Masi: «Colgo l’occasione per comunicarle, unicamente per sua informativa, che ieri ho ricevuto inaspettatamente la visita del signor Saro Cattafi, il quale si è preoccupato di notiziarmi di aver avuto da Lei impegno preciso ed inderogabile di autorizzare suoi amici di essere ammessi all’interno delle sale da gioco del casinò de La Vallè, con la esclusiva funzione di prestare denaro ai giocatori e ciò in cambio di un non precisato favore da lei richiesto e dal signor Cattafi esaudito». Il 7 novembre, l’avvocato Valentini scrive a Masi una nuova lettera, ancor più allusiva: «Non ritengo che io Le abbia mai estorto denaro o richiestoLe in mio favore un ingiusto profitto minacciandoLa di svelare cose o fatti per Lei compromettenti, soprattutto perché non ritengo che Lei abbia delle “verità” o “dei fatti” compromettenti sui quali vuol mantenere il segreto e che siano a mia conoscenza». Qualche giorno prima, il 3 novembre, l’ingegner Mariani, il compare commerciale di Cattafi, attraverso l’informatore del Sisde Mezzani fa arrivare alla guardia di finanza un rapporto riservato sull’omicidio del procuratore. Non sono stati i calabresi a volerlo morto ma i catanesi di Nitto Santapaola, rivela Mariani, rappresentati a Torino e Milano da Luigi “Gimmi” Miano e da Angelo Epaminonda: «Sempre come sfondo vi è la questione (come giustamente il pretore Selis pensa) inerente Saint-Vincent, Sanremo e Campione. Caccia si era confidato con un avvocato dicendo che poteva tra poco procedere contro i tre casinò. Era certo che tutti i soldi sporchi erano cambiati nei tre casinò... Il numero uno dei killer è un calabrese di nome Luciano legato al clan Santapaola... Al momento c’era in gioco l’asta di Sanremo e qualche improvviso scandalo con conseguenti arresti poteva essere di enorme danno». Preso a verbale l’anno dopo da Di Maggio, Mariani conferma le informazioni. Dice di averle ricevute da Cattafi. E aggiunge che Luciano, l’assassino del procuratore Bruno Caccia, è proprio Demetrio Latella.
Cattafi e Mariani, comunque sempre usciti indenni dalle indagini, vengono nel frattempo intercettati per il sequestro di un altro imprenditore, Mario Airaghi. Il giudice istruttore Margherita Taddei, oggi magistrato alla Corte di cassazione, dispone la perizia sulle telefonate e la trascrizione delle conversazioni. Ma viene fermata dal pm Di Maggio. È il 23 maggio 1984. Rispondendo alle domande del difensore della famiglia Caccia, Margherita Taddei ammette di avere un netto ricordo di quell’iniziativa anomala. Sono parole sue. Mette anche a verbale di essere assolutamente certa che Di Maggio non fosse il pubblico ministero titolare del procedimento: «Ricevetti la visita nel mio ufficio da parte del dottor Di Maggio, che nell’occasione era accompagnato dal dottor Francesco Saverio Borrelli, allora procuratore aggiunto. Il dottor Di Maggio venne per chiedermi di soprassedere dalla trascrizione delle intercettazioni disposte nei confronti di Mariani e Cattafi. Io fui molto sorpresa dall’intervento del dottor Di Maggio... A dire il vero quella richiesta mi lasciò parecchio esterrefatta. Già su quelle intercettazioni, eseguite dai carabinieri del nucleo operativo, avevo rilevato qualche stranezza. Ma davanti alla richiesta del dottor Di Maggio, supportata anche con la sua sola presenza dal procuratore aggiunto Borrelli, per esigenze di indagine che mi vennero rappresentate come particolarmente importanti, non potei che revocare l’imminente perizia». L’intervento di Borrelli, il futuro procuratore di Mani pulite, è stato evidentemente richiesto da Di Maggio che, da quello che si legge nella sua nota riservata consegnata personalmente al giudice Taddei, sta indagando su un «fatto di eccezionale gravità»: non fa nomi, ma tutti i colleghi sanno che la sua indagine più delicata in quel periodo è proprio l’omicidio di Bruno Caccia. Nel 2009 ancora un colpo di scena. Il magistrato Olindo Canali, oggi giudice al Tribunale di Milano e negli anni Ottanta, come uditore, spesso accanto a Francesco Di Maggio nell’indagine sull’agguato al procuratore di Torino, riferisce una frase che potrebbe far riaprire il caso. Il giudice Canali la pronuncia in una telefonata intercettata e poi la conferma in tutti i procedimenti per mafia in cui è chiamato a testimoniare: «Quel Saro Cattafi in cui trovammo in casa la rivendicazione dell’omicidio del giudice Caccia fatta dalle Br, che in realtà poi sappiamo fu ucciso dai calabresi e dai catanesi», dice nel mezzo di un discorso. La fonte di Canali è sempre Di Maggio. Ma oggi si scopre che, diversamente dalla prassi, i carabinieri del nucleo operativo di allora non hanno fotocopiato i documenti sequestrati a Saro Cattafi: nemmeno le «agende personali» o gli «otto fogli manoscritti», elencati nel verbale e restituiti con tutto il resto al proprietario. Così non ne restano copie. Il 1983 italiano, cominciato con l’assassinio vicino a Trapani del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, si conclude con lo stop all’inchiesta del giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. Ciaccio Montalto, Caccia, Palermo hanno aggredito la piovra lungo i suoi tentacoli più pericolosi: quello economico e quello politico. Bisognerà aspettare altri dieci anni, la reazione alle stragi del 1992 e ’93, prima che quella sacra alleanza si spezzi. «Dai morti non ci difendiamo, non c’è niente da fare», dice il giudice Olindo Canali nella telefonata del 2009, «e neanche da ciò che i morti ci dicono con la bocca dei vivi, non ci possiamo difendere». L’importante, però, è saperli ascoltare.
Omicidio Caccia, un giallo senza finale. «Ignorate le indicazioni della famiglia». Mario Vaudano, ex collega del procuratore assassinato: respinte da Ilda Boccassini le richieste di indagini formulate dai figli. Inchiesta trasferita d'autorità alla Procura generale. I misteri sul ruolo del Sisde, scrive Fabrizio Gatti il 29 novembre 2018 su "L'Espresso". 1983. Funerali del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. L'omicidio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, da trentacinque anni attende giustizia. L'ultimo colpo di scena è della scorsa settimana: la Procura generale ha avocato l'inchiesta togliendola alla Procura di Milano per presunte lacune nelle indagini. La versione ufficiale circolata nel Palazzo di giustizia sostiene che l'attuale capo della Direzione distrettuale antimafia (Dda), Alessandra Dolci, e il sostituto procuratore Paola Biondolillo abbiano chiesto l'archiviazione del fascicolo, senza approfondire il ruolo di Paolo D'Onofrio, indagato come esecutore dell'agguato. Un fascicolo aperto dal precedente capo della Dda, Ilda Boccassini, e affidato al pubblico ministero, Marcello Tatangelo. Ma non è andata esattamente così. La realtà dei fatti è stata ripristinata da Mario Vaudano, storico giudice istruttore di Torino, nonché amico e allora "discepolo" di Bruno Caccia. Alessandra Dolci ha infatti ereditato l'inchiesta da Ilda Boccassini quando il termine per le indagini era già scaduto: quindi non poteva fare altro che chiederne l'archiviazione. Vaudano è intervenuto sulla pagina Facebook dedicata ad Agnese Borsellino, moglie di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso dalla mafia con la sua scorta nella strage di via D'Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. «Per correttezza di informazione», scrive Vaudano, ora in congedo per limiti d'età, «devo indicare che si menziona il merito dei magistrati inquirenti Boccassini e Tatangelo. Tuttavia la responsabilità delle indagini lacunose a cui è dovuta l'avocazione (da parte della Procura generale, ndr) è stata di questi stessi e non dei loro successori. Purtroppo la precedente gestione della Direzione distrettuale antimafia aveva infatti respinto tutte le richieste di indagini formulate con precisione dalla parte civile, la famiglia Caccia e dall'avvocato Repici». Aggiunge l'ex giudice istruttore: «È sempre difficile e talora molto triste, ma deve essere detto per onestà intellettuale. Il ruolo dei veri amici è di dire anche quello che non si condivide. Anche da parte di uno come me che vanta una lunga amicizia con Ilda Boccassini...». Sull'omicidio del procuratore di Torino, assassinato a 65 anni il 26 giugno 1983, alla vigilia di una colossale indagine sul riciclaggio degli incassi della mafia catanese nei casinò italiani, si sono celebrati tre processi. L'ultimo si è concluso lo scorso anno con la condanna all'ergastolo del panettiere Rocco Schirripa, 64 anni, che l'inchiesta condotta dal pm Tatangelo indica come uno degli esecutori. Il secondo procedimento, sempre contro Schirripa, era stato interrotto per vizi procedurali. Il primo processo era invece terminato con una sentenza passata in giudicato nel 1992: condanna a vita come mandante per il capoclan della 'ndrangheta, Domenico Belfiore, e il movente piuttosto generico secondo cui Bruno Caccia è stato ucciso perché non si era piegato alle pressioni della criminalità. Sia Tatangelo, sia l'allora capo della Dda, Ilda Boccassini, non hanno invece trovato riscontri sul presunto coinvolgimento di Francesco D'Onofrio, ex militante dell'organizzazione terroristica “Comunisti organizzati per la liberazione proletaria” e oggi accusato di essere un affiliato alla 'ndrangheta torinese, tuttora in attesa del giudizio in Appello per il processo “Minotauro”. Di lui aveva parlato un collaboratore, Domenico Agresta, riferendo notizie apprese in carcere secondo le quali Schirripa e D'Onofrio sono gli assassini del procuratore. Bruno Caccia è l'unico magistrato ucciso dalla criminalità organizzata al Nord. I processi si sono svolti a Milano, poiché è il Tribunale competente per i reati che coinvolgono i pubblici ministeri e i giudici del distretto torinese. Ma esiste un ulteriore fascicolo per il quale il pm Tatangelo con il visto del capo Boccassini ha chiesto l'archiviazione, senza sentire i testimoni segnalati: è la denuncia circostanziata presentata dai figli del procuratore assassinato nei confronti di Rosario “Saro” Cattafi, 66 anni, indicato come presunto mandante, e Demetrio “Luciano” Latella, 64 anni, descritto come uno degli esecutori. Cattafi è un ex intermediario tra industrie e governi nella compravendita di armamenti, sospettato di essere l’ambasciatore degli affari di Stato nel clan catanese di Nitto Santapaola e viceversa: attualmente è libero sull'orlo della prescrizione, in attesa che la Corte d'Appello di Reggio Calabria ridetermini la pena, dopo che la Cassazione ha accolto il suo ricorso in merito a una condanna per associazione mafiosa, per fatti avvenuti prima del 2000. Latella è invece un ex fornitore di pezzi di ricambio alla Marina militare, ex sicario calabrese al servizio dei catanesi a Milano e Torino: un ergastolano premiato con la libertà anche quando trent'anni dopo la polizia ha scoperto la sua partecipazione, mai confessata prima, al sequestro di Cristina Mazzotti, rapita a 18 anni nel 1975 e uccisa, nonostante i genitori avessero pagato un miliardo di lire come riscatto.
I nomi di Cattafi e di Latella emergono dalla lunga indagine condotta sull'omicidio del procuratore dal magistrato di Milano, Francesco Di Maggio. I figli di Bruno Caccia, assistiti dall'avvocato Fabio Repici e come consulente gratuito da Mario Vaudano, per anni hanno cercato e studiato negli archivi giudiziari. E hanno scoperto che è già tutto scritto nella mole di documenti depositata da Di Maggio: Bruno Caccia stava per avviare un'indagine sul riciclaggio della mafia catanese nel casinò di Saint Vincent, dopo l'attentato al pretore di Aosta, Giovanni Melis, sopravvissuto all'esplosione della sua Fiat 500. Solo che tutte queste informazioni sono rimaste chiuse nei faldoni. E l'indagine di Francesco Di Maggio, storico nome dell'antimafia milanese scomparso nel 1996, ha portato a una ricostruzione molto più limitata nei fatti e alla condanna del boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore. Ricostruzione ufficiale che, ancora oggi, esclude il coinvolgimento della mafia catanese. La prima denuncia circostanziata dei figli del procuratore contro Cattafi e Latella viene presentata nell'estate 2013. Ma Ilda Boccassini dimostra subito di non condividere i risultati della controinchiesta suggerita dalla famiglia Caccia. Tanto che, pur trattandosi dell'omicidio di un magistrato, il fascicolo viene iscritto a modello 45: «Atti non costituenti notizia di reato». Ifigli Guido, Cristina e Paola Caccia non si arrendono e nell'estate 2014 consegnano alla Procura di Milano una seconda denuncia, con nuovi indizi contro Cattafi e Latella. Ma la Direzione distrettuale antimafia di allora iscrive nuovamente il fascicolo come atto privo di notizie di reato. Passa quasi un altro anno senza risultati. Il magistrato Mario Vaudano si rivolge alla Procura generale e ottiene l'intervento severo dell'allora procuratore reggente, Laura Bertolè Viale. La denuncia dei familiari viene finalmente iscritta come omicidio. Ma nel giro di qualche mese, a fine 2015, la Direzione distrettuale antimafia arresta Rocco Schirripa mentre per Cattafi e Latella viene chiesta l'archiviazione. «In conclusione», scrive il pm Tatangelo, «gli elementi acquisiti, per le ragioni esposte, paiono del tutto inidonei a sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio, sia per Cattafi, sia per Latella». Arriviamo così a oggi. L'11 settembre scorso, durante l'udienza preliminare, i figli di Bruno Caccia si oppongono all'archiviazione della loro denuncia. Da quel giorno il giudice si è riservato la decisione e non si è ancora espresso. Secondo l'avvocato Repici, sarebbe stato doveroso sentire la testimonianza dei colleghi con cui il procuratore lavorava: Francesco Marzachì, Marcello Maddalena, Francesco Saluzzo, Armando Vitari e Ugo De Crescienzo. Perché potrebbero tuttora aiutare a capire cosa intendesse Bruno Caccia quando, poche ore prima di essere ucciso, si confidò con il figlio Guido: «Si parlava di malaffare», racconta oggi Guido Caccia, «e papà disse: vedrete cosa verrà fuori tra qualche giorno, qualcosa di davvero grosso, ci sarà una bella sorpresa. Ricordo perfettamente il senso della frase. E ricordo anche la mia sorpresa, perché papà non parlava mai del suo lavoro. Quella frase e l'assenza dopo qualche giorno di quel qualcosa di grosso annunciato mi hanno sempre accompagnato da allora». Ma né il figlio né i colleghi di Bruno Caccia sono mai stati sentiti in Procura. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, e il suo sostituto procuratore generale, Galileo Proietto, hanno ora la possibilità di estendere l'inchiesta. A cominciare dal ruolo del Sisde, l'allora servizio segreto civile che, come ricorda il legale della famiglia Caccia, per la strage di via D'Amelio è oggi sinonimo di depistaggio: mentre a Torino fin dai primi mesi dopo l'agguato gli 007 del Sisde, con la loro partecipazione diretta e abusiva alle indagini, hanno potuto contribuire alla versione ufficiale della vendetta personale del boss Domenico Belfiore. Una versione che secondo i familiari è smentita dalle carte, dimenticate nei faldoni del primo processo. Basterebbe leggerle.
Omicidio Caccia, dopo trent'anni il presunto killer a processo. Il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese venne ucciso per le sue indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, i rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e gli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. E dalle carte della famiglia emergono depistaggi e inerzie sulle indagini, scrive Anna Dichiarante il 5 luglio 2016 su "L'Espresso". Si dice che la mafia non dimentichi e si vendichi degli sgarri subiti anche a distanza di anni. Ma questa volta è lo Stato a non aver abbandonato la presa e ad aver deciso di perseguire gli esecutori materiali di un delitto, di cui finora si conosceva solo il nome del mandante. Trentatré anni dopo l’omicidio di Bruno Caccia, avvenuto a Torino, in via Sommacampagna, la sera del 26 giugno 1983, si apre domani davanti alla Corte d’assise di Milano il processo al suo presunto killer. Lo scorso maggio, infatti, il giudice per le indagini preliminari Stefania Pepe ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Rocco Schirripa, il sessantaquattrenne di origini calabresi arrestato nel dicembre 2015 dalla Squadra mobile di Torino e accusato, appunto, di aver ucciso il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese. A chiedere il rito alternativo, convinti dell’evidenza delle prove a suo carico, erano stati i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sostituto Marcello Tatangelo e l’aggiunto Ilda Boccassini, che hanno coordinato le indagini. Un’inchiesta ripartita grazie alla richiesta presentata dai figli del procuratore Caccia, attraverso il loro avvocato Fabio Repici: nell’esposto erano contenuti spunti investigativi che puntavano l’attenzione, oltre che sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, anche sui rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e sugli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. Esattamente quelli su cui indagava Caccia e su cui aveva indagato anche l’allora pretore di Aosta Giovanni Selis, che per la sua attività d’inchiesta sul casino di Saint Vincent il 13 dicembre 1982 subì un attentato: la sua Cinquecento, imbottita di esplosivo, saltò in aria e lui si salvò per un soffio. Nelle carte della famiglia Caccia, poi, si denunciavano depistaggi e inerzie da parte di alcuni magistrati delle Procure di Torino e Milano, da cui sarebbe derivato lo stallo nella ricerca dei colpevoli. E pochi giorni fa, durante le cerimonie per l’anniversario dell’omicidio, anche il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo è tornato sulla questione, definendo Caccia come “vittima di una controffensiva da parte di ambienti criminali, nella cui orbita gravitavano, fra l’altro, personaggi che prosperavano vicino alla Procura”. Se ancora resta parecchio da scoprire sui motivi che hanno determinato il suo assassinio, infatti, è certo che Caccia avesse dato fastidio a molti per la sua incorruttibilità.
Così le nuove indagini hanno portato sulle tracce di Schirripa, che in questi trent’anni aveva continuato a vivere a Torino e a lavorare come panettiere in borgata Parella. Per i pm milanesi, sarebbe proprio lui l’uomo alla guida dell’auto che avvicinò il procuratore mentre si trovava vicino casa, a passeggio con il suo cane. E proprio lui avrebbe ucciso Caccia, sparandogli il colpo di grazia alla testa. Secondo il giudice che ne aveva autorizzato l’arresto a pochi giorni dal Natale dell’anno scorso, però, Schirripa non sarebbe stato solo: insieme a lui ci sarebbe stato Domenico Belfiore, il boss calabrese già condannato all’ergastolo nel 1993 come mandante dell’omicidio. Scavando nel passato di Schirripa, gli inquirenti hanno scoperto legami di parentela con Belfiore e da lì sono partiti: hanno iniziato a intercettare il boss, nel frattempo uscito dal carcere a causa delle sue condizioni di salute, grazie a un virus che permette di attivare a distanza i microfoni degli smartphone e di trasformarli in registratori. Le conversazioni intrattenute al telefono, ma anche in luoghi all’aria aperta considerati immuni da microspie, sono state quindi immagazzinate. E per sollecitare gli intercettati a parlare ed eventualmente a tradirsi, gli investigatori hanno adottato anche un altro stratagemma. Hanno inviato ai sospettati una lettera anonima con un articolo di giornale relativo all’omicidio e con i loro nomi scritti dietro a mano: a quel punto, il panettiere ha capito che il rischio di essere scoperto era altissimo e ha iniziato a progettare la fuga. Ma è stato arrestato. Sul valore probatorio delle intercettazioni raccolte sono ora pronti a dare battaglia gli avvocati Basilio Foti e Mauro Anetrini, difensori di Schirripa: secondo loro, le parole del presunto omicida, pronunciate spesso in dialetto calabrese, sarebbero state fraintese o travisate nel corso delle operazioni di ascolto e di trascrizione da parte della polizia giudiziaria. In realtà, Schirripa era personaggio già noto ai magistrati antimafia. Le prime accuse mosse nei suoi confronti, proprio in riferimento al caso Caccia, risalgono agli anni Novanta. Vincenzo Pavia, cognato di Domenico Belfiore, decise allora di parlare del delitto con i pm Marcello Maddalena e Sandro Ausiello, confermando di aver partecipato ai sopralluoghi per l’organizzazione dell’agguato e indicando i nomi dei componenti del commando. A partecipare all’esecuzione, secondo lui, sarebbero stati Renato Angeli, Giuseppe Belfiore (fratello di Domenico), Tommaso De Pace e Rocco Schirripa. Le dichiarazioni di Pavia furono però ritenute inattendibili, perché al momento dell’omicidio Angeli era detenuto. L’indagine venne quindi archiviata. Il nome del panettiere, poi, è riemerso sia nel 2011, nella grande operazione contro la ‘ndrangheta in provincia di Torino denominata “Minotauro”, a seguito della quale è stato condannato come affiliato del locale di Moncalieri, sia poco tempo dopo, quando è stato accusato dalla Procura torinese di aver favorito la latitanza di Giorgio De Masi “u Mangianesi”, ritenuto il capo della cosca di Gioiosa Jonica.
Trentadue anni dopo l'omicidio preso il killer del giudice Caccia. Il mandante era già stato condannato. Era un capo della 'ndrangheta piemontese. L'inchiesta è proseguita e ha portato all'arresto del presunto esecutore del magistrato "incorruttibile", condannato a morte dai clan calabresi negli anni '80. Il primo e unico omicidio "istituzionale" deciso dai boss fuori dalla Calabria, scrive Giovanni Tizian il 22 dicembre 2015 su "L'Espresso". L'hanno incastrato con uno stratagemma degno della fiction Csi. Rocco Schirripa, uno dei presunti killer del giudice torinese Bruno Caccia, è stato arrestato trentadue anni dopo quell'esecuzione. Con il mandante, Domenico Belfiore, già condannato per l'omicidio. Il caso non è ancora chiuso. Gli investigatori sono arrivati a Schirripa dopo avere inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto, in allegato c'era una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, Rocco Schirripa appunto. Quella missiva a portato i sospettati a confidarsi l'uno con l'altro. Hanno inziaito, così, a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato. Le intercettazioni hanno fatto il resto. Parola dopo parola, confidenza dopo confidenza hanno condotto gli inquirenti della procura antimafia di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, con la squadra Mobile del capoluogo lombardo e di Torino sulle tracce di Schirripa, panettiere di 64 anni nella periferie torinese, imparentato tra l'altro proprio con Belfiore. Bruno Caccia è stato ucciso il 26 giugno 1983, con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna. Il procuratore Caccia guidava la procura torinese. Secondo uno dei boss era «uno con cui non si poteva parlare». Assassinato mentre portava a passeggio il suo cane da almeno due sicari che lo finirono con un colpo alla testa. Caccia era impegnato in importanti indagini sul terrorismo perciò le prime ipotesi investigative puntavano a quell'ambito. Solo qualche tempo dopo grazie ad alcune inchieste sui clan catanesi a Torino, si è arrivati alla 'ndrangheta piemontese. Che già da tempo aveva messo radici nel territorio. I magistrati arrivarono così a Domenico Belfiore, punto di riferimento della 'ndrine del Nord. Secondo l'accusa era lui il mandante dell'omicidio Caccia. La prima e unica volta che la 'ndrangheta ha colpito un uomo delle istituzioni fuori dalla Calabria. Proprio negli anni in cui stava crescendo enormemente. Nel periodo in cui stava prendendo forma l'impero che conosciamo oggi. Un segnale ben preciso, di potenza, di forza, di organizzazione. Eppure, il sangue di Caccia, purtroppo, pian piano, negli anni è stato dimenticato. Così come il suo esempio. Rimuovendo la sua storia, è stata rimossa anche la presenza delle cosche in Piemonte. Dodici anni dopo l'uccisione del giudice incorruttibile, sempre la provincia di Torino emerge per questioni mafiose. Il comune di Bardonecchia verrà sciolto per 'ndrangheta, il primo del Nord Italia. Ventotto anni dopo, invece, centinaia di arresti porteranno alla sbarra le cosche calabresi trapiantate tra Torino e la Val di Susa. È l'operazione Minotauro: un'inchiesta e un processo storici. Davanti ai giudici hanno sfilato boss, imprenditori, politici, professionisti. Da quell'indagini partirono anche le ispezioni in alcuni Comuni della cintura torinese per valutarne lo scioglimento. «Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni», ha dichiarato Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che era giudice istruttore ai tempi di Caccia. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. «L'arresto di oggi», ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato «è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti». Dall'omicidio Caccia, dunque, a Minotauro, c'è sempre lo stesso sfondo criminale che fa da cornice. Come un romanzo criminale, di cui ancora non si conosce la fine. Con molti capitoli ancora da scrivere. E i protagonisti già noti.
32 ANNI DOPO. Svolta nel delitto di Bruno Caccia, arrestato il presunto assassino. Il procuratore ucciso la sera del 26 giugno 1983 da un commando di almeno due persone. Il fermato è un 62enne di origini calabresi che faceva il panettiere in piazza Campanella a Torino. Caselli: «Ringrazio come magistrato e torinese», scrive Silvia Morosi il 22 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si tratta di Rocco Schirripa, un torinese di 62 anni, di origini calabresi, che attualmente fa il panettiere alla periferia di Torino, nel popolare quartiere Parella. Schirripa avrebbe dato il «colpo di grazia» al magistrato, vittima di un agguato. L’inchiesta è stata coordinata dai pm Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo. Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane, un cocker, sotto casa, in via Sommacampagna, davanti al numero civico 15, sulla precollina di Torino. Oggi qui resta una targa sotto la fronda di un glicine: «Il 26 giugno 1983 qui è caduto, stroncato da mano assassina, nel pieno della sua lotta contro il crimine, Bruno Caccia. Procuratore della Repubblica, medaglia d’oro al valor civile, strenuo difensore del diritto, luminoso esempio di coraggio e fedeltà al dovere». Per l’accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della ‘ndrangheta in Piemonte, poi condannato all’ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di ‘ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. «Come torinese e come magistrato che da lui ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l’apprezzamento più convinto per l’ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull’omicidio dopo più di trent’anni», ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo a Torino — ora in pensione — in merito agli sviluppi dell’inchiesta.
Il delitto Caccia: il giorno in cui Torino conobbe la ‘ndrangheta. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Alle undici di sera del 26 giugno 1983, il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando due killer su una Fiat 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato arrestato martedì 22 dicembre a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un «nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore», come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. «Ci sono ancora troppi buchi», diceva l’avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. L’arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.
Le indagini sull’omicidio. Sui mandanti dell’omicidio, le indagini presero subito la via delle Brigate Rosse: erano gli anni di Piombo e per di più le indagini di Bruno Caccia riguardavano in presa diretta molti brigatisti. Il giorno seguente, le Br rivendicarono l’omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l’omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l’attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L’imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del ‘ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino e anch’egli in galera. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Caccia e il motivo principale fu che «con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare», come disse lo stesso Belfiore. Come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore venne condannato all’ergastolo nel 1993. Nella sentenza c’è il racconto di un omicidio deciso a freddo, studiato nei minimi particolari, eseguito con brutale ferocia, per «eliminare un ostacolo all’attività della banda». Il clan dei calabresi era infatti nel mirino della Procura della Repubblica da quando Bruno Caccia era arrivato al vertice dell’ufficio: la sua sola presenza costituiva una grave minaccia. Quando Belfiore esce dal carcere, è con un escamotage che gli uomini della Squadra mobile riescono a ricostruire il rapporto con Rocco Schirripa, mai entrato nell’inchiesta sul delitto di Caccia, e a scoprire che sarebbe stato proprio lui — quella sera di 32 anni fa — a scendere dalla macchina ed esplodere il colpo fatale contro il procuratore torinese.
Schirripa incastrato da lettere anonime della Questura. «Dopo che Domenico Belfiore, il mandante del crimine, è stato messo ai domiciliari per gravi ragioni di salute — ha spiegato emozionata il procuratore aggiunto in conferenza stampa — la Questura di Milano ha fatto girare una serie di lettere anonime dirette ad alcune persone della cerchia di Belfiore. Nelle missive c’era la fotocopia dell’articolo uscito sulla “Stampa” quando Caccia venne ucciso e dietro c’era scritto a penna il nome di Rocco Schirripa». Sapevamo, ha aggiunto, che Schirripa era uno degli uomini di Belfiore: «Dopo l’invio delle lettere anonime abbiamo captato, grazie a una tecnologia molto avanzata, delle intercettazioni fortemente indizianti a suo carico». Tanto è bastato perché all’interno del gruppo si scatenasse la paura su chi avesse potuto rivelare quel nome. Belfiore, non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha parlato dell’episodio con suo cognato, Placido Barresi, che era stato assolto dall’accusa di omicidio. Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga.
Schirripa: «Non ne ho parlato più con nessuno». «L’arresto di oggi è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell’inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti», ha detto la figlia Cristina, commentando l’arresto del presunto assassino del padre. Schirripa è stato ascoltato per sei ore dalla Sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile di Torino, e nella giornata di mercoledì verrà interrogato a Milano, probabilmente nel carcere di San Vittore. «Ti sei fatto trent’anni tranquillo, fattene altri trenta tranquillo», gli avrebbe detto lo scorso 22 novembre un presunto boss della criminalità calabrese. Il dettaglio è contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Stefania Pepe, del tribunale di Milano. «Io non ne ho parlato più con nessuno» sarebbe la frase, intercettata dagli investigatori, pronunciata da Schirripa preoccupato per le lettere anonime. «Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo». Nel motivare le ragioni della custodia cautelare a carico di Rocco Schirripa, il gip di Milano evidenzia l’«elevatisisma e attualissima probabilità di reiterazione del reato» da parte dell’indagato. «L’indagato — osserva il gip — manifesta chiaramente un analogo proposito criminoso, rispondendo a Barresi: “Ma tu vedi di individuarlo che poi...non ti preoccupare”».
La memoria nel tempo. A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e un cascinale a San Sebastiano da Po, sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96 che dispone in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati per reati di stampo mafioso. Cascina Caccia viene tuttora gestita da Libera la rete di associazioni contro le mafie che ricorda ogni anno il 21 marzo, nella Giornata della Memoria e dell’Impegno anche Caccia, presente nel lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi. «È una ferita rimasta aperta per trent’anni, ci auguriamo che le indagini possano finalmente far luce sul caso e assicurare alla giustizia i responsabili», ha commentato il sindaco di Torino, Piero Fassino.
Arrestato uno dei presunti killer del giudice Caccia, 32 anni dopo il delitto. Fa il panettiere a Torino. Arrestato dalla polizia dopo le indagini coordinate dalla pm Boccassini. L'uomo incastrato grazie a una lettera anonima spedita dagli inquirenti. Per il delitto c'era già stata una condanna all'ergastolo. La figlia del magistrato: "Ora si cerchino gli altri mandanti", scrivono Ottavia Giustetti, Emilio Randacio e Carlotta Rocci il 22 dicembre 2015 su “La Repubblica”. E’ stato arrestato dalla polizia a Torino uno dei presunti assassini del procuratore Bruno Caccia, ucciso la sera del 26 giugno 1983 con 14 colpi di pistola a pochi passi da casa, in via Sommacampagna, nella precollina torinese. Gli agenti della squadra Mobile, coordinati dai pm di Milano Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo, lo hanno fermato questa notte. Le indagini sono durate 32 anni.
L'arrestato. L’uomo, Rocco Schirripa, è un torinese di 64 anni di origini calabresi con numerosi precedenti penali. A Torino ora faceva il panettiere in borgata Parella, ma scavando nel suo passato gli investigatori hanno trovato collegamenti di parentela con la famiglia di Domenico Belfiore, considerato il mandante dell’omicidio che è maturato nell’ambiente della ‘ndrangheta. Belfiore infatti è ritenuto il numero uno delle cosche nel nord ovest negli anni ’90. Il boss, che avrebbe deciso l'eliminazione del procuratore per le sue indagini sul riciclaggio del denaro delle organizzazioni criminali, è stato condannato all'ergastolo (a incastrarlo furono le confidenze registrate di nascosto dal pentito Francesco Miano nell'infermeria del carcere), ma è uscito di prigione pochi mesi fa per motivi di salute. L’ identikit dell’arrestato corrisponde perfettamente a quello tracciato all’epoca da chi investigò sul caso subito dopo l’omicidio. Secondo gli inquirenti milanesi, Schirripa era alla guida dell'auto che avvicinó il procuratore sotto casa, poco prima dell'esecuzione. L'uomo, secondo le indagini, avrebbe poi inflitto a Caccia il colpo di grazia con un proiettile alla testa. L'altro componente del commando sarebbe stato proprio il boss della 'ndrangheta, Domenico Belfiore. Scrive infatti il gip milanese Stefania Pepe nell'ordinanza di custodia cautelare: "Emerge con assoluta certezza che Rocco Schirripa è stato uno dei due esecutori materiali dell'omicidio del dr Caccia". Dalle intercettazioni, scrive ancora il giudice, "emergono inoltre plurimi elementi che fanno ritenere verosimile che la seconda persona che sparò al procuratore sia stato lo stesso Domenico Belfiore". Quanto, infine, a Placido Barresi, cognato di Belfiore coinvolto nell'inchiesta sull'omicidio caccia ma alla fine assolto per insufficienza di prove, "dagli atti del processo emerge senza alcun dubbio che il predetto era a conoscenza non solo della decisione di uccidere il procuratore, ma anche (nonostante fosse detenuto il giorno dell'agguato) di ogni dettaglio sull'omicidio, inclusa l'identità degli esecutori materiali". L’operazione risolve uno dei casi più eclatanti degli anni ’80, che per oltre tre decenni era rimasto solo parzialmente risolto. Due anni fa, nel trentennale dell'omicidio, un appello dei figli del procuratore ucciso sollecitava gli inquirenti a riaprire il fascicolo dormiente nei cassetti della procura milanese, competente per legge sui reati riguardanti i magistrati torinesi. Le indagini, in effetti, erano state riaperte circa un anno fa.
Le indagini. Il procuratore Caccia, magistrato incorruttibile che guidava la procura torinese con grande rigore (secondo uno dei boss era "uno con cui non si poteva parlare") fu assassinato la sera di una domenica elettorale, mentre portava a passeggio il suo cane, da almeno due sicari che gli spararono sul marciapiede di casa. Essendosi occupato di importanti indagini sul terrorismo (l'ultimo delitto torinese delle Brigate Rosse risaliva a pochi mesi prima) e sulla criminalità organizzata (sequestri di persona, omicidi, le infiltrazioni mafiose nel casinò di Saint Vincent), le prime ipotesi investigative batterono proprio queste due piste. Inizialmente una telefonata che rivendicava il delitto alle Brigate Rosse orientò gli inquirenti verso la pista terroristica, ma si rivelò subito falsa. Poco tempo dopo, grazie anche alle inchieste sul clan dei Cursoti, emerse la verità: Caccia era stato eliminato su ordine dei boss della 'ndrangheta trapiantata in Piemonte.
Lo stratagemma. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal sostituto procuratore Marcello Tatangelo, sono ripartite dall'esposto presentato nei mesi scorsi dal legale della famiglia Caccia. "Anche se la pista indicata - ha sostenuto Ilda Boccassini -, portava ad altre piste e prendeva di mira anche il lavoro dei magistrati milanesi che 32 anni fa si occuparono dell'omicidio". Gli investigatori della Squadra Mobile, che già sospettavano un coinvolgimento di Schirripa, hanno inviato una lettera anonima ai sospettati del delitto con una fotocopia di un articolo che riportava la notizia dell'uccisione del procuratore di Torino con scritto a penna il nome del presunto killer, proprio Rocco Schirripa. I sospettati, intercettati, hanno iniziato a fare supposizioni su chi di loro avesse parlato e hanno rivelato il ruolo di Schirripa nell'intera vicenda. "La loro unica preoccupazione era quella di capire chi avesse parlato - ha spiegato il procuratore facente funzioni di Milano Piero Forno - e i sospetti si sono concentrati proprio su Rocco Schirripa, che poi ha detto di aver fatto alcune confidenze a qualcuno". La preoccupazione degli arrestati era tutta rivolta a capire "se Schirripa avesse rivelato anche dei dettagli compromettenti del delitto, come la disposizione degli uomini del gruppo di fuoco nella macchina" utilizzata per fare l'agguato al magistrato o altri dettagli che le indagini non avevano ancora portato alla luce.
La "scommessa investigativa". Decisive per arrivare alla svolta di questa mattina, sono state le intercettazioni ambientali nell'abitazione di Domenico Belfiore, da pochi mesi agli arresti domiciliari: Belfiore - che parlava solo sul balcone di casa - ha fornito una ricostruzione decisiva per la svolta di oggi, parlando con il cognato Placido Barresi. Non sapendo di essere intercettato, pur utilizzando diverse precauzioni ha alluso all'episodio e Barresi ne ha parlato a sua volta con Schirripa che, interrogandosi su chi avesse inviato la lettera anonima con il suo nome, aveva anche progettato la fuga. La lettera anonima, ha spiegato il procuratore di Milano facente funzione, Pietro Forno, è stata quindi una "scommessa investigativa" che ha consentito di raccogliere elementi a carico di Schirripa, scatenando una reazione 32 anni dopo il delitto.
Le intercettazioni. Nelle conversazioni intercettate dagli investigatori si sente Belfiore dire "Quelli di là sotto lo sapevano quasi tutti" alludendo - annota il gip Stefania Pepe, "agli esponenti di vertice della 'ndrangheta che (...) erano stati informati", nel 1983, della decisione di uccidere il procuratore. Lo stesso Schirripa, in una delle registrazioni, assicura all'interlocutore Placido Barresi: "Io non ne ho parlato più con nessuno"; e di fronte alla sua preoccupazione per le lettere anonime inviate dalla Squadra mobile, il cognato di Belfiore replica: "Ti sei fatto 30 anni tranquillo, fattene altri 30 tranquillo". Aggiungendo ancora: "Mi sono informato giuridicamente. Sono passati 34 anni. Un reato non si prescrive, ma con le generiche non ti possono dare l'ergastolo e quindi è prescritto". Sempre parlando con Barresi, Schirripa, che per il gip gode di solidi appoggi in Spagna, dice di essere intenzionato a cercare una via di fuga: "Ti dico la verità, sto dormendo male. Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo".
Le reazioni. "Come torinese e come magistrato che da Bruno Caccia ha imparato tutto, esprimo il ringraziamento e l'apprezzamento più convinto per l'ottimo lavoro della procura di Milano e della squadra mobile di Torino, che con pazienza e intelligenza sono riuscite ad aprire una nuova pista di indagine sull'omicidio dopo più di trent'anni". Lo ha detto Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino, che quando Caccia fu ucciso era giudice istruttore. Entrambi, negli anni Settanta, si erano occupati dell'inchiesta sui capi storici delle Brigate Rosse. "Quello di Schirripa è un nome che si inserisce nel solco delle indagini che non si sono mai fermate in tutti questi anni - ha detto il procuratore generale Marcello Maddalena, al momento del delitto sostituto di Caccia - E' un personaggio storicamente vicino alla famiglia Belfiore. La procura di Torino lo ha incontrato altre volte nelle indagini di 'ndrangheta". "Quell'omicidio - ha aggiunto - diede una grande spinta a tutto l'ufficio che da allora fu ancora più compatto e continuò con ancora maggiore convinzione". "L'arresto di oggi - ha commentato Cristina Caccia, figlia del magistrato assassinato - è un tassello importante per gli sviluppi futuri dell'inchiesta. Ci auguriamo che possa far luce su tutti i risvolti rimasti oscuri di questa vicenda, a partire dagli altri mandanti". "Siamo soddisfatti del lavoro svolto dagli investigatori, ma chiaramente in circostanze del genere non si può essere contenti - ha aggiunto - E' strano che questa persona sia rimasta indisturbata a Torino, per oltre trent'anni. Ringraziamo la polizia e aspettiamo che l'inchiesta vada avanti".
Procuratore Bruno Caccia, quella sera di 32 anni fa a Torino. Il procuratore capo ucciso a colpi di pistola mentre era a passeggio con il suo cane, scrive "L'Ansa il 22 dicembre 2015. Erano le undici di sera del 26 giugno 1983. Il magistrato più importante di Torino, il procuratore capo Bruno Caccia, stava portando a passeggio il cane quando in via Sommacampagna, ai piedi della collina, due killer su una 128 lo freddarono a colpi di pistola. Era domenica e aveva deciso di lasciare a riposo la scorta. Uno dei presunti componenti di quel commando è stato oggi a arrestato a Torino. Cinque gradi di giudizio, conclusi con la condanna del boss Domenico Belfiore, ritenuto il mandante, non sono bastati a far piena luce sul delitto di un "nitido esempio di dedizione allo stato, un uomo con la giustizia nel cuore", come i suoi colleghi, dal procuratore generale Marcello Maddalena al procuratore capo Giancarlo Caselli, lo hanno ricordato in questi anni. "Ci sono ancora troppi buchi", diceva l'avvocato Fabio Repici, il legale della famiglia Caccia, che in occasione del trentennale della morte avevano chiesto di riaprire il caso. Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorreva il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si fece strada l'ipotesi del crimine organizzato. "Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità", diceva l'avvocato Repici. Come il materiale sequestrato a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all'estrema destra e alla mafia in carcere all'Aquila in regime di 41 bis. Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate avanti in quegli anni da Caccia. "E' improbabile che Belfiore abbia agito da solo e senza movente", insisteva il legale, ipotizzando il "coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi e catanesi". Quei dubbi, scritti nero su bianco nella richiesta che il legale ha presentato alla procura di Milano, hanno portato alla riapertura del caso. Le indagini, coordinata dal pm Ilda Boccassini, hanno portato oggi all'arresto di un 64enne di origini calabresi che lavorava come panettiere in piazza Campanella, a Torino, nel popolare quartiere Parella. L'arresto potrebbe far luce su una delle pagine più buie di Torino. E dare giustizia alla famiglia del magistrato. Trentadue anni dopo.
Bruno Caccia, il giudice che aveva capito tutto. Nella Torino criminale degli Anni 80 ’ndrangheta e clan dei catanesi in guerra. Caccia intuì dalle indagini sul riciclaggio che la mala stava facendo il salto di qualità. Dietro le sbarre Domenico Belfiore e Placido Barres durante il processo per l’assassinio del procuratore Bruno Caccia, celebrato a Milano nel 1989. Belfiore fu condannato all’ergastolo, Barresi assolto, scrive Marco Neirotti il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". «Hai visto Caccia? L’abbiamo fatto noi. Dovreste dirci grazie». Ha la parlata orgogliosa Domenico Belfiore, boss della ’ndrangheta a Torino, quando, un anno e mezzo dopo l’assassinio del Procuratore, si confida in carcere con Francesco «Ciccio» Miano, il capo dei catanesi. Non sa che Ciccio è un pentito e gira per l’infermeria con un registratore nelle mutande. Catanesi e calabresi avevano trovato una convivenza nella spartizione degli affari, ma Belfiore guardava avanti e guardando avanti aveva intuito che non gli scontri fra mafie, bensì quel magistrato era la barriera inaggirabile tra loro e il futuro. Caccia aveva consapevolezza che il fenomeno cruento ma rozzo degli Anni 80 si stava affinando per entrare come olio in ogni tessuto della società attraverso il riciclaggio del denaro (allora assiduo nei casinò) per poi assimilarsi a commercio, impresa e di qui a politica e voti e appalti. «L’abbiamo fatto noi» era orgoglio d’un gesto feroce e orgoglio d’aver spianato la via. Da metà Anni 70 Torino viveva con inquietudine sui suoi marciapiedi le pagine noir di Giorgio Scerbanenco, ma a cavallo fra ’70 e ’80 era ancor più provata dalla cascata di sangue del terrorismo: dopo i primi omicidi (dall’avvocato Fulvio Croce a Carlo Casalegno e Carlo Ghiglieno) erano brucianti quelli dell’82 (le guardie Mondialpol Antonio Pedio e Sebastiano d’Alleo) e la lotta armata era priorità assoluta. E la mafia «liquida» si espandeva silenziosa. Torino nera aveva convissuto con una delinquenza arcaica che da casa e dai night club organizzava bische e prostituzione e cominciava a trovare appetitoso uno spaccio di droga ancora disordinato. Negli Anni 70 il capo indiscusso si chiamava Rosario Condorelli, catanese d’origine. Una sera, nel ’75, entrò alla pizzeria Marechiaro, per mangiare un boccone, il commissario di polizia Francesco Rosano. Gli sguardi s’incrociarono, i due si riconobbero e Condorelli gli sparò subito, uccidendolo tra gli avventori. Torino capì che il «finché i malviventi si ammazzano fra loro...» non era una grande verità. La guerra «fra loro» ricominciò presto, e dura. Dalla stessa Catania salirono i fratelli Miano, Francesco detto «Ciccio» era il capo. Condorelli arrestato e incarcerato, i Miano fecero piazza pulita dei suoi. Presero possesso della città, a colpi di pistola e scalando nuovi affari, droga soprattutto, che apriva un altro fuoco, quello con i calabresi, fino allora impegnati più sul fronte dell’edilizia, del racket delle braccia, delle estorsioni, dei sequestri di persona. Se già i calabresi si muovevano in silenzio, più «liquidi» appunto, i catanesi erano spavaldi. Dirà poi Ciccio Miano: «Ero il capo. Avevo il mondo ai piedi. Mia moglie era una regina, i negozianti le regalavano tutto». Abitavano in un grande cascinale sontuosamente ristrutturato fuori Torino, nel cortile Ferrari e Mercedes. Incontravi uomini del clan nei bar. Uno di loro (poi finito con una palla da cinghiale in fronte sul pianerottolo di casa) sfotteva i cronisti affannati intorno a un telefono a gettoni: «Pieni di fantasia, ma, poveretti, devono mangiare anche loro». Il 28 settembre 1984, in lungo Dora Voghera, un ometto piccolo e tozzo, davanti a un distributore di benzina, uccide un uomo a rivoltellate. Passa una volante e la sparatoria si allarga. Lui si butta nel fiume e gli agenti dietro, lo catturano. Si chiama Salvatore Parisi, è il killer di fiducia dei Miano (confesserà sedici omicidi). In questura siede davanti a funzionari d’eccezione - Piero Sassi, Aldo Faraoni, Salvatore Longo, oggi questore di Torino - e con loro e con i magistrati incomincia a parlare. Come prova di credibilità, offre un nome e un indirizzo: la Squadra Mobile di Torino cattura Angelo Epaminonda, boss della malavita a Milano. E’ la fine dei catanesi. Si pente Ciccio Miano (suo fratello sarà ucciso per vendetta) e si presta alle registrazioni in carcere. «Caccia l’abbiamo fatto noi», gli dice Belfiore. Ma non svela a fondo la vera ragione, che nel clima di quegli Anni 80 era inquinata anche da fasulle e subito poco credibili rivendicazioni delle Br. Tanto che al maxiprocesso di terrorismo si alzò Francesco Piccioni dell’ala militarista e dichiarò: «Noi non c’entriamo. Quello è un omicidio al quale purtroppo siamo estranei». La ’ndrangheta si ritrovò liberata in un colpo solo dall’ingombro dei catanesi e del magistrato che, partendo dal riciclaggio (proprio per questo filone d’indagine il 13 dicembre 1982 subì un attentato Giovanni Selis, magistrato ad Aosta), si muoveva in anticipo verso le future strategie affaristiche nel Nord. Quelle che troveremo nel 1995 con l’operazione Cartagine, nel 2012 con l’operazione Minotauro, nel 2010 con l’operazione Infinito. Il disegno per il quale andava eliminato l’uomo che trentadue anni fa costituiva la più potente barriera.
“Così arrivammo alla ’ndrangheta”. L’attuale questore di Torino ricorda l’omicidio di Bruno Caccia: subito avevamo pensato ai brigatisti, poi fu tutto chiaro, scrive Massimo Numa il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". È la sera del 26 giugno 1983, poco dopo le 22. In questura, al secondo piano di via Grattoni, di turno negli uffici semideserti della squadra mobile, c’è un trentenne vicequestore, allora capo della Narcotici, Salvatore Longo. Oggi è il questore di Torino.
Che cosa ricorda di quel giorno terribile?
«Mi chiamarono dalla centrale operativa. Eravamo in uno dei periodi storici più tragici, in pieno terrorismo, quando le notizie di persone uccise erano purtroppo frequenti. Mi dissero che un uomo era stato ferito da armi da fuoco. Disposi le solite procedure. E partii per via Sommacampagna. Appresi subito che la vittima era il procuratore Bruno Caccia».
Le prime ipotesi?
«Il magistrato, che conoscevo personalmente, era già deceduto. Una scena atroce. Era stato riconosciuto subito, dai vicini, e poi dagli agenti intervenuti. Arrivarono, se ben ricordo, il capo della mobile Piero Sassi, il capo della Omicidi, Aldo Faraoni. E poi il pm Anna Maria Loreto, i colleghi Alberto Bernardi e De Crescenzo. Finiti in rilievi una prima riunione in questura, non a caso negli uffici della Digos. Oltre ai magistrati, anche gli ufficiali dei carabinieri, con cui condividemmo le informazioni. C’era collaborazione, ovviamente».
Pensavate a un’azione delle Br?
«Sì, perché l’indomani sarebbe iniziato un processo contro i brigatisti. Ma in realtà nessuna delle ipotesi fu scartata a priori. Analizzammo, ognuno con le proprie competenze, ogni possibilità: il ruolo della mafia catanese, allora in auge, quello del terrorismo nero, senza trascurare i boss delle cosche calabresi che già allora si erano radicati in Piemonte. C’era, quella notte, calma e un’estrema decisione. Nelle ore successive iniziarono le perquisizioni, oggi si direbbe a 360 gradi: nelle celle dei brigatisti, nelle case dei pregiudicati più noti. Non trovammo niente, in quella fase».
Quando i primi indizi sulla matrice e sul movente del delitto?
«Qualche tempo dopo ci rendemmo conto che la pista più credibile portava dritta al crimine organizzato. Iniziammo a monitorare, giorno dopo giorno, il quadro costituito da siciliani e calabresi. Le geometrie del racket cambiavano continuamente, tra alleanze, divisioni e rotture anche violente. Nonostante questo, non emergeva alcun indizio vero. Quindi le prime voci. Sino a quando i Servizi convinsero un pentito dei catanesi, Francesco Miano, in carcere con il boss dei calabresi Domenico Belfiore, a collaborare. Il resto è noto: emerse il movente, si ricostruì uno scenario, Belfiore prese l’ergastolo».
Perché Caccia fu ucciso?
«È un evento criminale isolato nella storia piemontese. Erano stati uccisi magistrati a Milano, Genova, in altre città. Mai a Torino, e non è più accaduto. Caccia venne ucciso perché era il simbolo di un’autorità giudiziaria incorruttibile, sotto il profilo anche morale. Non che i suoi colleghi fossero da meno, ma lui aveva un metodo di lavoro incalzante, organizzato, e soprattutto efficace. L’unico modo per fermarlo era togliergli la vita».
Lei lavorò al suo fianco?
«Si. Ho avuto la fortuna di partecipare alle riunioni operative con altri colleghi, dedicate alle varie inchieste in corso. La sua straordinaria preparazione giuridica per noi era la sicura garanzia di gestire le indagini in modo perfetto. Poteva sembrare burbero e severo, ma sapeva valorizzare, e premiare, il lavoro dei suoi collaboratori».
Una lettera anonima al sospettato. Così hanno incastrato il killer dell’omicidio Caccia. La Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore una missiva «per smuovere le acque», scrivono Giuseppe Legato e Massimo Numa il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". «Sai che c’è? C’è che non sto dormendo bene la notte. Per l’altra cosa sono tranquillissimo, ma c’è quest’altra storia che…la notte dormo male». Rocco Schirripa, uno dei componenti del commando che uccise il procuratore capo Bruno Caccia, ammazzato dalla ‘ndrangheta nel 1983, non si preoccupava minimamente della recente accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga che da un mese gli era arrivata tra capo e collo dopo un’indagine della squadra Mobile. Era tranquillo, per quella storia. Non dormiva per le lettere anonime – una pagina de La Stampa pubblicata il giorno dopo l’omicidio Caccia con scritti i nomi dei killer, tra cui il suo – che la Questura di Torino aveva inviato alla famiglia Belfiore «per smuovere le acque», per far riaffiorare discorsi sopiti dal tempo. Dove non sono arrivati 32 anni di indagini, decine di racconti di pentiti, altrettante informative e richieste di riaperture del caso, c’è arrivato un escamotage investigativo. Per decenni, i Belfiore non hanno mai parlato di quell’omicidio. Non lo ha fatto Mimmo, il capofamiglia che, in carcere, ha trascorso più di 30 anni in silenzio. Non ne aveva mai parlato Rocco Schirripa che a un vecchio boss della Torino nera destinatario di quella missiva rispondeva: «Assolutamente. Non ho mai parlato. Ma stiamo scherzando? Sono cose delicatissime queste». Ma quella lettera, quella pagina de La Stampa arrivata per posta a ottobre, li ha turbati molto: «Ormai mi sono fatto 20 anni e Mimmo ne ha passati 40 in carcere. Voglio capire perché è uscito fuori il nome di Rocco» dice uno dei Belfiore. Con un virus informatico inoculato nel tablet del vecchio capo malato Domenico e negli Iphone dei suoi parenti, la Mobile è riuscita a sentire tutto, trasformando quegli apparecchi in delle microspie ambientali. In 104 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Stefania Pepe, Carte che svelano come non tutti i boss della malavita calabrese conoscano bene i meandri del diritto e del processo penale. Tutt’altro. In un’intercettazione Schirripa parla con gli uomini dei Belfiore: «Ma scusa – chiede – ma l’omicidio non va in prescrizione dopo 30 anni?». L’altro «Certo». E il killer: «Ma allora di cosa stiamo parlando?».
Rocco Schirripa, il panettiere che nel giardino aveva il manichino del Padrino. Il 62enne, detto «Barca», è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese, scrive Giuseppe Legato il 22 dicembre 2015 su "La Stampa". Trafficante di cocaina, rapinatore di professione. Testa fredda e nervi saldi, Rocco, detto «Barca» è un uomo d’azione della famiglia Ursini-Belfiore che governò negli anni Ottanta e Novanta l’universo della criminalità organizzata calabrese nel difficile travaso di leadership dalla mafia siciliana alla ‘ndrangheta. Schirripa, 62 anni, da Gioiosa Jonica, residente a Torrazza Piemonte. Professione panettiere. Sei mesi fa, quando le forze dell’ordine bussarono alla sua porta per confiscargli una volta per tutte la villetta di viale Gramsci nel chivassese - dove nel giardino aveva un manichino vestito da Padrino -, scappò per pochi metri. Sapeva, Schirripa, di avere ancora conti aperti con la giustizia. Conti non saldati, mai emersi nelle indagini che su di lui, in trent’anni di carriera nera, non si erano mai fermate. Il suo nome tornava sempre nelle intercettazioni su picciotti ed evangelisti del Sud che si erano trapiantati al Nord. Scappò su un fiorino bianco ma tornò indietro subito dopo quando capì che gli uomini in divisa, quella mattina, dovevano solo notificargli lo sfratto e nulla più. Il resto è arrivato stanotte. Arrestato per droga nel 2001, condannato insieme ai nomi storici del narcotraffico torinese (Agresta in testa) fu arrestato di nuovo nella maxi operazione Minotauro. Patteggiò 1 anno e 8 mesi in continuazione con reati di droga. Di nuovo arrestato per la latitanza di Giorgio Demasi, detto «U Mungianisi», super boss di Gioiosa ricercato dopo l’operazione Crimine. Si nascondeva a Torino. L’uomo di punta di quella latitanza dorata era proprio lui Schirripa. Che anche allora patteggiò.
Delitto Caccia, parla Schirripa: "Sono innocente, mie parole fraintese". Si tratta di un torinese di 62 anni, di origini calabresi, scrive "L'Ansa" il 23 dicembre 2015. "Sono innocente, non c'entro nulla con l'omicidio: le mie frasi intercettate sono state fraintese". Sono le uniche dichiarazioni rilasciate nel corso dell'interrogatorio di garanzia da Rocco Schirripa, l'uomo arrestato ieri e ritenuto uno degli esecutori materiali dell'omicidio del procuratore di Torino Bruno Caccia, avvenuto nel 1983. Schirripa si è poi avvalso della facoltà di non rispondere e si è detto disponibile a farsi interrogare prossimamente dal pm di Milano Marcello Tatangelo. Uno dei presunti assassini di Bruno Caccia, il procuratore capo di Torino ucciso nel 1983, è stato arrestato dalla polizia. Si chiama Rocco Schirripa, torinese di 62 anni, di origini calabresi. Attualmente faceva il panettiere alla periferia della città. Nei suoi confronti "sono state raccolte numerose fonti di prova". Bruno Caccia fu ucciso la sera del 26 giugno 1983, 32 anni fa, con 14 colpi di pistola mentre portava a spasso il suo cane sotto casa, sulla precollina di Torino. Per l'accaduto fu arrestato, nel 1993, il mandante del delitto, Domenico Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, poi condannato all'ergastolo e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute. Caccia stava indagando su numerosi fatti di 'ndrangheta tra cui alcuni sequestri di persona. Schirripa avrebbe dato il "colpo di grazia" al magistrato, vittima di un agguato mentre portava a passeggio il suo cane il 26 giugno 1983. E' la ricostruzione degli inquirenti della Dda di Milano, che hanno coordinato le indagini sull'episodio, riaperte anche in seguito alle richieste dei legali della famiglia di Caccia. Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per il delitto, e il suo "soldato", Rocco Schirripa, secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbero atteso il magistrato a bordo di un'auto, appostati vicino alla sua casa. Belfiore, esponente di spicco della 'ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia dalla vettura, ferendolo. A quel punto, secondo le accuse, Schirripa sarebbe sceso dall'auto, per finire il procuratore con un colpo di pistola alla testa. Rocco Schirripa è stato incastrato grazie ad una lettera anonima inviata dagli inquirenti milanesi a Domenico Belfiore, già condannato all'ergastolo per l'episodio. In seguito alla lettera sono state intercettate le "reazioni" sul coinvolgimento di Schirripa. E' "emozionata" Ilda Boccassini, che ha coordinato l'inchiesta. "Le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali di un omicidio di mafia di questa portata", ha spiegato Ilda Boccassini durante una conferenza stampa in Procura a Milano. "Le indagini vanno avanti - ha proseguito - e stiamo verificando se l'omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore con il beneplacito dell'organizzazione in Calabria".
Chi era Bruno Caccia, il procuratore di Torino ucciso nel 1983. Dal terrorismo al traffico di droga: tutte le indagini del pm assassinato, scrive "La Stampa" il 22 dicembre 2015. Ripubblichiamo un articolo uscito il 27 giugno 1983 su La Stampa Sera. Sessantaquattro anni compiuti, il procuratore della Repubblica di Torino, Bruno Caccia, era alla vigilia della pensione. A novembre avrebbe probabilmente lasciato il servizio dopo avere scartato l’ipotesi di presiedere il tribunale di Bologna. Era un magistrato «intelligente, integerrimo, irreprensibile». A dirigere la procura della Repubblica di Torino era arrivato dopo essere stato alla procura generale e alla procura di Aosta. Erano gli «anni di piombo» quando il terrorismo sembrava invincibile. Gli uomini della rivoluzione sparavano e uccidevano: la città era sotto la cappa della paura. Ma in pochi mesi tutto è cambiato. Nel febbraio del 1980 è stato catturato Patrizio Peci, che ha cominciato a parlare e a raccontare i segreti delle bande armate. Poche settimane ancora ed è stato arrestato Roberto Sandalo. Anche lui ha deciso di vuotare il sacco mettendo in ginocchio «Prima linea». Lo Stato ha recuperato il terreno perduto. Un team di magistrati — sostituti procuratori della Repubblica e giudici istruttori — si è mosso con tempestività ed efficienza. Dietro loro, a coordinare il lavoro di indagine e di verifica, c’era Bruno Caccia. La procura della Repubblica di Torino aveva in questi ultimi anni promosso però anche una serie di inchieste clamorose che hanno portato in carcere industriali conosciuti e politici di prestigio. La magistratura di Torino non ha guardato in faccia a nessuno. Quando si affacciava un’ipotesi di reato veniva aperta l’inchiesta e se le accuse trovavano conferme c’erano le manette per i responsabili. Anche se erano imputati «eccellenti». Tre anni fa è stata avviata l’indagine per il contrabbando di petrolio. E’ venuta fuori una truffa di decine di miliardi organizzata da imprenditori, grossisti, funzionari dell’Utif che avrebbero dovuto sorvegliare sulla legalità del commercio. E sono finiti nei guai anche politici, amici di politici, sottufficiali, ufficiali e comandanti della Guardia di Finanza. Sono già stati istruiti sei processi, due sono in appello, ma l’inchiesta non è ancora finita. Si aprono nuovi capitoli: si accertano altre responsabilità. Sempre più in alto: verso personaggi sempre più influenti. Nel marzo è scattata l’operazione che ormai tutti chiamano della «tangenti-story». Dalla denuncia di un ingegnere di Milano, rappresentante della multinazionale «Intergrafp», Antonio Deleo, la procura della Repubblica ha ordinato una serie di accertamenti. Vicesindaco e assessori, dirigenti di partito, capigruppo sono stati interrogati e sono rimasti in carcere. Nell’amministrazione della cosa pubblica — è l’ipotesi di reato — hanno badato troppo agli interessi personali, del gruppo e delle correnti e troppo poco a quelli dei cittadini. In questi ultimi mesi i magistrati erano impegnati su altri due fronti: contro l’«ananonima sequestri» che ha ucciso l’impresario Lorenzo Crosetto (ritrovato sepolto in una buca alla periferia di Asti) e contro il racket della droga che vende morte e ottiene guadagni giganteschi. Quando era alla procura della Repubblica di Aosta, Bruno Caccia ha svolto l’indagine sull’assessore socialista Milanesio e su alcune speculazioni edilizie nella zona di Pila. A Torino, come sostituto alla procura generale, aveva sostenuto l’accusa al processo d’appello contro Franca Ballerini, Paolo e Tarcisio Pan. Paolo era stato condannato all’ergastolo, Tarcisio a pochi anni di carcere per occultamento di cadavere e la Ballerini è stata assolta con formula ampia. Caccia ha impugnato la sentenza ed ha presentato ricorso in Cassazione. La Suprema Corte gli ha dato ragione e ha ordinato che venisse celebrato un quarto processo contro la Ballerini (l’anno scorso è finito con un’altra assoluzione per «insufficienza di prove»). E’ stato lui ad occuparsi dell’indagine sul sequestro del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi, tenuto prigioniero dalle Brigate rosse. Caccia aveva firmato la requisitoria d’accusa chiedendo il rinvio a giudizio contro gli imputati di «Controinformazione». Il procuratore di Torino sapeva dei rischi cui la sua posizione lo esponeva. Era prudentissimo. Si faceva scortare da un’auto di poliziotti anche quando andava a giocare a tennis. L’unico ritaglio «privatissimo» della sua vita era a tarda notte — tutte le notti — quando passeggiava con il cane, un coker, sotto casa. In via Sommacampagna abitava dal 1957. Quella di uscire solo era l’unica sua «leggerezza», e gli assassini l’hanno scoperto. Hanno studiato con cura le abitudini del magistrato e hanno colpito: con la brutalità di cui sono capaci i killer.
Un Uomo Per Bene. Il Ricordo Di Bruno Caccia. Articolo di: Mattia Maestri del 26 giugno 2013. Una morte silenziosa. E per troppo tempo dimenticata. Trent’anni fa come oggi veniva ucciso da killer tuttora ignoti il magistrato piemontese Bruno Caccia. Il 26 giugno 1983 era la prima domenica d’estate, a Torino, ed era sera. Pur avendo a disposizione la scorta e la macchina blindata, Bruno Caccia non rinunciava mai alla passeggiata serale con il suo cane, la sua unica libertà quotidiana. Quel giorno, però, fu l’ultima. Due uomini a bordo di un’automobile affiancarono il magistrato e gli spararono da distanza ravvicinata una decina di colpi di pistola, prima dei tre colpi di grazia finali. Ma chi era Bruno Caccia? E perché è stato così barbaramente assassinato? Era un uomo per bene. Nato a Cuneo il 16 novembre 1917, Bruno Caccia entrò a far parte della magistratura torinese nel 1941. Dopo un breve periodo di tre anni ad Aosta, rientrò nel 1967 nel capoluogo regionale e continuò la sua battaglia per la giustizia dapprima come sostituto procuratore, poi come procuratore della Repubblica di Torino dal 1980. Si occupò di temi difficili e spinosi in quegli anni, come le violenze e i pestaggi negli scioperi o lo scandalo delle tangenti alle giunte rosse di Torino. “Il suo rigore, la sua severità e durezza nel pretendere l’applicazione delle regole erano il tentativo di non sopraffare il più forte” spiega Gian Carlo Caselli alla Cascina Caccia (confiscata alla famiglia ‘ndranghetista Belfiore nel 1996 e intitolata al magistrato ucciso) a due passi da Chivasso, in occasione del ricordo del suo collega. I due avevano collaborato nel primo processo istruito contro le Brigate Rosse. Combatteva in prima linea Bruno Caccia. Terrorismo e Criminalità Organizzata furono le sue più grandi battaglie civili e legali, portate avanti grazie alla sua totale dedizione allo Stato e al suo costante impegno. In moltissime occasioni rimaneva in ufficio fino a tarda serata, a scrivere, a leggere, a cercare di capire. Si arrovellava soprattutto su un tema: l’infiltrazione mafiosa al nord, e in particolare quella della ‘ndrangheta calabrese che stava mettendo le proprie radici a Torino e in provincia. Bruno Caccia era convinto della massiccia presenza malavitosa nella sua regione e per dimostrare ciò iniziò una decisa lotta alla criminalità organizzata al nord. Fece pedinare i pusher siciliani che controllavano le piazze dello spaccio, inviò la polizia a perquisire le bische gestite da uomini calabresi e cominciò ad effettuare controlli bancari. Un lavoro prezioso, che fece tremare l’ascesa dei clan calabresi al dominio assoluto nella provincia torinese. Nessuno, nella parte settentrionale d’Italia, era arrivato ad osare così tanto. Del resto “La mafia al nord non esiste”, o almeno così abbiamo sentito dire fino a pochi anni fa da prefetti e uomini delle istituzioni. La ‘ndrangheta e la mafia, invece, al nord erano presenti e non tardarono a reagire. Uomini del boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore pedinarono il magistrato per giorni, fino al momento in cui individuarono il punto debole, il pretesto per ammazzare Bruno Caccia. Quattordici colpi di pistola, e la vita dell’integerrimo magistrato finì, alle 23.30 del 26 giugno 1983. Le prime inchieste si concentrarono subito sulla pista del terrorismo rosso, in seguito ad una rivendicazione (rivelatasi poi falsa) delle Brigate Rosse. Solo successivamente le indagini investirono la criminalità organizzata e portarono, dieci anni dopo l’assassinio, alla condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore, riconosciuto mandante dell’omicidio. Tuttavia, sono tuttora senza nome gli esecutori materiali del delitto. Anzi, nuove inquietanti scoperte sembrano ipotizzare il coinvolgimento di servizi segreti deviati e la collaborazione della mafia catanese alle indagini, finalizzata al controllo criminale della piazza torinese in quegli anni contesa, così come rivela ‘Il Fatto Quotidiano’ in questi giorni. “Lui mi ha insegnato il mestiere. Lui è il simbolo dell’uomo di giustizia. Questa cascina è la dimostrazione della possibilità di restituire il maltolto delle mafie. Ricordarlo qui è il modo migliore per ricordare l’impegno di un uomo morto perché credeva nella legalità e nel rispetto delle regole”, ricorda lo stesso Gian Carlo Caselli, ringraziando Libera Piemonte per la splendida gestione della cascina. A Caselli, attuale procuratore capo del palazzo di Giustizia di Torino (intitolato a Caccia dal 2001), spetterà in questi giorni l’incarico di tracciare «l’ingerenza della ’ndrangheta nella vita politica in Piemonte» nel processo Minotauro, considerato il più importante contro la ‘ndrangheta in Piemonte. La rilevanza penale della presenza criminale nel tessuto sociale regionale potrebbe essere il giusto riconoscimento al lavoro di Bruno Caccia. Una persona troppo spesso dimenticata, anche dal mondo dell’antimafia. Riappropriamoci della sua memoria e facciamola vivere sempre, tutti i giorni, con l’impegno, con il senso del dovere, con la giustizia nel cuore.
Bruno Caccia, trent’anni dalla morte. Quando il nord dimentica i suoi eroi, scrive Andrea Contratto l'1 luglio 2013. Il 26 giugno del 1983 erano circa le 23 quando una Fiat 128 su cui viaggiavano almeno due uomini apre il fuoco contro un passante che stava portando a spasso il suo cane. Così fu ucciso dall’ndrangheta il primo e unico magistrato al nord: Bruno Caccia. La verità processuale ha portato alla condanna di Domenico Belfiore all’ergastolo, ma per i 30 anni della sua morte una nuova pista si fa largo e potrebbe far riaprire le indagini. Sono passati 30 anni da quella sera in via Sommacampagna quando Bruno Caccia fu ucciso mentre portava a spasso il suo cane. A ritrovarlo, la figlia, scesa in strada per vedere cosa fossero quei colpi di pistola. Così morì il primo magistrato ucciso al Nord dall’Ndrangheta, in una calda serata estiva. Quest’anno per il suo trentesimo anniversario sono state molteplici le iniziative nel capoluogo piemontese tra cui la presentazione di un documentario sulla vicenda, “Bruno Caccia, una storia ancora da scrivere”, prodotto da Libera e ACMOS, il libro “Il giudice dimenticato”, la commemorazione in Sala Rossa e infine un evento nel Tribunale a lui dedicato con Saviano e il Procura Gian Carlo Caselli. Saviano durante il suo intervento ha sottolineato l’importanza di essere a Torino in questa data perchè si ricordi la figura di un magistrato definito incorruttibile puntando il dito contro le autorità nazionali, completamente latitanti da tutte le manifestazioni. Il percorso del processo dell’omicidio Caccia è stato fin da subito occultato da una nebbia di depistaggi. Pochi minuti dopo l’omicidio giunge la prima rivendicazione da parte delle Brigate Rosse. Nelle telefonate a varie testate nazionali si parli di vendetta contro il “servo dello stato”. La lotta alle Brigate Rosse è stato uno dei capisaldi del lavoro del Procuratore a Torino e per questo fu subito diramato l’ordine di perquisire tutte le celle del carcere dove risiedevano alcuni brigatisti per trovare conferme ai sospetti. I giorni successivi sono giorni di fuoco: i brigatisti prima trincerati in un assordante silenzio iniziano a dichiarare che non è stata la mano brigatista ma di altri. Le indagini si spostano su delinquenza comune e sulla pista delle organizzazioni criminali. Solo dopo un anno, nel 1984, alcuni Catanesi inizieranno a collaborare e fare il nome del boss Belfiore. In particolare sono le parole di Roberto Miano, affiliato al clan dei Catanesi, a fine 1984 parla di un contatto tra lui e Belfiore, che all’epoca era il capo del clan dei Calabresi in Piemonte. Il boss lo aveva contatto per fargli recuperare un fucile di precisione proprio per l’omicidio del giudice. Proprio il caso Caccia unì le due compagini e una terza, molto meno conosciuta. Infatti il contabile dei calabresi era un certo Franco Gonnella, conosciuto negli ambienti per essere amico di alcuni magistrati. Il Belfiore in un colloquio con Miano, capo del clan dei catanesi pentito e diventato collaboratore, assicurò che una volta ucciso il procuratore, sarebbe stato sostituito da un magistrato più malleabile. Il clan dei Calabresi, di cui Belfiore era a capo, puntava alla liberazione di alcuni suoi membri ma con Caccia a capo della procura non sarebbe stato possibile avere alcuna riuscita. Il procuratore infatti viene sempre descritto come una persona riservata e integerrima che in particolare non frequentava il bar del palazzo di giustizia, descritto da molti come il luogo in cui si incontravo diversi volti della medesima medaglia. Il punto di svolta lo troviamo proprio in queste vicende perchè secondo le fonti il caso potrebbe essere riaperto proprio seguendo il filone di indagini che porta non solo alla galassia ‘ndranghetista ma anche verso quella dei colletti bianchi. Caccia era supervisore di un processo decisamente imporante per l’epoca come lo scandalo dei petroli, che tra gli altri coinvolgeva due generali della Finanza e diversi membri di quella che poi passerà alla storia come la P2. Intrecci che non fanno altro che complicare il quadro dell’omicidio del giudice “impassibile” e che si spera abbiano nuovi risvolti anche alla luce di queste nuove scoperte. “Bruno Caccia è stato ucciso per il futuro” queste le parole enigmatiche dell’ex procuratore di Aosta Mauro Vaudano, che di Caccia fu collega, lasciano un ampio spazio a considerazioni. Parlare di Bruno Caccia non è semplice memoria. E’ futuro, e tante righe dovranno essere ancora scritte.
Bruno Caccia: Il magistrato del nord che la mafia volle morto, scrivono venerdì 28 giugno 2013 Mario Vaudano e Paola Bellone su “Altritaliani”. Ripercorrere la vita e la morte del Procuratore Bruno Caccia, significa ripercorrere un pezzo della storia d’Italia e di Torino, in quegli anni stretta dalla lotta al terrorismo e dai prodomi di una mafia che iniziava ad allargarsi prepotentemente nel nord Italia. Una testimonianza di chi c’era che aiuta a comprendere meglio gli scenari in cui si muovono mafia e politica, i pericolosi percorsi in cui la magistratura ieri come oggi combatte la sua battaglia nel nome della Legge. Alle ore 23,30 circa del 26 giugno 1983, il Procuratore capo della Repubblica di Torino, dottor Bruno Caccia, mentre passeggiava portando al guinzaglio il suo cagnolino lungo il marciapiede che fiancheggia gli stabili di Via Sommacampagna, in Torino, veniva raggiunto da un’autovettura Fiat 128 di colore verde, con due uomini a bordo. L’autista, arrestata bruscamente la marcia, esplodeva contro il magistrato, attraverso il finestrino, alcuni colpi di arma da fuoco che lo colpivano in varie parti del corpo, facendolo cadere a terra. Quasi contemporaneamente, l’altro individuo, discendeva dall’auto e, raggiunta la vittima, sparava altri colpi di pistola al capo della stessa. Il dottor Caccia, soccorso e trasportato all’ospedale a mezzo di autoambulanza, vi giungeva cadavere». Con queste frasi inizia la lunga motivazione della sentenza con cui la Corte d’assise di Milano, esattamente sei anni dopo, il 16 giugno 1989, condannerà all’ergastolo come mandante dell’omicidio, Domenico Belfiore, detto Mimmo, capo del clan dei Calabresi, che all’epoca dominava la malavita torinese in duopolio con il clan dei Catanesi, guidato da Francesco Miano, detto Ciccio. All’azione omicida assistevano quattro passanti. Due di loro riferivano che, mentre faceva stridere i pneumatici per fuggire, l’uomo al volante si sporgeva dal finestrino e puntava contro di loro l’indice della mano col pollice aperto, come a impugnare una pistola, gridando «Bang! Bang! Bang!», così ammonendoli a non muoversi ed ad non lanciare alcun allarme. Nonostante la chiara intimidazione, i due lo descrivevano, consentendo la ricostruzione del volto al photofit (a loro dire molto somigliante). Ciononostante i due sicari non furono mai identificati. Fu individuato solo, grazie ad una dichiarazione di un codetenuto, il presunto mandante, un uomo di peso della mafia calabrese (legato anche alla mafia siciliana già operante in Piemonte e Lombardia), Domenico Belfore che fu poi condannato all’ergastolo dalla Corte di Assise di Milano (all’epoca competente per i reati contro magistrati di Torino). La sentenza divenne definitiva, ma furono necessarie ben sei decisioni giudiziarie: dopo la sentenza di primo grado, una prima sentenza di appello, nel ’90, una sentenza di annullamento della Cassazione per vizio di motivazione, ed infine una seconda sentenza d’appello, nel ’92, e la decisione definitiva di conferma della Cassazione). Bruno Caccia è stato l’unico magistrato ucciso dalla mafia nel Nord Italia. Oltre a lui, solo un altro magistrato con funzione di Procuratore Capo è stato ucciso dalla mafia: Gaetano Costa, Procuratore Capo di Palermo, il 6 agosto 1980. Responsabile, in questo caso, fu Cosa Nostra. Oltre a lui, solo un altro magistrato è stato ucciso dalla ‘ndrangheta: Antonio Scopelliti, il 9 agosto 1991, su richiesta di Cosa Nostra, perché il Sostituto Procuratore Generale avrebbe dovuto sostenere l’accusa nel maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino davanti alla Corte di Cassazione (almeno secondo le dichiarazioni del pentito Giacomo Lauro, ma l’omicidio è rimasto senza responsabili). Perché ricordare oggi Bruno Caccia? Non è solo un atto di omaggio doveroso, ma deve essere un esercizio di memoria efficiente, per vivificare un modello per la società. Bruno Caccia viene spesso ricordato, per la sua intransigenza, che di per sé non è un valore, se non associato a tutte le qualità che facevano di lui un magistrato straordinario. Parlano di lui i pareri agli atti del suo fascicolo personale, che lo segnalavano già, a un anno dalla nomina, letteralmente, come «ottima promessa per il futuro». «Intelligentissimo, investigatore acutissimo, amante del lavoro, dotato di molto senso pratico, di retta intuizione». «Il dott. Caccia può considerarsi, per il suo equilibrio - concludeva il primo giudizio - addirittura eccezionale». Bruno Caccia, dunque, non era solo intransigente. E la sua intransigenza non era una comoda via per esercitare l’autorità. Era funzionale ai valori che lo guidavano nello svolgimento del suo lavoro. Parlano, in questo caso, i ricordi dei magistrati, allora “giudici ragazzini”, che facevano parte del suo ufficio. La prima circolare firmata da Bruno Caccia quando si insediò come Procuratore Capo di Torino, il 6 febbraio 1980, ordinava di segnalargli eventuali casi di richiesta di raccomandazione. Intransigente, ma autorevole, non autoritario. Aspro polemista, sapeva cambiare idea e rispettava le posizioni altrui se ben argomentate. I magistrati del suo ufficio ricordano di non avere mai subito pressioni da parte sua nell’esercizio dell’azione penale. Contraddirlo con intelligenza valeva guadagnarsi rispetto da parte sua. Anche se a contraddirlo era un sostituto procuratore od un giovane giudice istruttore e aveva meno di trent’anni (come la maggioranza dei magistrati in servizio sotto la sua direzione). Per dirla con Leonardo Sciascia, Bruno Caccia «considerava l’autorità di cui era investito come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse». Per questo Bruno Caccia poteva dire: «Avere il potere e non esercitarlo è altrettanto grave che non averlo ed esercitarlo». Potere che esercitava con imparzialità, senza ombra di classismo («senza guardare in faccia nessuno», come ricorderanno all’indomani dell’omicidio i suoi colleghi). Bruno Caccia viene ricordato spesso, invece, perché era un conservatore. Non era solo conservatore. Nel lavoro era, anzi, un capo moderno ed aggiornato. La Procura di Torino, sotto la sua guida, era all’avanguardia grazie alla specializzazione dei gruppi d’indagine. I rapporti con i Giudici Istruttori, in passato difficili con chi l’aveva preceduto, divennero molto piu diretti ed efficaci. Con Bruno Caccia Procuratore Capo, nasca a Torino il primo pool antiterrorismo. Ma ricordare Bruno Caccia, significa anche ricostruire la storia di Torino in quegli anni; ed in parte di questo Paese, riferendosi alle inchieste aperte a Torino sotto la sua guida. Impegnato in prima linea contro il terrorismo è lui, nel 1975, a seguito di avocazione del processo, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle BR. Bruno Caccia, Sostituto Procuratore Generale e Giancarlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta alla fattispecie della banda armata. È anche noto che l’inizio della sconfitta delle Brigate Rosse iniziò il 19 febbraio 1980 (due settimane dopo l’insediamento di Bruno Caccia come Procuratore Capo), con l’arresto di Patrizio Peci, capo della colonna torinese, che con le sue dichiarazioni consentì l’arresto di altri settanta brigatisti. Ma è meno noto che a raccogliere per la prima volta a verbale le sue dichiarazioni formali come pubblico ministero c’era proprio Bruno Caccia. Così come non è molto noto il ruolo di Bruno Caccia nell’affaire Donat-Cattin. Il 29 aprile era stato arrestato il terrorista di Prima Linea Roberto Sandalo (tra le sue vittime il magistrato Emilio Alessandrini), che, sull’orma di Patrizio Peci iniziò a collaborare e, tra gli altri, denunciò Marco Donat-Cattin, figlio del vice segretario della DC Claudio, dichiarando che era riuscito ad evitare l’arresto grazie all’aiuto del padre, messo in allerta da Francesco Cossiga, allora Presidente del Consiglio. L’ipotesi era violazione del segreto per favorire la fuga del terrorista. Fu Bruno Caccia a ordinare la trasmissione degli atti al presidente della Camera Nilde Jotti (decisione condivisa con l’Ufficio dei giudici istruttori). Il Parlamento bocciò la proposta di messa in stato d’accusa di Cossiga davanti alla Corte Costituzionale, ma il Governo da lì a poco cadde. Estremamente importanti anche le altre due inchieste aperte nel periodo di da Bruno Caccia alla guida della Procura, in stretta collaborazione con l’ufficio Istruzione Penale. Con otto anni di anticipo rispetto a Mani Pulite, alla vigilia delle elezioni politiche del 1983 e in piena epoca Yalta, indagò sulle tangenti in favore di politici locali, provocando nel giro di pochi giorni le dimissioni della giunta regionale prima e di quella comunale poi (il Psi torinese sarà commissariato da Bettino Craxi). L’altra inchiesta toccava figure di rilievo nazionale, indagati eccellenti appartenenti ai vertici della Finanza, primo tra tutti il Generale Raffaele Giudice, Comandante Generale della Guardia di Finanza tra il 1974 ed il 1978 iscritto alla P2 di Licio Gelli. È l’inchiesta sui petroli, che in tutta Italia fece emergere un sistema di corruzione generalizzate dei vertici centrali e locali della Guardia di Finanza e delle Dogane e di evasione del pagamento delle accise per il 20 per cento del consumo di carburante per quasi 2000 miliardi di lire dell’epoca. Con importanti collusioni e protezioni politiche, principalmente nell’entourage dell’on. Moro e del suo segretario Freato, e dell’On. Andreotti, ministro di tutela dell’epoca. Bruno Caccia fu ucciso alla chiusura delle due indagini e mentre i processi in appello erano in corso o dovevano essere celebrati di li a poco. Ma non c’era provvedimento che uscisse dalla Procura senza il suo visto. Come quella richiesta di archiviazione di un sostituto che, senza svolgere indagini, aveva ritenuto priva di fondamento una lettera di denuncia nei confronti del direttore sanitario del Centro clinico ospedaliero delle carceri giudiziarie di Torino. Secondo la lettera il medico rilasciava certificati falsi, dietro compenso, per dichiarare l’incompatibilità dello stato di salute di carcerati mafiosi con lo stato di detenzione. Bruno Caccia non vistò il provvedimento e andò avanti, ascoltando personalmente l’autore della lettera. Inchiesta d’avanguardia se si considera che, negli stessi anni, camorristi del calibro di Cutolo, grazie a perizie psichiatriche false, si facevano rinchiudere nei manicomi giudiziari, da dove fuggivano come se fosse un gioco da bambini. Il direttore sanitario finì condannato in primo grado a cinque anni di reclusione proprio due giorni prima che venisse assassinato Bruno Caccia. Sotto la sua direzione, grazie all’organizzazione data all’ufficio, si intensificarono, infatti, anche le indagini di criminalità organizzata, governata a Torino e Milano dal Clan dei Calabresi e dal Clan dei Catanesi. Ricordare, infine, l’omicidio di Bruno Caccia, ci obbliga anche a ricostruire il contesto in cui maturo il suo omicidio, per ricercarne le motivazioni. Bruno Caccia fu ucciso nel 1983, l’anno in cui, come scrive Giancarlo Caselli ne Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Proprio in quei giorni si stava celebrando nel carcere torinese delle Vallette il processo d’appello contro il nucleo storico delle Brigate Rosse. Quando Bruno Caccia fu ucciso era domenica. Erano in corso le elezioni politiche. I seggi della prima giornata elettorale avevano chiuso da un’ora e mezza. Il sole e il grande caldo nel resto d’Italia spiegavano in parte la più bassa affluenza alle urne registrata dal 1948 («soltanto l’89 per cento», titolano i giornali). I risultati sancivano il crollo dalla DC. In leggero calo anche il PCI di Berlinguer, ma vicino al sorpasso della DC di De Mita. Crescevano repubblicani e liberali e i socialisti di Craxi, che diventerà Presidente del Consiglio, il primo socialista a ricoprire questa carica. L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella della mafia, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, faceva centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 818 persone assassinate in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane per combattere lo strapotere cutoliano. Mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi della vecchia guardia palermitana. La ‘ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ‘ndrangheta, ‘Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti”, erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad “aggiustare” le sentenze. Ma nell’83 queste trame erano per lo più ancora oscure. Il primo a squarciarle, è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ‘ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”. Nel 1992 fu pronunciata la sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che sarà confermata definitivamente in Cassazione, sancendo la responsabilità, come unico mandante, di Domenico Belfiore. Ma è proprio la trasformazione della ‘ndrangheta, rivelata nel 1992, a imporre un’analisi storica integrativa della verità giudiziaria. Lo impone alla luce delle stesse emergenze processuali di allora. “Relazioni pericolose” è il titolo del capitolo più doloroso della seconda sentenza d’appello per l’omicidio di Bruno Caccia, che descrive il proscenio delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora orientato le indagini in una direzione precisa, ma a poco a poco scoprirono un rapporto di contiguità tra alcuni suoi colleghi e gli stessi malavitosi indagati dal suo ufficio, nell’ambito delle inchieste di criminalità organizzata. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente i primi, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi, avrebbero rafforzato la loro motivazione ad uccidere Bruno Caccia, nell’aspettativa che, alla sua morte, subentrassero i loro magistrati amici. La lettura degli atti del processo per l’omicidio e di altri processi conferma il rapporto di contiguità non solo tra certi magistrati e i malavitosi indagati nell’ambito delle inchieste sulla criminalità organizzata, ma anche tra quegli stessi magistrati e gli indagati nelle inchieste sul c.d. scandalo dei petroli e sulle tangenti. Un intreccio di interessi politici con interessi economici e della malavita organizzata, che solleva il dubbio di un’alleanza nella pianificazione, urgente, di un omicidio altrimenti anomalo, in quanto vede, come unico mandante, un Domenico Belfiore di 30 anni, in un’epoca in cui la ‘ndrangheta era già gerarchizzata al suo interno, che, da solo, avrebbe deciso di uccidere la massima autorità della Procura di Torino (unico caso di omicidio di ‘ndrangheta nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato, unico caso di omicidio di mafia nella storia giudiziaria italiana, che ha come vittima un magistrato nel Nord Italia). E’ un quadro che impone, anzitutto con un’analisi storica, di scandagliare i collegamenti tra il basso livello della malavita organizzata e gli alti livelli istituzionali dell’epoca, considerando, che, proprio adesso, si sta svolgendo là, a Torino, la discussione finale nel processo “Minotauro”, in cui, per la prima volta, proprio quei collegamenti affiorano a livello processuale. Un’analisi che potrebbe portare all’individuazione di una molteplicità di cause convergenti dell’omicidio di Bruno Caccia, e far emergere nuovi scenari di connivenza e complicità pubbliche. Paola Bellone, viceprocuratore onorario presso la Procura della Repubblica di Torino. Mario Vaudano, magistrato, all’epoca Giudice Istruttore a Torino.
Solo un passo in direzione della verità, scrive Cristina Caccia il 23 dicembre 2015 su "La Stampa". Ieri mattina, il mio risveglio è stato particolare: un collega al telefono mi diceva: «Hanno preso uno dei killer di tuo padre». Dopo la telefonata, mi interrogavo da sola su ciò che provavo, ed era difficile dare una risposta. Non sapevo come mi sentivo, l’unica parola che veniva fuori era «impressione». Fa impressione apprendere una notizia come questa, trentadue anni dopo l’omicidio di tuo padre sentire che - forse - hanno arrestato uno dei suoi assassini. Fa impressione poi che questa persona abbia vissuto nella tua stessa città per tutti questi anni. L’emozione è tanta, partono le telefonate ai fratelli, Guido che vive in Germania, Paola che fa l’insegnante ed è ancora a scuola. Quando riusciamo a sentirci riconosco anche nelle loro voci quella nota di incertezza che forse c’è nella mia. E’ un passo avanti, ci diciamo facendoci coraggio, un gradino in più verso la conoscenza. Questa, per noi, è la lettura razionale di quanto è accaduto. L’arresto di ieri è un passo avanti nella ricerca della verità che la mia famiglia persegue da anni, in ultimo chiedendo alla procura di Milano nuove indagini sul caso. In molti mi hanno chiesto se siamo soddisfatti. La risposta è sì, naturalmente. Ma la questione su cui porre l’accento è un’altra, il fatto cioè che questo è un punto di partenza e non di arrivo, una nuova pista da cui partire sperando che stavolta finalmente qualcuno parli, dopo il silenzio durato trent’anni del mandante riconosciuto dell’omicidio. In famiglia abbiamo sempre pensato che ciò che era uscito non bastasse. Non bastasse un mandante unico, non bastasse una manciata di ragioni dietro a un omicidio eccellente come quello di un Procuratore della Repubblica di una città importante come Torino, l’unico di un magistrato qui al Nord in tanta storia di delitti di mafia italiani. Così questo arresto rappresenta una nuova speranza, una spinta ad andare avanti, e questo è l’importante. C’è ancora molto da sapere. Con mia sorella, per due interviste televisive, abbiamo ripercorso il marciapiede dove nostro padre fu ucciso, ricordando quella terribile sera di giugno di tanti anni fa. Un marciapiede che, sebbene io abiti in questa zona anche adesso, non calpesto mai, se mi capita attraverso. Mi hanno anche chiesto della giustizia e del perdono. Il perdono va chiesto, ho risposto io, e non mi pare purtroppo che sia mai accaduto in trent’anni. E la giustizia - ieri, oggi e anche domani - è sempre una meta a cui tendere.
Bruno Caccia, questo è il tempo della verità. I figli del magistrato ucciso a Torino nel 1983 puntano a far riaprire il caso, scrive Matteo Viberti il 6 novembre 2014 su “La Gazzetta d’Alba”. Il primo delitto di mafia al Nord, negli anni del post-terrorismo, quando le indagini sul casino di Saint Vincent stavano per eruttare un verminaio indicibile. Per la morte di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino, ucciso sotto casa con 17 colpi di pistola il 26 giugno del 1983, un boss della ’ndrangheta “settentrionale”, Domenico Belfiore, è stato condannato all’ergastolo come mandante, ma i sicari non si sono ancora trovati. A oltre trent’anni dall’omicidio, Guido, Paola e Cristina, i figli del magistrato sepolto a Ceresole, hanno depositato una denuncia al Tribunale di Milano, che chiama in causa, indicando piste e nomi precisi, le più sconcertanti connessioni italiane, da Cosa nostra ai servizi segreti. Ne parliamo con Paola Caccia.
Come ha vissuto la sua famiglia la tragedia dell’omicidio di suo padre, Paola?
«Siamo rimasti scioccati, chiusi a lungo nel nostro dolore. Abbiamo cercato di superare la tragedia, trasmettendo ai nostri figli i valori in cui credette mio padre. A lungo non ci siamo interessati alle indagini. Avevamo fiducia totale nella magistratura. Solo in seguito, dopo il processo che si è chiuso nel 1992, abbiamo iniziato a interrogarci, mia madre per prima, sui molti temi a cui la sentenza non aveva risposto, e a cercare di capirne le ragioni. Devo ammettere, dopo aver letto gli atti, molta sorpresa per il modo con cui è stato condotto il processo. Purtroppo, temo siano state nascoste alcune verità. Per questo, anche grazie al sostegno di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, abbiamo preso coraggio e stiamo cercando di far riaprire il caso. Fin qui conosciamo solo il volto del mandante dell’omicidio di mio padre, il boss della ’ndrangheta Domenico Belfiore, ma non quello di chi lo ha ucciso».
Quali sono i nuovi elementi sui quali chiedete di indagare?
«L’avvocato Fabio Repici, esperto nei processi di mafia, con la consulenza del magistrato Mario Vaudano, ha depositato una denuncia presso la Procura di Milano in cui si indica la pista da seguire: l’indagine sul casino di Saint Vincent, che mio padre aveva fatto perquisire proprio nel mese precedente la sua morte, e che avrebbe svelato come al casino venissero riciclate ingenti somme di denaro proveniente da attività criminali. Rileggendo il fascicolo processuale ci si rende conto che molti elementi sono stati inspiegabilmente trascurati dal titolare dell’indagine, il pm Francesco Di Maggio».
Proprio intorno ai casino italiani ruotavano forti interessi criminali.
«Grazie al lavoro dell’avvocato Repici siamo arrivati a ipotesi sulle quali, a nostro avviso, occorre indagare, a partire, ad esempio, dalla falsa rivendicazione dell’omicidio operata dalle Brigate rosse, il cui testo è stato trovato in casa di un mafioso».
Belfiore non avrebbe quindi avuto il ruolo che gli è stato attribuito?
«È stato condannato un “pesce piccolo”, senza andare oltre. Ci sono dettagli importanti, lasciati cadere nel processo, e per questo confidiamo nella riapertura delle indagini, che ci è stata negata lo scorso anno. Lo sentiamo come un dovere in quanto familiari e cittadini. Forse è stata occultata la verità».
Ha ancora fiducia nella magistratura?
«Sì, ho ancora fiducia. Ma devo ammettere che mi aspettavo un altro tipo di impegno da parte della Procura di Milano e dei colleghi di Torino per il raggiungimento della verità. Un maggiore coraggio nel pretenderla, un dovere verso un uomo coraggioso come mio padre che, ai tempi del terrorismo, quando la paura era una costante per noi, ci raccomandava: “Se mi rapiscono non venite a patti”».
Come ricorda suo padre, Paola?
«Mio padre non parlava del suo lavoro in famiglia. Abbiamo conosciuto il magistrato dopo la sua morte, grazie ai suoi sostituti, che ci sono stati molto vicini. In casa era un uomo positivo, ottimista, allegro, sereno, anche se rigoroso sulle questioni importanti. Amava l’orto, lo sport, la natura. Gli piaceva mettersi in gioco, giocava a bridge ogni settimana con gli stessi amici. A noi figli ha sempre dato fiducia, esigendo sincerità, ma lasciandoci liberi di seguire le nostre inclinazioni».
La Commissione parlamentare antimafia sta riaprendo alcuni casi di omicidi irrisolti sui quali si staglia l’ombra della mafia. Il 28 ottobre, in audizione a Messina, la presidente Rosy Bindi ha assicurato, tra l’altro, parlando di Bruno Caccia: «Tra i nostri compiti c’è anche quello di far sentire la vicinanza alle vittime della mafia. Sosterremmo la famiglia Manca e sosterremo Sonia Alfano. E saremo vicini anche al percorso di ricerca della verità sull’omicidio del giudice Bruno Caccia». La Commissione ha infatti sentito l’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del procuratore capo di Torino ucciso nel 1983. Secondo Repici, che ha presentato un dettagliato dossier, chiedendo una seria riapertura delle indagini, il delitto del magistrato si lega con le vicende messinesi sulle quali il legale è impegnato. Tra gli informatori dei servizi segreti mobilitati subito dopo il delitto, ad esempio, ci sarebbe anche il barcellonese Rosario Pio Cattafi, ora al 41 bis.
Rocco Sciarrone: le mafie sono al Nord e pure Cuneo e Alba rischiano. “Parliamo con Rocco Sciarrone. Sociologo, docente all’Università degli studi di Torino e autore del libro Mafie al Nord (Donzelli editore, 2014), il 31 ottobre è stato a Cuneo, ospite dell’associazione Libera, per presentare il suo lavoro di ricerca.
La mafia al Nord: soltanto un timore oppure una presenza reale, professore?
«La mafia del Nord Italia è un fenomeno reale e di vecchia data. Riscontriamo tracce soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte. Il Canavese è il luogo più “colpito”, con una forte presenza della ‘ndrangheta calabrese».
Quali forme può assumere il fenomeno?
«Sovente si tratta di movimenti che intaccano la sfera del legale, comunicano con essa, ne dissolvono i confini. Più che ruberie e palesi atti delinquenziali, la mafia al Nord scalfisce il tessuto imprenditoriale e politico, tentando di infiltrarsi e di controllarlo. Ad esempio, nel mondo dell’edilizia, delle amministrazioni comunali, delle società partecipate. La mafia s’innesta con maggiore facilità laddove preesistono pratiche illegali, oppure dove è presente una vulnerabilità economica e sociale a livello di contesto. Dobbiamo cambiare quindi la prospettiva tradizionale: la mafia non contagia un tessuto, non rappresenta un agente patogeno esterno che arriva da fuori e agisce. Si tratta di un processo complesso che s’installa laddove trova un ambiente “accogliente”».
Quindi anche una provincia come Cuneo e una città come Alba rischiano di veder sviluppare queste forme criminali?
«Cuneo e Alba sono luoghi storicamente considerati “protetti”, ovvero più resistenti all’installazione di fenomeni mafiosi. Vuoi per la solidità del tessuto di valori etici, vuoi per le eccellenze imprenditoriali e sociali. Ma proprio queste eccellenze possono essere punto di attrazione per organizzazioni criminali, come avviene in Brianza. Non dimentichiamo infine che la relativa tranquillità della Granda ha fatto sì che il territorio divenisse sovente rifugio di latitanti».
Come si può contrastare il fenomeno?
«Tenendo alta la guardia, monitorando costantemente i punti più sensibili dell’apparato economico e istituzionale. Sovente il mafioso, per agire come tale, deve rendersi riconoscibile. Ha dei punti di vulnerabilità, dobbiamo imparare a riconoscerli».
Bruno Caccia: dimenticare, confondere, ricordare, vivere, scrive il 29 gennaio 2013 Libera Piemonte. Bruno Caccia. Chi lo dimentica, chi lo confonde, chi lo ricorda, chi continua a vivere la sua vita. Tutto questo succede in una mattina d’inverno, a Torino. Il teatro è l’inaugurazione dell’anno giudiziario, sabato 26 gennaio. Tra gli attori, tutti i vertici della Corte d’Appello e della Procura Generale.
Chi lo dimentica. Quest’anno, ingenuamente, pensavamo che il trentennale dell’omicidio di Bruno Caccia sarebbe stato ricordato da tutti, anche stante l’importante processo Minotauro che vede ritornare molti cognomi di cosche già operative all’epoca dell’uccisione del Procuratore. Era il giugno 1983 e “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”. Per questa ragione venne freddato sotto casa, mentre passeggiava col cane. Diciassette colpi. Ancora ignoti gli esecutori dell’omicidio, mentre come mandante è stato condannato all’ergastolo nel 1993 Domenico Belfiore, da Gioiosa Jonica. La mattinata passa e intervento dopo intervento (incluso quello del ministro Paola Severino) nessuno menziona Bruno Caccia. Tra di noi ci guardiamo un po’ sorpresi.
Chi lo confonde. Ci vogliono pazienza e tempo per leggere tutta la Relazione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Ma se si arriva a pagina 173, al settimo capitolo (cioè l’ultimo prima degli allegati) si trova il suo nome. Ed è un passaggio in particolare del presidente Barbuto che vogliamo riportare: “Il palazzo entrò in funzione nel 2001, ed è dedicato a Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica di Torino, assassinato dalle Brigate Rosse, sotto casa nel 1983, due anni prima che si deliberasse la costruzione del nuovo palazzo. Per il quale, l’evocazione della fortezza, pur se inconsapevolmente, non fu estranea alla percezione sociale di aggressione terroristica di quegli anni”. Avete letto bene. Brigate Rosse. Questo c’è scritto nella relazione che trovate sul sito giustizia.piemonte.it e che è stata distribuita in numerose copie stampate sabato mattina. E la ‘ndrangheta? Domenico Belfiore faceva forse parte delle BR?
Chi lo ricorda. Alla fine della mattinata, in un’aula ormai spoglia e stanca della lunga cerimonia, prende la parola il Procuratore capo Gian Carlo Caselli. Ricorda il collega Caccia, le ragioni della morte, le parole dei suoi figli. Riprendiamo qui uno stralcio del suo discorso: “Il 2013 è l’anno del trentesimo anniversario della morte di Bruno Caccia. I figli del Procuratore ucciso dalla ‘ndrangheta hanno indirizzato ai media (che l’anno pubblicata integralmente o per ampi stralci) la lettera che ora leggo: A trent’anni dalla morte di nostro padre, siamo profondamente grati a tutti coloro che vorranno ricordarlo con eventi e iniziative che ne onorano la memoria e che ci fanno un grande piace. In tutti questi anni nelle periodiche ricorrenze e non solo, abbiamo sentito sempre forte e presente il ricordo e l’affetto delle Istituzioni cittadine. Abbiamo apprezzato lo sforzo continuo dell’associazione Libera, che è riuscita a tener viva la scintilla dell’interesse e della partecipazione, anche e soprattutto tra i giovani. Non possiamo però nell’occasione tacere ciò che purtroppo ancora ci cruccia. A fronte degli esiti processuali che risalgono ormai a molti anni fa, sentiamo tuttora il disagio per qualcosa che non ci pare ancora del tutto chiarito. Le recenti cronache del processo Minotauro avallano in qualche modo i nostri dubbi, mettendo in luce un percorso della malavita organizzata che dai fatti di oggi si può far risalire fino ad allora. Proprio in quest’ottica, la sentenza definitiva ci pare a tutti gli effetti una verità parziale. Ci piacerebbe perciò che la ricorrenza di quest’anno diventasse occasione e stimolo per uno sforzo corale teso ad avvicinarsi maggiormente alla Verità, partendo dal presupposto che l’omicidio di nostro padre non fu certo un fatto isolato nella storia cittadina. Questa memoria “fattiva” sarebbe secondo noi un degno coronamento della commemorazione del suo sacrificio. Firmato: Guido, Paola e Cristina Caccia”. Una lettera franca. Essa comporta per tutti (politici, amministratori, società civile, giuristi e magistrati) l’obbligo di moltiplicare il proprio impegno. L’obbligo per tutti di respingere con forza, con sdegno, ogni tentazione di sottovalutazione (e qualcosa in questo senso va purtroppo serpeggiando) perché la penetrazione delle mafie al nord è un’emergenza in atto da lunghissimo tempo, mentre scarsissima è la consapevolezza al riguardo. Nessuna presa di posizione, quindi, nessuna decisione significativa è registrabile. Incredibile, nel nostro Piemonte, questa mancanza di consapevolezza:
1) in Piemonte viene ucciso nel 1983 Bruno Caccia (il più “eccellente” dei 44 omicidi di mafia registrati in provincia di Torino fra il 1970 ed il 1983, con 24 persone uccise di origini calabresi).
2) in Piemonte è il primo comune italiano sciolto per mafia: 1995 Bardonecchia.
3) numerose ed importanti sono state negli anni passati le inchieste della magistratura torinese sul versante ‘ndranghetista (Cartagine per tutte).
Perché questa mancanza (rifiuto?) di consapevolezza? Per ignoranza, impreparazione, ritardo culturale, miopia, sottovalutazione, distacco aristocratico (razzista) della gente del nord verso il pericolo mafioso? Anche per tutto questo…insieme al (soprattutto per il) fatto che la mafia nelle aree non tradizionali riesce ad ibridarsi, riesce a proteggersi con una forza relazionale che fa di tutto per non essere percepita, per non essere avvertita come pericolo presente. La mafia opera sistematicamente, programmaticamente, ontologicamente (è nel suo Dna) per mimetizzarsi. Questa mimetizzazione è anch’essa vecchia quanto le mafie, per cui è ben strano che funzioni ancora oggi, mietendo vittime anche illustri in alto loco. MENTRE proprio la strategia di mimetizzazione del crimine organizzato ne dimostra la pericolosità. Tutto ciò è scolpito nel 416 bis. Dimenticarlo o ignorarlo non si può. I figli di Caccia, con la loro lettera, ci chiedono di non farlo”.
Chi continua a vivere la sua vita. In quest’ultimo capoverso vanno ricompresi tutti coloro che fanno il proprio dovere fino in fondo, come faceva Bruno Caccia. A partire da chi abita un luogo a lui dedicato, un luogo confiscato alla famiglia Belfiore (capitali mafiosi e non brigatisti), la cascina in cima a San Sebastiano da Po, dove si cerca di costruire una comunità alternativa alle mafie, grazie all’incrocio dell’impegno di molti. Chiediamo scusa alla famiglia del Procuratore per tutti coloro che oggi, a trent’anni di distanza, lo dimenticano o lo confondono. Noi abbiamo scelto di ricordarlo e di continuare a vivere la sua vita.
Cinquant'anni di 'Ndrangheta in Piemonte. Storia del crimine all’ombra della Mole, scrive Luca Rinaldi il 16 Gennaio 2012 su “L’Inkiesta”. Quello dell’operazione Minotauro, datata giugno 2011, che ha portato all’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta, è solo l’ultimo capitolo della lunga storia dell’infiltrazione della criminalità organizzata in Piemonte. Prima i confini degli anni Sessanta, poi il 13 giugno 1983, quando venne assassinato il procuratore della Repubblica Bruno Caccia fino ai presunti rapporti odierni fra ‘ndrangheta e politica. Il 26 giugno del 1983 a Torino veniva assassinato per mano della ‘ndrangheta il procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Uno con cui, riferì Domenico Belfiore, condannato come mandante del delitto, «non si poteva trattare». Sibillina quella frase di Mimmo Belfiore da Gioiosa Ionica. Uomo di ‘ndrangheta in trasferta a Torino, dove gestiva un bar proprio sotto il tribunale del capoluogo piemontese, in affari con i Gonnella esponenti di Cosa Nostra. Sibillina al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati». Le famiglie mafiose da Torino e dal Piemonte non se ne sono mai andate, anzi, hanno spesso affari con la pubblicazione amministrazione e amicizia con la politica. A trent’anni di distanza, i figli del magistrato piemontese hanno chiesto di riaprire il processo sull’omicidio del padre. L’avvocato della famiglia, Fabio Repici, ha dichiarato l’ANSA che «ci sono ancora troppi buchi. Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità». La figlia di Bruno Caccia, Paola, ha detto che la richiesta di riapertura delle indagini che verrà depositata alla Procura di Milano porterà a «riaprire ferite peraltro mai chiuse. Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese. Ed è anche un modo per sentirci ancora vicini a papà, che per tutta la sua vita ci ha insegnato i valori della coerenza e della verità». Così se nel 1963 arriva in Piemonte spedito al confino Rocco Lo Presti, soprannominato il padrino di Bardonecchia (che sarà poi il primo comune del Nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose), l’8 giugno 2011 va in porto l’operazione “Minotauro” con l’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta in tutto il Piemonte, a Milano, Modena e Reggio Calabria. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, come ebbe a dire durante la conferenza stampa lo stesso 8 giugno, dimostra «l’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica». Un intreccio prosegue Caselli che «dà a quest'inchiesta un risvolto inquietante». Il risvolto inquietante sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle cosche nella Pubblica Amministrazione. Risvolti inquietanti che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come ediliza, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è Lo Presti a «portare la mafia a Bardonecchia», e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già attenzionati nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo del Frejus. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, vedono i clan infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Val di Susa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995. Dopo un’inchiesta molto approfondita della prefettura il Consiglio dei Ministri scioglie il Consilio comunale, ravvisando «l’esistenza di condizionamento degli amministratori da parte della criminalità organizzata». Già nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenza persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e dei casalesi, mettendo poi in risalto quelle «situazioni sospette» nel settore finanziario. Già nel 1994 emergeva quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Così gli anni ’90 e i primi anni 2000, viste anche le ghiotte occasioni degli appalti e in particolare dei subappalti per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per il Tav, le cosche tra lavoro nero e gare al massimo ribasso tornano sulla scena pubblica. Una ‘ndrangheta quella insediata in Piemonte, che fa poco rumore, ma che ormai è una presenza storica. Presenza che porta all’insediamento delle nove locali scoperte dagli investigatori nel giugno scorso durante l’operazione “Minotauro”. L’indagine restituisce la fotografia di quei nuclei strutturati di famiglie che rispondono al vertice calabrese, ma che sul territorio negli anni si sono ricavate una propria autonomia, soprattutto per quanto riguarda i contatti con amministratori pubblici e politica locale. Non è un caso che l’indagine prenda le mosse dalle indicazioni del collaboratore di giustizia Rocco Varacalli, organico alle famiglie di Natile di Careri, che nel 2008 iniziò a ricostruire i traffici di stupefacenti delle ‘ndrine tra il Sud America, la Calabria e alcune città del nord Italia. Inoltre emergono sempre dalle deposizioni del collaboratore di giustizia le falle in cui le ‘ndrine vanno ad inserirsi nell’economia: subappalti, servizi, facchinaggio e piccole commesse pubbliche, che sommate all’amicizia con il politico o l’amministratore arrivano anche più facilmente dalle parti di quelle aziende apparentemente senza macchia a cui vengono affidati i piccoli subappalti senza gara pubblica. Nel racconto del pentito Varacalli, attendibile a fasi alterne, trovano posto poi anche nomi e cognomi non solo di mafia ma anche di politica. Nelle carte dell’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino emergerà su tutti, perché tra gli indagati, Nevio Coral, già sindaco di centrodestra di Leinì (Torino) per 30 anni e suocero dell'assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che poco tempo prima di questa operazione firmò le proprie dimissioni per un caso di tangenti. Nevio Coral avrebbe, secondo l’accusa, procacciato voti tra gli esponenti della ‘ndrangheta per l’elezione del figlio, poi diventato sindaco della stessa Leinì nel marzo 2010 e dimessosi lo scorso dicembre. Tra le pieghe dell’inchiesta emergeranno i rapporti poco convenienti tra il boss di Rivoli Salvatore De Masi e alcuni esponenti politici regionali. Dalle carte emergerebbe infatti che «Tra la fine di gennaio e il febbraio 2011 (De Masi, nda) si è incontrato direttamente o tramite intermediari con l'onorevole Gaetano Porcino dell'Idv (il suo nome emergerà anche in occasione dell’inchiesta sul clan Valle-Lampada sull’asse Milano-Reggio Calabria), con l'onorevole Domenico Lucà del Pd, con il consigliere regionale del Pd Antonino Boeti, con l'assessore all'Istruzione di Alpignanno Carmelo Tromby, sempre dell’Idv». Nessuno di questi è stato indagato dalla procura di Caselli, ma nell’ordinanza si legge appunto di incontri poco convenienti e addirittura in una occasione Lucà chiama il boss Demasi in cerca di voti per Fassino alle primarie del Partito Democratico per la candidature a sindaco di Torino. Allo stesso modo, inconsapevolmente, fa sapere la stessa, Claudia Porchietto, assessore al Lavoro della Regione Piemonte (all’epoca dei fatti, nel 2009, candidata alla presidenza della provincia di Torino per il Pdl), incontra al Bar Italia nel centro del capoluogo piemontese Franco D’Onofrio, considerato dai magistrati «responsabile provinciale della Cosca di Siderno». Il padrino del “Crimine torinese”. I magistrati non indagano la Porchietto considerandola estranea, anche perché l’incontro tra I due dura solo pochissimi minuti, ma è però preceduto da una chiacchierata tra lo stesso D’Onofrio, Giuseppe Catalano e il nipote Luca consigliere comunale del Pdl ad Orbassano. Riconosciuta l’estraneità della Porchietto il gip Silvia Salvadori, che firma l’ordinanza non può fare a meno di classificare l’episodio come «altamente rappresentativo dell’influenza che la ‘ndrangheta assume nella vita democratica». I boss in Piemonte, si interessano di tutta la regione, e in consiglio comunale ad Alessandria si sarebbe seduto addirittura seduto un “picciotto”: nell’ambito di un’altra operazione antimafia, denominata “Maglio” ed eseguita pochi giorni dopo “Minotauro”, gli inquirenti sono arrivati ad arrestare il consiglieri Giuseppe Caridi, del Pdl. Caridi, stando alle indagini dei Carabinieri, avrebbe ricevuto la dote di “picciotto” con cui era stato ammesso ufficialmente a partecipare alle attività della “locale” guidata da Bruno Francesco Pronestì. Quarant’anni di mafia in Piemonte che torneranno probabilmente a fare rumore alla conclusione del processo scaturito proprio dall’operazione “Minotauro”. Intanto, dall’emiciclo di coloro che di solito fanno strali contro chi viene pizzicato in scomoda compagnia, arriva il più solido garantismo e la convinzione che spesso, in campagna elettorale, può capitare di stringere le mani sbagliate. Certo, quando capita ai soliti, come notano gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia di Milano nel caso di Gaetano Porcino dell’Idv «sarà uno sfortunato caso». Lo scorso 23 febbraio dopo otto ore di camera di consiglio, la seconda sezione della Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi dei 50 boss condannati in Appello e ha di fatto confermato le sentenze degli altri gradi di giudizio: 300 anni di carcere. La pronuncia ha respinto la richiesta di annullamento fatta dallo stesso procuratore generale per «difetto di motivazione». È la prima sentenza passata in giudicato sulla ‘ndrangheta nel Nord Ovest: «Questa pronuncia – commenta il procuratore capo, Armando Spataro a La Stampa – conferma l’eccellente lavoro della Dda di Torino e della polizia giudiziaria».
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
Torino, giro di vite del procuratore Spataro: "Denuncerò i pm che gestiscono la notizia come cosa propria". Incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia: "Giusto accedere agli atti ma solo da un certo momento in poi, deciderà il giudice cosa è rilevante e cosa no". E conferenze stampa "solo in casi eccezionali", scrive il 9 dicembre 2015 “La Repubblica”. "Se un magistrato decide di amministrare la notizia come fosse una cosa propria violando il codice disciplinare io lo denuncio al Csm". Il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, stringe le redini al suo ufficio, che regge dal luglio dello scorso anno, nella gestione dei rapporti con la stampa. Serve una comunicazione più ufficiale e più coordinata, quando è possibile, mentre qualche volta negli ultimi mesi il procuratore è dovuto intervenire per reindirizzare le informazioni rese pubbliche su alcuni fascicoli appena aperti. Nel mirino eccessi di protagonismo o di enfasi, da parte di alcuni magistrati, sul proprio lavoro. Ma a lasciare perplesso il capo della Procura anche le conferenze stampa "che servono soltanto in casi eccezionali", mentre i comunicati stampa sono più utili nell'attività ordinaria e meno si prestano a fraintendimenti. In un incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia - a cui hanno preso parte anche i procuratori aggiunti Alberto Perduca e Vittorio Nessi, Paolo Borgna e Andrea Beconi, il direttore de "La Stampa" e futuro direttore de "la Repubblica" Mario Calabresi, il presidente dell'Ordine dei giornalisti Alberto Sinigaglia e quelli degli avvocati torinesi Mario Napoli e dei penalisti Roberto Trinchero - Spataro si è però insistentemente detto favorevole a far accedere agli atti di un'inchiesta i giornalisti, "da un certo momento in poi - ha precisato - e dopo che il giudice abbia deciso che cosa è rilevante e che cosa no" a cominciare dalle intercettazioni telefoniche. "Nessun legislatore - ha affermato Spataro - può sostituirsi al giudice nella valutazione della rilevanza". Spataro in sostanza si è espresso per un rapporto con i mezzi di informazione "più centralizzato e meno spettacolarizzato ma anche collaborativo", con l'apertura a Palazzo di Giustizia, nei prossimi giorni, di una sala stampa per i giornalisti, spesso costretti a lavorare nel bar del tribunale o in altre condizioni precarie. Calabresi e altri giornalisti hanno replicato come la tensione tra magistrati e giornalisti sia un fenomeno naturale, che anzi in sua assenza "il giornalismo è finito". I giornalisti hanno il dovere di non autocensurarsi, ha aggiunto il futuro direttore di Repubblica, e spesso il lavoro di indagine dei cronisti stessi è di supporto a quello dell'autorità giudiziaria che proprio dalla stampa, grazie al suo lavoro autonomo di ricerca delle notizie, riceve informazioni utili alle inchieste.
E RAFFAELE GUARINIELLO SE NE VA...
Guariniello se ne va, dimissioni a sorpresa in anticipo sulla pensione. Il pm dei processi Thyssen e Eternit gioca d'anticipo: lascerà a Natale. Una decisione che lascia intravedere un intento polemico, scrive “La Repubblica” l'11 dicembre 2015. Il pm Raffaele Guariniello (ansa)Si è dimesso il sostituto procuratore Raffaele Guariniello. Con una mossa a sorpresa che anticipa il suo pensionamento,fissato per legge al 31 dicembre 2015, il pm dei processi Thyssen e Eternit ha presentato le proprie dimissioni a decorrere da Natale. Un gesto che il magistrato non ha (ancora) voluto motivare pubblicamente - salvo lasciar intendere che vuole con questo prepararsi a incarichi futuri - ma che palesemente intende rimarcare uno scarto, una differenza rispetto alla conclusione naturale del suo mandato, sia pure con un solo giorno di anticipo: il 30 dicembre anzichè il 31. A differenza di altri colleghi, che si sono rivolti al Capo dello Stato e per i quali il Consiglio di Stato ha sospeso il collocamento a riposo, lui ha preferito scartare: lavorerà fino al 25 dicembre, poi lascerà il suo ufficio al quinto piano del Palagiustizia di Torino. Ma per lui sarebbe già pronto un nuovo lavoro, al momento però ancora top secret. La decisione di Guariniello, di fatto priva di conseguenze concrete, lascia la sensazione che nasconda un intento polemico, anche se non chiaro. Di recente il pubblico ministero, noto non solo per le sue inchieste in materia di salute pubblica, sicurezza, infortuni e malattie professionali ma anche per una particolare esposizione mediatica derivante proprio dal clamore e dall'interesse che le sue iniziative erano solite suscitare, è stato in almeno un paio di circostanze "corretto" dal nuovo procuratore capo Armando Spataro che si è conintestato due inchieste aperte dal sostituto procuratore: quella sulla frode dell'olio extravergine di oliva e, prima, quella sulle emissioni delle auto Volkswagen. Depone così la toga un magistrato che, prima da pretore e poi da pubblico ministero, ha inciso profondamente nella vita, nel lavoro e nelle abitudini di moltissime persone. Sono innumerevoli le inchieste di rilievo cui Raffaele Guariniello ha legato il proprio nome. Oltre a quelle più clamorose e recenti, sulla strage all'acciaieria ThyssenKrupp di Torino e sulle duemila vittime dell'amianto della Eternit di Casale, fin dall'inizio degli anni 70 il magistrato ha condotto indagini di grande importanza come lo scandalo delle schedature Fiat, la campagna capillare sulle condizioni di sicurezza dei locali pubblici dopo il rogo del cinema Statuto, le inchieste sulla presenza di benzene e piombo nelle benzine, sulle origini della Sla, sul doping nello sport (clamorosi i casi del ciclista Pantani e dei farmaci usati dai calciatori della Juventus), sul metodo Stamina di Davide Vannoni. E' stata anche la sua iniziativa a creare una realtà unica come l'Osservatorio dei tumori professionali, capace di vagliare migliaia e migliaia di casi di malattia riconducibili con grande probabilità all'attività lavorativa. E si calcola che, da solo o con i magistrati del pool sulla sicurezza del lavoro della procura, abbia smaltito qualcosa come 30 mila fascicoli giudiziari.
Guariniello: “I processi non funzionano, servono controlli e ordine”. Lascia la magistratura in anticipo sulla pensione: «Non volevo proroghe, avrei solo creato un problema al governo», scrive il 12 dicembre 2015 “La Stampa”. Alla fine, sarà lui ad andarsene. Poche ore prima che sia il decreto di pensionamento a costringerlo. E lo annuncia proprio ora che aleggia la possibilità di una proroga, dopo il ricorso di pochi altri magistrati che come lui hanno raggiunto i limiti di età ma che, diversamente da lui, vorrebbero restare. Raffaele Guariniello, 74 anni, lascerà il suo ufficio a palazzo di giustizia di Torino pochi giorni prima del suo congedo previsto il 31 dicembre. A 48 anni dal suo primo incarico che, nel 1967 lo portò, giovane pretore, in un paese della provincia di Torino per un sopralluogo in un villaggio abusivo di roulotte che sembravano villette: una vita fa, prima delle inchieste sul doping, sull’Eternit, su Thyssen Krupp, su Stamina, sull’olio, che lo avrebbero consacrato agli occhi di molti come un paladino degli ultimi, e a quelli dei più critici come una specie di rockstar in toga. Ha rassegnato le dimissioni, la sua lettera è di qualche giorno fa.
Perché lasciare pochi giorni prima del previsto? Un gesto polemico?
«Non intendo fruire di proroghe. È una cosa che non condivido. Il governo ha già tante difficoltà, perché creargliene altre? E avrei anticipato molto di più, se non dovessi concludere alcune indagini delicate - amianto, colpe professionali, malattie sul luogo di lavoro - perché sento un bisogno di futuro».
E cosa c’è nel suo futuro?
«Per carattere, ho bisogno di operare in un mondo in cui ci sia entusiasmo. Spero di trovarlo in altri contesti».
Quali? Se lo chiedono tutti: cosa farà Guariniello dopo la pensione?
«Mi sono state proposte alcune cose: ci devo pensare, devo ancora decidere. Ma ho bisogno per il futuro di stimoli che siano pari a quelli che ho avuto in passato in magistratura».
Li ha persi?
«Sto notando una giustizia in crisi, con difficoltà che portano a sfiducia e disaffezione, tra carenze di personale e di risorse».
Sono problemi denunciati da molti anni: che cosa è cambiato adesso?
«Le faccio un esempio. Ieri ho fatto un rinvio a giudizio per una malattia professionale: il processo è stato fissato al 2017. Non è colpa del tribunale, è che proprio non ci sono date disponibili prima. Abbiamo lavorato tanto per fare le indagini, gli interrogatori, le consulenze. Che fine farà ora questo processo? Ed è solo il primo grado. La prescrizione galoppa. E se un processo come quello sulla Thyssen, con indagini chiuse in pochissimi mesi, non è ancora arrivato a una sentenza definitiva, figuriamoci quelli che non hanno lo stesso rilievo mediatico. In Cassazione trovo continuamente sentenze che dicono che il reato c’è, ma è prescritto, anche nei settori delicati di cui mi occupo, la tutela della salute e la sicurezza sul lavoro. Con dati impressionanti».
Si riferisce ai numeri sugli infortuni sul lavoro?
«Sì. Quest’anno, a fine ottobre, abbiamo avuto cento infortuni mortali in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, con un aumento del 14%. Eppure è un settore in cui abbiamo fatto tanto, siamo stati all’avanguardia, la procura di Torino è riconosciuta come una punta di diamante in quest’ambito».
Allora che cos’è che non funziona?
«Non è pensabile che un Paese in cui si fanno tutte queste leggi sulla sicurezza ci ritroviamo con questi numeri. Non funziona la pubblica amministrazione, che dovrebbe fare i controlli, e non funzionano nemmeno i processi penali. In questo modo si sviluppa l’idea che le regole ci sono, ma che si possono violare impunemente. In che modo aiutiamo i più deboli?».
Sembrano parole di un uomo rassegnato, eppure lei parla di futuro: come si cambia la situazione?
«É sulla prevenzione che bisogna lavorare, sulla vigilanza. Dobbiamo trovare questi strumenti ed estendere quelli che ci sono, come l’Osservatorio sui tumori professionali. E’ in questa direzione che bisogna andare. Serve più ordine e vitalità nei controlli. Servirebbe un’istituzione che operi su tutto il territorio nazionale. Guardi che non sto dicendo che sia questo il mio futuro…».
Dalla Fiat alla Juventus (e il doping) Guariniello, una vita di inchieste. Il pm dei processi Eternit, Thyssen e Stamina lascia in anticipo: addio alla toga dopo Natale. Dalle mozzarelle blu all’olio extravergine, le inchieste «celebri», scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera” del’11 dicembre 2015.
1. Quarant’anni di carriera. Fin dall’inizio della sua carriera, durata quarant’anni, il nome del pm torinese è comparso sulle pagine dei giornali nazionali e spesso internazionali per avere dato vita a indagini innovative o considerate pilota in alcuni settori. Basti pensare all’amianto, al maxi processo Eternit e all’Osservatorio – nato nel 1995 - dei tumori professionali, che ha trattato circa 26mila casi, riscontrando 15mila esposizioni professionali dannose sotto il profilo sanitario.
2. Il processo alla Fiat. Già alla fine degli anni Sessanta, sulla scrivania del giovane sostituto procuratore compare un fascicolo che riporta il nome di un’azienda che fino ad allora nessuno aveva osato indagare: la Fiat. Dall’attività della polizia giudiziaria del pm emerge un fatto inquietante: l’impresa avrebbe etichettato le persone da assumere “schedandole” con note informative relative alle opinioni politiche delle stesse. Spunta anche l’ipotesi di somme di denaro date a esponenti delle forze dell’ordine e spie, in cambio di notizie riservate. Il processo si conclude con la prescrizione.
3. La Juventus e il doping del calcio. Dopo la Fiat, Guariniello affronta un altro capitolo quasi intoccabile: il doping nel calcio. Parte così il procedimento contro alcuni ex dirigenti della Juventus e di altre società calcistiche. Da allora, il pm torinese esce alla ribalta. E arriva ad aprire quasi trentamila fascicoli fino al 2015. Dal processo Fiat-Alfa, al procedimento sulle tangenti nella Sanità a Roma, dall’indagine di alcuni farmaci dell’Aifa alle verifiche sui collegamenti tra il calcio e la Sla. Dal caso sulla sperimentazione del metodo Di Bella, agli accertamenti sui cosidetti danni da “mucca pazza”. Ogni inchiesta diventa un caso nazionale.
4. Da ThyssenKrupp a Eternit. In procura a Torino Guariniello fonda e diventa capo di un pool che si specializza sulla sicurezza sul lavoro, sulle frodi alimentari e sulla salute. Una decina di giovani pm inizia a lavorare sotto la sua guida e la squadra, negli anni, porta all’apertura di alcune grandi inchieste che contribuiscono a scrivere la storia della giurisprudenza. Nascono così i processi ThyssenKrupp ed Eternit. Sul caso della morte dei sette operai uccisi nel rogo sulla linea cinque dell’acciaieria torinese nel dicembre 2007, il pm ottiene in primo grado una sentenza mai scritta: per la prima nella storia del diritto relativo agli incidenti sul lavoro, un imprenditore viene condannato – a 16 anni e sei mesi - per omicidio volontario. Si apre un dibattito nazionale, insorge la Confindustria. Guariniello va avanti. Porta a termine un’indagine colossale, con seimila parti lese tra morti e malati per amianto. E’ il caso Eternit. Si conclude con la prescrizione, ma Guariniello non si arrende. Prima di andare in pensione il magistrato affiderà a un pm un nuovo fascicolo sulla morte di altre 500 vittime, che comprende anche gli ex lavoratori dell’amiantifera di Balangero (Torino).
5. L’inchiesta Stamina. Seguono le inchieste sulla sicurezza nelle scuole, a partire dal caso Darwin, sulla morte di Vito Scafidi, morto a 17 anni nel 2008 colpito da un trave in aula, e sugli alimenti contraffatti o dannosi per la salute, come le mozzarelle blu. Tra i casi più recenti seguiti da magistrato, c’è il processo Stamina. Finiscono indagati Davide Vannoni, fondatore del metodo che usa le cellule staminali e un’altra decina di persone. L’accusa è pesante: associazione a delinquere. Anche in questo caso l’inchiesta apre un dibattito nazionale e spiana la strada ad alcune prese di posizione da parte della politica.
Dall’olio d’oliva alla Volkswagen. Pochi mesi prima del suo pensionamento, Guariniello si occupa di due nuovi fronti: l’indagine sugli olii di oliva prodotti da grandi fabbriche italiane, venduti come extra vergini mentre in realtà non sarebbero tali. E l’inchiesta sull’inquinamento prodotto dalla Volkswagen.
Guariniello: «Maradona dopo l’interrogatorio salutava i tifosi dalla mia finestra». Il pm in pensione dallo scorso 25 dicembre: dal processo alla Juve alla Thyssen, l’uomo da 30 mila inchieste. Che racconta di quando Maradona si affacciò per salutare i tifosi, urlando «Ti amo Italia». E svela l’amarezza per l’epilogo del processo Eternit, scrive Marco Imarisio su "Il Corriere della sera" del 31 dicembre 2015. «Da dove cominciamo?» Le segretarie sono andate via. Nell’ufficio pieno di fascicoli, cd di musica lirica e libri di poesia, risuona la Turandot. Quasi mezzo secolo. A farsi compiangere dai colleghi che si occupavano di «cose più serie», mentre lui passava il tempo a seguire chimere che si chiamavano salute pubblica, tutela dell’ambiente, dignità del lavoro. «Anche quest’ultima settimana ho ricevuto lettere da tutta Italia. Un prodotto tossico, un bambino che è stato male dopo avere ingerito una merendina. Ho sempre sentito il dovere di dare una mano. Le condanne non mi sono mai interessate, mi bastava risolvere il problema. Sono venuti a trovarmi molti avvocati: procuratore, abbiamo capito che a lei piace processare i reati e non gli imputati. È sempre stato così». Da oggi i verbi vanno coniugati al passato. Raffaele Guariniello, il pretore globale, il magistrato che ha aperto trentamila inchieste ma odiava l’idea di togliere la libertà a un altro essere umano, è in pensione. «Incontro molta gente che mi invita a godermi il riposo. E io penso che allora non mi hanno capito...».
La prima vera inchiesta?
«Facile. 1971, le schedature Fiat sui dipendenti e le loro tendenze politiche. Era un’altra Italia, e va detto anche un’altra Fiat. Quella vicenda risale ai tempi di Vittorio Valletta, dal dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta. Quando sento dire che prima si stava meglio, mi arrabbio. Non è vero. Sui diritti abbiamo fatto passi da gigante».
Cosa combinò quella volta?
«Approfittando delle mie ferie estive, il primo agosto feci una perquisizione a sorpresa, dimenticandomi di avvisare i miei superiori...»
Conseguenze?
«Trovammo lo schedario. E il procuratore capo di allora non la prese bene. Mi disse che ogni magistrato ha una specie di sacca nella quale si vanno a mettere le pietre bianche e quelle nere. Quando arriverà il momento, aggiunse, si conteranno quante sono le pietre di ciascun colore. Non era proprio un incoraggiamento a proseguire con certe iniziative. In quel momento decisi che avrei continuato a occuparmi di questi temi».
Le caraffe filtranti, la farina di castagna... qualche suo collega la accusò di voler processare il gomito della lavandaia.
«Forse mi sono occupato anche di quello. Non si è mai trattato delle mie fantasie, quanto delle risultanze di studi scientifici di valore internazionale. E delle critiche non me ne curavo. A me bastava che l’azienda in questione si mettesse in regola».
A proposito di critiche: l’inchiesta sul doping nel calcio?
«Anni durissimi. Minacce di morte, insulti. Ogni lunedì, mentre andava in onda un noto processo televisivo, mi chiamava mia madre. “Mi sembra che ce l’abbiano con te” diceva. Io la rassicuravo, spiegandole che si trattava di un momento destinato a finire presto. Mi sbagliavo. Durò almeno quattro anni».
Non le era chiaro che il mondo del calcio è particolare?
«Me ne resi conto con l’audizione di Diego Armando Maradona. Mancava dall’Italia da qualche tempo, per via dei suoi problemi con il fisco. Alla fine della nostra chiacchierata aprì la porta dell’ufficio e fece entrare sua moglie. Volle a tutti i costi che le dessi un bacio sulla guancia. Poi mi abbracciò, tenendomi stretto a sé. Ero in imbarazzo. Quando si sciolse da me, Maradona scattò verso la finestra, che avevamo tenuto chiusa per attutire il rumoreggiare della folla radunata sotto la piazza della vecchia procura di Torino. Aprì le imposte e si affacciò benedicendo la gente, come un Papa del pallone. Una scena incredibile. “Ti amo, Italia” si mise a urlare, e ogni volta che lo faceva si girava verso di me per avere la mia approvazione. Io non sapevo dove guardare».
Altri ricordi di quel tempo?
«Quando ci chiese di essere ascoltato, nell’estate del 1998, Nello Saltutti era già malato. Aveva giocato nella Fiorentina degli anni Settanta, che aveva un tasso di mortalità e di malattie inusuale. Era povero, non aveva neppure i soldi per curarsi. Ricordo che ci chiese i soldi per il biglietto di ritorno del treno. Morì d’infarto nel 2003».
La più grande delusione?
«Il recente annullamento per prescrizione delle condanne per Eternit. Data la recente giurisprudenza della Cassazione, non me l’aspettavo».
Non poteva procedere per omicidio, invece che per disastro ambientale?
«Avrebbe significato procedere su ogni singolo caso, perizie ed esami per ogni fascicolo. È quello che stiamo facendo con Eternit bis. Sono convinto che quel processo si farà. Non esserci è il mio più grande rimpianto. Sento un dovere, verso le vittime e anche verso me stesso».
Le soddisfazioni?
«Con il processo Stamina ho visto trionfare la scienza. Anche il processo Thyssen, che si concluderà in ultimo grado di giudizio a maggio, è stato un grande risultato, con il riconoscimento della responsabilità della società».
Come desidera essere ricordato?
«Con ironia e leggerezza, ci mancherebbe altro. Anni fa Lorenzo Necci, all’epoca amministratore delegato delle Ferrovie, dopo un interrogatorio si congedò così. “Dottor Guariniello, lei è davvero un rompic...”. Lo disse senza malanimo, scherzando. La sua definizione forse era riduttiva, incompleta. Però mi è sempre sembrata un gran complimento».
GRINZANE E LA MAFIA BIANCA.
Giuliano Soria, il papà del Premio Grinzane: "Soldi in nero, tartufi, cene, viaggi e sbronze. Così pagavo i moralisti di sinistra", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano” l’11 novembre 2015. Giuliano Soria quando parla ama tenere le mani appoggiate dietro la testa. Quasi a stringere i ricordi. Buoni per molti, ma non per tutti. Langarolo doc, 64 anni, a marzo è stato condannato in Appello a 8 anni e tre mesi per la gestione del Premio Grinzane Cavour di cui è stato per quasi un trentennio il dominus assoluto. È accusato di aver sperperato 4 milioni di fondi pubblici. Soldi che lui sostiene di aver in gran parte utilizzato correttamente e in parte dovuto versare nella greppia che ingrassava il caravanserraglio degli habitué del castello. In particolare quella fetta di mondo progressista che camuffa l’ingordigia con pose pensose e sopraccigli corrucciati. E così il “conto” di Cavour ha rimpinzato politici, intellettuali, giornalisti, attori, per lo più girotondini del pensiero debole e della tasca robusta. Oggi Soria è ritornato in pista con mille progetti, dirigendo due collane di libri e riprendendo le sue lezioni di Letteratura spagnola all’Università di Roma Tre. Ma soprattutto ha pronti un romanzo e un pamphlet sulla sua vicenda giudiziaria che dovrebbe uscire dopo la sentenza della Cassazione. Ora con le mani a sorreggere la nuca affronta anche questa intervista.
Soria che cosa sta succedendo nel mondo della cultura torinese? Prima hanno condannato lei e adesso indagano pure sulla conduzione del Salone del libro da parte del presidente Rolando Picchioni, accusato di peculato.
«A Torino la pentola ha perso il coperchio. Non c’è solo il salone del libro in crisi, ma un sacco di altri enti, dal museo del cinema, alla film commission al teatro stabile. Chiuso il vivaio Fiat che aveva collocato i suoi in mille incarichi, la città è nuda in mano alla solita cricca comunista che blocca tutto, guardando al passato e non al futuro. Usa la cultura per piazzare personaggi scomodi o peggio. Per esempio Picchioni, lo hanno nominato al Salone perché in politica “rompeva”, “sapeva troppo”, “era un rompicoglioni”».
In appello ha ottenuto un’importante riduzione della condanna che le aveva inflitto il tribunale e ora è in attesa della Cassazione. Nel frattempo sta preparando un pepatissimo pamphlet su chi si è rimpinguato grazie al premio Grinzane.
«Sì, ma sarà anche un libro-denuncia sul linciaggio morale che ho subìto. Pensate che un giornale torinese ha dedicato una pagina intera a mia madre inventandosi che era stata in carcere. Sono stati querelati ed hanno pagato fior di quattrini! Per fortuna mia mamma non si è persa d’animo e anzi, a 90 anni suonati, ha inaugurato un blog di cucina e ha scritto il suo romanzo d’esordio, intitolato La littorina di Nosserio».
Alcuni suoi stretti collaboratori sostengono che il suo pamphlet contenga nomi eccellenti. Dicono che varie pagine siano dedicate a importanti magistrati…
«Dicono il vero, del resto basta andare a controllare i verbali di approvazione dei bilanci del Grinzane per trovare personaggi interessanti. Comunque su questi argomenti ho l’assoluto divieto da parte del mio difensore Luca Gastini a proferire anche una sola parola. Si aspetta un grande risultato dalla Cassazione e non vuole che qualche mia uscita possa interferire negativamente. Ma questo mi sento di dirlo comunque: pensate che avrei chiesto a un autorevolissimo magistrato torinese di far parte del consiglio del premio se avessi avuto qualcosa da nascondere nei conti? In ogni caso nel mio libro denuncia non parlerò solo di giudici».
Non ha paura delle querele?
«Se vuole saperlo io ho accusato decine di persone del mondo della politica e dello spettacolo, ma nessuno, dico nessuno, mi ha querelato. Come mai?».
Allora passiamo al piatto forte: gli scrocconi della politica, del mondo dell’arte, del giornalismo e del cinema. Da chi cominciamo?
«Dai giornalisti. Ho dovuto pagare in nero un’enormità di servizi direttamente a chi li realizzava. Nella vostra categoria Corrado Augias era ed è il più sfacciato di tutti. Lui lavora solo in nero. Lo sanno tutti. Fa il moralizzatore in pubblico e poi in privato è indecente. Sarà venuto 15-20 volte a presentare il premio e mi diceva se mi paghi in nero mi devi dare 5-7 mila euro, se no il doppio. Me li ha chiesti persino quando abbiamo presentato un suo libro al Grinzane Noir di Orta (Novara ndr)».
Sono accuse gravi. Mi vuole dire che neppure Augias l’ha denunciata?
«Assolutamente no. E su di lui non ho finito. Veniva spessissimo a Parigi a pranzo da me con la moglie e mi diceva sempre: “Bisogna che una volta ti inviti io”. Ebbene una sera lo ha fatto, nella sua casa in Montparnasse. L’appartamento era molto piccolo ed erano attesi otto invitati. Allora io gli chiesi: “Ma dove ci metti?”. Lui mi guardò e disse: “Hai ragione, allora andiamo al ristorante”. Scelse il prestigioso La Coupole, a tavola eravamo tre uomini e cinque donne. Alla fine sentenziò che il conto andava diviso tra i soli cavalieri. In pratica mi ha fatto offrire a due sue ospiti la cena che si sarebbe dovuta tenere a casa sua».
Veniamo alla politica. Lei ha raccontato di aver elargito all’attuale governatore del Piemonte Sergio Chiamparino un sostanzioso finanziamento in nero.
«Confermo di avergli consegnato un bel gruzzolo in contanti: 20.000 euro glieli ho dati in un bar in piazza Vittorio a Torino e ho i testimoni. Glieli ho messi in una busta nascosta dentro a un giornale. Lui era imbarazzato dalla presenza della scorta, ma ha preso la busta. Eccome se l’ha presa! Altri 5.000 glieli ho portati in casa dell’ex assessore alla Cultura Fiorenzo Alfieri, uno che mi scroccava spesso casa a Parigi e che faceva il “raccoglitore” dei fondi pro Chiamparino».
Si prende la responsabilità di quel che dice?
«Certo che sì».
Una delle ospiti più assidue della sua corte è stata Mercedes Bresso, l’ex governatrice del Piemonte. Lei nella sua memoria difensiva ha scritto che aveva imposto il marito Claude Raffestin in tutti i viaggi e persino dentro a una giuria. Ha pure detto che «Bresso esigeva che si invitassero i suoi amici a spese nostre».
«La Bresso ha avuto molto dal Grinzane, soprattutto in termini d’immagine. Poi sul piano personale anche una grandiosa festa per il suo compleanno nel teatro d’opera dell’ex ambasciata prussiana a San Pietroburgo, dove mi aveva chiesto di organizzare un’edizione del premio. Fu un ricevimento per duecento ospiti, da vera zarina! Anche il marito ci deve molto. In alcune occasioni hanno utilizzato gli eventi del Grinzane per ritagliarsi i loro personali vantaggi».
Lei asserisce di essere intervenuto per far pubblicare il noir della Bresso Il profilo del tartufo?
«Certo. Era una cosa che non stava in piedi da sola. Io me ne occupai pagando di tasca mia anche un pesante lavoro di editing. Quando uscì, la signora nelle prime pagine si sperticava in lodi nei miei confronti. Poi, dopo che mi indagarono, fece fare in fretta e furia una nuova edizione. È tutta da ridere!».
A proposito di tartufi, è vero che gli scrocconi del suo seguito ne andavano matti?
«Il più ghiotto era il “compagno” Gianni Oliva, ex assessore regionale del Pd, un gran mangiatore di trifola. Dovevo rifornirlo spesso, ovviamente gratis: pare che il tartufo sia un afrodisiaco e, parola di Oliva, con lui sortiva quell’effetto».
Nel suo libro nero ci sono altri politici?
«Sì, per esempio c’è un onorevole romano: era insistente ed insaziabile, in particolare ai tempi in cui era sottosegretario. Lui veniva a prendere i soldi qui nel mio ufficio torinese al primo piano e mi chiedeva di chiudere le tende perché non ci vedessero dal palazzo di fronte. Avrà ritirato 30-40 mila euro e gli amici della sua corrente, che conosco personalmente, sospettavano che non li avesse portati al partito, ma se li fosse tenuti per sé».
Non ha elargito solo buste, ma anche lussuosi soggiorni. Ci indichi qualche bon vivant a spese dei contribuenti…
«A parte i nomi che ho già fatto e che sono quindi noti c’è un famoso storico dell’arte, Salvatore Settis».
Settis? Ma è appena stato adottato dal blog del Movimento5stelle. Sarà un brutto colpo per gli attivisti…
«Su Settis posso dire che ha fatto modificare lo Statuto della Scuola Normale di Pisa pur di essere rieletto la terza volta direttore. Giudicate voi!».
Ha detto di aver ricompensato in nero star come Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari, Charlotte Rampling, Michele Placido, Giancarlo Giannini, Franco Nero, Vincenzo Cerami. Chi era il più avido?
«Il più ingordo era Giannini. Finita la cerimonia voleva essere pagato subito, ovviamente cash. Mi ricordo che una volta mi chiese insistentemente i soldi in un corridoio, altrimenti non sarebbe entrato nella sala dove si teneva la cena di gala. L’ho dovuto saldare sull’unghia, credo nell’anticamera di un bagno. Cose da matti. In realtà pochi attori italiani e stranieri sono immuni dal sistema del nero. Pensi che ho dovuto retribuire in contanti Eleonora Giorgi persino per farla venire alla festa della Vendemmia nell’ottobre del 2008…».
Sono affermazioni gravi...
«Me ne assumo la responsabilità».
Ha scritto che il grande romanziere statunitense Philippe Roth è costato 30.000 euro in forma non ufficiale. Ci spieghi meglio.
«Quando premiavamo uno scrittore all’estero, lo facevamo cash e senza fattura. L’ho rimunerato personalmente all’Italian Academy della Columbia university. Ricordo che era irritato perché i giornalisti italiani non parlavano in inglese e nemmeno il direttore editoriale dell’Einaudi».
Chi altro è stato pagato sottobanco?
«Quasi tutti. Da José Saramago a Osvaldo Soriano, da Paulo Coelho, ad Adolfo Bioy Casares a Sepulveda. Non è andata diversamente con i cubani. Pensi che Tahar Ben Jelloun, da presidente della giuria, mi disse che non voleva la ricevuta, ma essere liquidato in contanti. Una cosa impossibile per i giurati, che venivano ricompensati in modo ufficiale. Ben Jelloun ha un rapporto particolare con il denaro. Ricordo che voleva divorziare dalla moglie e quando scoprì quanto gli sarebbe costato iniziò a sussurarle “j’e t’aime”. L’ho pure dovuto salvare da una grana giudiziaria, visto che per cupidigia aveva venduto i diritti di un suo libro a due diversi editori».
Col Grinzane lei ha anticipato diversi premi Nobel, come quello al nigeriano Wole Soyinka.
«Uno snob. Mi scrisse che non trovava giusto che dei ragazzi di liceo giudicassero uno scrittore del suo livello, visto che era un principe dell’antico popolo Yoruba. C’è da dire che dopo che lo abbiamo premiato alcuni protestarono facendoci notare che l’opera con cui aveva vinto era un rimaneggiamento di quella del leggendario Amos Tutuola, un nomade che trasmette i suoi racconti per via orale».
Tutuola chi?
«Amos Tutuola. Si presentò a un appuntamento con me in Africa con la sua tribù e i suoi cammelli, annunciato da una nuvola di polvere. Quando lo invitammo in Italia, si fermava per strada ad abbracciare i copertoni delle ruote».
Come sono questi premi Nobel visti da vicino?
«Umanissimi. Mi ricordo che il polacco Czeslaw Milosz, ormai ottantenne, venne al premio e si ubriacò di Barolo. Gli chiedemmo perché a fine serata si stesse scolando tutto il vino che era rimasto sulla tavola e lui ci spiegò che quello era l’unico modo “to fuck” la giovane e splendida moglie che lo attendeva in stanza. A| contrario, Soynka non aveva certo bisogno dell’alcol per soddisfare le donne, quel monumentale africano era un grande amatore. Almeno così mi assicurò una mia collaboratrice. Con Sepulveda, invece, ricordo tremende ciucche di grappa».
Ha conosciuto anche il grande Jorge Luis Borges.
«Parlavamo di tutto e sul conflitto delle Falkland mi regalò un aforisma fulminante: la definì la guerra tra due calvi per un pettine. Quando gli domandai quale fosse il più grande errore della sua vita mi mise una mano sulla spalla, quasi accarezzandomi, e disse: “Caro Soria, mi sono dimenticato di essere felice”».
Torniamo al suo j’accuse. Lei sembra particolarmente divertito dalla voracità di Alain Elkann, padre di John, il presidente della Fiat Chrysler Automobiles…
«È un flagello per le lettere italiane: vacuo e spendaccione con i soldi degli altri. Al grande evento del Grinzane a New York superò sé stesso: pretese la first class per sé e la moglie, allora era Rosi Greco, e l’alloggio all’Hotel Carslyle, un 5 stelle lusso. Mi ricordo quanto mi disse l’avvocato Gianni Agnelli di lui: “Possibile che mia figlia Margherita tra tutti gli ebrei geniali abbia finito per sposare l’unico c…”».
In questi mesi qualcuno l’ha chiamata per chiederle di essere cancellato dal suo mémoire?
«Moltissimi mi hanno contattato per essere risparmiati. Esponenti della politica e della Rai. Ma qui non vale il noto proverbio africano: “Dove c’è un desiderio si trova sempre un cammino”. Qui non ci sarà cammino».
Al Grinzane c'era pure Ezio Mauro. Poteva non sapere dei soldi in nero? Scrive di Adriano Scianca su “Libero Quotidiano” il 20 febbraio 2015. «Non poteva non sapere». Quante volte abbiamo letto sulle pagine diRepubblica questo sillogismo passepartout grazie al quale condannare - eticamente o, se è il caso, penalmente - avversari politici del giornalone di De Benedetti, a cominciare da Silvio Berlusconi? Il moralismo progressista ha in effetti abusato per anni della logica della complicità oggettiva. Ora, tuttavia, sembra che questo bizzarro meccanismo inquisitorio si sia inceppato. Guarda caso proprio nel momento in cui sarebbe tornato utile per andare dal direttore Ezio Mauro e chiedergli se lui, invece, poteva davvero non sapere del magna magna radical chic che girava attorno al Premio Grinzane. Ma sì, quel premio culturale che si è scoperto essere in realtà strumento «per compiacere il mondo politico e dello spettacolo» con regali, viaggi, feste e soldi in nero, secondo la deposizione spontanea rilasciata davanti alla Corte d’appello di Torino da Giuliano Soria, ex patron del Grinzane, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo di reclusione. Alla mangiatoia del culturame si sarebbero rifocillati, secondo Soria, politici come Sergio Chiamparino e Mercedes Bresso, nonché scrittori come Corrado Augias, Alain Elkann e Philip Roth o attori come Michele Placido, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli ed Isabella Ferrari. Sarà vero? Gli interessati hanno tutti smentito indignati, ovviamente, ma su come stiano le cose l’ultima parola la diranno i giudici. Intanto qualche cosa potrebbe forse dircela proprio Ezio Mauro, che nel castello di Grinzane Cavour è di casa. Dagospia ha infatti ricordato che il premio letterario italiano fondato nel 1982 da don Francesco Meotto e portato al successo proprio da Soria, ha visto il direttore di Repubblica presidente della giuria dal 1993 al 2000. Ma se davvero l’aspetto culturale era tutta una pantomima, se si trattava solo di pubbliche relazioni e clientele politiche, di ruote unte e rimborsi spese gonfiati, di fondi pubblici succhiati voracemente a fini occulti, come faceva il presidente della giuria a non sapere? Non parliamo dell’usciere o della donna delle pulizie, ma di una persona che su chi invitare, chi premiare e chi rimborsare doveva pur dire la sua. Possibile che negli otto anni passati seduto accanto a Soria neanche il più labile sospetto abbia attraversato la mente del più integerrimo dei giornalisti italiani? E se anche ora decidessimo di far valere a corrente alternata la logica del «poteva non sapere», resta comunque da chiedersi se la cosa non sia imbarazzante dal punto di vista professionale: ma come, un cronista si trova per anni in mezzo a un diabolico intreccio di potere, denaro e cultura, dentro a una macchina per ingrassare le tasche dei soliti noti, e non si accorge di nulla? Ma dai, è roba che come minimo fa sorgere qualche domanda. Magari dieci, secondo la tradizione di Repubblica. A Ezio Mauro basterebbe rivolgerne un paio: «Come ha fatto, direttore, a trovarsi per otto anni in mezzo a un meccanismo per sottrarre illecitamente fondi pubblici senza avvertire il minimo sentore del marcio che covava sotto la coltre della bella kermesse culturale?». E ancora: «Perché rispetto a uno scandalo che è tanto più grave in quanto riguarda il bel mondo della cultura e non i soliti rozzi imprenditori senza scrupoli, un giornale come Repubblica, che fa della battaglia per l’etica civile un cavallo di battaglia, tratta la questione con un profilo basso, bassissimo, quasi imbarazzato?». A voler pensar male potrebbe venire in mente che tanta cautela - la notizia sprofondata nelle pagine interne, gli articoli scritti con eccessi di garantismo che un’olgettina qualsiasi si può scordare, con il punto di vista degli accusati da Soria sempre preponderante sull’accusa stessa - non sia affatto casuale. Del resto se Mauro era il presidente della giuria, un’altra penna di rilievo di Repubblica non è forse accusata da Soria di essere stato «assillante nei pagamenti in nero sfiorando l’indecenza»? Parliamo di Corrado Augias, che ha ovviamente respinto al mittente sdegnosamente le accuse ma su cui l’ex patron del Grinzane sembra certo: «Chiedeva 8mila, 10mila euro a evento, e ne avrà fatti una quindicina con noi, li voleva in nero». Magari erano a sua insaputa.
Giuliano Soira, le accuse a Isabella Ferrari (star a teatro con Marco Travaglio), scrive “Libero Quotidiano” il 18 febbraio 2015. Sul sito di Repubblica si trova ancora traccia di un appello audio registrato da Isabella Ferrari qualche tempo fa. Basta cercare nella sezione «Lo speciale. Un milione di donne: via Berlusconi». Si sente l’attrice - nota per le bollenti scene di sesso di celluloide con Nanni Moretti - spiegare che ci troviamo di fronte a un «degrado culturale, morale, etico della società civile italiana», ovviamente causato dal berlusconismo. Era il 2011. E la Ferrari sosteneva che «in questo Paese c’è soltanto bisogno di essere furbi, belli, pronti a qualunque prezzo morale». Viene per lo meno da chiedersi, allora, quale fosse il prezzo - morale o materiale - per la partecipazione della Ferrari agli eventi organizzati da Giuliano Soria. Certo, può darsi che l’ex patron del premio Grinzane Cavour menta, quando elenca «la sfilza» di attori che venivano pagati in nero per presenziare al festival di Stresa e ad altre piacevoli attività. O può darsi che non dica la verità quando fra questi inserisce anche la Ferrari. Speriamo che sia così. Perché altrimenti l’ipocrisia sarebbe palese. La nostra voleva cacciare Silvio e si mostrava schifata per lo stato di una nazione in cui la donna è ridotta al ruolo di «geisha che dispensa i suoi favori all’uomo che le dà delle mance». Beh, stando a quanto sostiene Soria, le «mance» le prendevano anche gli uomini e le donne di spettacolo, elargite da lui, grazie a finanziamenti pubblici generosi e a un giro di fatturazioni che permetteva di gestire tutto al riparo di occhi indiscreti: quelli del Fisco prima di tutto. Dunque speriamo che non sia vero, che la Ferrari è stata pagata così. Perché altrimenti dovrebbe spiegarlo ai numerosi spettatori che affollano le platee dei teatri per vederla recitare assieme a Marco Travaglio in esempi di teatro civile come «Anestesia totale». Dove, ovviamente, si deplorano il malcostume e la corruttela dell’Italia. Di cui la vicenda del Grinzane è un fulgido esempio. (FRAN. BOR.)
Soria: “Pagavo politici, vip e giornalisti”. L’ex patron del Premio Grinzane Cavour accusa: “Viaggiavano a mie spese e chiedevano soldi”. E fa molti nomi: dalla Bresso a Leo, da Vernetti agli ex assessori Alfieri e Oliva. "Non sono certo l'unico responsabile, tanti ne hanno beneficiato", scrive "Lo Spiffero". Tanti ne hanno approfittato, qualcuno solo per farsi bello e guadagnare in prestigio, ma molti hanno beneficiato direttamente: viaggiando a scrocco, partecipando a iniziative in mezzo mondo, alcuni anche ottenendo compensi e fondi in nero. Vuota il sacco Giuliano Soria ed è un fiume in piena che rischia di travolgere il mondo politico e parte dell’establishment, piemontese e non solo. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, parla per la prima volta e al processo d’appello scaglia accuse durissime. Tra i nomi citati da Soria c’è l’ex presidente della Regione Mercedes Bresso, il suo assessore alla Cultura Gianni Oliva (“Ha viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. È un appassionato di tartufi”, spesso ospite nel suo appartamento di Parigi o agli eventi di Addis Abeba), il predecessore del centrodestra Giampiero Leo ("Abbiamo aiutato economicamente in nero"), l’ex responsabile della Cultura del Comune di Torino Fiorenzo Alfieri, ma anche l’ex parlamentare Gianni Vernetti (“più volte”) e l'onorevole Gianluca Susta. Per ben due volte il "vorace" Alfieri ha battuto cassa per sostenere Sergio Chiamparino, cosa che lui avrebbe prontamente fatto. Persone che lo blandivano, lo riverivano, si vantavano della sua frequentazione, e poi al primo inciampo l'hanno scaricato. Nella sua lunga deposizione Soria ha anche rivelato l’escamotage attraverso il quale riusciva a “liberare” i soldi in nero da utilizzare per pagare politici e personalità: si tratta di una serie di fatture emesse a tal Carmelo Pezzino: false fatturazioni per lavori inesistenti. Ma è il milieu che ruotava attorno al Premio e alle sue manifestazioni a rivelarsi interessante. Alle cene e agli eventi la “zarina”, ora eurodeputata Pd, era sempre presente, spesso insieme al marito, destinatario di regali costosi. C’era il dirigente regionale Roberto Moisio, una sorta di cardinale Richelieu: “Era lui il vero attore”, ha detto. Con queste dichiarazioni Soria ha cercato di attenuare le responsabilità di suo fratello Angelo, ex dirigente della Regione, autore di alcune delibere con cui stanziava finanziamenti diretti alla galassia di associazioni che ruotavano intorno al premio: “Le decisioni venivano prese sopra la sua testa”. La “scellerata convenzione” tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour era stata firmata sotto il regno della giunta di Enzo Ghigo (Forza Italia) e Leo (ora Ncd). Ha parlato poi del dirigente del Ministero dei beni culturali Gaetano Blandini e dell’ex direttore regionale dei Beni culturali in Piemonte Mario Turetta, ora diventato direttore della Reggia di Venaria: “Lo stesso Turetta è venuto più volte con i suoi amici”, ha affermato parlando dei numerosi convivi organizzati. Giornalisti di quasi tutte le testate erano ospiti a piè di lista delle decine di iniziative organizzate, così attori e testimonial d’eccezione in grado di dare lustro: da Michele Placido a Giancarlo Giannini, da Stefania Sandrelli a Isabella Ferrari. E ancora Alain Elkann (“che pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13mila euro”), Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias (“addirittura assillante sui pagamenti in nero”).Tutti alla corte del Caudillo del Monferrato che ammette di “aver commesso molti errori”, di aver maltrattato i collaboratori (il castello ha iniziato a franare proprio dopo la denuncia per molestie sessuali del suo domestico), ma non ci sta a passare per unico responsabile di una “macchina di cui tanti hanno goduto benefici”. “Non regge il vestito che io sono l’unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito”. Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: “Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che è stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva”.
Ampio eco poi ha avuto sulla stampa nazionale, di cui si da conto anche con le versioni di tutti gli interessati.
Processo Soria: “Fondi neri per politici, attori e giornalisti”, scrive Andrea Rossi su “La Stampa”. Il patron del Grinzane Cavour: “Sono pentito per Nitish e per i collaboratori su cui scaricavo il mio stress, ma c’è chi viaggiava a nome del premio e chiedeva soldi”. Il sostituto procuratore generale ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado. «Sono pentito, ho commesso molti errori. E mi dispiace, soprattutto per i miei collaboratori su cui scaricavo il mio stress e per Nitish (il domestico che l’ha denunciato per molestie, ndr) cui ho provocato molte sofferenze». In aula al processo d’appello che si è aperto ieri Giuliano Soria parla per la prima volta. Il patron del Premio Grinzane Cavour, condannato in primo grado a 14 anni e mezzo, scaglia accuse durissime. E rivela che il fiume di fondi neri creato dal Grinzane serviva per compiacere politici, attori e scrittori. I primi - e Soria ne cita molti, da Bresso a Leo, da Vernetti (Pd) agli ex assessori Alfieri e Oliva - viaggiavano a spese del premio, si facevano ospitare e chiedevano soldi. Attori e scrittori invece - da Giancarlo Giannini a Stefania Sandrelli, da Isabella Ferrari a Michele Placido - pretendevano di essere pagati in nero per partecipare agli eventi del Grinzane. Soria difende il fratello Angelo, ex funzionario della Regione, anche lui condannato: «La politica ci usava per il suo prestigio. Non regge il vestito secondo cui avrei fatto tutto da solo. Tutti sapevano che funzionava così. Invece hanno scatenato contro di me una campagna di linciaggio morale». «Ho sostenuto l’allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha affermato, «e ho aiutato l’assessore Alfieri voracemente». Poi ha citato gli assessori Oliva e Giampiero Leo («In nero»), il parlamentare Gianni Vernetti («Più volte»). Fra i giornalisti che beneficiavano delle iniziative del premio «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero». Alain Elkann «pretese per sé e la moglie di allora un viaggio a New York che ci costò 13 mila euro». Poi Soria ha elencato «la sfilza di attori pagati in nero» in occasione del festival di Stresa. «È costume nel mondo dello spettacolo». Il primo è Giancarlo Giannini, «che volle essere pagato prima ancora di entrare». «Partivo per Stresa - ha raccontato - con 100 mila euro per gli attori». Il sostituto procuratore generale Corsi ha chiesto la conferma delle condanne in primo grado con l’eccezione dei reati caduti in prescrizione. E dunque: 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per Soria, 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, e 2 anni e 10 mesi per lo chef Bruno Libralon.
Soria a processo: "Con i fondi neri del Grinzane ho pagato politici, giornalisti e attori". L'ex patron: "I vip ci usavano per il loro prestigio". Poi fa i nomi: da Giancarlo Giannini a Michele Placido, da Alain Elkann a diversi assessori comunali e regionali. Attacco a Mercedes Bresso: "Il premio dipendeva da lei". Il presidente della Regione, Chiamparino: "Posso capire che getti fango nel ventilatore per difendersi". Il pm chiede 11 anni 9 mesi: "Le scuse non bastano", scrivono Federica Cravero e Sara Strippoli su “la Repubblica”. Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano: di questo ha parlato Giuliano Soria, ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, interrogato oggi a Torino al processo d'appello in cui risponde di peculato. I vip, ha detto, "ci usavano per il loro prestigio". Soldi in nero a politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo. Giuliano Soria, ex patron del Premio Grinzane, e' comparso questa mattina davanti alla Corte d'appello di Torino dove e' accusato di peculato e molestie ad un collaboratore, per le quali in primo grado e' stato condannato a 14 anni e mezzo di reclusione, per una deposizione spontanea nella quale ha sottolineato che il premio culturale da lui guidato era uno strumento "per compiacere il mondo politico e dello spettacolo che ci usavano per il loro prestigio". "Non regge il vestito che io sono l'unico responsabile di questa macchina. Non avrei potuto portare questo vestito". Soria ha sottolineato più volte di considerare il Premio come un figlio: "Sento il problema di aver perso un figlio. Di aver dedicato 28 anni della mia vita a qualche cosa che e' stato distrutto. Mi chiedo se questa non sia una colpa collettiva". Nella sua deposizione, Soria ha fatto un lungo elenco di nomi di persone che hanno utilizzato la macchina del Premio per viaggiare gratuitamente all'estero o ricevere denaro in nero oltre a quello consegnato con i premi. "Abbiamo dato soldi in nero a politici, attori e scrittori", è un fiume in piena Giuliano Soria, che in aula al processo d'appello ha reso spontanee dichiarazioni per difendersi dalle accuse - dalle molestie sessuali al peculato - per cui in primo grado è stato condannato a 14 anni e mezzo. "Ero stressato e sono dispiaciuto di ave provocato a Nitish tanto dolore", ha detto a proposito del maggiordomo mauriziano maltrattato dal patron del premio Grinzane Cavour. Ma è quando parla degli ospiti che la testimonianza fa tremare il jet set quando ha tirato in ballo diversi nomi noti che avevano girato il mondo a spese del Premio: "Mario Turetta (ora direttore di fresca nomina della Reggia di Venaria, n.d.r.) con i suoi amici, Alain Elkann, l'onorevole Susta, Gianni Oliva...". E poi: "Ho sostenuto in nero l'assessore Giampiero Leo, l'assessore Alfieri era vorace, chiedeva anche aiuti per il sindaco Chiamparino che ho sostenuto in due occasioni". In particolare il mondo dello spettacolo pretendeva di essere pagato in nero: "Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Corrado Augias e i fondi neri li trovavamo attraverso le fatture di Carmelo Pezzino". "Il Grinzane Cavour dipendeva dai politici - ha spiegato in aula - e in particolare da Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, che lo usava per le sue attività di relazione. Molte manifestazioni sono state organizzate soltanto per compiacere lei e il marito". "Lui non mi ha mai pagato nulla e le sue sono affermazioni ridicole e pazzesche" è stata la replica di Bresso, oggi europarlamentare. Soria, in particolare, ha citato due iniziative del premio, una all'Hermitage di San Pietroburgo - in occasione del compleanno di Bresso - e l'altra a Vinadio. "Era - risponde l'ex presidente - una normale cena ufficiale del Premio Grinzane, certamente non organizzata in mio onore. Casualmente era il giorno del mio compleanno e alla fine c'è stata una torta. Io non conoscevo nessuno degli invitati, salvo chi aveva offerto la cena al Grinzane, cioè Ceretto, che era uno degli sponsor del Premio". "Mio marito - aggiunge Bresso - aveva fatto gratuitamente il giurato per il Premio e in alcune occasioni era stato invitato, sempre gratis, come relatore a dei convegni. L'unica volta che ha accettato qualcosa è stato proprio in una di queste occasioni quando, alla fine del convegno, gli hanno offerto un libro. E questo è tutto". Soria, durante il suo intervento, ha cercato di scagionare il fratello Angelo (all'epoca dirigente della Regione) dall'accusa di avergli fornito irregolarmente dei fondi pubblici. "Quelle decisioni - ha sostenuto - passavano sopra la sua testa. Le prendevano Mercedes Bresso e Roberto Moisio, direttore della comunicazione della Regione. Se Bresso era soprannominata la zarina, Moisio era 'Richelieu'". "Quando andavo in qualche posto in veste ufficiale - conclude l'ex presidente - ero sempre ben attenta a seguire le regole. Era la Regione a sostenere le spese. E sono tutte cose ufficiali e rendicontabili". Anche Moisio, ex responsabile della comunicazione della Regione, ha affidato all'Ansa, una smentita: "Valuteremo le azioni più opportune non appena avrò le trascrizioni dell'intervento del professor Soria. Le sue affermazioni sul mio conto non corrispondono al vero. Non ho mai preso parte a pranzi o cene". Alle dichiarazioni di Soria in aula replica anche, dopo pochi minuti, il presidente della Regione Sergio Chimparino, tirato in ballo in relazione al finanziamento della sua campagna elettorale per la poltrona di sindaco di Torino: "Non posso escludere che Soria abbia partecipato a qualche cena di finanziamento organizzata da Alfieri o da qualcun altro. Progressivamente da sindaco ho ridotto i finanziamenti alle tante attività del Grinzane. Mi ricordo solo una volta quando sono andato in Langa dove sono rimasto mezz'ora perché mi ero perso. Ero con mia moglie. E ricordo la partecipazione a Parigi per l' anno del Libro dell'Unesco. Dopo la cerimonia, mentre Soria girava in auto blu io ho preso un taxi con Cigliuti e sono andato a mangiare una bistecca in brasserie. Posso comprendere che per difendersi uno getti fango nel ventilatore". Il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto in appello una condanna di 11 anni, 9 mesi e 15 giorni per effetto di alcune prescrizioni sopravvenute nei confronti di Soria, accusato di peculato e molestie sessuali a un collaboratore. In primo grado Soria era stato condannato a 14 anni e mezzo. L'accusa ha poi chiesto una condanna a 6 anni e 8 mesi per il fratello Angelo, ex direttore della Regione Piemonte (rispetto ai sette anni del primo grado) e la conferma della condanna a due anni e 10 mesi per il terzo imputato, lo chef Bruno Libralon. Il pg ha definito sostanzialmente insufficienti le scuse presentate oggi con la deposizione spontanea di Giuliano Soria che ha detto "con i soci era generosissimo, ma con i sottoposti molto meno", costretti a multe e a fare la spia per il capo del Grinzane. "Il suo non era un cattivo carattere ma maleducazione e non mi sento di chiedere le attenuanti generiche" ha detto Corsi ricordando che Soria non ha messo a disposizione dei rimborsi delle parti civili la gran parte del patrimonio immobiliare che tuttora detiene tra Parigi, Torino e Ospedaletti.
Grinzane Cavour, l’ex patron Soria accusa: «Soldi in nero ai politici». Tirati in ballo anche giornalisti e attori, citato Chiamparino. Ma il governatore: «Mai avuto alcun rapporto finanziario con Soria. Lui in auto blu, io in taxi», scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera”. «Soldi in nero a politici piemontesi, giornalisti e attori di primo piano». Giuliano Soria, l’ex patron del Premio Grinzane Cavour, finito in manette per peculato e violenza sessuale e condannato a 14 anni e sei mesi in primo grado, ha deciso di rendere una lunga dichiarazione spontanea al processo d’appello in cui risponde di malversazione dei contributi pubblici e dei maltrattamenti a un giovane domestico. Soria ha fatto - per la prima volta da quando, nel 2009, è scoppiato lo scandalo - nomi e cognomi, lanciando accuse pesanti, di cui dovrà essere accertata la veridicità. In appello, il procuratore generale Vittorio Corsi ha chiesto per l’ex patron del Premio una pena di 11 anni e 9 mesi di reclusione (rispetto al processo di primo grado, alcuni capi d’accusa sono prescritti). «Il Grinzane dipendeva dai politici» ha dichiarato l’ex presidente dell’associazione culturale. «La Bresso, per esempio – ha proseguito Soria riferendosi alla ex presidente della Regione Piemonte - lo usava per le sue attività». «Il vero attore dei contributi regionali era Roberto Moisio (l’ex capo di gabinetto della giunta Bresso, ndr) e gli accordi venivano presi tra me, Bresso e Moisio. Se Bresso era chiamata “la zarina”, Moisio era il suo Richelieu». Soria ha sostenuto davanti alla Corte che il fatto che il Grinzane Cavour venisse finanziato con tranche da migliaia di euro dalla Regione, non dipendesse dalla generosità di suo fratello, Angelo Soria, anche lui imputato, ex funzionario regionale a capo della comunicazione istituzionale. Ma direttamente dalla ex governatrice, che, durante gli anni del proprio mandato regionale, era legata al presidente del Grinzane anche per avere scritto un libro che era stato presentato al pubblico proprio durante un evento culturale creato e sponsorizzato da Soria stesso. «Ho aiutato anche l’assessore Giampiero Leo» ha detto poi Soria, parlando del politico di centrodestra. «Tutti in nero» ha proseguito l’ex patron. E ancora. «Alfieri (ex assessore alla Cultura del Comune di Torino, ndr) per conto di Chiamparino (quando era sindaco di Torino) e direttamente due volte Chiamparino». Soria ha dichiarato di aver «sostenuto» anche Gianni Oliva, del Pd, ex assessore regionale alla Cultura. «Faceva viaggi con la moglie... a lui piaceva tanto il tartufo» ha specificato l’imputato. «Poi c’era Turetta», ha detto riferendosi all’esponente della Sovrintendenza dei Beni culturali. «E c’erano i giornalisti – ha concluso - potrei fare tanti nomi ma ne faccio uno solo: Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace. Per la Rai c’era Perera». «E il patetico Alain Elkann…» ha detto ancora Soria. «Tredicimila euro per lui, per la moglie e i figli, tutti a New York…». La reazione di Chiamparino non tarda ad arrivare. «Può darsi che Soria abbia partecipato a qualche cena di finanziamento organizzata dall’assessore Alfieri o da qualcun’altro, questo non posso escluderlo, ma io non ho mai avuto rapporti finanziari con lui» ha detto il presidente della Regione Piemonte, commentando le dichiarazioni rese in aula dall’ex patron del Premio Grinzane Cavour. «Da sindaco di Torino - ricorda Chiamparino - sono stato costretto sempre a ridurre i contributi alle tante attività del Grinzane. Ricordo ancora quando andammo a Parigi per l’Anno del Libro dell’Unesco. Lui girava in auto blu, mentre noi siamo andati a mangiare una bistecca in taxi nel quartiere latino. È una tattica comprensibile che Soria metta fango nel ventilatore per cercare di difendersi disperatamente». Mentre la capogruppo della Lega Nord in Consiglio regionale, Gianna Gancia, attacca il governatore: «Sentiamo quello che sta dicendo Soria, sono sicura che lei potrebbe arrivare, con la dignità che l’ha sempre caratterizzata, alle dimissioni. Cota è stato buttato giù per molto meno». Al processo, le accuse di Soria sono andate oltre. «Anche gli attori venivano pagati in nero – ha detto l’ex patron del Premio–. Mi dicevano “O ci paghi in nero o costiamo tre volte tanto”». Tra i nomi citati dall’ex patron del Grinzane, anche molti vip: Michele Placido, Giancarlo Giannini, Eleonora Giorgi, Charlotte Rampling. Il sistema, secondo Soria, era collaudato. Il Grinzane Cavour organizzava eventi culturali prestigiosi, non solo in Piemonte, ma in località italiane e anche all’estero. Tutti ricordano i vari premi Grinzane a Mosca, a San Pietroburgo, a New York. Soria contattava politici e personaggi famosi, offrendo loro la villeggiatura in hotel o resort di lusso, pranzi, cene e trasporti per loro e le loro famiglie. Inoltre, per alcuni, ha detto, pagava «le prestazioni», ovvero la loro presenza all’evento letterario, e forse anche altro. Se fosse vero quanto ha dichiarato l’ex patron in aula, se cioè queste persone avessero intascato dei soldi in nero, la situazione potrebbe diventare delicata perché il denaro che Soria usava per finanziare gli eventi dell’associazione culturale proveniva in gran parte da enti pubblici, in primis dalla Regione Piemonte. E il reato di peculato, l’avere usato soldi pubblici per scopi privati, è quello più grave contestato a Soria al processo. «Trattavo male le persone che mi aiutavano a fare grande il Grinzane – ha ammesso Soria alla fine della dichiarazione – lo facevo per compiacere i politici. Ma non sono io l’unico responsabile di questa macchina, non potevo indossare solo io questo vestito. Io ho sbagliato e chiedo scusa ma non sono stato l’unico». «Non ho un carattere facile – si è giustificato - e sono irruento e aggressivo, ma non era facile reggere una macchina complessa. Il Grinzane era presente in 22 Paesi. Anche per questo sono stato insensibile e aggressivo verso collaboratori, ma non ce l’avevo con loro. Mi spiace in particolare per la sofferenza creata in Nitish (il maggiordomo tuttofare che avrebbe subito la violenza sessuale, ndr). Non ho capito quanto soffrisse».
Grinzane, accuse dell’ex patron Soria Augias: sono sconvolto, una vendetta. Michele Placido: «Ha detto solo fesserie, sporgerò querela», scrive Luca Mastrantonio su “Il Corriere della Sera”. «Guardi, è una tale enormità, Madonna... sfiora l’indecenza!». Finisce così la conversazione telefonica con Corrado Augias, iniziata nella tarda mattinata di martedì, quando il giornalista e scrittore aveva appreso, filtrata nei toni, l’accusa di Giuliano Soria. L’ex patron del premio letterario Grinzane Cavour, condannato a 14 anni e sei mesi per peculato e violenza sessuale, all’apertura del processo di appello, martedì, ha indicato Augias nella lista di presunti destinatari di pagamenti in nero per il premio. «La cosa mi ha sorpreso - esordisce Augias -, stiamo parlando di alcune migliaia di euro ricevute per rimborso spese o come premio letterario, di cui ho dato conto all’Agenzia delle entrate. E poi sono passati, quanto? Dieci anni? Per dire: Soria mi chiese di presentare Orhan Pamuk, premiato nel 2002; autore che per altro non conoscevo. Ecco, il valore del Grinzane era la capacità d’intercettare anzitempo grandi autori mondiali». Come Pamuk, che riceverà il Nobel nel 2006, altri futuri Nobel sono stati premiati con il Grinzane internazionale: Gunther Grass, J. M. Coetzee, Doris Lessing, V. S. Naipaul e Mario Vargas Llosa. In trasferta a New York, il Grinzane premiò anche Philip Roth, del quale, al processo, martedì, Soria ha detto: «Per farlo venire non bastavano 30 mila dollari». Le cronache dell’epoca parlavano di un assegno da 25 mila euro. Ma più delle presunte cifre, colpiscono i giudizi di Soria. L’atteggiamento di Augias, infatti, cambia dopo aver appreso che in aula è stato descritto da Soria come «il più vorace, assillante sui pagamenti in nero. Sfiorava l’indecenza». A questo punto Augias sbotta: «Guardi, non è assolutamente vero, mi sgomento, cado dalle nuvole. Si tratta di un insulto personale. Non so, sembra una vendetta personale. Nella mia lunga vita nessuno mi aveva detto qualcosa del genere, siamo alla calunnia». Quale può essere il motivo di un tale attacco? «Non riesco a seguire nessun ragionamento, sono sconvolto, devo assorbire la cosa». In serata, Augias scrive una lettera in cui si riserva di «esaminare gli atti processuali per valutare un’azione di risarcimento danni». C’è spazio anche per un ricordo personale, ora amaro: «Anni fa, nella casa di Quai St. Michel a Parigi, alla presenza tra gli altri di sua madre, Soria ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui». Chi non ha ricordi, né amarezza, è Giancarlo Giannini, anche lui indicato da Soria: «Chi? Sorìa, Sòria, Sorél non so chi sia. Un premio? Mi coprono di premi! Alla carriera, sperando che io muoia. Comunque se insiste - dice accelerando la voce - lo querelo, così mi prendo i suoi soldi... Neri!». L’ha presa molto sul serio Michele Placido: «Sporgerò querela. A Sorì, che vuol dire che nel mondo dello spettacolo si paga tutto in nero? Che vuol dire? Che il Piccolo di Milano che ospiterà la mia compagnia mi pagherà in nero? Che fesseria!». Certo, aggiunge, ci sono delle ambiguità: «Per Romanzo criminale ho ricevuto il Premio di Qualità del ministero della cultura: 20 mila euro. Esentasse, uno dice: lo Stato che fa, si tassa sui premi che dà? Sì! La Guardia di Finanza mi ha fatto un controllo e una multa da diecimila euro. Soria forse ha giocato su queste ambiguità per intascare meglio, ma a me non mi frega».
Soria: "Augias vorace e assillante sui pagamenti in nero". Ma lo scrittore si difende..., scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Augias si difende dalle accuse mosse da Giuliano Soria: "Capisco l'amarezza di Giuliano Soria per la sua vita sconvolta e per quella del premio Grinzane da lui fondato [...] Non mi spiego perché Soria mi includa nel novero di coloro che lo 'sfruttavano' definendomi per di più 'vorace', 'indecente'. Ricordo che anni fa [...] ebbe parole di così grande apprezzamento e simpatia da spingersi a offrire a mia moglie Daniela Pasti di lavorare per lui. È vero che le tre o quattro prestazioni - richiestemi da Soria - sono state pagate come rimborso spese a forfait e, una volta, sotto forma di premio letterario. Di tutte le somme guadagnate, con lui e con qualsiasi altro datore di lavoro, ho sempre dato conto al fisco come dimostra la certificazione dell’Agenzia delle entrate".
Di seguito l'articolo di Francesco Borgonovo pubblicato su Libero di mercoledì 18 febbraio 2015 sulla vicenda di Augias. Dopo le dichiarazioni di Giuliano Soria, possiamo dire che Corrado Augias avrà un motivo in più per essere ricordato nella storia della cultura italiana. Perché la frase con cui Soria lo tira in ballo ha molto di romanzesco: «Corrado Augias era il più vorace, era addirittura assillante sui pagamenti in nero, sfiorando l’indecenza». Gli altri motivi per cui Augias va rammentato sono noti: non solo le sue trasmissioni, ma pure la sua attività di autore di bestseller. In particolare, va citato il volume - presto finito ai piani alti delle classifiche di vendita - firmato assieme al teologo Vito Mancuso e intitolato Disputa su Dio e dintorni. Un attento lettore si rese conto, sfogliando il volume, che qualcosa non tornava. Aveva, come dire, una sensazione di già sentito. Non si sbagliava. La pagina 246 del libro di Augias (a lui attribuibile) era praticamente identica alla pagina 14 del ponderoso volume La creazione (edito da Adelphi) del noto biologo di Harvard Edward Osborne Wilson. In pratica, Augias aveva fatto copia e incolla. Interpellato da Libero sul clamoroso plagio, si difese così: «Mi sono avvalso oltre che di convincimenti e riflessioni personali, di numerose testimonianze, citando la fonte ogni volta che è stato possibile». Cioè: Augias ha scritto un librone assieme a un teologo di fama e per sostenere le sue argomentazioni ha preso a casaccio da internet. Niente male, quanto a etica professionale. Tra l’altro, c’è da notare che quel libro era pubblicato da Mondadori. Cioè la casa editrice di Silvio Berlusconi. E Augias, come noto, non è un grande fan del leader di Forza Italia. La sua lunga attività giornalistica lo dimostra: basta leggere la rubrica delle lettere che tiene su Repubblica, dove si dà arie da gran moralizzatore. Resta celebre una sua intemerata contro Marina Berlusconi, a cui Augias rimproverava di aver preso le difese del padre sul caso Ruby. L’integerrimo Corrado sostenne che la «sdegnata Marina Berlusconi» avrebbe dovuto rendersi conto del «livello morale di suo padre». E, se proprio non poteva fare a meno di difenderlo in pubblico, avrebbe dovuto fare «qualcosa, in privato per salvarlo da una così penosa vecchiaia». Probabilmente, la famiglia Berlusconi non risultava così penosa ad Augias quando gli versava gli anticipi dei libri. Eppure sono numerose le interviste in cui il caro Corrado si è esibito in sermoni contro Silvio. Per esempio quella concessa a Daria Bignardi in cui disse che «in Italia non c’è spazio per un cavaliere condannato per frode fiscale. La revoca del titolo è sacrosanta». Però sorge un dubbio. Anche Augias si fregia del titolo di cavaliere. Dunque, se fossero confermate le accuse di Soria secondo cui avrebbe preteso «sfiorando l’indecenza» dei pagamenti in nero, che farà? Mollerà il prestigioso riconoscimento? Dopo tutto lo ha detto lui: qui non c’è posto per cavalieri che fanno i furbi col Fisco.
"Ho mantenuto politici, artisti e vip di sinistra". L'ex patron del premio Grinzane: "Tutti chiedevano presentazioni, favori, viaggi. Era un sistema", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Il tono è dimesso, ma la precisione è quella di un cecchino. Giuliano Soria, patron indiscusso del Grinzane Cavour, ha una memoria infallibile. E racconta le pagine di quella che lui considera «la colpa collettiva» del Grinzane. Il peccato originale rimosso in gran fretta da un'intera classe dirigente. «Era un sistema, tutti volevano viaggi, chiedevano presentazioni, un favore, una busta in nero, un pagamento sottobanco». La giornata più lunga dell'ex presidente della manifestazione letteraria più acclamata d'Italia inizia con una deposizione a Palazzo di giustizia. Qui Soria, difeso dagli avvocati Luca Gastini, Aldo Mirate, Gianluca Vista e Giorgio Romagnolo, si sofferma sulle debolezze della sua corte. Un tema ripreso in questa intervista al Giornale.
Soria, fu arrestato nel marzo 2009. Sei anni dopo arriva la vendetta?
«Nessuna vendetta. Io voglio solo chiarire come era organizzato questo parterre scintillante. Mi difendo, visto che in primo grado mi hanno affibbiato tutte le colpe del mondo».
Con una condanna a 14 anni mezzo per aver gestito allegramente 4,5 milioni di soldi pubblici.
«Ecco, io mi prendo le mie responsabilità, sono dispiaciuto, sinceramente, sul piano umano per i danni che ho provocato, per esempio al mio maggiordomo Nitish, però un attimo, non esageriamo. Non ero un marziano fuori dal mondo».
Soria, da dove cominciamo?
«Dal più moralista dei moralisti. Corrado Augias».
Augias?
«Partecipava a una miriade di nostre manifestazioni.. Il Grinzane, il Grinzane Cinema, il Grinzane junior, il Grinzane noir. E ogni volta chiedeva, anzi pretendeva di essere pagato in nero».
Questa è la sua versione. Augias negherà, magari querelerà...
«Faccia pure. Lui era una star, esigeva cachet da 7-8 mila euro a botta, il problema è che li voleva assolutamente in nero. Come ho detto davanti ai giudici era assillante fino all'indecenza. E faceva un discorsetto di questo tenore: "Se vuoi pagarmi in chiaro, allora il compenso dev'essere quadruplicato"».
Lei?
«Accettavo. Io ad Augias ci tenevo. Ma non creda che fosse l'unico».
Chi altri?
«Ho pagato in nero star come Stefania Sandrelli, Charlotte Rampling, Isabella Ferrari, Michele Placido, Giancarlo Giannini».
Quereleranno pure loro.
«Facciano pure. Io voglio spiegare il contesto del Grinzane, mi interessa la verità. Adesso, dopo sei anni di attesa, è arrivato il momento di raccontare vizi e debolezze. Per esempio i viaggi a scrocco intorno al mondo».
Chi era della compagnia?
«Il più simpatico è senz'altro Alain Elkann. Organizzo una premiazione a New York per il grandissimo Philip Roth. Lui viene, con la moglie Rosy, e io a spese del contribuente devo sovvenzionargli il viaggio aereo in first, più l'hotel superstellato. Sa cosa vuol dire?».
Ci spieghi.
«Un conto da 13mila euro. Ma non è finita».
Che altro c'è?
«Lui organizza nella sua villa vicino a Moncalieri una festa per il Grinzane con 120 invitati. Provi a indovinare chi ha pagato il conto».
Sempre lei?
«Sempre a spese del contribuente».
Ma era un continuo.
«Con i politici in prima fila. Per la governatrice Mercedes Bresso ho promosso una festa da sogno nella vecchia ambasciata prussiana a San Pietroburgo in occasione del suo compleanno. Duecento invitati, un'orchestra invisibile laggiù, nel golfo mistico, le candele, una superba torta nuziale».
La spesa?
«Una spesuccia, credo di ricordare, da 30mila euro. Consideri anche la sistemazione della Bresso e del marito, dell'assessore alla Cultura Gianni Oliva e della moglie, di vari dirigenti della regione. A proposito Gianni Oliva, storico e autore di molti libri, era un mio cliente affezionato. Mosca, Parigi, San Pietroburgo: non mancava mai. Spesso con la gentile consorte al seguito. E a ottobre...».
A ottobre?
«Mi telefonava: "Sai do una cena, avresti dei tartufi?"».
Lei?
«Regalavo, a colpi di 800, mille, 1.500 euro alla volta. Sempre tartufi bianchi di Alba».
Il Giornale ieri ha anticipato il suo racconto e ha chiamato in causa per finanziamenti illeciti Sergio Chiamparino, allora sindaco e oggi governatore. Chiamparino replica parlando di «fango nel ventilatore».
«Ci siamo visti al caffè in piazza Vittorio. Era il 2006 e Chiamparino ha ricevuto contributi in nero per la sua campagna elettorale. Non una ma due volte, per un totale di 25mila euro. Ventimila euro la prima volta, 5mila la seconda. Altro che ventilatore. C'era un ottimo rapporto, come con la Bresso che deve ancora ringraziarmi perché fui io a far pubblicare il suo romanzo da Rizzoli, curandone anche l' editing».
«Grinzane Cavour», tremano i big Pd, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un sistema ai confini dell'illegalità. Contributi in nero. Viaggi verso mete scintillanti a spese del contribuente. Pagamenti sottobanco. Favori in un reticolo di rapporti. C'era di tutto dietro la vetrina prestigiosa del Premio «Grinzane Cavour », uno dei marchi più robusti della cultura letteraria italiana. Un logo che produceva manifestazioni e premi a raffica, sotto la regia del presidente Giuliano Soria. A quasi sei anni di distanza dalla sua rovinosa caduta, Soria torna in aula, in corte d'appello, per alzare il sipario su quel sistema. E per proporre ai magistrati piemontesi una serie di nomi eccellenti che ebbero rapporti con quel mondo: l'ex governatrice e oggi europarlamentare del Pd Mercedes Bresso, l'ex assessore regionale alla Cultura Gianni Oliva, storico e autore di numerosi libri, l'attuale presidente della regione Sergio Chiamparino, fino a pochi giorni fa fra i candidati al Quirinale. Soria verrà ascoltato questa mattina e dovrebbe fare quei nomi, illustrare alcuni episodi, parlare del contesto dorato in cui si organizzavano trasferte lussuose all'estero, pranzi stellati, happening aperti agli amici degli amici. Il Grinzane calamitava scrittori di grido e premi Nobel, il Grinzane distribuiva doni e contributi ai pezzi da novanta della nomenklatura rossa, era generoso anche con gli amici del centrodestra, e poi con giornalisti, dirigenti del ministero dei Beni culturali, attori. Difficile, alla vigilia, pesare le dichiarazioni di Soria ma certo si annuncia un piccolo terremoto. «Il Grinzane - si è sempre sfogato lui in questi anni di solitudine e polvere - era una colpa collettiva, invece mi hanno addossato tutte le responsabilità». Non era così. E dunque Soria ha deciso di sfruttare l'opportunità dell'appello per mettere i puntini sulle i. Leggerà la memoria che ha preparato e per contestualizzare le proprie responsabilità inevitabilmente punterà il dito in numerose direzioni. Si soffermerà su alcune circostanze e darà la propria versione: un festa fiabesca organizzata a San Pietroburgo, al teatro tedesco, in occasione del compleanno della Bresso, con duecento invitati e un'orchestra a disposizione. E ancora un contributo a suo dire non regolarizzato, destinato a Chiamparino, per alcune migliaia di euro. A seguire un carosello di buste, spedizioni all'estero senza risparmio, e via elencando in un andirivieni di nomi, a cominciare dall'allora assessore alla cultura Gianni Oliva. In qualche modo l'intendimento di Soria, difeso da due principi del foro, Luca Gastini e Aldo Mirate, è quello di disegnare una sorta di affresco di quella realtà che allora tutti consideravano un vanto per il Piemonte. Chiudendo gli occhi davanti alle pagine oscure. Poi tutto precipitò. Soria viene arrestato il 21 marzo 2009 e condannato in primo grado alla pena pesantissima di 14 anni e 6 mesi per la gestione disinvolta di 4,5 milioni di finanziamenti pubblici. Ora proverà a descrivere le ramificazioni e le connessioni di quel piccolo impero culturale che il mondo invidiava. Molti fatti, ammesso che abbiano un profilo penale, potrebbero già essere prescritti. E dunque restare senza conseguenze. Si vedrà in aula. Soria si è preparato con puntiglio all'appuntamento, ma questo naturalmente non vuol dire che la sua testimonianza sia considerata credibile a scatola chiusa. La corte d'appello ha però tutto l'interesse a chiarire, nei limiti del possibile, il funzionamento di quei meccanismi e dunque valuterà con pazienza e prudenza le parole dell'ex presidente. Prima della requisitoria affidata al sostituto procuratore generale Vittorio Corsi.
Premio Grinzane, il patron Soria accusa: "Cene, regali e pagamenti in nero ai vip". Nella lista Augias, Chiamparino, Isabella Ferrari, scrive “Libero Quotidiano”. Il salotto radical-chic rischia di travolgere proprio gli intellettuali di sinistra. Lo scandalo del premio Grinzane è finito a processo con Giuliano Soria, ex patron del prestigioso riconoscimento letterario torinese, che rischia 11 anni di carcere per malversazione, peculato e violenza sessuale. Condannato in primo grado a 14 anni, oggi "il professore" potrebbe godere di uno sconto perché alcune accuse sono cadute in prescrizione. Comunque vada la vicenda processuale di Soria, resta però la "colpa collettiva" di politici, intellettuali e attori. Tutti coloro che, secondo il patron del premio Grinzane, partecipavano all'evento ricevendo in cambio regali, viaggi, cene e feste pagate e soprattutto denaro in nero, in una vicenda per molti versi parallela agli scandali di Regionopoli (anche in Piemonte) che quegli stessi intellettuali hanno spesso condannato. Tra i vip tirati in ballo, c'è la "zarina" Mercedes Bresso, ex presidente del Piemonte e ora eurodeputata Pd, che secondo le accuse di Soria avrebber ricevuto regali costosi insieme al marito. Il dirigente regionale Roberto Moisio sarebbe stato invece il regista delle operazioni, quello che teneva i contatti con i politici che dirigeva gli stanziamenti di finanziamenti pubblici al premio. "Abbiamo aiutato economicamente in nero l'assessore Giampiero Leo (Ncd) - ha detto Soria ai giudici -. Abbiamo aiutato l'assessore Alfieri (Fiorenzo, ex componente della giunta comunale di Sergio Chiamparino) anche per il signor Chiamparino, a cui ho dato personalmente sostegno in due occasioni". L'ex assessore alla cultura Gianni Oliva, ora consigliere regionale del Pd, avrebbe invece "viaggiato con la moglie a spese del Grinzane. E' un appassionato di tartufi". La "scellerata convenzione" tra la Regione Piemonte e il Grinzane Cavour coinvolgeva anche politici di centrodestra, diplomatici e attori, che avrebbero chiesto soldi per partecipare alle serate di gala. Nella lista di Soria sono presenti Isabella Ferrari, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Charlotte Rampling, Eleonora Giorgi, Stefania Sandrelli: "I vip ci sfruttavano per il loro prestigio", sono le parole di Soria riportate dal Fatto quotidiano. Infine ci sono gli intellettuali e i giornalisti di sinistra: E potrebbe tremare anche viale Mazzini, perché "sulla Rai c’è un capitolo nero, era un andazzo a cui era difficile resistere. A tutti questi casi dovevamo far fronte con dei fondi in nero". Che con il rosso, per restare in ambito letterario, ci sta pure bene.
Attenti al ladro!!
Torino, beve una bibita da 1,20 euro senza pagare. Due mesi di carcere e 6 anni di calvario: prosciolto, scrive “Libero Quotidiano”. Nel 2008, un 38enne marocchino bevve una bibita, di nascosto, da 1,20euro all'interno di un supermercato di Mondovì. Sorpreso da un vigilante è stato denunciato per furto aggravato dallo violenza sulle cose e, nel 2009, condannato con decreto penale a due mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Ci sono voluti sei anni per chiudere il caso e prosciogliere Youssef dalla Corte d'Appello del capoluogo piemontese. Non si tratta neanche di furto, ma di tentato furto, spiega il difensore. E l'inghippo sarebbe nella linguetta della lattina stessa, la quale non è un sigillo di protezione, ma solo un mezzo di chiusura. La sentenza è ora stata cancellata: i giudici hanno accolto la tesi della difesa e hanno sancito che il processo di primo grado non doveva neppure cominciare. Il suo avvocato, Fabrizio Bruno di Clarafond, uscendo da Palazzo di Giustizia ha commentato: “C’è di che avvilirsi. Non bastava fargli pagare il prezzo della lattina?”.
Mondovì, sei anni di processo per una Coca-Cola bevuta di nascosto. Youssef, marocchino, nel 2008 aveva commesso il piccolo furto in un supermercato. Valore della “refurtiva”: un euro e 20 centesimi, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Quanto tutto lasciava prevedere che si sarebbe arrivati all’ inesorabile prescrizione, l’avvocato ha convinto i giudici evitando che altro tempo si sommasse ai quasi 6 anni già consumati per processare un marocchino accusato di furto aggravato per essersi tracannato una bevanda del valore di ben un euro e 20 centesimi. La storia di uno dei tanti processi dalla dubbia rilevanza che intasano i tribunali e costano tempo e denaro parte il 12 agosto del 2008 quando, arso dal caldo, il 31enne Youssef prende una lattina dallo scaffale di un supermercato di Mondovì, spinge la linguetta e manda giù. Un vigilante lo vede e l’uomo viene denunciato per furto aggravato dalla «violenza sulle cose», cioè dalla apertura della lattina. Condannato con decreto penale, fa appello assistito dall’avvocato Fabrizio Bruno di Clarafort secondo il quale al più si può parlare di furto semplice dato che non c’è stata alcuna «violenza», perché per bere la lattina doveva pur essere aperta. Il gup non dà retta e il 22 aprile 2009 condanna il marocchino a 2 mesi di carcere e 100 euro di multa con la condizionale. Si va in Corte d’appello. Arenato per quasi 6 anni (un altro e si sarebbe prescritto) ieri il fascicolo riemerge in aula. I giudici danno ragione alla difesa e il furto diventa «semplice», e dato che il negozio non ha fatto querela, indispensabile per procedere, l’imputato viene prosciolto. Youssef non lo saprà mai, ammesso che ancora gliene importi: mentre la giustizia italiana procedeva inesorabile, lui è tornato in Marocco.
APPALTOPOLI, BRUNO TINTI E QUELLO CHE NON SI DICE.
L'inchiesta di appaltopoli a Torino. Torino, anno 2002: l'inchiesta di "appaltopoli" in mano al magistrato Bruno Tinti sconvolge la città. Viene scoperto un vero e proprio sistema per truccare le gare d'appalto che coinvolge imprenditori edili e dipendenti comunali. A 12 anni di distanza siamo andati a vedere cosa ne è stato di quell'inchiesta e dei suoi imputati. Quello che abbiamo scoperto mette i brividi e spiega molto del motivo per cui la corruzioni prosperi all'interno del paese.
Ladri e corrotti, niente paura, sarete prescritti, scrive Bruno Tinti su “Il Fatto Quotidiano”. «L’ultimo processo che ho fatto è stato “Appaltopoli”. Cordate di imprenditori che si spartivano gli appalti con offerte coordinate: oggi io, domani tu; ai più piccoli qualche subappalto. Il prezzo lo stabilivano loro e il Comune pagava. Sistema perfetto, non servivano corruzioni. Che però c’erano, per non essere disturbati nella fase di esecuzione dei lavori: regalie e stipendi ai dipendenti comunali. Arrestammo gli imprenditori e quasi tutto l’ufficio tecnico del Comune. 3 anni di indagini, dal 2002 al 2005, 140 persone e 20 società incriminate. Nel 2005 udienza preliminare: un centinaio di patteggiamenti (tra cui tutti i dipendenti comunali) e 43 rinviati a giudizio. Nel 2008 la sentenza: 2 assoluzioni, 10 prescrizioni e 31 condanne: 5 o 6 anni di prigione, in media. Nel 2009 l’Appello: tutto prescritto. Ricordo tre episodi. I dipendenti comunali riammessi in servizio dopo il patteggiamento. Un imprenditore intercettato che diceva ai colleghi, dubbiosi se continuare le gare truccate anche con indagini in corso (avevano una talpa, sospettai di un politico locale ma non ebbi mai prove sufficienti): “Ma sì, continuiamo, al massimo ce la caveremo con una multaccia!”. Un altro imprenditore che voleva patteggiare una pena ridicola, un anno circa che non avrebbe scontato per via della sospensione condizionale, e che, al mio scandalizzato rifiuto, disse sprezzante: “Faccia come vuole, sarò assolto per prescrizione”».
Interrogazione a risposta scritta Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-07727 presentata da VINCENZO FRAGALA' giovedì 16 ottobre 2003 nella seduta n. 374.
FRAGALÀ. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: dalla stampa quotidiana si apprende che la procura di Milano ha aperto un'inchiesta per violazione del segreto d'ufficio nei confronti del magistrato Bruno Tinti, attuale Procuratore aggiunto a Torino e titolare dell'inchiesta Telekom Serbia; il dottor Bruno Tinti, conosciuto per le sue posizioni giudiziarie proclamate sulla rivista «Micromega» è sospettato di aver violato il sistema informatico riservato della Procura torinese e di aver aperto con la sua password i dati relativi a una indagine affidata al pubblico ministero Andrea Padalino; durante alcune intercettazioni telefoniche un intermediario si sarebbe vantato di aver chiesto al pubblico ministero Bruno Tinti di controllare l'esistenza dell'inchiesta condotta da Padalino; ecco perchè la trasmissione degli atti dell'indagine nei confronti del dottor Tinti è stata trasmessa per competenza alla Procura di Milano; l'indagine del pubblico ministero Andrea Padalino ha comportato l'arresto per truffa aggravata del proprietario di sette concessionarie di auto di lusso, tra cui a Torino Agosti Tocci, vecchio amico di Bruno Tinti; per paradosso nell'estate del 2001 Bruno Tinti aveva trasmesso alla Procura di Milano gli atti di accusa contro il magistrato Francesco Saluzzo, sospettato di aver avvertito delle imminenti perquisizioni il suo amico Roberto Colaninno, in seguito completamente scagionato; adesso le parti sembrano essersi invertite, e a Milano sulla scrivania dell'aggiunto Carnevali, sostiene sempre la stampa quotidiana, c'è un fascicolo delicatissimo riguardante Bruno Tinti e di cui il Procuratore capo Marcello Maddalena non vuole assolutamente parlare; ancora un'ulteriore inchiesta giudiziaria sull'operato di un magistrato, prima indagato e poi prosciolto, ha scosso la Procura di Torino. Si tratta del pubblico ministero Paolo Storari, anch'egli titolare delle indagini su Telekom Serbia e sullo scandalo «Appaltopoli». Storari sarebbe stato indagato dai pubblici ministeri milanesi per violazione del segreto d'ufficio sulla base della vicenda della presunta fuga di notizie che lo scorso anno aveva portato all'indagine nei confronti del Procuratore aggiunto Francesco Saluzzo; indagine amplificata nell'ottobre dello scorso anno da un grande quotidiano che parlò apertamente di «spia in Procura» pubblicando i tabulati delle telefonate che Saluzzo avrebbe fatto a Colaninno per avvisarlo delle indagini su Telecom Italia svolte da Tinti, Storari e Furlan; richiesto il proscioglimento di Saluzzo, il gip Salvini ha ratificato l'archiviazione, rinviando gli atti alla Procura di Milano per individuare i responsabili della violazione di segreti d'ufficio verificatasi nell'ottobre del 2001 ai danni dello stesso Saluzzo; per questa accusa nei confronti del pubblico ministero Storaci, era stato richiesto il rinvio a giudizio, seguito dall'udienza preliminare in cui Paolo Storari è stato prosciolto; da queste intrecciate vicende emerge, ad avviso dell'interrogante, un filo rosso di collegamento tra alcune stanze segrete della procura di Torino e un grande quotidiano nazionale che ha recentemente e ripetutamente pubblicato verbali coperti dal segreto di indagine riguardanti l'inchiesta Telekom Serbia -: se il Ministro intenda assumere iniziative e provvedimenti nell'ambito delle proprie specifiche competenze ispettive per fare luce sui fatti sopra descritti e individuare conseguentemente eventuali profili disciplinari su cui esercitare i propri poteri. (4-07727)
TORINO NON AMA ALESSANDRO DEL PIERO.
Torino, negata a Del Piero la cittadinanza onoraria. Bocciata la proposta della Lega Nord. Sì a Papa Bergoglio e al cappellano del Torino, scrive “Il Corriere della Sera”. Alessandro Del Piero non sarà cittadino onorario di Torino: il Consiglio comunale ha detto no alla onorificenza chiesta dalla Lega Nord per l’ex bandiera della Juventus, «sconfitto» sui banchi della Sala Rossa da Papa Bergoglio e da don Aldo Rabino, storico cappellano del Torino, che l’hanno invece ottenuta. Uno «smacco» per l’ex numero 10 bianconero, che di derby in carriera ne ha persi davvero pochi. In realtà, i motivi del no a Pinturicchio sono più di natura politica che di fede calcistica, con il centrosinistra «tiepido» su una proposta dell’opposizione di centrodestra. Neppure i favori del sindaco Piero Fassino, tifoso juventino, sono serviti a convincere il Pd a dire sì in maniera compatta. E anche gli alleati non hanno gradito. «Il Comune ha concesso la cittadinanza onoraria a chiunque, anche a chi come Roberto Saviano non ha mai avuto nulla a che fare con Torino. Quando si tratta di conferirla a un personaggio che ha portato ovunque la torinesità, decide di negarla», protesta il capogruppo del Carroccio, Fabrizio Ricca. «La cittadinanza onoraria va usata con saggezza», replica il capogruppo Pd Michele Paolino, che nonostante sia tifoso del Torino non ne fa una questione di bandiera: «Forse sarebbe opportuno - è la sua proposta - introdurre riconoscimenti diversi, ad esempio un premio alla città». «La mia è stata una decisione super partes - dice invece il moderato Giovanni Maria Ferraris, assessore allo Sport della Regione Piemonte -. Senza nulla togliere a questo grandissimo campione, spettava alla Conferenza dei Capigruppo valutare se portare o meno la proposta in aula». Fatto sta che il derby della cittadinanza onoraria l’hanno vinto il Toro, a digiuno di successi nella stracittadina da vent’anni, e Papa Bergoglio. Lui sì super partes, nonostante la simpatia per il San Lorenzo.
A Roberto Saviano noi preferiamo Alessandro Del Piero, scrive by Giulia Zanotti su “Nuova Società”. Chi lo sa. Forse il Pd torinese la domenica preferisce passarla a messa anziché allo stadio. O forse l’unico colore calcistico che piace è quello granata e non bianconero. Di sicuro risulta difficile trovare una spiegazione a quanto successo ieri in Consiglio Comunale quando è stata respinta la mozione, proposta dalla Lega Nord, di dare la cittadinanza onoraria all’ex capitano della Juventus Alessandro Del Piero. Certo, qualcuno storcerà il naso dicendo che ci sono problemi più gravi da affrontare sotto la Mole che il conferimento di questo titolo a un calciatore. Eppure, basta dire che nella stessa seduta sono stati approvate altre due cittadinanze. La prima a Papa Francesco: giustissima se si considera che Bergoglio da quanto è Pontefice Torino non l’ha vista nemmeno in fotografia ma che con la sua visita già in programma il 21 giugno, in concomitanza con l’ostensione della Sindone, aiuterà non poco le finanze dissestate del Comune. Più difficilmente capiamo la scelta di fare cittadino onorario anche don Aldo Rabino, cappellano del Toro, se non che di sicuro piace alla Sala Rossa visto che già la sua nomina a presidente onorario della Fondazione Filadelfia era stata accolta con gran soddisfazione dall’assessore allo Sport Stefano Gallo che lo aveva definito “un padre spirituale del progetto”. Ma se abbiamo capito i motivi per cui da oggi ci sono due torinesi in più stentiamo a comprendere quelli del no a Del Piero. No per giunta imbarazzante visto che mentre la proposta aveva la “benedizione” del sindaco Piero Fassino il Pd si è diviso tra astenuti e contrari. Sarà che la mozione, che per giunta giaceva da un paio d’anni in un cassetto, è stata presentata dalla Lega Nord e quindi non poteva che essere rifiutata. Sarà che il nome dell’ex capitano bianconero tocca sfere troppo basse rispetto a quelle celestiali di Papa Francesco, ma anche quelle radical chic di Roberto Saviano. Già, anche lo scrittore di Gomorra è cittadino onorario della nostra città per quanto non si capisce cosa abbia fatto di così importante per i torinesi. Ma forse è più allettante ingraziarsi il mondo radical chic che quello degli stadi: chissà che qualche consigliere non abbia temuto di essere paragonato a Fantozzi in canottiera con frittata di cipolle e birra gelata piuttosto che ai fascinosi intellettuali da salotto. Poco conta, e non è questione di tifo, che nei 18 anni in cui Del Piero ha indossato la maglia della Juventus è stato un simbolo anche dalla città esportando il nome di Torino anche a quei tifosi che lo seguivano dall’estero. Ironia della sorte proprio oggi l’ex Pinturicchio sul suo Facebook ha postato una foto dalla sua nuova casa in Australia: “Happy to be back in Sidney”, “Felice di essere di nuovo a Sidney” scrive, forse anche per dimenticare una Torino che gli è stata troppo ingrata sia calcisticamente che non.
SE RUBARE PER COLPA NON COSTITUISCE REATO.
Spese pazze Piemonte, nove assolti nel processo bis: “Non ci fu dolo”. Tra gli imputati il segretario piemontese del Pd, Davide Gariglio, e l’attuale vicepresidente della giunta regionale, Aldo Reschigna. Il gup Daniela Rispoli ha accolto, nel processo con rito abbreviato, la tesi della stessa procura, secondo la quale gli episodi di peculato contestati non costituiscono reato, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. Il fatto non costituisce reato. Nove consiglieri regionali del Piemonte sono stati assolti dal gup di Torino Daniela Rispoli. Erano accusati di aver ottenuto rimborsi illeciti tra il 2010 e il 2012. Tra di loro ci sono anche due assessori della giunta di Sergio Chiamparino, il vicepresidente della Regione e assessore al Bilancio Aldo Reschigna (Pd) e l’assessora alle pari opportunità e al diritto allo studio Monica Cerutti (Sel). Stando alla sentenza letta in aula l’aver ottenuto rimborsi – esigui – per cene e trasferte non è stato peculato, così come avevano ribadito più volte i sostituti procuratori Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta. “Da questo momento in avanti abbiamo tutte la serenità necessaria per impegnarci ancora di più sull’importante lavoro di riordino e di rilancio della Regione”, ha detto il governatore. Proprio i due pm martedì, nella requisitoria di questo processo abbreviato, avevano spiegato che per loro “il fatto non costituisce reato” perché a questi nove politici mancava il “dolo”, l’intenzione di compiere il peculato. Dall’inizio di questa vicenda, cominciata nell’autunno del 2012, era la terza volta che ribadivano questa affermazione nei confronti di questi politici. Al termine della sterminata inchiesta della Guardia di finanza avevano chiesto l’archiviazione, ma il giudice per l’indagine preliminare Roberto Ruscello aveva voluto vederci chiaro e i due pm avevano ribadito le loro ragioni in un’udienza filtro. Ciò nonostante il gip ha aveva disposto l’archiviazione per sette di quelli rimasti in ballo (tra cui l’ex presidente Mercedes Bresso) e l’imputazione coatta per altri nove che hanno scelto invece il rito abbreviato: così, a porte chiuse, la posizione dei politici è stata chiarita “allo stato degli atti”. All’uscita dall’aula il segretario regionale del Pd Davide Gariglio (che era accusato di aver speso poco più di novemila euro) si è detto soddisfatto “sia sul piano personale, sia sul piano del partito”: “Abbiamo dimostrato di aver agito senza la volontà di raggirare le leggi”. Secondo lui se ci fosse stata una condanna “la giunta Chiamparino sarebbe andata avanti ugualmente. Adesso però sono state sgomberate alcune grosse pietre d’inciampo”. Il vicepresidente della Regione Reschigna (a cui erano contestati rimborsi per 5.500 euro circa) sostiene per lui è stato importante “riuscire a preservare un’immagine e mantenere fede a un impegno di trenta anni”, come ha più volte detto ricordando le sue attività a Verbania dopo la tangentopoli locale che nell’autunno del 1993 aveva spazzato via l’amministrazione cittadina. Nel caso di condanna sia lui sia la collega Cerutti erano pronti a dimettersi: “Legge Severino o no, non avrei potuto reggere l’incarico col pensiero di difendermi di più e ricorrere in appello”, ha detto l’assessora di Sel, che doveva giustificare circa 20mila euro di rimborsi. “Sono state assolte persone che ho sempre ritenuto essere persone oneste, dichiarandolo anche pubblicamente”, ha commentato Chiamparino. Nel centrosinistra sono stati assolti anche il senatore Stefano Lepri e la consigliera regionale Angela Motta (Pd) e Eleonora Artesio della Federazione di sinistra. Si sono salvati pure alcuni politici del centrodestra, come Fabrizio Comba, Gianluca Vignale e Giampiero Leo: “Spero che questa sentenza possa aiutare anche i colleghi che stanno facendo il dibattimento”, afferma quest’ultimo. Questa sentenza potrebbe infatti essere usata dalle difese nell’altro processo nel quale, tra gli imputati, compare anche l’ex governatore leghista Roberto Cota. La procura, però, con questa impostazione pensa di poter proseguire e chiedere le condanne di coloro che avrebbero ottenuto rimborsi esorbitanti e ingiustificabili. In estate 14 ex consiglieri avevano patteggiato e altri quattro erano stati condannati.
Via l'ostacolo all'eventuale corsa al Colle come nel 2013: la Rimborsopoli rossa non è reato, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. La giustizia a orologeria, per lui, funziona al contrario. Magicamente. Per gli altri politici, di solito, è una iattura. Per Sergio Chiamparino, invece, spazza via gli eventuali problemi. È accaduto giusto un anno fa, quando la scomoda inchiesta sulla mancata riscossione degli affitti dei Murazzi graziò con l'archiviazione soltanto lui, indagato a sua insaputa per abuso in atti d'ufficio, consentendogli di correre senza ombra alcuna per la poltrona di governatore del Piemonte, prontamente liberata dai giudici del Tar che diedero torto a Cota e altrettanto prontamente conquistata da lui. E in un certo senso accade anche oggi, che Chiamparino non è in pole position per la corsa al Quirinale e però forse qualche chance di salire al Colle ce l'avrebbe. Il gup di Torino, infatti, ha assolto i nove consiglieri regionali coinvolti nella seconda tranche della cosiddetta «Rimborsopoli» per le spese pazze dei gruppi in Regione Piemonte. Il «Chiampa» non era coinvolto. Ma dentro c'erano due suoi assessori, uno dei quali anche vicepresidente della sua giunta, il segretario regionale e capogruppo in Regione del Pd, un parlamentare democrat. Insomma, una bella fetta di partito piemontese. E il «liberi tutti» che arriva giusto adesso è un aiutino niente male. Elimina infatti ogni eventuale problema, nel caso in cui sul nome di Chiamparino si verificasse ancora una convergenza in direzione Colle. Non è fantapolitica. E nemmeno un'ipotesi peregrina, come insegna la storia recente. È aprile, anno di grazia 2013, l'inizio delle votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica che di flop in flop e di bruciatura in bruciatura - da Franco Marini a Romano Prodi - portarono alla fine all'incoronazione bis per Napolitano. Il nome di Chiamparino per il Colle viene fuori un po' a sorpresa nella prima giornata di votazioni. Anzi, proprio alla prima votazione, in chiave anti-Marini. A tributare a Chiamparino 41 voti sono i renziani, che si opponevano alla designazione del segretario della Cisl. Il vero trionfo per l'ex sindaco di Torino arriva però alla seconda votazione, quando nel gioco di sgambetti e veti incrociati per lui di voti ne arrivano 90, ben più di quelli a disposizione dei Matteo-boys. Come finì allora è ben noto. Liti, scontri e poi il Re Giorgio bis. Adesso, due anni dopo, quella strana congiuntura sul nome di Chiamparino potrebbe riproporsi. Ed eliminare uno scheletro giudiziario imbarazzante per il Pd piemontese non è comunque un male. Né per Chiamparino né per i democratici. La decisione del giudice di Torino, attesa perché già la procura aveva chiesto il proscioglimento dei nove indagati della seconda tranche - sei del centrosinistra e tre del centrodestra - è arrivata ieri. Interessante la motivazione, «perché il fatto non costituisce reato». Traduzione: il fatto c'è. Quelle cene contestate non erano rimborsabili con soldi pubblici. Solo che da parte dei nove consiglieri non c'è stato alcun dolo. Di conseguenza, tutti assolti. La rimborsopoli, se di sinistra, non è reato.
In Piemonte anche le spese pazze non sono tutte uguali, scrive Marcello Calvo su “Il Giornale d’Italia”. Rimborsopoli, nel processo bis la procura di Torino chiede l'assoluzione per tutti gli imputati. Per la pubblica accusa i consiglieri non avrebbero agito con dolo nell'utilizzo dei fondi pubblici. Spese pazze in Piemonte, richiesta di assoluzione per gli ex 9 consiglieri regionali imputati. Che fa da prologo a una sentenza praticamente scritta che rischia di creare un pericoloso precedente. E’ questo il colpo di scena svelato dalla procura di Torino nel processo bis ai “vecchi” onorevoli sotto la Mole nell’ambito dell’indagine sui rimborsi ai gruppi regionali della scorsa amministrazione (che avrebbero percepito rimborsi illeciti dal maggio 2010 al settembre 2012) che hanno scelto il rito abbreviato. Tra gli imputati pure il vicepresidente dell’attuale giunta Chiamparino, Aldo Reschigna. E la collega Monica Cerutti. Oltre al segretario Pd piemontese Davide Gariglio. E pensare che il 20 ottobre scorso, dopo la richiesta di archiviazione della procura, il gip Roberto Ruscello aveva ordinato l’imputazione coatta, ritenendo tutte le spese come illegittime (compresi pranzi e cene istituzionali). Con i pubblici ministeri “costretti” a chiedere il rinvio a giudizio degli interessati nel giro di 10 giorni. Ebbene, per la pubblica accusa non ci sarebbe stato “dolo” da parte degli ex consiglieri nel chiedere i rimborsi contestati. Non sarebbe emersa dunque la consapevolezza di un utilizzo illecito dei fondi pubblici. Per tutti questi motivi, “il fatto non costituisce reato”. Nell’inchiesta sono coinvolti pure Gianluca Vignale, Giampiero Leo e Fabrizio Comba (centrodestra). E ancora: Stefano Lepri, Angela Motta e Eleonora Artesio (centrosinistra). Imputato anche Luca Pedrale, già capogruppo di Forza Italia, ma la sua posizione è stata già stralciata. Nessuna sorpresa, a dir la verità. E una richiesta in linea con le archiviazioni sostenute nei mesi scorsi al termine della fase di indagine del ramo principale che ha visto finire sul banco degli imputati pure l’ex governatore Roberto Cota. Che viaggia certamente controcorrente rispetto alle decisioni prese da parte dei magistrati del tribunale di Torino. Ben 4 condanne e 14 patteggiamenti. Per consiglieri accusati di aver utilizzato fondi pubblici per acquisti di ogni tipo: dal giardinaggio all’estetista, dalle cravatte ai videogiochi passando per gratta e vinci e frullatori. Con i giudici di prime cure che hanno stabilito come non si potesse parlare di “pranzi e cene per finalità istituzionali”. Tant’è, c’è una procura che la pensa evidentemente diversamente. E il dispositivo che verrà emesso dal gup di Torino, in caso di sentenza con formula assolutoria, potrebbe legittimare molti “Batman” piemontesi a procedere sulla stessa falsa riga adottata dai più in questi anni di sprechi e presunte malefatte.
FIRME FALSE, ABITUDINI PIEMONTESI.
Ancora scandalo firme false in Piemonte: questa volta nel mirino è la sinistra, scrive Riccardo Ghezzi su “Quelsi”. Firme false in Piemonte. Un film già visto, ma questa volta accusatori e accusati si sono scambiati i ruoli. Non è più la maggioranza del centro-destra nel mirino dell’opposizione, ma il centro-sinistra a sostegno di Chiamparino che ha vinto le elezioni due mesi fa. Le irregolarità nella presentazione delle liste sono state un tormentone nell’arco dell’intera precedente legislatura, fino alla caduta anticipata della giunta Cota. Questa volta è il centro-destra, ritrovatosi all’opposizione a rendere pan per focaccia: la Procura della Repubblica di Torino ha infatti aperto una nuova indagine per accertare presunte irregolarità di Pd e altre liste di centro-sinistra nella raccolta firme. E’ il cosiddetto “fascicolo K”, ancora senza indagati. Tali irregolarità sono state denunciate dall’europarlamentare della Lega Nord Mario Borghezio, il quale dopo aver avuto accesso agli atti e verificato “palesi incongruenze” quali cognomi sbagliati, dati anagrafici ripetuti, firme ottenute a centinaia di chilometri dalla residenza, si è recato dal Procuratore Capo di Torino, Armando Spataro. L’esposto è sfociato nell’apertura dell’indagine e nella fissazione di un’udienza prevista per il prossimo 6 novembre. Il segretario regionale del Pd, Davide Gariglio ha bollato come “baggianate” le accuse della Lega Nord, ma il quotidiano La Stampa nei giorni scorsi ha minuziosamente analizzato tutti gli errori nella raccolta firme contenuti nell’esposto di Borghezio, alimentando dubbi e perplessità sull’effettiva regolarità della presentazione di alcune liste regionali, compreso il listino bloccato. Se i giudici dovessero dare ragione a Borghezio, per il Piemonte si aprono nuovi scenari di incertezza. Sperando di non dover aspettare quattro anni, come nella passata legislatura. E sperando pure che non siano usati i famosi “due pesi e due misure”.
Piemonte, torna l'incubo firme false: accuse alla lista Chiamparino e al Pd, indaga la Procura. E' stato il leghista Mario Borghezio a presentare l'esposto al procuratore capo Armando Spataro: nel mirino la lista per l'ex sindaco e quelle del Pd a Cuneo e a Torino. E' come se si ripetesse, a schemi rovesciati, la vicenda che alla fine portò all'annullamento delle elezioni 2010 e alla caduta della giunta Cota, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. Firme false per presentare la lista del presidente Sergio Chiamparino alle elezioni regionali e il Pd: dopo che il Tar ha fissato l’udienza per la discussione del ricorso il 6 novembre, anche la procura ha aperto un fascicolo che contiene l’esposto presentato da Mario Borghezio direttamente al procuratore capo, Armando Spataro, qualche giorno fa. E sono trascorsi più di quattro anni ma in un certo senso sembra di assistere a una scena già vista: fascicolo ancora senza ipotesi di reato né indagati, ma già assegnato al pm Patrizia Caputo, la stessa che coordinò le indagini nella vicenda di ricorsi e denunce incrociate tra Mercedes Bresso e Roberto Cota nel 2010. Questa volta sotto la lente della procura finiranno le 2292 firme depositate a corredo della lista maggioritaria del candidato Chiamparino, e le proporzionali del Pd collegate, di Torino e Cuneo. I canali anche questa volta sono due: il primo amministrativo, dunque al Tar, per la richiesta di annullamento delle elezioni nei confronti del presidente e dei consiglieri Gilberto Pichetto, Giovanni Maria Ferraris e Giorgio Ferrero; il secondo penale, con un’inchiesta che, se andrà avanti, potrebbe portare ad avvisi di garanzia per falso e, in base alle accuse contenute nell’esposto, anche per abuso d’ufficio. Il leghista Borghezio, infatti, non ha denunciato solamente autenticazioni false ma anche il conflitto di interessi di un gruppo di autenticatori che erano anche loro tra i candidati alle elezioni, e che sono stati poi eletti: Marco Grimaldi, Valentina Caputo, Nadia Conticelli e Antonio Ferrentino, che ora si difendono: "Accuse strumentali, è tutto in regola". L’avvocatura della Regione che ha l’incarico di seguire la vicenda direttamente dal presidente sostiene che non vi sia alcun conflitto in questo caso, e che al contrario c’è ampia giurisprudenza che legittima la presenza degli stessi pubblici ufficiali sia tra i candidati che tra gli autenticatori delle firme. Infine, appunto, il falso. Il caso più eclatante sarebbe quello del consigliere provinciale Pasquale Valente che in un solo giorno ha verificato l’autenticità di 329 firme «considerando un arco temporale di 12 ore - è scritto nel ricorso della leghista Patrizia Borgarello - significherebbe una firma ogni due minuti senza previsione di alcuna interruzione». E, aggiunge, in due posti diversi sempre nello stesso giorno: Torino e Cossano Canavese. Poi: firme uguali, vergate con mano diversa - sempre secondo l’accusa -, elenchi di cittadini stranamente presentati in ordine alfabetico («Come se uno che raccoglie firme avesse la capacità di mettere tutti i sottoscrittori in fila in base all’ordine alfabetico del cognome » dice Mario Borghezio), infine firme in cui al posto del cognome è finito per errore il luogo di residenza, fatto che fa pensare non a una processione di cittadini che davanti a un pubblico ufficiale firmano e danno le proprie generalità quanto piuttosto a qualcuno che si sia messo lì a copiare in fretta e furia un lungo elenco di nomi e abbia confuso in qualche caso le varie caselle.
Elezioni Piemonte, aperta inchiesta dopo denuncia Lega: “Firme false”, scrive Andrea Giambartolomei su “Il Fatto Quotidiano”. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Sulle presunte firme false e le altre presunte irregolarità delle lista a sostegno di Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, la procura di Torino ha aperto un fascicolo. L’indagine è stata assegnata a due sostituti procuratori, Patrizia Caputo e Stefano Demontis, del Dipartimento per i reati contro la Pubblica amministrazione guidato da Andrea Beconi. Gli accertamenti non sono ancora iniziati, ma il primo passo da fare sarà l’acquisizione di tutti i documenti (le varie liste con le sottoscrizioni dei sostenitori) conservati negli uffici elettorali del Palazzo di giustizia. Dopodiché le procedure saranno quelle utilizzate per altre indagini che in passato hanno portato alla condanna di alcuni politici locali come Michele Giovine, Renzo Rabellino e della democratica Caterina Romeo. Verranno sentite delle persone informate sui fatti, come gli autenticatori o i firmatari i quali dovranno riferire se hanno veramente sottoscritto i documenti e in quale contesto. Poi potrebbero essere disposte delle perizie calligrafiche fatte da consulenti tecnici. A indagare saranno due pm perché la Caputo, che ha coordinato le indagini sui casi passati, prossimamente dovrà cambiare pool e per questo sarà affiancata da Demontis. I due pm dovrebbero vedersi oggi o nei primi giorni della prossima settimana per decidere sul da farsi. Tutto nasce dall’esposto dell’europarlamentare leghista Mario Borghezio, alla ricerca di una vendetta per quello che la Lega Nord e Roberto Cota hanno dovuto subire negli anni della legislatura in Piemonte, con i ricorsi al Tar e gli esposti contro la lista “Pensionati per Cota”. Lo storico esponente del Carroccio dopo aver ottenuto una copia degli atti sulle liste provinciali di Torino (e anche di Cuneo) del Partito democratico e di “Chiamparino per il Piemonte”, più gli atti del “listino” regionale “Chiamparino presidente”, ha preparato un esposto di sette pagine corredato di fotografie coi dettagli delle firme, allegando anche copie dei documenti ottenuti. La denuncia è stata poi consegnata al procuratore capo di Torino Armando Spataro durante un incontro avvenuto una settimana fa. Nell’atto si legge che “anche solo da un esame superficiale emergono subito dubbi in merito alla regolarità nonché all’autenticità di molte sottoscrizioni relative alle tre liste” perché “le firme apposte dai sottoscrittori appaiono vergate da poche mani, ovvero si ritrovavano grafie che, a parere di coloro che hanno posto in essere i suddetti controlli, si ripetono con regolarità in più moduli”. Non è tutto. “In molti casi pare agli scriventi che chi ha scritto le generalità dei sottoscrittori avesse poi anche firmato, ripetutamente, nello stesso modulo”. In sostanza si sospetta che qualcuno abbia copiato i dati anagrafici e dei documenti da altre liste per poi firmare al posto dei sottoscrittori. Ciò emergerebbe osservando la grafia accanto ai nomi della lista regionale “Chiamparino Presidente” e quella della lista provinciale del Pd: “Si palesa anche ad un occhio inesperto una differenza (in alcuni casi addirittura macroscopica) di grafia”. Borghezio ha quindi chiesto di accertare “eventuali falsità ideologiche dei pubblici ufficiali autenticatori”. Dalla politica, per ora, non arrivano commenti, né l’opposizione sembra voler cavalcare la polemica. Il presidente Chiamparino preferisce non rilasciare dichiarazioni sulla vicenda nell’attesa del lavoro degli inquirenti. Il Pd aveva replicato che tutto era regolare: “Le autentiche sono lecite”. “L’autentica è assolutamente lecita”, aveva spiegato Nadia Conticelli, consigliere regionale Pd chiamata in causa da Borghezio per via delle due firme, apparentemente diverse tra di loro, poste su un documento in qualità di sottoscrittrice e anche di autenticatrice. “Le firme che ho raccolto le ho prese io, le hanno fatte davanti a me, le ho autenticate col timbro della circoscrizione. Penso che la Lega dovrebbe puntare a delle motivazioni politiche”.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
DUBBI SULL’OMICIDIO MUSY.
Omicidio Musy, e se Furchì non fosse il vero colpevole? Conferma della condanna all'ergastolo al processo di appello per l'omicidio del consigliere comunale torinese, scrive Carmelo Abbate il 25 novembre 2015 su "Panorama". Il 21 marzo 2012, nel pieno centro di Torino, poco dopo le 8 il consigliere comunale Udc Alberto Musy viene colpito sotto casa con quattro colpi di pistola. Le telecamere inquadrano un uomo con impermeabile scuro e casco in testa. Francesco Furchì, ex collaboratore politico di Musi, viene arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il 22 ottobre 2013 Musy muore: il capo di imputazione cambia in omicidio premeditato, aggravato da futili motivi. Il 28 gennaio 2015 in primo grado, a Torino, Furchì viene condannato all'ergastolo. Sentenza confermata oggi dalla Corte d'Appello. I giudici che hanno condannato all’ergastolo Francesco Furchì per l’assassinio di Alberto Musy, nelle 70 pagine della sentenza non hanno risposto ad alcune domande imprescindibili: come può Furchì aver premeditato un omicidio se non conosceva le abitudini della vittima e se non poteva sapere che quella mattina Musy avrebbe portato i figli a scuola? Furchì non è mai stato visto aggirarsi vicino all’abitazione nei giorni precedenti, e la decisione su chi portare i figli a scuola tra Musy e la moglie viene presa di giorno in giorno sulla base degli impegni di ognuno. Chi è il complice dell’assassino di cui si parla nella descrizione della dinamica? Qual è il suo nome, quanto è alto, dov’è un riscontro oggettivo della sua esistenza? E soprattutto: se hai qualcuno che ti fa da palo e che ti segnala l’arrivo del tuo bersaglio, che fai più cinque minuti dentro l’androne con Musy che addirittura ti trova intento a trafficare nei pressi del cancelletto delle scale cantina? A questo proposito: prima di cadere in coma, la vittima racconta ai condomini che lo soccorrono di aver parlato con il suo aggressore. Ora, Musy conosce benissmo Furchì: come è possibile che, sentendo la sua voce e guardandolo in faccia, pur con il casco in testa, non lo abbia identificato? Infine la questione del mezzo di trasporto: i giudici dicono che Furchì uscendo dal suo ufficio utilizza un motorino. Dov’è questo motorino? Che colore ha? Il tragitto è pieno di telecamere, perché non esiste prova del suo passaggio? Anche sul movente poi ci sono diversi dubbi, ma prima facciamo un passo indietro e ripercorriamo i fatti. Alberto Musy, avvocato, professore universitario, consigliere comunale, ex candidato a sindaco di Torino, viene freddato con quattro colpi di pistola sotto casa in via Barbaroux alle 8,05 del 21 marzo 2012. Dopo pochi minuti entra in coma, ma prima di perdere i sensi parla con i condomini che lo soccorrono: «In che razza di mondo viviamo che arriva uno e ti spara senza motivo?» Musy racconta di un uomo robusto, sulla quarantina, con un impermeabile nero e un casco bianco, come risulterà dalle telecamere, con la bocca coperta da un nastro e un pacco in mano. Poco dopo, alla moglie Angelica dirà: «Mi hanno seguito, c’era un motorino». Alberto Musy muore venti mesi dopo, il 22 ottobre 2013. Nel frattempo, il 29 gennaio di quell’anno la polizia arresta Francesco Furchì. La procura non ha dubbi: è lui l’uomo che ha sparato. Gli indizi portati a supporto dell’accusa passano il vaglio dei giudici e vengono elencati numericamente nella sentenza. Si parte dalla compatibilità cronologica: quella mattina Furchì era in centro città, in via Garibaldi 13, nella sede dell’associazione Magna Grecia, di cui era presidente, come documenta una telecamera di sicurezza situata vicino, e le testimonianze di tre operai che incontra per un trasloco. Da qui, scrivono i magistrati, Furchì a un certo punto sarebbe uscito «alla chetichella», senza salutare nessuno. Francesco Furchì viene sentito la prima volta il 29 gennaio 2013. Gli viene chiesto dei suoi spostamenti precisi durante una mattinata di 10 mesi prima. Racconta di essere arrivato in centro a Torino con l’auto della moglie poi, ma quando secondo la procura si rende conto che verrà smentito, dice di aver viaggiato in autobus. In ogni caso, nulla riferisce su cosa abbia fatto dalle 7,26 alle 10,04. Proprio il suo silenzio rappresenta un altro elemento indiziario: l’imputato tace sui suoi movimenti e non offre elementi a sua discolpa, scrivono i giudici. Ma la prova maggiore contro di lui è la «compatibilità dei parametri fisici» con la figura dell’uomo con impermeabile e casco immortalata dalle telecamere. I consulenti del pubblico ministero fanno il match, come si dice in gergo, sulla base di questi elementi che a loro avviso presentano una «elevata percentuale di somiglianza»: comunanza di valgismo dei piedi, ulteriore comunanza di zoppia con difetto di appoggio del piede destro, comunanza di asimmetria delle spalle, con quella destra più bassa. Inoltre, coincidono anche il «naso di dimensioni notevoli» e le «mani piccole». In tutto questo, pesa il rifiuto dell’imputato di sottoporsi a misurazioni fisiche. Come se non bastasse, quella mattina Furchì avrebbe spento il telefono, certezza che si ricava dal fatto che il suo apparecchio, che non registra alcun movimento, secondo i periti sarebbe rimasto scollegato dalla rete tra le 7,24 e le 10,04, quando riceve una telefonata dalla moglie. Altra prova, le dichiarazioni di un compagno di cella, Pietro Altana, il quale riferisce una confidenza di Furchì: un amico gli aveva custodito una pistola in un capanno. Lo stesso Furchì, dopo un diverbio, gli avrebbe urlato: «Ti faccio fare la fine di Musy». Per i giudici, anche il comportamento di Furchì dopo il delitto costituisce grave indizio di colpevolezza: dicono che nonostante sfruttasse ogni occasione per portarsi agli onori della cronaca, in questo caso non ha adottato nessuna iniziativa pubblica per «cavalcare la notizia» e trarre il massimo vantaggio in termini di visibilità. Neppure un «misero comunicato stampa di solidarietà all’amico». Infine il movente: perché lo ha ucciso? Perché Francesco Furchì è un «millantatore», un «maneggione», un uomo dal «carattere violento e prevaricatore», in grado di covare «odio e propositi di vendetta». Musy avrebbe avuto la colpa di tradirlo in diverse occasioni: nella tentata scalata di una società in fallimento, la Arenaways, nel concorso universitario dove lui gli aveva caldeggiato invano il figlio dell’onorevole Salvo Andò, nella lite per la campagna elettorale del 2011 quando Musy gli avrebbe rifiutato il ruolo di capolista. Così Furchì si vendica dei torti subiti ammazzandolo. Omicidio premeditato aggravato da motivi futili. Il 28 gennaio di quest’anno la Corte D’assise di Torino lo ha condannato alla pena dell’ergastolo. Una misura che non soddisfa ancora la procura, la quale ha presentato appello perché venga applicato l’isolamento diurno di almeno sei mesi. Si vedrà a breve, durante il processo in secondo grado che inizierà l’11 novembre, nel quale gli avvocati Giancarlo Pittelli e Gaetano Pecorella, difensori di Furchì, promettono battaglia al grido di «grave condizionamento» del giudice di primo grado, «pregiudizio» contro il loro assistito, «travisamento» del fatto e della prova. Certo, i nuovi giudici dovranno sciogliere alcuni dubbi. A cominciare proprio da quella mattina. La decisione di portare i figli a scuola tra Musy e la moglie veniva presa giorno per giorno in base agli impegni di ognuno. Da nessuna parte emerge la consapevolezza di Furchì sulle abitudini di vita di Musy, come nessuna testimonianza o telecamera lo colloca nei pressi della sua abitazione nei giorni precedenti il delitto. Come faceva a sapere degli spostamenti di quella mattina? Secondo i giudici avrebbe avuto un complice, la cui conferma si trae da alcuni fotogrammi che riprendono l’attentatore mentre inserisce la mano sotto la mascherina che gli copre la bocca per ricevere una comunicazione via radio circa l’imminente arrivo della vittima. A parte il fatto che questa immagine viene collocata dal consulente del pm in un momento successivo all’attentato, per il resto l’accusa non porta una traccia qualsiasi che documenti l’esistenza del complice. C’è poi il problema dei tempi e degli spostamenti dell’assassino. Furchì esce dal suo ufficio e dalle telecamere risulta andare in direzione opposta rispetto a casa Musy. Il primo avvistamento dell’attentatore che cammina con casco in testa e pacco in mano è in via Palestro. Ma nessuna telecamera riprende Furchì tra i due punti. Per tenere gli spazi con i tempi, l’accusa sostiene che Furchì si sarebbe mosso in motorino. Del quale però non c’è traccia. La logica poi impone una riflessione: se hai il casco in testa, non desti minori sospetti muovendoti in sella a un motorino? Che senso ha lasciarlo e proseguire a piedi? Proprio il complice e il motorino rappresentano due pilastri fondamentali nella costruzione dell’accusa. Ma senza riscontri, si finisce per ritenerli immaginari. Anche sull’alibi poi c’è tanto da ridire, al punto che non si capisce come possa essere definito falso il racconto di fatti che si sono verificati in una fascia oraria ben precisa di dieci mesi prima. Come non si vede da dove possa ricavarsi la certezza che Furchì quella mattina abbia spento il suo telefono volontariamente per il solo fatto che sia rimasto scollegato dalla rete. Posto che nella stessa giornata, dalle 10,16 alle 12,22, dalle 12,56 alle 16,33, dalle 17,26 alle 21, la sua utenza ha registrato lo stesso distacco dalla rete. Secondo l’imputato, a causa di un cattivo funzionamento dell’apparecchio. Non si crede a lui, ma si crede al testimone Altana, pregiudicato per truffa, ricettazione e calunnia, ma le cui parole vengono prese per oro colato dalla corte nonostante i giudici stessi lo ritengano «un millantatore che vanta rapporti di collaborazione con i servizi segreti forse mai avvenuti». La farina con la quale è stata impastata la condanna in primo grado è incredibilmente esplicitata a pagina 13 della sentenza: «…emerge chiara e netta la grave portata indiziaria della personalità violente e vendicativa di Furchì, senza contare che è l’unico soggetto, tra tutti quelli che sono stati individuati nelle indagini come protagonisti di una qualche divergenza con la vittima, con caratteristiche così marcatamente dirette alla brutale aggressività». Violenza e aggressività che si ricava dalla denuncia dell’ex moglie, dalle quali è scaturito un processo nel quale Furchì è stato assolto perché il fatto non sussiste. Giudizio o pregiudizio? Ai nuovi giudici l’ardua sentenza.
ANDREA SOLDI E GLI ALTRI. MORIRE PER UN TSO.
Torino, morì durante il Tso. L’autopsia: «strangolamento atipico». Lo ha stabilito la consulenza del medico legale: indagati tre vigili e uno psichiatra, scrive Elisa Sola su “Il Corriere della Sera” del 12 novembre 2015. Andrea Soldi è morto strozzato. Soffocato dal braccio di un vigile che lo ha stretto al collo con troppa forza, tanto da provocare un «violenta asfissia da compressione». E’ l’esito della consulenza autoptica depositata dal medico legale Valter Declame al procuratore Raffaele Guariniello sulla morte del 45enne torinese malato di schizofrenia e soprannominato dai vicini di casa «il gigante buono». Era il 5 agosto e Andrea stava seduto in piazza Umbria sulla sua panchina preferita. Una panca di legno verde da cui si vedono le aiuole, i passanti che attraversano la piazza e l’ingresso dell’Ari’s bar, dove Andrea andava a comprare l’acqua naturale e dove a chi gli era più affezionato ogni tanto chiedeva una sigaretta. All’improvviso era arrivata un’ambulanza. Lo psichiatra di Soldi e tre vigili urbani si erano avvicinati a lui e lo avevano invitato a salirvi sopra. Destinazione, ospedale, per un Tso. Andrea, che pesava oltre cento chili, si era rifiutato. Si era aggrappato alla panca. Rifiutava quel trattamento forzato concordato dalla famiglia con il medico il giorno prima. Due vigili si erano piazzati di fianco a lui, uno per lato, immobilizzandolo e un terzo da dietro gli aveva messo un braccio contro il collo, stringendo. Secondo il medico legale dell’accusa, quella stretta fu fatale. «In considerazione dell’anamnesi e dai rilievi dell’esame autoptico», scrive il medico, la causa della morte «è una violenta asfissia da compressione», con una «ostruzione delle alte vie aeree e dissociazione elettromeccanica del miocardio». Lo «strozzamento atipico» avrebbe prodotto «una compressione delle strutture profonde vascolonervose del collo» e poi il mancato passaggio di ossigeno. Dopo la presa, Andrea aveva perso conoscenza e si era accasciato al suolo. Più di un testimone aveva assistito a questa scena. Privo di sensi, era stato ammanettato e caricato sull’ambulanza a pancia in giù. Una posizione che non consentiva la ripresa della respirazione né la possibilità di rianimarlo o anche solo di mettergli davanti alla bocca la mascherina dell’ossigeno. Andrea da allora non aveva mai ripreso conoscenza. Arrivato in ospedale, le manovre salva vita non avevano più avuto alcun effetto. Un dei volontari che guidava l’ambulanza del 118 che aveva assistito al tutto, sconvolto da quanto stava osservando, aveva chiamato la centrale confidando alla dottoressa che aveva risposto: «Lo hanno preso al collo... lo hanno fatto un po’ soffocare…Mi hanno detto di caricarlo, ma siccome aveva le manette ed era a pancia in giù non volevo farlo e ho detto di no. Ma loro me l’hanno ordinato e io l’ho lasciato così, a pancia in giù». Se Andrea fosse stato soccorso a dovere durante il viaggio, forse sarebbe ancora vivo. Per questo la procura contesta una «morte asfittica da strangolamento atipico aggravata dalla modalità di trasporto». In realtà c’è anche chi sostiene di avere visto morire Soldi già ai giardinetti. Un anziano frequentatore del bar aveva dichiarato al Corriere.it: «Appena lo hanno messo sulla barella ha tremato forte. Per due o tre volte le gambe, che non controllava più, hanno sbattuto contro il lettino. Tac, tac, tac. Poi è stato immobile. Di colpo. Sono sicuro, è morto in quel momento. Lo hanno ammazzato». Secondo il cugino nonché legale della famiglia, l’avvocato Giovanni Maria Soldi, «questa prima relazione autoptica conferma la brutalità dell’intervento e la manovra e il modo impropri in cui è stato trattato. Nonché la mancanza di un soccorso corretto e opportuno, quando, cosa ancora più grave, il soggetto era già in condizioni gravissime». La procura adesso lavora proprio su questo fronte: i vigili che hanno bloccato Andrea erano preparati per trattare con pazienti come Andrea? Chi e come li ha addestrati a praticare certe mosse? Che non si possa ammanettare un uomo quando è riverso a terra svenuto è un principio di buon senso universalmente conosciuto.
Andrea Soldi, cronaca di una morte psichiatrica. Dal 5 agosto. Quello che è emerso sulla morte di Andrea Soldi, 45 anni. Strappato dalla panchina, dove stava seduto, per essere ricoverato in ospedale. Contro la sua volontà. Come prevede ogni Trattamento sanitario obbligatorio. Solo che lui ne è morto, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.
5 AGOSTO 2015 - la morte. Un nome. Andrea Soldi. Anni, 45. Peso: 115 chili. Ammazzato mentre era nelle mani dello Stato per un Tso, un Trattamento sanitario obbligatorio, previsto per i pazienti in escandescenza che stiano rischiando di diventare un pericolo per sé e per gli altri. Andrea, dicono i testimoni, era tranquillo in quel momento. Ma non prendeva le sue medicine da troppo tempo. «La procura di Torino ha aperto un'inchiesta sulla morte di Andrea Soldi deceduto all'ospedale Maria Vittoria dopo un Tso», scrive l'Ansa. Si inizia a spiegare che è stato il padre a chiedere l'intervento, preoccupato perché da mesi il figlio non seguiva le cure. L'Asl To2 precisa il giorno stesso in una nota «che il paziente è giunto già in arresto respiratorio presso il pronto soccorso, dove è stato immediatamente preso in carico dal rianimatore, che lo ha sottoposto a rianimazione cardiopolmonare prolungata, purtroppo invano. Per comprendere le cause, lo stesso ospedale ha richiesto l'autopsia, che verrà eseguita già domani».
6 AGOSTO - le testimonianze. Non è solo, in piazza, Andrea Soldi, quando gli agenti della polizia municipale cercano di portarlo via. Ci sono persone al bar di fronte a lui, che da subito rilasciano testimonianze. Portano in procura cellulari dentro cui sono conservato foto che mostrerebbero quello che è successo. Loro raccontano di Andrea stretto al collo da un vigile, col viso cianotico. Ma soprattutto parlano, ripetono di quel braccio intorno al collo che gli avrebbe messo un agente, facendolo soffocare. Spiegano l'accaduto ai giornalisti ma non solo. Fanno la coda, per portare la loro testimonianza in tribunale, al pm Raffaele Guariniello che ha preso in carico l'indagine. Dalla proprietaria cinese del bar all'angolo a un ex carabiniere in pensione, dai rumeni che lì passavano del tempo ai vicini, tutti vanno a raccontare quello che sanno del "gigante buono" ucciso da un Tso. Anche la polizia municipale manda una sua relazione in procura, dalla quale, dice l'amministrazione comunale: «Non emergono fatti di particolare rilevanza nel comportamento degli operatori». Iniziano così a farsi largo due versioni discordanti. Gli operatori coinvolti (gli agenti di polizia, e lo psichiatra arrivato sul posto) e alcuni testimoni presenti.
7 AGOSTO - Il dolore. «Mio fratello era malato. Soffriva di schizofrenia sin dal 1990. Ma era un buono, non aveva mai fatto del male a nessuno. Era già stato sottoposto a trattamenti sanitari e non aveva mai dato problemi. Non doveva essere ammanettato. Non doveva essere preso per il collo. Non doveva finire così». Parla la sorella di Andrea, Cristina Soldi: «Non accuso nessuno», dice: «Chiedo solo che venga fatta chiarezza. Che non venga insabbiato nulla». Sulla panchina dove Andrea stava seduto quel giorno si affollano cartoline, fiori, foto, messaggi di commozione. «Da quanto mi è parso di capire», interviene l'avvocato di famiglia, Giovanni Maria Soldi: «ci sono versioni discordanti. Ma io ho fiducia in Guariniello». Il sindaco di Torino, Piero Fassino, lo chiama per esprimere cordoglio e vicinanza a nome della città: «Sin da subito», scrive il municipio in una nota: «le autorità comunali, dopo aver segnalato per prime l'episodio alla magistratura, si sono messe a disposizione degli inquirenti fornendo la più completa e fattiva collaborazione». La polizia municipale avrebbe avviato un'indagine interna e i tre vigili sarebbero stati trasferiti "in via prudenziale" ad altri incarichi.
8 AGOSTO - Le indagini. I tre vigili urbani e lo psichiatra che ha eseguito il Tso vengono iscritti nel registro degli indagati. Vengono interrogati i testimoni. Molti parlano di «maniere troppo forti». Si aspetta l'autopsia.
9 AGOSTO - Lo psichiatra. «Sono addolorato, ma non ho nessuna colpa», dice lo psichiatra indagato attraverso il suo avvocato, Anna Ronfani, che specifica: «Dal punto di vista clinico, il mio assistito è convinto di avere fatto tutto quanto necessario e opportuno. Ha seguito il protocollo alla lettera e ha grandissima amarezza per un risultato totalmente fuori dalla sua previsione e dalla sua volontà, anche perché era un paziente che conosceva da tempo».
10 AGOSTO - L'autopsia. Se ci si aspettava risposte dall'autopsia, la risposta non c'è. Almeno, non è univoca. L'autopsia apre subito spazio a ulteriori interpretazioni. Secondo l'esame autoptico infatti Andrea non sarebbe stato strangolato. Niente braccio intorno al collo, come raccontano i testimoni? I medici sembrano escludere "l'asfissia meccanica". Ma. Ma evidenziano «segni di compressione toracica». Che secondo i consulenti della famiglia Soldi sarebbero legati alla morte dell'uomo. Mentre per l'avvocato dello psichiatra «è il momento di astenersi da qualsiasi giudizio». Andrea sarebbe comunque arrivato in ospedale in arresto cardiaco e sarebbe morto poco dopo.
11 AGOSTO - l'ambulanza. Emerge un altro pezzetto di verità. Una verità forse ancora più preoccupante di quanto si intuiva. Andrea sarebbe stato bloccato. Ammanettato. E caricato in ambulanza a faccia in giù. A faccia in giù. Così che agli operatori sanitari finisse per essere impossibile rianimarlo. Lasciarlo respirare. Con quel collo stretto troppo a lungo in precedenza che avrebbe ridotto la circolazione del sangue, il respiro, la coscienza. Il medico legale, Valter Declame, parla infatti di «choc da compressione latero-laterale al collo». Un tipo di presa che secondo Declame non può durare più di 15 secondi, altrimenti causa quanto sopra. I consulenti dello psichiatra ovviamente contestano "aspramente" questa versione: «La causa del decesso non può essere quella», dicono: «Se strangoli qualcuno, la morte è immediata. Altro che venti o trenta minuti». L'11 agosto è anche il giorno della camera ardente. Della sorella Maria Cristina che chiede che le «cose cambino. Il Tso va eseguito solo quando non c'è altro da fare. Le persone devono essere preparate. E le famiglie dei malati non possono essere lasciate sole. Andrea doveva fare un'iniezione ogni mese, ma era da sette mesi che non le faceva». Lei è posata. Seria. Cerca già di dare a quel lutto così doloroso - la perdita del fratello - un significato e un orizzonte per gli altri. Ma non tutti hanno la stessa sensibilità. Il giorno stesso infatti arriva la polemica del sindacato di polizia Coisp: «Prima ci chiamano, poi ci lapidano», è quel che riesce a scrivere: «Gli operatori eseguono gli ordini e poi vengono criminalizzati».
12 AGOSTO - Il funerale. «Nel nostro cuore c'è tantissimo dolore, ma non c'è rancore», dice don Primo Soldi, zio della vittima, al suo funerale nella chiesa delle Stimmate di San Francesco d'Assisi. Fra i presenti il vicesindaco e il comandante della polizia municipale. Ci sono anche i dirigenti di una squadra di calcio cittadina, il Victoria Ivest, dove Andrea, prima della malattia, allenava nelle giovanili.
13 AGOSTO - la telefonata. Emerge un altro pezzo di verità. Una telefonata fra l'equipaggio dell'ambulanza e la centrale del 118. Uno degli elementi raccolti dai carabinieri del Nas che indagano sulla morte di Andrea Soldi. In cui il soccorritore avrebbe detto che Andrea «è stato preso al collo» e «un po' soffocato». Parlerebbe poi di un «intervento un po’ invasivo» e dell’ordine ricevuto di caricare Andrea ammanettato dietro la schiena e «a faccia in giù».
Morto per un Tso, il dialogo tra il volontario e la centrale del 118: "Urca, speravo ce la facesse". Nelle cinque telefonate tra il barelliere e la sede esce una versione nitida di quel che è accaduto quel pomeriggio in piazza Umbria. E poi nel pronto soccorso del Maria Vittoria, quando i vigili si impossessano del verbale, scrive Emilio Vettori su “La Repubblica”. Andrea Soldi, aveva 45 anni. L'audio rimane blindato dentro tre scrivanie. Ma a spizzichi e bocconi è ormai possibile ricostruire il dialogo tra il barelliere della Croce Rossa di Beinasco e la centrale operativa del 118 mentre si consumava il dramma di Andrea Soldi, 45 anni, affetto da vent'anni da schizofrenia, morto durante un Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Teatro: piazza Umbria, dove nel pomeriggio di mercoledì 5 agosto, i tre agenti della pattuglia "Pegaso 6" dei vigili urbani di Torino, chiamati dallo psichiatra Pier Carlo Della Porta dell'Asl2 che da tre anni segue l'uomo, scelgono la forza per indurre Soldi a salire sull'ambulanza per raggiungere l'ospedale Maria Vittoria. Qualcosa va storto ("è stato trattenuto per il collo troppo a lungo" sentenzia nel suo verbale il perito scelto dalla procura per l'autopsia), Soldi cade a terra svenuto. Viene caricato in ambulanza, con le manette, prono, cioè a testa in giù. Cinque telefonate tra il barelliere e la centrale, dove un medico donna invita il ragazzo - ha ventidue anni - a stare tranquillo e a non farsi intimidire ricostruiscono uno spezzone di quel mercoledì tragico.
Il volontario: "Sono per l'intervento di piazza Umbria. Lo hanno caricato in ambulanza contro il regolamento, ammanettato e a pancia in giù..."
La centrale: "Portatelo al Maria Vittoria".
Il volontario: "Non è questo il problema. Volevo dire che non ho mai visto una cosa così...Hanno preso il paziente per il collo. Lo hanno fatto, come dire, un po' soffocare. Non respira bene. Non si poteva metterlo in lettiga in questo modo. E poi le manette".
La centrale. "Devi dirlo al medico, parla con il medico".
Il volontario: "Lo abbiamo detto al medico, sia io sia le mie colleghe. Ma lo psichiatra mi ha detto di lasciarlo a testa in giù. Mi ha ordinato di lasciarlo così".
Sette minuti dopo la partenza da piazza Umbria, Andrea Soldi arriva al pronto soccorso del Maria Vittoria: "In arresto respiratorio" terrà a sottolineare poche ore dopo un comunicato ufficiale. Sull'ambulanza le condizioni dell'uomo peggiorano ulteriormente. Il vigile che è con lui tenta di allentare le manette, l'infermiere prova a dargli l'ossigeno, ma la posizione prona non aiuta. Mentre i medici tentano un'inutile rianimazione, il barelliere chiama ancora una volta la centrale.
Il volontario: "Qui ci sono i vigili che vogliono il mio verbale. Che cosa devo fare?".
La centrale: "Tu non glielo devi consegnare. Se ne hanno bisogno, ne chiederanno una copia in via ufficiale alla centrale, come sempre si fa in questi casi. Conoscono la procedura".
Passano pochi minuti e il barelliere torna a collegarsi con la centrale.
Il volontario: "Dottoressa, mi hanno strappato il verbale di mano e fotografato con il cellulare".
La centrale: "Ho capito. Che cosa vuoi farci. Il mondo è dei furbi e dei prepotenti".
Mentre l'ambulanza rientra a Beinasco, i medici del Maria Vittoria si arrendono: un'ora di tentativi sono stati vani, Andrea Soldi viene ufficialmente dichiarato morto. Il volontario chiama per l'ultima volta la centrale.
Il volontario: "Dottoressa, come sta quel ragazzo?"
La centrale: "Purtroppo è morto".
Il volontario: "Urca. Speravo proprio ce la facesse".
“La libertà sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le morti invisibili". "Potrebbe succedere a chiunque nel nostro Paese: attraversi in macchina l'isola pedonale, contravvenendo al codice della strada, e invece di essere multato vieni inseguito e arrestato da vigili urbani, carabinieri e guardia costiera sulla spiaggia. Poi, con il TSO, sei rinchiuso nel reparto di psichiatria dell'ospedale della tua zona, sedato, legato, non ti viene dato né da bere, né da mangiare, ai familiari è impedito di visitarti"... Così scrive Giuseppe Galzerano nel suo intervento in questo libro. Galzerano descrive l'esperienza di un suo amico, Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto dopo più di quattro giorni di letto di contenzione cui era stato costretto per un TSO. Il processo contro i responsabili della "reclusione" è in corso.
La libertà sospesa. TSO, psicologia, psichiatria, diritti è il nuovo titolo di Fefè Editore dedicato al Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, a cura di Renato Foschi (Università Sapienza di Roma). Un argomento di estrema attualità: è recente la condanna in primo grado di alcuni medici giudicati responsabili della morte del maestro Francesco Mastrogiovanni, deceduto in regime di TSO dopo cinque giorni di letto di contenzione, senza acqua né cibo. Il TSO rappresenta una “eccezione” al diritto costituzionale per cui, poste certe condizioni (urgenza, mancanza di presidi extra-ospedalieri e rifiuto delle cure), al cittadino – con un provvedimento del sindaco – sono sospesi, per sette fino a quindici giorni, alcuni diritti elementari. Secondo i dati ISTAT, in Italia, nell’ultimo decennio si sono effettuati ogni anno oltre 10.000 trattamenti psichiatrici “obbligatori”. Sono, inoltre, in discussione progetti di legge finalizzati ad estendere le possibilità di applicazione del TSO. Parlare del TSO vuol dire aprire scenari drammatici, a volte veri e propri orrori umani e familiari, che rimangono sotterranei e riescono a raggiungere l’opinione pubblica solo in casi estremi come quello di Mastrogiovanni. Scenari che meriterebbero l’attenzione quotidiana dei cittadini più accorti e sensibili, e delle “pubbliche autorità” (giudici, medici, sindaci, ecc.) da cui l’applicazione del TSO dipende. In questo libro a più voci di Fefè Editore, curato da Renato Foschi, ne scrivono oltre allo stesso Foschi, psicologi, psichiatri, giuristi e giornalisti: Giuseppe Allegri, Giorgio Antonucci, Ines Ciolli, Gioacchino Di Palma, Giuseppe Galzerano, Nicola Viceconte, Philip G. Zimbardo. Con la chiusura di Ascanio Celestini.
La Libertà Sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Psicologia, Psichiatria, Diritti. Fefè editore ha, da poco, pubblicato un volume da me curato sul Trattamento Sanitario Obbligatorio in psichiatria. Pochi conoscono l’argomento. Il progetto è partito dalla conoscenza della morte di Francesco Mastrogiovanni, che ha scoperchiato un Vaso di Pandora fatto di coercizioni e morti durante un trattamento sanitario che vorrebbe essere invece aiutare il paziente (i morti durante i TSO non sono un numero irrilevante). Il TSO è un dispositivo contenuto nella L. 180/78 (cosiddetta Legge Basaglia) e poi nella 833/78 (Legge di istituzione del SSN) che consente la sospensione della libertà individuale e il ricovero coatto sulla base di una ordinanza del sindaco e due certificati medici che sanciscano l’urgenza del caso. Le condizioni per attuare un TSO sono, quindi, (1) l’urgenza, (2) la mancanza di possibilità di cura extra-ospedaliera, e (3) il rifiuto di cure da parte del paziente. Il TSO dura sette giorni ed è ripetibile una volta in sequenza e più volte nel corso della vita. Il libro fa luce su alcuni aspetti giuridici, psicologici e psichiatrici legati al TSO su cui ritengo sia bene riflettano sia gli operatori (medici, infermieri, psicologi), sia i pazienti. A mio parere, il problema principale della epistemologia della medicina è la difficoltà a fare i conti con la ragionevolezza di certe “malattie”, continuando a “ristrutturarle” sulla base di nuove cure e terapie…le malattie psichiatriche, sotto questo aspetto, sono prototipiche. Certo se poi qualcun altro che non sia il malato, ci guadagna, sarà difficile andare oltre la retorica. Ad. es. quanto costa un TSO al giorno? Quanto costa la somministrazione di un nuovo farmaco antipsicotico? Una giornata di ricovero in Italia varia dai 600 ai 900 euro e ci sono neurolettici che possono arrivare a costare molto. I reparti psichiatrici italiani sulla base di circa 10000 TSO all’anno (dati ISTAT) riescono ad avere quindi dei rimborsi milionari. Inoltre a prescindere dalla bontà dei sistemi di cura e di diagnosi psichiatrica – che sono costantemente messi sotto accusa da un numero crescente di studiosi ed expazienti-, le cure coercitive partono dall’idea che ci siano casi in cui sia necessario sospendere la libertà individuale come se il paziente potesse sempre essere potenzialmente un pericoloso criminale. Come generalmente si temono i criminali, così si si può temere il malato di mente; si crea, quindi, un sistema di controllo valido per entrambi. La preoccupazione dei fautori del TSO per il malato (e ci sono alcuni progetti di legge che vogliono che diventi una pratica più lunga) potrebbe, dunque, in primo luogo mascherare preoccupazioni di altro genere. Sul versante positivo, dobbiamo affermare anche che negli ultimi 150 anni non c’è stata solo una psicopatologia psichiatrica controllante e coercitiva, ma c’è stata anche una storia diversa creata da persone che si sono autonomizzate dal proprio contesto e che sono state in grado di vedere le cose dall’alto…Freud, Janet, Montessori, Basaglia, Foucault…e con queste ci sono state moltissime altre personalità, meno note, forse più discrete, che però hanno grandemente contribuito alla lunga e mitologica saga che contrappone le persone libere da quelle che vivono nella preoccupazione. Sono lieto soprattutto perché alcune di queste persone libere (e qualcuno degli autori ha già lasciato dei tagli nella storia della psicologia e della psichiatria) hanno contribuito alla scrittura del volume da me curato.
Andrea Soldi: 25 anni, ucciso su una panchina a Torino. Bloccato e ammanettato da due vigili urbani per un Trattamento sanitario obbligatorio, il ricovero coatto nei reparti di Psichiatria previsto in casi eccezionali di pericolo. È l'ultima di una serie di vittime. C'è Mauro Guerra, 33 anni, che fuggiva da un arresto per Tso solo pochi giorni fa, nei campi della bassa padovana. È stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Ci sono poi i casi di Franco Mastrogiovanni e Giuseppe Casu, morti invece mentre erano nelle mani dei medici dentro gli ospedali. Ecco le loro storie. Per non dimenticare, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.
Morto durante il Tso, trasferiti i tre vigili della pattuglia. La sorella della vittima: "Non insabbiate nulla". Cordoglio del sindaco per la tragedia di piazzale Umbria, polizia municipale sotto accusa: i tre agenti sono stati "assegnati a servizi non operativi". Fassino: "Massima severità se emergeranno responsabilità personali". I parenti della vittima in procura dal pm Guariniello che ha aperto un'inchiesta, scrive Gabriele Guccione su “La Repubblica”. Il sindaco Piero Fassino ha telefonato questa mattina ai familiari di Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto mercoledì pomeriggio del 5 agosto 2015 durante un ricovero forzato eseguito da una pattuglia dei vigili urbani, dal Centro di salute mentale dell’Asl 2 e dagli infermieri del 118 ai giardinetti di piazzale Umbria. Un intervento che, è l'accusa dei testimoni e degli amici della vittima, sarebbe stato messo in atto con violenza immotivata: "Andrea era tranquillo, i vigili in borghese lo hanno preso per il collo, alle spalle. Mentre lo stringevano aveva la lingua fuori e non respirava più. Lo hanno caricato in ambulanza a faccia in giù, ammanettato". I tre vigili si sono difesi dicendo che l'uomo aveva dato in escandescenze ma questa circostanza non ha per ora trovato conferma tra i testimoni. L'ospedale Maria Vittoria ha riferito che Soldi, all'arrivo al pronto soccorso, era "già in arresto respiratorio" e che le manovre rianimatorie "non hanno purtroppo avuto successo". tre vigili della pattuglia, annuncia il Comune, sono stati intanto trasferiti: "Il comandante della Polizia municipale, Alberto Gregnanini - dice una nota - allo scopo di raccogliere ogni elemento di verità utile ai primi atti disposti dalla Procura, ha promosso un approfondimento sulle modalità dettagliate dell'intervento di mercoledì e ha disposto, in via prudenziale, l'assegnazione dei tre agenti coinvolti a servizi non operativi". Il sindaco Piero Fassino ha aggiunto che "se verranno rilevate delle responsabilità personali, queste dovranno essere perseguite con rigore e con la massima severità". “Intendo manifestarvi il cordoglio della città intera per questo grave lutto che vi ha colpito”, si sono sentiti dire, da Fassino, il padre Renato (che dopo aver parlato con i testimoni in piazza ha dichiarato "Mio figlio è stato ammazzato con cattiveria"), la sorella Cristina e il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi, che si sta occupando del caso. “Da parte nostra – ha aggiunto il primo cittadino – assumeremo tutte le misure e svolgeremo tutti gli accertamenti del caso per fare luce su questo tragico episodio”. "Chiedo che venga fatta luce sulla morte di mio fratello. E che non venga insabbiato nulla". Lo ha detto la sorella della vittima, che stamattina ha accompagnato in procura il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi per un incontro con il pm Raffaele Guariniello che sta indagando sull'episodio. "Mio fratello - ha raccontato Cristina - era malato. Soffriva di schizofrenia dal 1990. Ma era già stato soggetto a trattamenti sanitari e non c'era stato alcun problema. Era un buono e non aveva mai fatto del male a nessuno. Mezz'ora prima rideva e scherzava: non doveva essere ammanettato, non doveva essere trattato in quel modo. Non doveva finire così". L'avvocato Soldi ha detto di essere stato chiamato dal sindaco, Piero Fassino: " Ha espresso la sua vicinanza e il cordoglio della Città, e ha affermato che, per quanto possibile, stanno acquisendo ogni informazione utile. Quanto all'inchiesta, per quello che mi pare di capire ci sono versioni discordanti. Bisognerà trovare la quadra. Ma ho fiducia in Guariniello". La famiglia Soldi, questa mattina, prima di andare dal pm, ha fatto un sopralluogo in piazzale Umbria alla ricerca di testimoni. In mattinate è andato in procura anche il comandante dei vigili urbani Alberto Gregnanini.
In nove foto la verità sulla morte di Andrea. L’inchiesta della procura torinese sulla tragedia del Tso. Raffica di interrogatori in piazza Umbria: i militari del Nas sequestrano un telefonino, scrive Massimiliano Peggio su “La Stampa”. «Sono due giorni che non dormo. Una cosa del genere non mia era mai capitata. La vicenda ha avuto una dinamica complessa. Mi sento vicino ai familiari e rispetto il loro dolore». Così diceva ieri pomeriggio l’infermiere dell’Asl To 2 uscendo provato dopo un lungo interrogatorio in Procura, di fronte alla polizia giudiziaria del pm Raffaele Guariniello. L’infermiere è stato il primo dei sanitari interrogati, collaboratore del dottor Pier Carlo Della Porta, lo psichiatra del servizio territoriale che da tempo seguiva Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto durante un Tso, malgrado il ricovero al Maria Vittoria. Lui e il medico, con altro personale di un’ambulanza, erano presenti in piazzale Umbria per eseguire il ricovero forzato concordato con i familiari di Andrea, per il quale era stato chiesto l’intervento della pattuglia dei vigili urbani. Sempre ieri sono stati sentiti la sorella della vittima, Cristina e il papà Renato, accompagnati dal loro legale, Giovanni Maria Soldi. Per ora non ci sono iscrizioni formali nei confronti dei vigili urbani o di altro personale. Si attende il risultato dell’autopsia che sarà eseguita dal responsabile della medicina legale dell’ospedale di Alessandria, Valter Declame. Ma di fatto gli investigatori stanno raccogliendo gli elementi d’indagine ipotizzando profili di reato di omicidio colposo o lesioni colpose gravi, che hanno portato alla morte. Stando infatti ai primi accertamenti sul corpo di Andrea, le tracce riscontrate dai sanitari sarebbero compatibili con quelle di un’asfissia. E su questo solco hanno lavorato ieri i carabinieri del Nas di Torino, cui il pm ha affidato l’incarico di raccogliere le testimonianze delle persone che hanno assistito al Tso, mercoledì scorso, in piazzale Umbria. Il primo passo è stato sequestrare il telefonino del pensionato, ex carabiniere in pensione, che dalla sua finestra di casa ha fotografato l’ultima fase dell’intervento dei vigili, ritraendo Andrea a terra, con le mani ammanettate dietro la schiena, immobile, a faccia in giù. Il suo telefonino contiene 9 foto che saranno raccolte in un cd e inviate già in giornata al pm con una prima informativa, con i verbali delle testimonianze. Una decina in tutto. Quella dello stesso pensionato che ha assistito a tutta la scena e quella di Maria Ifrim, romena, che si trovava con il figlioletto nei pressi del bar Ari’s, con altri connazionali. Preziosa, inoltre, la testimonianza di un impiegato delle poste che era seduto sulla panchina accanto a quella occupata da Andrea. Ha visto il suo volto scurirsi e diventare cianotico, fino agli spasmi. Lo ha visto caricare sull’ambulanza ammanettato, a pancia in giù, proprio lui che era un omone di 150 chili. Anche la direzione sanitaria dell’Asl To 2 ha avviato «accertamenti interni», richiedendo una relazione sull’accaduto al servizio psichiatrico. Anche Giuseppe Uva venne ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il TSO".
Padova. Rifiuta il Tso, aggredisce i carabinieri che gli sparano: ucciso. Mauro Guerra, 30 anni, aggredisce un carabiniere e scappa: freddato dal collega. La tragedia nei campi di Carmignano di Sant'Urbano. E la famiglia chiede chiarezza. Il carabiniere che ha sparato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo, scrive “Il Mattino di Padova" il 30 luglio 2015. E' stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo il carabiniere che ha sparato e ucciso Mauro Guerra, il giovane che era scappato dopo aver rifiutato il trattamento sanitario obbligatorio. Un gesto dovuto da parte della procura di Rovigo (competente nel territorio della Bassa) anche per permettere al militare di nominare un difensore che potrà essere presente alle prove balistiche e alle ricostruzioni dell'accaduto. Intanto è stato dimesso il carabiniere che era stato aggredito da Guerra. Fatto che ha portato il collega militare a sparare e uccidere il giovane. Il carabinieri ferito è stato dimesso con una prognosi di 30 giorni per le 6 costole fratturate e i colpi alla testa ricevuti da Guerra. Hanno ucciso un uomo nudo e disarmato. L’hanno freddato i carabinieri in mezzo alla campagna. Mauro Guerra, 33 anni, laureato in Economia aziendale, dipendente di uno studio di commercialista di Monselice, buttafuori per arrotondare in un locale di lap dance, pittore e designer per passione, è morto dissanguato dopo che un colpo di pistola gli ha oltrepassato il fianco destro. È successo ieri a Carmignano di Sant’Urbano, un paese dove tutti conoscono i carabinieri per nome. Lì la gente li conosce uno per uno perché loro sono la Legge. Solo che quella stessa Legge, ieri, ha tolto la vita a un uomo disarmato. Violento ma disarmato. Gli ha sparato il comandante di stazione, il maresciallo Marco Pegoraro, insediato appena tre mesi fa nel comando che copre una vasta zona rurale tra l’estremo lembo della provincia di Padova e l’inizio di quella di Rovigo. Due colpi in aria e uno al fianco (anche se alcuni testimoni dicono di aver sentito quattro botti) con la sua Beretta calibro 9 di ordinanza. Voleva salvare un collega. Voleva fermare il trentatreenne per togliergli dalle grinfie Stefano Sarto, 47 anni, brigadiere del nucleo Radiomobile di Este, l’unico a rincorrere Mauro Guerra mentre questo, scalzo e in mutande, provava a fuggire attraverso i campi. Il militare l’ha raggiunto dopo una corsa sfiancante sotto il sole cocente. Seppur stremato è riuscito a stringergli una manetta al polso. Sembrava tutto finito. La trattativa estenuante iniziata poco prima delle 13 per un trattamento sanitario obbligatorio pareva essere giunta a conclusione. Ma dopo un accenno di remissione Guerra ha reagito in modo brutale. È riuscito a liberarsi dalla stretta e ha iniziato a colpire il brigadiere alla testa con le manette. Il militare è finito a terra e lui, cento chili per un metro e ottanta, ha continuato a infierire. Il comandante di stazione ha visto la scena da lontano. Ha intimato l’alt. Ha sparato due colpi in aria ma la brutale aggressione continuava. Così ha mirato e ha fatto fuoco ancora, stavolta puntando la canna dell’arma sul corpo nudo che copriva il collega a terra. Il colpo ha trafitto il giovane al fianco, gli ha tolto in un attimo forze e respiro. La rabbia della sorella Elena, che ha cercato inutilmente di avvicinarsi alla salma. I familiari: «Ci nascondono qualcosa». E c’è chi ha pensato al caso Aldrovandi. Medici e infermieri presenti per ultimare il trattamento sanitario obbligatorio sono accorsi per tamponare la ferita. Cinquanta minuti di massaggio sul posto. L’elisoccorso che parte da Treviso. Le pattuglie dei carabinieri che si moltiplicano. Operai che escono dalle fabbriche. Residenti che accorrono in strada. Sembrava potesse farcela ma alla fine il suo cuore si è fermato. Mauro Guerra è morto poco prima delle 16. «Nemmeno un cane si uccide in questo modo», gridava la sorella Elena trovando la solidarietà di tutti i compaesani. Una personalità complessa quella di questo ragazzo cresciuto con i genitori nell’abitazione di via Roma 36. Costituzione robusta e animo sensibile. Passione per la cultura fisica ma propensione per l’arte. Ci metteva poco a venire alle mani, Mauro Guerra. Con la stessa facilità, poi, ti poteva parlare dell’amore e della fede in Dio. Aveva fatto il militare in uno dei reparti più duri: i carabinieri paracadutisti. Poi la sorte l’aveva allontanato dalle forze armate e aveva scelto di proseguire con gli studi. Il suo era un caso noto. In questi ultimi anni aveva perso i punti cardinali e, a volte, esagerava con le reazioni. Lo sapevano i medici del paese, lo sapeva il sindaco e lo sapevano anche i carabinieri. Il suo atteggiamento era facilmente fraintendibile. A tratti molesto. In genere mandava messaggi via Facebook ma qualche giorno fa si è spinto oltre. Ha inviato un mazzo di fiori a casa di una ragazza del posto, una ventenne che evidentemente gli piaceva. Lei che lo conosceva è corsa dai carabinieri a raccontare tutto e in quel momento si è attivato tutto l’apparato previsto per legge quando si annusano casi di possibile stalking commessi da persone potenzialmente border line. Probabilmente, in quel momento, le autorità hanno deciso di agire. Ieri verso mezzogiorno sono stati i familiari a segnalare il precario equilibrio umorale di Mauro Guerra. Quando la pattuglia del nucleo Radiomobile si è presentata davanti a casa, il trentatreenne è uscito in cortile nudo. Indossava solo le mutande. Sudava e parlava a sproposito. Sosteneva di voler parlare con un certo “Vito”, militare in forze alla stazione di Carmignano che evidentemente lui conosceva bene. Ma i protocolli previsti in questi casi sono rigidi e chi deve essere preso in consegna dall’autorità sanitaria non può scegliersi questo o quel carabiniere. Così gli animi si sono scaldati in un attimo. Mauro entrava e usciva di casa. I militari gli parlavano e lui non li ascoltava. Si innervosiva sempre di più e non dava retta a nessuno, nemmeno ai genitori. Medici e infermieri dell’ambulanza, partiti dal pronto soccorso dell’ospedale di Schiavonia per un “codice verde”, sono stati avvisati strada facendo che la situazione si stava complicando. E dalla prospettiva di un semplice ricovero in Psichiatria, si sono trovati a dover praticare la tracheotomia a un giovane dissanguato. Ora i compaesani piangono per Mauro Guerra. Piangono per la morte di un ragazzo che hanno visto nascere. Piangono perché stavolta a sparare è stata la Legge.
Legato, sedato ed infine ucciso. L'assurda morte di Giuseppe Casu per Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra. La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia: «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d'astinenza. «Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelamente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo». «Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".
Così hanno ucciso Mastrogiovanni. Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre 2012, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de "l'Espresso", in collaborazione con l'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi e con l'accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all'ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da "Mi manda RaiTre" quando il processo era appena iniziato. Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato. A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l'assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula. Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un'altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente. Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l'esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell'accusa, secondo l'impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l'omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell'autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un'addetta alle pulizie. L'avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell'Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella". Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura. Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l'omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l'imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all'obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto. Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.
Muore in ambulanza durante un Tso, la procura apre un’inchiesta. Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, 49 anni aveva impedito ai sanitari chiamati dalla sorella di entrare nella stanza, poi ha accusato il malore fatale: domani l’autopsia, scrive “Il Resto del Carlino” il 12 luglio 2015. La Procura della Repubblica di Macerata ha aperto un fascicolo per la morte dell’imprenditore di Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, di 49 anni, deceduto in ambulanza mentre veniva sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). L’uomo, disoccupato, viveva con i genitori e la sorella e da tempo aveva manifestato problemi psichici e depressione. Sabato sera, la sorella si è accorta che non stava bene e ha chiamato il medico curante al quale però il quarantanovenne avrebbe vietato di entrare in camera. Il sanitario ha allora chiesto l’intervento dei carabinieri e del 118 per sottoporre il suo paziente al Tso. Ma Testarmata ha cercato di impedire anche l’ingresso del personale medico. Ha accusato un malore, si è cercato di rianimarlo ed è stato trasferito nell’autoambulanza, dove è deceduto forse per collasso cardiocircolatorio. Per chiarire la vicenda e le cause esatte della morte il pm Luigi Ortenzi ha avviato le indagini contro ignoti per omicidio colposo. Domani sarà effettuata l’autopsia.
Malzone, un cilentano di Agnone, morto a Polla dopo un tso, scrive “Unico Settimanale” il 26 giugno 2015. È morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non hanno mai potuto vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, viveva in un piccolo paese del Cilento, Agnone. Il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. «Durante il suo penultimo ricovero mio fratello chiamava due, ma, anche tre volte al giorno. Quest’ultima volta no. I medici, quando chiamavo in reparto – racconta Adele, sorella di Massimiliano – mi dicevano che mio fratello stava benino, ma che aveva un atteggiamento aggressivo». Questa, secondo la signora Adele, è stata la motivazione utilizzata dai sanitari per vietare ai familiari di entrare in reparto. «Io ho chiamato sempre in ospedale per sapere come stava Massimiliano, aspettando che me lo facessero vedere. Ci vogliono due ore di macchina per arrivare a Polla e aspettavamo che ci dicessero che potevamo entrare in reparto», aggiunge Adele. Massimiliano, durante il suo ultimo ricovero, ha contattato la famiglia una sola volta. Poche ore prima del decesso. Lo ha fatto, intorno alle 12.45 di lunedì 8 giugno, utilizzando un cellulare che gli avrebbe prestato forse una paziente. Il ragazzo voleva contattare un legale. «Deve dargli il numero dell’avvocato, vogliono farci passare per pazzi qua dentro», avrebbe detto la compagna di stanza di Massimiliano alla sorella del ragazzo. Adele ricorda che la telefonata fu interrotta bruscamente. Alle 17, secondo quanto affermato dai medici in reparto, il ragazzo stava bene. Dopo meno di 3 ore la notizia del decesso. «Com’è possibile? – si chiede Adele — Com’è successo?». Massimiliano, secondo i medici, sarebbe morto per arresto cardiaco. La procura di Lagonegro ha avviato un’indagine per accertare le cause del decesso. Bisognerà attendere 60 giorni per i risultati dell’autopsia. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Entrambi cilentani, entrambi morti durante un Trattamento sanitario obbligatorio. Entrambi, durante il ricovero, tenuti lontani dai propri cari. In comune anche un medico. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si svolgeranno le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre. Nel caso del maestro di Castelnuovo Cilento, la verità è emersa grazie alla presenza, nel reparto, di un sistema di videosorveglianza, sequestrato dalla polizia giudiziaria durante le indagini della magistratura. Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania è attualmente chiuso e una parte dei medici e degli infermieri sono stati trasferiti nell’ospedale di Polla. Nel reparto psichiatrico di Polla non ci sono le telecamere. Le immagini di Mastrogiovanni sono ancora impresse nella mente di chi le ha viste. Immagini mute che urlano giustizia, e ora giustizia dev’essere fatta anche per Massimo. È necessario sciogliere ogni dubbio. È doveroso nei confronti della famiglia e della giovane vittima.
Morte di Riccardo Magherini, tutte le indagini di quella notte. Tutte svolte dai carabinieri (e dagli indagati), scrive Matteo Cali su “Il Sito di Firenze”. Riccardo Magherini viene dichiarato morto alle 3.00 del 3 marzo 2014, giunto ormai cadavere da Borgo San Frediano al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo aver chiesto "inginocchiato a mani giunte, aiuto". Apparentemente per i carabinieri quell'uomo a “d'orso nudo” (errore grammaticale presente nel verbale, ndr), “quell'energumeno”, “in un elevato stato di agitazione psicomotoria”, aveva “prima procurato dei danneggiamenti al vetro di una pizzeria, aveva rapinato un passante di un cellulare e aveva rotto il vetro di un auto” e “dopo che un medico gli aveva somministrato un medicinale che lo portava alla calma” proprio mentre i carabinieri, come scrivono loro stessi nei loro verbali, appuravano queste informazioni “il soggetto andava in arresto cardio respiratorio quindi i sanitari presenti sul posto iniziavano le manovre di rianimazione” e poi Magherini “decedeva durante il trasporto in ospedale”. Questa è l'informativa, che si conclude con una nota, per segnalare agli ufficiali in servizio i fatti. La ricostruzione è incredibilmente falsa. Non lo dice chi scrive, lo dicono i fatti e le testimonianze che la smentiscono con facilità. Ma per i carabinieri, quella sera, in fin dei conti Riccardo Magherini è un uomo che è morto per un arresto cardiaco. Come può succedere. Non c'entrebbero niente i calci ricevuti da Magherini e tutte le azioni di compressione che ha subito da quei quattro carabinieri il 40enne fiorentino e riferite da decine di testimoni. Solo un infarto. E allora perchè quel giorno il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Firenze svolge ventidue attività d'indagine di cui almeno diciassette nella notte? Perchè c'è l'esigenza di far dire alla volontaria della Croce Rossa, interrogata accanto al cadavere di Riccardo Magherini, che all'arrivo della prima ambulanza il 40enne fiorentino respirava ancora ed era vivo? Perchè quella notte maggiori e capitani dell'Arma passano ore ad interrogare persone e a cercare prove contro il morto Riccardo Magherini? Perchè di questo si tratta, in quelle ore i carabinieri cercano le prove contro un morto. Lo fanno per alleggerire le loro responsabilità nonostante sia soltanto morto d'infarto. Eppure qualcuno al comando di Borgognissanti sa che non è andata in questo modo. Lo sa esattamente dal minuto in cui gli appuntati Corni e Dalla Porta chiamano il maresciallo Castellano e riferiscono la morte di Magherini. Probabilmente c'è panico nei comandi del nucleo investigativo dei Carabinieri. Perchè quell'infarto sanno tutti perfettamente che non può reggere. Troppi calci da spiegare. Troppi testimoni di quello che è successo. E allora inizierà una serrata attività d'indagine svolta soltanto dai carabinieri, dagli stessi colleghi di chi intervenne in Borgo San Frediano ed è stato protagonista della morte di Magherini. Indagini finalizzate a far emergere l'aspetto peggiore della vita dell'ex promessa della Fiorentina. Per “metterlo” male. Per far passare quell' “energumeno” per un tossicodipendente, violento, che quella sera sarebbe stato anche un delinquente. Riccardo Magherini, incensurato, verrà denunciato da morto per furto e danneggiamenti. Su quel foglio trasmesso alla Procura di Firenze accanto al suo nome c'è una croce nera. Rimarrà unico indagato per la sua stessa morte fino al giorno della denuncia della famiglia contro tutti gli intervenuti sul luogo. I quattro carabinieri si faranno refertare al pronto soccorso con prognosi da due a dieci giorni. Lo faranno dopo aver svolto attività di indagine e soltanto dopo la morte di Magherini. L'appuntato Della Porta rimarrà all'interno del pronto soccorso per soli 8 minuti. Il maresciallo Castellano per 7. L'appuntato Corni sulla sua diagnosi vedrà anche scritta la descrizione di "un soggetto violento e agitato". Ma quell'uomo anche chi referta i carabinieri lo vedrà soltanto cadavere. E allora perchè scrivere in una diagnosi queste cose? Riccardo Magherini, come già detto, viene dichiarato morto alle 3.00 al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dove arriverà in asistolia. Una morte sopraggiunta in Borgo San Frediano. A nulla sono servite le manovre rianimatorie eseguite all'arrivo della seconda ambulanza. Con le manette ai polsi, per “almeno un minuto perchè i militari non trovavano le chiavi”. Magherini era morto lì ed invece è stato trasportato in ospedale. Giusto per essere chiari, se Riccardo Magherini fosse stato dichiarato morto sulla strada sarebbe dovuto arrivare sul posto il pm di turno per disporre la rimozione della salma e sarebbe iniziata una procedura diversa da quella attuata in questo caso.
Appena comunicato il decesso iniziano le indagini.
Alle 3.05 gli appuntati Corni e Della Porta, per cui la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo (a Corni vengono contestate anche le percosse) visti i fatti di Borgo San Frediano, interrogano una delle volontarie della Croce Rossa intervenute sul posto. Anche a lei verrà contestato l'omicidio colposo. Questo interrogatorio si svolge accanto al corpo di Riccardo Magherini appena morto. “Le verrà fatto dire – sostiene l'avvocato Massimiliano Manzo, legale dei volontari della Croce Rossa – che con la mano avrebbe sentito il respiro di Magherini”. Esattamente questo. Quella volontaria avrebbe messo la mano, con il guanto di lattice, alla bocca del 40enne e avrebbe sentito il suo respiro. Purtroppo non sarà così, e quelle affermazioni verbalizzate accanto al cadavere di Magherini sono totalmente cambiate in sede di Polizia Giudiziaria tanto da fare dire al legale della donna che quell'interrogatorio " si è svolto in condizioni allucinanti”. “I carabinieri hanno negato ai miei assistiti la possibilità di assistere quell'uomo” dirà con forza il legale. E questa testimonianza sarà fondamentale per mantenere Magherini in vita all'arrivo della prima ambulanza. Influirà su tutta la condotta dei soccorsi da parte dei volontari. Non collegherebbe infatti l'infarto, motivo della morte di Magherini secondo i carabinieri, ai calci sferrati e alla pressione esercitata dai militari sul corpo a terra dell'uomo durante e dopo le fasi di fermo.
Contemporaneamente alle 3.10 appresa la notizia della morte, il maresciallo Castellano (anche lui a giudizio per omicidio colposo), interroga nella caserma di Borgo Ognissanti, insieme ad uno dei due ufficiali (un capitano, ndr) che vengono informati dalla nota di cui sopra, il pizzaiolo della prima pizzeria visitata da Magherini ed a cui il 40enne fiorentino avrebbe rubato il cellulare, comunque immediatamente restituito e causa poi dell'esigenza dell'arresto in flagranza che i carabinieri stavano operando su Riccardo. Anche in quel verbale c'è un sottile elogio all'operato dei militari “che tentavano di bloccarlo cercando di vincere la resistenza opposta dallo stesso che sbracciava e urlava le solite frasi senza senso. Posso dire, per quanto da me osservato direttamente, che i militari presenti sul posto, componenti di due pattuglie, non hanno assolutamente usato violenza nei confronti del soggetto da loro fermato, cioè non l'hanno picchiato ma cercavano solo di bloccarlo fisicamente, nè tantomeno hanno fatto uso di armi, limitandosi al suo contenimento. Ho tuttavia visto un carabiniere che sanguinava vistosamente dalla testa”. Questo dice quell'uomo. E l'opera di contenimento così limitata descritta da questo testimone è ampiamente smentita da altre decine di testimonianze.
Alle 3.30 poi è il maggiore Carmine Rosciano, comandante del Nucleo investigativo dell'Arma, ad incaricare due marescialli in servizio al reparto scientifico di andare a Borgo San Frediano sui “luoghi di interesse alle indagini”. Lì quegli stessi fotograferanno i danni alle due vetrine delle pizzerie, quelli all'auto (che da quelle foto non riporta vetri rotti), e l'iPhone con il vetro infranto che avrebbe rubato Magherini. C'è tutto tranne il luogo dove il 40enne verrà immobilizzato e morirà. Magari poteva esserci una macchia di sangue. Un segno. No, niente.
Alle 4.00 viene ricevuta la denuncia querela per danneggiamenti del proprietario della seconda pizzeria visitata da Riccardo Magherini. Al comando di Borgo Ognissanti, l'uomo dirà “di essere informato da un passante che Magherini aveva aggredito un carabiniere” e che durante tutte le lunghe operazioni di arresto e dei soccorsi rimarrà sempre all'interno della sua pizzeria, a circa dieci metri dal luogo della morte di Riccardo Magherini.
Alle 5.20, al comando di Borgo Ognissanti, veniva interrogato da un sottoufficiale dell'Arma (un maresciallo, ndr) uno dei due testimoni che avrebbero seguito tutto l'esito delle azioni di Magherini in San Frediano.
Il giovane riferiva che mentre camminava per Borgo San Frediano veniva avvisato dal pizzaiolo, di cui sopra, del furto del suo cellulare quasi contemporaneamente all'arrivo della prima macchina dei carabinieri. Magherini viene individuato. E' a terra in ginocchio e chiede aiuto. Poi però dopo aver consegnato il cellulare “spontaneamente”, “l'uomo cercava di scappare, ma veniva immediatamente bloccato da tutti e quattro i carabinieri presenti, che nonostante numericamente superiori facevano fatica a tenerlo fermo. Tant'è che nel tentativo di immobilizzarlo, l'uomo riusciva a strappare dalle mani di un carabiniere le manette, con le quali lo colpiva in fronte, mentre un altro carabiniere veniva raggiunto da diversi schiaffi. Dopo un’ azione piuttosto concitata, l'uomo viene finalmente ammanettato sulla schiena ed appoggiato a terra. Ma anche così non dava segno di calmarsi, infatti alcuni dei carabinieri presenti dovevano ancora comunque tenerlo fermo con le mani. Solo dopo circa cinque minuti, l'uomo finalmente accennava a calmarsi”. L'accenno era probabilmente il sopraggiungere dell'arresto cardiaco. Queste scene, così descritte, appartengono soltanto a questa testimonianza. Le manette “strappate” e i “diversi schiaffi” non compaiono in nessuna delle altre decine di testimonianze. Simili soltanto a quelle dell'amico che con lui assiste alla scena insieme però alle stesse altre decine di persone. Proprio in quegli stessi minuti all'ospedale di Santa Maria Nuova, gli appuntati Corni e Della Porta relazionavano sugli oggetti personali ritrovati negli abiti di Magherini. La carta d'identità, che solo in ospedale i carabinieri visioneranno, un mazzo di chiavi, due bustine di miele, una di nimesulide, dei soldi in contanti, un accendino, la carta della Conad. Non c'è droga. Non ci sono armi.
Sono frangenti importanti e frenetici, alle 5.30 un ufficiale dell'Arma (un capitano, ndr), accompagnato da due sottoufficiali, fa visita alla moglie di Riccardo Magherini. In quel momento è nella sua abitazione con il figlio Brando. Viene svegliata nel cuore della notte e le viene immediatamente chiesto se il marito si drogava. Se usava medicinali. Non le viene subito comunicato che Riccardo è morto in quella tragica circostanza. Le verrà detto quando i militari lasceranno la casa. Non prima che la donna firmi un verbale in cui dice proprio che il marito faceva uso di droghe. Ma quella frase sarà smentita (con una sottolinenautura in neretto, ndr) nelle dichiarazioni rese alla Pg con la specifica di “non aver mai pronunciato quelle frasi”. In quei minuti Guido Magherini, padre di Riccardo, telefona commosso e frastornato alla Polizia. “Mi hanno detto che è successa una disgrazia a mio figlio”. La Polizia passerà all'uomo i carabinieri, ma della prosecuzione di quella chiamata al centralino non c'è più traccia dal momento in cui l'uomo parla con i carabinieri. Stesso discorso per un amico che chiama pochi istanti dopo. “Fine registrazione” si legge sulle trascrizioni dei Ctu.
Alle 5.45 viene sentito, da un sotto ufficiale al comando dei Cc di Borgo Ognissanti, il secondo dei due testimoni che vedrebbe gli ultimi frangenti di Riccardo Magherini a San Frediano. Dichiara di “offrirsi di rincorrere l'uomo” appena saputo che aveva rubato un cellulare. E così fa. “Rincorrevo l'uomo” si legge nella sua testimonianza. Poi l'arrivo dell'auto dei carabinieri. La prima. E poi il racconto, molto simile a quello dell'amico. Saranno solo loro due a vedere queste scene. In certi casi però ritrattate in altre deposizioni. “A quel punto i quattro Carabinieri intervenuti intimavano all'individuo di stare fermo ma lo stesso tentava di allontanarsi; e quindi dopo numerosi inviti i carabinieri tentavano di bloccarlo ma l'individuo si divincolava dalla loro presa, infatti ha tolto le manette ad uno dei Carabinieri e sferrava con le stesse dei colpi al viso di uno dei carabinieri, ha dato tre-quattro schiaffi ad un altro Carabiniere. I carabinieri tentavano di bloccalo per renderlo inoffensivo ma lo sconosciuto ha opposto resistenza e profferiva ricordo ad alta voce frasi del tipo ""... aiuto,... chiamate la polizia, mi stanno sparando... ". "Finalmente i Carabinieri riuscivano ad ammanettarlo e sebbene immobilizzato lo sconosciuto ha sferrato dei calci ad uno dei Carabinieri e ha tentato sempre di opporsi ai carabinieri. Dopo alcuni minuti lo sconosciuto si calmava. Ho deciso di ritornare alla pizzeria per restituire il cellulare al pizzaiolo e dopo sono ritornato dove i trovava lo sconosciuto e in quel momento era sopraggiunta un'ambulanza”. Quindi sulla scena di Magherini appare anche questa figura che fa le veci dei carabinieri restituendo corpi di reato e offrendosi in una caccia all'uomo.
Sono circa le 5,40 (il verbale inizierà alle 6.00) quando un'altra testimone, la proprietaria del Fiat Doblò, viene chiamata a casa da un maresciallo dell'Arma che la inviterà a recarsi al comando di Borgo Ognissanti “per deporre una testimonianza in vista del processo per direttissima” per i danneggiamenti fatti in Borgo San Frediano qualche ora prima da un uomo a lei sconosciuto. Lei chiede di poter andare la mattina dopo aver accompagnato i figli a scuola. Ma quella testimonianza, le dicono i carabinieri, è urgente e serve al processo della mattina seguente. Ma quale processo? Le fanno anche intendere che Magherini ha ricevuto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Quella donna testimonierà i fatti di fronte ad un capitano dell'Arma. Ma sarà costretta a dover scrivere all'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Magherini, per dire che quei carabinieri non scrivevano sul verbale quando lei parlava dei calci a Riccardo. E racconterà le ragioni della chiamata. Ma soprattutto quella donna saprà della morte di Magherini soltanto il giorno dopo leggendo un quotidiano online. Perchè inventarsi la storia del processo per direttissima? Riccardo Magherini è morto da ore ormai. Perchè raccontare queste falsità? In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, il maresciallo Stefano Castellano con gli appuntati Vincenzo Corni, Davide Ascenzi e Agostino Della Porta, su cui tutti pende una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo, redigevano l'annotazione di servizio. Hanno scritto che la forza esercitata per i quattro militari è stata assolutamente contenuta e misurata alla violenza esercitata da Magherini. Annotazione di servizio che chiama in causa quei due testimoni di prima. Escludendo invece i molti altri che hanno assistito alla scena. E' sempre delle ore 6.00 la relazione degli agenti della terza 'gazzella' intervenuta in Borgo San Frediano. Non vedono praticamente niente di quello che accade, anche perchè arrivano dopo l'ammanettamento di Magherini. Vedono solo il loro collega ferito, che accompagnano in ospedale, e dopo qualche minuto dall'arrivo della seconda ambulanza si rendono conto che l'uomo ormai non “rispondeva alle sollecitazioni mediche”.
Alle 6,10 sarà interrogato al comando di Borgo Ognissanti il medico giunto a San Frediano sulla seconda ambulanza. Dirà di essere arrivato aver rilevato l'arresto cardiaco per poi aver iniziato a praticare le manovre rianimatorie. Non dirà di averle iniziate con le manette inserite. Non dirà, come farà poi, che dai volontari è stato riferito che l'intervento della prima ambulanza è stato negato dai Cc. E purtroppo si renderà anche protagonista di una telefonata al 118, agli atti, e tutta da approfondire. Rispondendo alla domanda ma ha preso roba?, diceva “Ora ti dico di sì, poi ti spiego..”. Una chiamata che appare strana. Molto.
In quei minuti, alle 6,25 un capitano dell'Arma interroga un volontario della Croce Rossa intervenuto sulla prima ambulanza. L'uomo dirà di arrivare e “trovare una persona a terra. Faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Tenuto bloccato da un agente. Mi si è fatto incontro un altro agente che mi chiedeva se a bordo c'era un medico per poter sedare la persona immobilizzata”. La risposta che conseguirà, cioè il “no, non c'è il medico”, non consentirà ai volontari della Croce Rossa di poter effettuare alcuna operazione di assistenza sanitaria a Magherini proprio perchè i militari avrebbero consentito solo ad un medico di assistere Riccardo. Perchè andava sedato. Ma non c'è scritto su quel verbale. Anche per questo volontario la procura chiederà il rinvio a giudizio per omicidio colposo.
Toccherà poi alle 6,50, al comando di Borgo Ognissanti, all'infermiere giunto in San Frediano sulla seconda ambulanza. Ad interrogarlo è il comandante del Nucleo investigativo in persona. Descriverà le operazioni di rianimazione. Non verrà però citata la scena delle manette, poi ricordata in successivi verbali.
Alle 7.00 a Borgo Ognissanti tocca ad un'altra volontaria della Croce Rossa arrivata sulla prima ambulanza, anche per lei la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Riferirà che i carabinieri hanno rappresentato “l'uomo come una persona aggressiva” e che quindi “non potevano intervenire”. Ricorda la scena della collega che mette la mano alla bocca per verificare la respirazione già citata nel verbale delle 3,05 ma firmerà successivamente una dichiarazione in cui spiegava le condizioni in cui si sono svolti gli interrogatori smentendo proprio le affermazioni dei verbali svolti nelle prime ore.
Le indagini proseguono frenetiche e alle 8.10 Guido Magherini viene sentito circa le abitudini del figlio dal comandande della caserma dei carabinieri di Piazza Pitti. Nel frattempo il maggiore Rosciano ha disposto la trascrizione dei colloqui tra 'gazzelle' e 112. Poi una macchina parte da Borgo Ognissanti pe ritirare la cartella di intervento del 118 e intorno alle 9 arriva la comunicazione del Pm Bocciolini che incarica le aliquote di Polizia giudiziaria di Polizia e Carabinieri di effettuare indagini, al momento contro ignoti, e sentire testimoni per fare chiarezza sulla morte di Riccardo Magherini in vista anche dell'autopsia. E nel giorno della morte di Riccardo Magherini saranno solo i carabinieri a svolgere le indagini. Per poi trasmettere il fascicolo alla pg che comincerà dal 5 marzo le proprie indagini, sempre affiancata da polizia e carabinieri.
Infatti dopo la comunicazione del pm alle 12.30 un ufficiale, (un capitano, ndr) e due sotto ufficiali dell'Arma, svolgono la perquisizione nella stanza dove aveva alloggiato Magherini all'hotel St. Regis. Esito 'negativo'. Non viene trovata droga. Questo è quello che cercano in quei momenti i carabinieri. Non la troveranno neanche in una macchina descritta comunque con oggettivo disgusto per il disordine.
Dopo l'auto, alle 14.00 i carabinieri visitano casa di Riccardo Magherini in via delle Campore. Trovano un “elevato quantitativo di medicinali”. E tra i farmaci descritti fotografano anche il Fluifort aperto, la Tachipirina ed il Malox. Tratteggiando nel verbale il ritratto di un abituale consumatore di farmaci. Un ipocondriaco. Se poi ai farmaci si associa la cocaina si crea mix perfetto per una morte come quella sopraggiunta quella notte. In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, viene ascoltato il medico personale di Riccardo con domande specifiche su abusi di droga o disturbi di salute che potevano affliggere Magherini. Ma le risposte del medico non daranno spunti in tal senso. Nemmeno quelle del cameriere del ristorante Neromo, le cui immagini delle telecamere sono state prese alle 5 la mattina, e che riferisce di un Riccardo Magherini “tranquillo e sereno”. Ne descrive la cena la sera prima. Una serata tranquilla. Niente di utile per quelle indagini. E questo è quello che accade nelle 12 ore successive alla morte di Riccardo Magherini. Indagini serrate dei carabinieri. Per la morte di un uomo che loro stessi attribuiscono fin da subito ad un infarto. Un normale infarto. Normalità che durerà poco. In quelle ore i carabinieri non possono sapere che a Riccardo Magherini verranno riscontrate lesioni su tutto il corpo e che la droga a cui volevano attribuire la morte invece non la causerà. Al contrario dei calci e dela compressione toracica, non compresi nel protocollo di arresto violato dai quattro militari, e a cui è stato sottoposto l'uomo.
Questo è realmente accaduto. Queste indagini sono realmente avvenute. Sembra incredibile che sui carabinieri abbiano indagato i carabinieri. Ma è vero. Sembra incredibile che in quei minuti nessun ufficiale dell'Arma abbia sentito il bisogno morale, il dovere civile ed il solo semplice buon senso, che appartiene alle persone comuni, di passare le indagini alla Polizia. Di astenersi almeno dal svolgerle. Anche solo per il rispetto verso un uomo morto sotto la loro divisa sporcata dal sangue di Riccardo Magherini. Ma il rispetto, ad oggi, non c'è mai Stato. In attesa dell'udienza preliminare prevista per l'8 gennaio 2015.
Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.
Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.
C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.
O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).
O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.
Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.
Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.
Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».
Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.
Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.
E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.
PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.
Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto, “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere, rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza: l’inchiesta giornalistica, quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco, da omissioni complicità.. Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni inadempienti nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime, costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime, sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.
Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.
Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.
Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.
Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.
La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.
Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.
L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.
Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.
Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.
Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’ I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".
Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure. Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.
E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte“, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:
Carlo Giuliani, 2001. Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.
Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.
Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.
Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.
Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.
Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara : “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”. Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.
Magherini come Aldovrandi? Si chiede Silvia Mari su “Altre notizie”. “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre. I fatti di quella notte, 3 marzo scorso, sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine. Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole. L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento. Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi. La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare, preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare. Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”, che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini. E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime. Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti. Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.
Caso Magherini, "omicidio colposo in concorso: indagati anche gli operatori del 118. Altri due sanitari nei guai. e ora le persone coinvolte sono undici, scrive di Gigi Paoli su “La Nazione”. E siamo ad undici. Tante sono le persone che il sostituto procuratore Luigi Bocciolini ha iscritto nel registro degli indagati per l’ancora misteriosa morte di Riccardo Magherini, il quarantenne colpito da un malore fatale dopo aver avuto una colluttazione con i carabinieri che lo stavano arrestando nella notte fra il 2 e il 3 marzo scorso in San Frediano. E’ infatti notizia di ieri che gli inquirenti hanno deciso di procedere anche nei confronti dei due centralinisti della centrale operativa del 118 che materialmente ricevettero le telefonate di richiesta di intervento: uno è colui che parlò con i carabinieri, l’altro è colui che smistò le ambulanze per dirigerle, prima una con tre volontari e poi l’altra con medico e infermiere, in borgo San Frediano. Per entrambi l’accusa è omicidio colposo in concorso ed è la stessa che viene avanzata nei confronti dei cinque sanitari intervenuti sul posto. Una ben più grave contestazione di omicidio preterintenzionale colpisce invece i quattro carabinieri che fisicamente bloccarono Magherini, in evidente stato di alterazione psico-fisica, fino a spingerlo a terra ammanettato pancia a terra. In questa posizione rimase bloccato fino a quando non ci si accorse che l’uomo non respirava più. Al centro dell’inchiesta c’è sia il presunto eccesso di violenza dei militari al momento del fermo sia il modo in cui lo stesso Magherini venne immobilizzato: secondo l’esposto presentato dai familiari dell’uomo, il quarantenne «risulta essere stato immobilizzato con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto». E ancora: «Nel lungo arco temporale iniziato ‘qualche minuto prima’ che arrivasse la prima ambulanza fino a quando è arrivata la seconda ambulanza con l’avvio delle manovre di soccorso (almeno 15 minuti), Riccardo era già divenuto totalmente silenzioso e immobile». Nonostante questo «i quattro militari intervenuti hanno invece deciso di continuare a tenere Riccardo immobilizzato nella medesima posizione, continuando a esercitare pressione sul dorso».
Magherini, le chiamate di quella notte, scrive “La Nazione”. Le telefonate dei testimoni e quelle tra polizia, 118 e carabinieri nella notte del 2 marzo quando in Borgo San Frediano, a Firenze, è morto Riccardo Magherini, l'ex calciatore della Fiorentina durante un concitato arresto da parte dei carabinieri. Sono le una del mattino, quando alla centrale del 112 arriva la prima richiesta di intervento: “ci siamo svegliati, si sentiva urlare delle persone che chiedevano aiuto”, racconta un residente. Nel giro di pochi minuti da Borgo San Frediano partono altre chiamate dello stesso tenore. Poco dopo l'arresto, la centrale dei carabinieri avverte i colleghi della questura: “l'abbiamo trovato, è uno ubriaco, a petto nudo, che spaccava macchine”. Un particolare poi smentito da tutti i testimoni, secondo i quali Magherini quella notte non appariva né violento o pericoloso, ma solo terrorizzato. La prima chiamata al 118 parte alle 1,21. Arrivati sul posto, gli operatori della prima ambulanza chiedono l'intervento di un medico. “dicono che ha tirato le manette in testa a un carabiniere adesso ne ha due sopra per tenerlo fermo e fino a quando non arriva il medico non lo lasciano più”. All'inizio gli operatori della centrale non capiscono la gravita della situazione e ci scherzano su: “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E' il medico intervenuto con la seconda ambulanza che fa partire l'allarme, annunciando il trasferimento di urgenza all'ospedale di Santa Maria Nuova: “paziente trovato immobilizzato in asistolia, sto massaggiando”. Quando l'operatore del 118 chiede se il ragazzo ha preso droga, il medico risponde con la voce spezzata dalla tensione: “Per ora digli così, poi ne riparliamo”.
Le telefonate tra carabinieri e 118 con tono tranquillo: "C'è uno a petto nudo in mezzo alla strada", poi la situazione che precipita, fino alla telefonata del medico del 118 che comunica alla centrale che "il ragazzo è in acr (arresto cardio respiratorio, ndr)". E' tutta in una decina di telefonate la vicenda di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato bloccato dai carabinieri in Borgo San Frediano a Firenze in seguito a una crisi di panico che lo aveva portato alla perdita del controllo. Telefonate tra il 118 e i carabinieri e tra il 118 e l'equipaggio dell'ambulanza chiamata a soccorrere l'uomo. Una vicenda che ha fatto dibattere l'opinione pubblica e che ora rivive in quelle telefonate. La prima, intorno alle 1.20, è proprio dei carabinieri, che segnalano al 118 che "c'è un uomo completamente di fuori, a petto nudo. Ci sono già due mie autoradio che stanno cercando di calmarlo". I carabinieri dunque si rivolgono direttamente al 118 e chiedono di intervenire. Le telefonate continuano. L'ambulanza inviata sul posto all'inizio sembra, da quello che si capisce dalle telefonate, non riuscire a trovare il luogo dove i carabinieri hanno immobilizzato Magherini. "La mia pattuglia - dice un carabiniere - riferisce che l'ambulanza gli passa vicino ma non si ferma". Il disguido viene risolto e l'ambulanza arriva. In altre telefonate il 118 chiede all'equipaggio dell'ambulanza "quanti maschietti ci sono?", sottolineando che la persona da soccorrere, Magherini appunto, è in forte stato di agitazione. "E' mezzo nudo e ha tirato le manette in faccia a un carabiniere". I colloqui sono quasi scherzosi in alcuni punti. Sono tutte telefonate che avvengono tra le 1.20 e le 2. E la situazione sembra comune a tante altre che riguardano ubriachi o persone fuori controllo nel centro storico. Il tono delle telefonate cambia completamente dopo le due. Quando il medico del 118 inviato sul posto avverte la centrale. "Sto massaggiando, il ragazzo è in acr, sono per la strada", dice il medico con voce molto preoccupata. "Io direi che lo metto sopra (ovvero nell'ambulanza, ndr) e avvisi Santa Maria Nuova (l'ospedale) che sto arrivando massaggiando". La centrale del 118 avvisa a quel punto l'ospedale. Riccardo Magherini non riaprirà mai più gli occhi.
Le ultime grida di Magherini arrestato: ''Aiuto, sto morendo''. "Aiuto aiuto, sto morendo". Sono le ultime, strazianti parole di Riccardo Magherini, 40 anni, l’ex giocatore delle giovanili viola morto la notte tra il 2 e il 3 marzo in Borgo San Frediano, a Firenze, durante l'arresto dei carabinieri. La richiesta di aiuto è stata registrata con un telefonino da un residente affacciato alla finestra. Pochi minuti prima Magherini era stato bloccato mentre vagava in stato confusionale: "Aiuto, vogliono uccidermi", gridava. Arrivati sul posto i carabinieri lo immobilizzano al termine di un parapiglia, davanti a decine di persone affacciate alle finestre e a un gruppo di passanti. Sono le 1,25: un residente si affaccia alla finestra e gira il video, mentre Riccardo si trova ammanettato a terra in posizione prona, con quattro carabinieri che lo tengono fermo sull'asfalto. Nelle immagini non si vede niente, ma si sentono le invocazioni di aiuto: "Mi sparano","ho un figlio", "sto morendo". Poi, all’improvviso, Riccardo smette di urlare e di dimenarsi. Per chiarire le cause della tragedia la magistratura ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. L'autopsia ha escluso che la morte sia stata provocata da percosse. Sono in corso gli esami istologici e tossicologici che dovrebbero indicare la causa della morte e chiarire se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. Chi l'ha visto ricostruisce la cronologia delle telefonate tra residenti e soccorsi. Chiamate di soccorso ancora sotto accusa, quella dell'opinione pubblica. Così potrebbero essere riassunte le telefonate di quella tragica notte fiorentina che ha visto Riccardo Magherini in San Frediano scappare da una presunta minaccia di morte, entrare e uscire dai locali, rompere alcune vetrine e finire la sua corsa tra le braccia dei carabinieri. La trasmissione di Rai 3 ha riproposto le conversazioni tra residenti allarmati e forze dell'ordine. Ma anche le chiamate avvenute tra gli stessi addetti ai lavori e proprio queste hanno suscitato imbarazzo e polemiche anche e soprattutto a Firenze. Al centralino qualcuno prende le notizie con leggerezza, altri se la ridono. "Un uomo a torso nudo.. rompe delle auto in sosta" non è una bella immagine quella che arriva attraverso l'etere a chi deve intervenire e non ha modo di valutare personalmente la scena. I cittadini sono preoccupati per le urla che provengono dalla strada, sollecitano l'intervento dei soccorsi. Quando l'ambulanza non trova le pattuglie dei carabinieri accade l'incredibile: "I carabinieri dicono che state passando ma non vi vedono" è la segnalazione del centralino alle ambulanze. Tra gli indagati ci sono i carabinieri, a causa del modus operandi sul fermo, ma anche alcuni dei soccorritori per presunte irregolarità commesse nel corso dell'intervento. Il quadro che ne esce non mette in buona luce gli operatori, rischia anzi di compromettere il rapporto di fiducia tra soccorso pubblico e cittadinanza.
Magherini, la difesa dei volontari:"Le manette ostacolarono l'intervento". "Quel video, quelle urla: quanto dolore...": parla il padre di Riccardo Magherini. Guido Magherini, padre di Riccardo, racconta la sua battaglia cominciata il 3 marzo dopo il fermo e la morte del figlio: "Ricky chiedeva aiuto, non aveva aggredito nessuno, scrive Selene Cilluffo su “Today”. Riccardo Magherini era un ex calciatore della primavera della Fiorentina. Nella notte tra 2 e il 3 marzo subisce un fermo da parte di alcuni carabinieri. Poco dopo è morto. Sul caso ancora tante le ombre. Ma ciò che è sicuro è l'impegno della sua famiglia per chiedere verità e giustizia. Per questo abbiamo parlato con suo padre, Guido Magherini.
Lei e Andrea, fratello di Riccardo, avete spesso sottolineato che il nonno della famiglia faceva parte dell'Arma dei carabinieri. Ha mai ricevuto solidarietà da parte di qualcuno dell'Arma dei carabinieri? Personale o pubblica?
"No, assolutamente, mai. A parte il primo giorno dove ci hanno mostrato vicinanza perché sono amico di alcuni di loro. Ma da quella volta lì, basta, nulla più".
Pochi giorni fa centinaia di persone hanno partecipato al Flash Mob per Ricky. Quanto è importante per Lei sentire la vicinanza di questa gente che vuole come la sua famiglia verità e giustizia?
"Un affetto così non pensavamo neppure di averlo. Abbiamo avuto la conferma che Riccardo era amato da tutti in un modo davvero bello, pulito. Le porto un esempio: siamo stati a "Chi l'ha visto" e Andrea ha detto che volevamo rispetto anche dall'avvocato che difende i carabinieri, che è pagato con sold