Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

BASILICATA

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

TUTTO SU POTENZA E LA BASILICATA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I POTENTINI ED I LUCANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!

 

 

 

 

 

 

 

Quello che i Potentini ed i Lucani non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Potentini ed i Lucani non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.

CONCORSI TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. TRUCCATO ANCHE A POTENZA.

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI: GIANGRANDE E PICCENNA.

LA STAMPA DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

CAMICI NERI E L'OMERTA' LUCANA.

BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

DI QUALE MAFIA AVER PAURA?

DALLA CORRUZIONE SESSUALE AL COMUNE, AI PROCESSI INGIUSTI, FINO AL CASO DI ELISA CLAPS.

POTENZA INQUINATA? PEGGIO DI TARANTO E MARGHERA.

I MISTERI LUCANI.

TOGHE LUCANE, BIS, TER, QUATER, QUINQUIES……………

LISA CLAPS: RESTIVO COLPEVOLE? FORSE!

COME E’ MORTA ANNA ESPOSITO?

LO SCANDALO DEI RIMBORSI PUBBLICI FACILI.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA.

LA LUCANIA DEI MISTERI.

LA LUCANIA ED I MAGISTRATI.

POTENZA TRA DELITTI E CONSORTERIE.

ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.

INSABBIAMENTI E CENSURA.

MAFIOPOLI. I BASILISCHI.

MAGISTROPOLI.

IL CASO DI ELISA CLAPS.

COME E’ MORTO GIUSEPPE PASSARELLI?

INSABBIAMENTI: UN MURO DI GOMMA

TOGHE LUCANE.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO.

IL CASO ELISA CLAPS IN TOGHE LUCANE.

FIGURACCIA DEL PARLAMENTARE IDV.

AMBULANZE. QUANDO LI VUOI NON CI SONO.

SCUOLOPOLI. ESAMI TRUCCATI.

PARLIAMO DI MATERA

AMMINISTRATOPOLI.

MAGISTROPOLI.

AVVOCATOPOLI.

ESAMI UNIVERSITARI TRUCCATI.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Basilicata: petrolio e manifattura nella piccola-grande regione del Sud. Da SATA-FCA, alle 16 industrie agroalimentari tra cui Barilla, Acqua San Benedetto, Coca-Cola, al petrolio in Val d'Agri: le risorse della Lucania, scrive il 5 gennaio 2016 Federico Pirro su “Panorama”. Federico Pirro è docente dell'Università di Bari. Su Panorama.it parla di Sud e delle potenzialità di un territorio spesso denigrato ma ricco di molte ricchezze. La messa in onda su Rai Uno della festa di fine d’anno da Matera, capitale della cultura nel 2019, ha consentito ai telespettatori di ammirare l’affascinante profilo di una città i cui famosi Sassi sono patrimonio mondiale dell’umanità secondo l’Unesco. E nel corso della trasmissione sono state mostrate altre bellezze paesaggistiche di una regione che ha un consolidato appeal turistico grazie alle spiagge dorate del Metapontino e ai loro villaggi vacanze, al versante lucano del Parco del Pollino, alla bellissima costiera di Maratea - l’unico tratto della regione che si affacci sul Tirreno - alle stazioni sciistiche della Sellata nel Potentino e alle ormai note Terme di Latronico. Ma non bisogna dimenticare per un solo istante che la Basilicata è anche - ci si perdoni l’ossimoro - una "piccola grande" regione industriale del Paese. Nell’area nord-orientale è in esercizio da oltre vent’anni il polo manifatturiero di S. Nicola di Melfi con il mega stabilimento della Sata-Fiat Chrysler, con quasi 8.000 addetti diretti, in produzione su tre turni per 7 giorni la settimana (con breve pausa la domenica pomeriggio per le manutenzioni), rilanciato da Sergio Marchionne con 1 miliardo di investimenti per la produzione sempre più massiccia di Jeep Renegade, 500X e la prosecuzione di quella della Grande Punto che costituiscono prima voce dell’export lucano. Nel 2014 la società ha fatturato 1,3 miliardi di euro rispetto a poco più di 1 miliardo del 2013, ma l’aumento più elevato dei ricavi si è registrato lo scorso anno, quando la domanda delle nuove autovetture sul mercato nazionale e su quelli esteri si è fatta travolgente. Nello stesso comprensorio - ove si insediarono contemporaneamente all’impianto maggiore - producono 18 imprese manifatturiere e di servizi dell’indotto Fiat di 1° livello che nel 2015 hanno aumentato di molto i loro occupati che alla fine del 2014 erano già più di 2.500. Ma l’area settentrionale e del Vulture-Melfese è sede anche - grazie a fonti di acque minerali e a produzioni agricole di qualità - di un nucleo di 16 industrie agroalimentari maggiori con circa 1.200 addetti, fra le quali le multinazionali Ferrero, Barilla (con 390 occupati), Coca Cola, Giv, La Doria, Acqua San Benedetto, Norda, Cargill. Anche l’area di Potenza con il suo agglomerato di Tito conosce un apprezzabile sviluppo manifatturiero grazie alla presenza fra le altre delle Ferriere Nord del Gruppo Pittini. La Basilicata è anche il Kuwait italiano per i pozzi petroliferi della Val d’Agri, già in produzione dal 1998, e per quelli di prossimo sfruttamento a Corleto Perticara, nella Valle del Sauro. Tali giacimenti sono stati stimati come i più ricchi on-shore dell’Europa occidentale e per sfruttarli in logiche di piena ecosostenibilità sono stati realizzati, o sono in corso pro quota sui pozzi e nei due Centri Oli, grandi investimenti di Eni, Shell, Total, Mitsui, che negli ultimi anni hanno superato i due miliardi di euro, con un indotto occupazionale - pochi lo sanno - che nelle filiere lunghe collegate alle attività estrattive e di primo trattamento del greggio, poi inviato alla raffineria dell’Eni di Taranto, ha raggiunto le 4.000 unità a medio-alta qualificazione professionale. Anche il legno-mobilio è presente nel Materano mentre in Val Basento, nella stessa provincia, operano aziende chimiche. In esercizio anche la Lucart, cartiera di Avigliano, la modernissima Italcementi a Matera che ospita anche un avanzatissimo centro di Geodesia spaziale dell’Agenzia spaziale italiana ove lavorano 100 persone. Anche la "piccola-grande" Basilicata, dunque, è parte integrante del sistema produttivo meridionale e nazionale.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

Basilicata, professoressa universitaria vince causa contro Eni: la multinazionale l’aveva querelata per diffamazione. La professoressa Albina Colella aveva svolto uno studio sulle acque affiorate vicino a qualche chilometro di distanza da un impianto gestito da Eni. E la multinazionale aveva chiesto oltre 5 milioni di euro di risarcimento danni. Il tribunale ha dato ragione alla docente, condannando il Cane a Sei Zampe per lite temeraria, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 agosto 2017. Lei, professoressa universitaria di geologia, aveva fatto degli studi. E ne aveva parlato in televisione, anche durante trasmissioni trasmesse a livello nazionale. Le ipotesi scientifiche di Albina Colella, ordinaria all’università della Basilicata, riguardavano le acque sotterranee ricche di idrocarburi, gas, metalli e tensioattivi che 6 anni erano affiorate in Contrada la Rossa, a Montemurro, a poco più di 2 chilometri dal pozzo di reiniezione di scarti petroliferi di Costa Molina 1 in Val d’Agri. E le acque – sosteneva la professoressa – mostravano diverse affinità con i reflui di scarto petrolifero. Così Eni, che gli impianti della Val d’Agri li gestisce, l’aveva querelata per diffamazione e danni morali e patrimoniali, chiedendo un risarcimento di poco più di 5 milioni euro. Ma lo scorso 19 luglio, la Prima Sezione Civile del tribunale di Roma ha rigettato integralmente la richiesta di risarcimento danni avanzata da Eni, dando ragione alla professoressa. Sancendo, di fatto, la legittimità dell’informazione scientifica. Gli avvocati di Colella, Giovanna Bellizzi e Leonardo Pinto, hanno spiegato che la sentenza stabilisce il diritto all’informazione in materia ambientale e riconosce la valenza costituzionale della libertà di opinione: “Non vi è dubbio che la divulgazione dei risultati della ricerca costituisca legittima espressione del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, e di libertà della Scienza garantita dall’art. 33 della Costituzione, senza limiti e condizioni”, si legge nel testo con cui il tribunale ha dato ragione alla professoressa. Non solo: perché vista la somma richiesta dalla multinazionale, sganciata da qualsiasi parametro che regola il risarcimento in materia, hanno spiegato i legali, Eni è stata anche condannata per lite temeraria.

SARA’ ANCHE UNA “ROMPI…”, MA LA COLELLA VA RINGRAZIATA, scrive Rocco Rosa il 10/08/2017 su "Talenti Lucani". Avevamo già scritto nei mesi scorsi che il clima è cambiato e anche quelli che la facevano da padrone debbono tenere conto del fatto che c’è una nuova consapevolezza dei sacrifici che la popolazione della Val D’Agri sta facendo in nome della necessità di Stato e che a questa prova di solidarietà bisogna rispondere con serietà e non con arroganza. Un ultimo commento da me fatto si intitolava “Il Re è nudo”, nel senso che oggi tutti vedono i danni che comportamenti scorretti e connivenze sospette hanno determinato. E Dio voglia che ci si fermi qui e non si scopra che il danno, come dire, è più profondo di quanto si pensasse. In tutta questa storia c’è chi, sapendo, ha taciuto, chi, non sapendo, ha dato per scontato che fosse tutto secondo legge, chi, sapendo, ha parlato e scritto. E queste persone, comunque si chiamino o qualunque idee o ideologie abbiano, hanno pagato per tutti, subendo, in maniera diretta o indiretta, il pugno di ferro di un potere che è più organizzato di quello che si suppone e che tocca gangli vitali dell’apparato statale e non. La storia della prof. Colella è una storia tutta particolare perché, a quanto sembra, allo strapotere dei potenti si sono aggiunte le viltà di quelli che si fanno strada servendo i potenti e non vedono l’ora di poter essere utili idioti del potere. Ma, a ben guardare, tutta la vicenda origina in un solo punto: ed è il monumentale studio sulle risorse idriche in Basilicata e sui bacini imbriferi, nel quale c’era scritto, cacchio cacchio, che i pericolo di un inquinamento delle risorse da petrolio in val d’Agri, a ridosso della diga del Pertusillo, erano reali e non ipotetici e che ci volevano altri studi per capire quali ulteriori azioni bisognava fare per fugare ogni dubbio in proposito. La prof. Colella dovrebbe mandare un maxifile di quello studio a tutti i parlamentari europei, ai ministri dell’ambiente che si sono succeduti in Italia, ai presidenti della Regione che si sono succeduti per chiedere appunto se e come si è risposto al quesito che lo studio poneva. Per fortuna però le cose sono cambiate e il fermo dell’impianto Cova ne ha segnato, anche politicamente, la svolta. Da ora questa supersovranità territoriale di un Ente che fa il privato spacciandosi per Stato, non c’è più e farebbe un errore gravissimo chi rinunciasse alla rigidità dei comportamenti assunti da un anno in qua come controparte pubblica. Ma alla prof. Colella forse l’ambiente accademico non può rispondere facendo finta di niente, o con congratulazioni private, perché, dopo essere stata lasciata sola a difendersi da accuse e da querele, lei oggi, con questa sentenza, dimostra che non solo ha difeso la sua persona ma anche la dignità di un Ateneo. Si torni ad un rapporto corretto, fatto di serietà, di relazioni trasparenti e di comportamenti pubblici o privati improntati al massimo di rigore, alla migliore prevenzione, alla migliore tecnologia di cui il cane a sei zampe dispone per poter lavorare nella tranquillità e assicurando la tranquillità.

Potenza, figlio del boss rivela: giudici, avvocati e poliziotti erano vicino al clan, scrive il 20 gennaio 2017 Giovanni Rivelli su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non ci sono solo i servizi di guardiania. Natale Stefanutti accusa tutto e tutti. Politici, vertici di organismi del mondo produttivo, avvocati, esponenti delle forze dell’ordine, addirittura un giudice di Cassazione. E se il racconto sui servizi di guardiania ha prodotto l’operazione venuta alla luce martedì scorso con le tre ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite dalla Squadra Mobile, (che ha pure curato le indagini con cui la Procura ha chiesto e ottenuto le misure dal Gip), ci sono almeno altri due filoni «in gestazione» sulle presunte attività poste in essere da uomini vicini ai boss attualmente detenuti Renato Martorano e Dorino Stefanutti. Elementi diversi, ma che nelle «notizie di reato» sembrano trovare una congiunzione in quella che in alcune «Cnr» (comunicazioni di notizia di reato) viene inquadrata come una «416 bis», ossia una associazione a delinquere di stampo mafioso. E che lascia pensare che sugli altri filoni possano esserci sviluppi. Il filo conduttore è sempre Natale Stefanutti, figlio dell’ex boss in carcere e ora testimone di giustizia in località protetta. Nei tanti verbali (molti dei quali spesi a supporto delle ordinanze di tre giorni fa ma con numerosissimi «omissis»), nei racconti che spesso iniziano con «tizio mi ha detto che» o «ho appreso da che» parla di estorsioni e droga. Dall’impresa che pagava 60mila euro all’anno al clan ai viaggi per approvvigionarsi. «Il clan Martorano-Stefanutti - assicura - esiste ancora come è sempre esistito». E fa elenchi di «battezzati» (ossia affiliati) con nome e cognome. «Attualmente - aggiunge - il clan Stefanutti-Martorano commettono estorsioni». Racconti che continuano, come nel caso dell’avvicinamento di un giudice di cassazione ad opera di due esponenti di un’azienda in relazione col clan. «Dovevano aiutare Martorano per un procedimento in cassazione, mio padre ha consegnato un biglietto a.... con l’indicazione del Giudice di Cassazione che doveva occuparsi del processo di Martorano: questo biglietto è stato consegnato da Tancredi a Roma a uno dei due che ho sopra indicato. Costui avrebbe avvicinato il giudice». E qualcosa di simile gli sarebbe stato prospettato per il padre. Natale consegna anche una serie di appunti agli inquirenti, scritti su un block notes di 41 pagine. «Appunti relativi a personaggi e fatti che possono essere utili alle vostre indagini» precisa il figlio del boss. E, ad esempio, fornisce i nomi di quelli che a sua conoscenza sono gli affiliati potentini. Ci sono pregiudicati, ma anche due avvocati, un consigliere comunale, un ex assessore a comporre una lista di 18 nominativi, tra cui figurano i tre arrestati martedì. Per ciascuno indica anche il presunto ruolo. C’è chi riscuote i soldi e chi segnala le ditte, c’è l’avvocato che segnala le persone che devono dare i soldi per effettuare i recuperi e quello che porta le ambasciate in carcere, l’uomo che va ad acquistare cocaina a Genzano e quello che prova ad approvvigionarsi nel Napoletano. Parla anche di chi fa il piccolo spaccio di marijuana «a 3,50 in contanti a 4,50 a mantenere», precisa. Il piccolo Stefanutti si dilunga poi sui rapporti con la ‘Ndrangheta e in particolare il clan Grande Aracri. Rapporti fatti di regali, come la pistola che sarebbe stata data al padre, di forniture di cocaina e anche di un ruolo «regolatore». Come quando avrebbero dato il giuramento di affiliazione, ma precisando di non volere il capo dei pignolesi, o quando sarebbero intervenuti per chiarire che se questi avessero fatto attentati al clan potentino «avrebbero avuto tutta la Calabria contro». I Vip in contatto col padre. Ma ci sono anche altre accuse. Come quella rivolta a un noto esponente del mondo produttivo che avrebbe contattato il padre addirittura per commissionare un omicidio. La prova? «Ha un vigneto al Pantano e gli regalava il vino» scrive di suo pugno. O un politico influente che avrebbe aiutato il genitore «a far aprire un lago artificiale dietro Bucaletto». Racconti tutti da verificare (e il fatto che siano stati resi da un paio di anni lascia pensare che verifiche siano state fatte e si sia oramai oltre) ma l’incrocio di nomi e personaggi con operazioni già fatte lascia pensare a un inquadramento più complessivo che, magari, circostanze o strategie investigative hanno portato a frazionare in diversi filoni. Anche se è difficile pensare che possano viaggiare in modo totalmente slegato, nell’inquadramento come nel tempo.

Elisa Claps, 23 anni di mistero su cui ha osato Amendolara. Ne parliamo col cronista che indagò sul caso, risultando scomodo anche alla Procura. Aveva solo 16 anni quando, il 12 settembre del 1993, scomparve nella sua Potenza. Il suo corpo fu ritrovato 17 anni dopo, nel 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità, nel capoluogo lucano. Per la sua scomparsa e la sua morte è stato riconosciuto colpevole l'amico Danilo Restivo, scrive Leonardo Pisani su “Il Mattino di Foggia” il 12 settembre 2016. Le indagini non hanno mai convinto del tutto Fabio Amendolara che dalle pagine de "La Gazzetta del Mezzogiorno" si spinse talmente oltre le nebbie di quel mistero da suscitare la pesante reazione degli inquirenti che lo accusarono di aver rivelato informazioni riservate (la stessa accusa prefigurata dall'art. 326 del Codice Penale per la violazione dei segreti di Stato) e disposero nel 2012 la perquisizione della redazione del giornale e della casa del cronista, sottoponendolo ad un interrogatorio in Questura durato sei ore. Nel ricordare la tragica fine di Elisa, la disponibilità di Fabio ci offre anche l'opportunità di approfondire l'importanza del giornalismo investigativo che lo impegna a scandagliare, sulle pagine di "Libero", tanti altri misteri di cronaca italiana; per ultimo il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce, in Ciociaria, a cui ha dedicato il suo recente libro "L'ultimo giorno con gli Alamari".  

Amendolara, il 12 settembre 1993 scompare Elisa Claps. Una data che è una ferita a Potenza ma non solo ed è una ferita ancora aperta.

«È una ferita aperta perché la giustizia non ha saputo dare risposte logiche e convincenti. Non basta consegnare alla piazza il mostro Danilo Restivo per dire il caso è chiuso, rassegnatevi, metteteci una pietra sopra. Finché non verrà fatta luce su chi ha coperto Restivo, permettendo che i resti di Elisa rimanessero per 17 anni nel sottotetto della chiesa della Trinità, la ferita non potrà rimarginarsi»

Ti sei occupato del caso e Elisa è ritornata poi in altre indagini che hai svolto: notizie false, depistaggi, poi il ritrovamento nella Chiesa della Trinità. Questo pone due domande: per prima cosa, come mai tante verità negate e, seconda cosa poi, il giornalismo investigativo ha ancora senso in Italia? Spesso si assiste alla spettacolarizzazione delle tragedie ma non alla ricerca della verità.

«La spettacolarizzazione fa male alle inchieste giudiziarie tanto quanto a quelle giornalistiche. Il giornalismo investigativo, quello vero, quello che scova nuovi testimoni, che segnala errori e omissioni nelle indagini, che impedisce agli investigatori di girarsi dall'altra parte e di chiudere gli occhi, ha ancora senso e va riscoperto. Ecco, se ci sono tante verità negate dipende anche dal fatto che la stampa molla i casi troppo presto. Senza pressione mediatica gli investigatori si sentono liberi di non agire».

Quanti casi ancora irrisolti e cito solo la nostra Basilicata: la piccola Ottavia De Luise di Montemurro e Nicola Bevilacqua di Lauria. Ma esiste una giustizia di serie A e una giustizia di serie B?

«Purtroppo esiste. Era così ai tempi della piccola Ottavia ed è così ancora oggi»

Allo stesso tempo: esiste una copertura mediatica di serie A per alcuni casi e l’indifferenza per altri?

«Le Procure e gli investigatori dettano la scaletta. Grazie alle fughe di notizie si tengono buoni i giornalisti che, così, ottenuta in pasto la classica velina, non cercheranno notizie scomode. L'informazione è facile da orientare»

Però, Fabio, domanda brutale: trovi difficoltà nelle tue inchieste?

«Le difficoltà che trovano tutti i giornalisti che non si accontentano delle verità preconfezionate. Nel caso di Elisa Claps ad esempio avevo dimostrato che la Procura di Salerno aveva temporeggiato troppo nel chiedere l'arresto di Restivo ma anche che aveva fatto scadere i termini delle indagini preliminari tenendo fermo il fascicolo. La reazione è stata dura: una perquisizione in redazione, nella mia auto e nella mia abitazione. Risultato: mi hanno messo fuori gioco per un po'. Tutte le mie fonti erano scomparse, per paura di essere scoperte»

Penso al tuo ultimo libro: «L’ultimo giorno con gli Alamari: il suicidio sospetto del brigadiere Tuzi a Arce in Ciociaria”. Anche quando lo hai presentato in Basilicata o in Puglia ha attirato attenzione; quindi alla fine il lettore o il pubblico è sensibile a queste tematiche di giustizia negata o, addirittura, di mancanza di vere indagini ufficiali? 

«I cittadini non si accontentano mai di false verità o di ricostruzioni illogiche e contraddittorie. Finché non si fornisce loro una ricostruzione credibile - sia essa giudiziaria o anche giornalistica - continueranno a porsi domande su come sono andate davvero le cose. Il caso Claps ne è un esempio lampante. A sei anni dal ritrovamento ci sono ancora manifestazioni pubbliche per chiedere verità e giustizia. E ci saranno finché la storia non verrà raccontata in tutti i suoi particolari».

Il Caso Donato Cefola, scritto da Fabio Amendolara l'11 agosto 2016. Barile, 1997, 11 novembre. Un uomo con il volto coperto fa salire su un furgone un ragazzino di 16 anni, lo uccide con un colpo di pistola alla nuca e butta il corpo in un dirupo a quattro chilometri dal paese. Poi chiede il riscatto al padre. Sono passati quasi 20 anni. A Donato Cefola hanno intitolato uno stadio e un premio letterario. Ma la Basilicata l’ha dimenticato. Ogni volta che c’è un incontro pubblico sulla legalità saltano fuori i nomi dei casi che hanno ferito al cuore questa regione. Tutti. Tranne quello di Donato. E a dire il vero è l’intera stagione dei sequestri ad essere stata cancellata dalla storia. In quanti ricordano il rapimento di Paul Getti Junior? E quello dell’imprenditore di Massafra Cataldo Albanese ritrovato poi a Metaponto? E quello dell’industriale di Legnano Vittorio Colombo? Hanno tutti a che fare in qualche modo con la Basilicata. Come il “rapimento” del gioielliere siciliano Claudio Fiorentino, il cui riscatto viene recuperato a Maratea nel serbatoio di un’auto guidata da un diplomatico maltese (intrigo ancora tutto da esplorare). Nulla in comune con il caso del piccolo Donato, rapito invece da balordi con l’aiuto di un commerciante in disgrazia che era anche un vicino di casa. Era coinvolta anche una “telefonista”, una donna che – stando alla ricostruzione fatta all’epoca dagli investigatori – avrebbe attirato Donato nella trappola. Uno dei sequestratori improvvisati uccide Donato, “involontariamente”, disse durante il suo interrogatorio. Poi cercò di giustificarsi dicendo che i mandanti erano criminali di Cerignola. Nei fascicoli di quell’inchiesta non c’è traccia di criminalità organizzata. C’è la prova invece della follia di chi voleva rapire Donato per chiedere un riscatto e invece l’ha ucciso. A Barile si precipitano gli inviati dei grandi quotidiani nazionali. Le cronache sono di Fulvio Bufi sul Corriere della Sera e di Pantaleone Sergi su Repubblica (uniche tracce online di quanto accadde 19 anni fa). Donato raggiunge Venosa, dove frequenta il secondo anno di ragioneria, insieme al papà (che lavora lì in banca). Lì entra in scena “l’uomo del Fiorino”. L’amico, al bar Prago, gli parla forse di una donna, una donna che da 15 giorni “insegue” per telefono Donato. Lo studente cade nella rete. Sale sul Fiorino e va incontro alla morte. Sul tragitto spunta l’uomo con passamontagna e pistola. Donato viene legato e imbavagliato. Poi viene buttato nel vano di carico. Riconosce anche l’uomo col passamontagna, tenta di liberarsi, minaccia, tanto che il rapitore ha paura – è la ricostruzione del quotidiano la Repubblica – e lo uccide con un colpo alla nuca a sangue freddo? Oppure, come raccontano i due fermati, il colpo parte accidentalmente? Sta di fatto che i due portano il cadavere in località Catavatta di Barile. Senza però demordere tentano di ottenere un riscatto. Uno dei due, nel primo pomeriggio, mette un foglietto sotto il tergicristalli della Panda del papà di Donato: “Prepara quattrocento milioni o venderemo tuo figlio ai trafficanti di organi umani”. Tre stili di scrittura, tre penne di colore diverso, verde rosso e blu. Scatta l’allarme. Il vicino di casa di Donato viene bloccato. Stretto al muro delle contestazioni ammette. Crolla anche il complice e si arriva al cadavere. Donato è stato ucciso da balordi. Il caso è chiuso. Per sempre.

Catanzaro, processo "toghe lucane", condannati magistrato e imprenditore per corruzione, scrive Lunedì 30 Ottobre 2017 “Il Messaggero”. Si è concluso con 2 condanne e 8 assoluzioni il processo «Toghe Lucane bis» che vedeva il pm di Napoli, Henry Woodcock, vittima di calunnia e nel fascicolo iniziale l'attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris come autore delle indagini. Il Tribunale di Catanzaro ha condannato a un anno e 8 mesi l'ex sostituto procuratore generale di Potenza, ora in pensione, Gaetano Bonomi per corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio. Condanna a 1 anno e 4 mesi per l'imprenditore Ugo Barchiesi per corruzione. Le indagini erano iniziate dopo alcune denunce anonime nelle quali si calunniava l'allora pm di Potenza Henry John Woodcock, ora a Napoli. Secondo l'accusa originaria, a Potenza sarebbe stata attiva un'associazione segreta che, grazie all'acquisizione di notizie riservate su inchieste in corso, intendeva «evitare, indirizzare o bloccare lo svolgimento delle indagini nei confronti di soggetti appartenenti all'avvocatura, all'imprenditoria ed alla politica lucana, nonché ad altri apparati istituzionali tra i quali l'Arma dei carabinieri». Il Tribunale ha invece assolto Modestino Roca (all'epoca dei fatti, risalenti alla metà degli anni 2000, sostituto procuratore generale di Potenza); l'allora pm Claudia De Luca; il maresciallo della Guardia di Finanza Angelo Morello; l'ex agente del Sisde Nicola Cervone; i carabinieri Antonio Cristiano e Consolato Tino Roma; l'autista della Procura generale potentina Marco D'Andrea e l'ispettore di polizia Leonardo Campagna. Tra le parti civili figuravano i magistrati Henry John Woodcock, Alberto Iannuzzi, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e l'ex procuratore della Repubblica di Potenza Giuseppe Galante.

Breve storia della procura di Potenza. Quella famosa per Henry John Woodcock, il controverso magistrato che per anni ne è stato il simbolo, e che secondo Renzi «non arriva mai a sentenza», scrive “Il Post” il 6 aprile 2016. Nel corso dell’ultima direzione nazionale del PD, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha fatto un commento molto duro sulla procura di Potenza, quella che sta conducendo le indagini sulle infrastrutture petrolifere della Basilicata che hanno portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. «Le indagini sul petrolio in Basilicata si fanno ogni quattro anni», ha detto Renzi: «E non vanno mai a sentenza». Proprio mentre parlava, i giudici del tribunale di Potenza erano in riunione da oltre tre ore. Poco dopo le 16 hanno annunciato la sentenza di un’inchiesta sugli appalti legati al petrolio iniziata nel 2008. Sono state condannate nove persone: ex dirigenti della società petrolifera Total, imprenditori e politici locali. Altre 18 sono state assolte. Poco dopo Renzi ha precisato che intendeva dire che le sentenze partite da Potenza non vanno mai a “sentenza definitiva”. Dopo otto anni dall’inizio delle indagini il processo è arrivato soltanto al primo grado e buona parte delle condanne saranno probabilmente prescritte. Il tribunale di Potenza, infatti, è uno dei più lenti d’Italia, ma anche uno di quelli più sotto organico. Con il 62,7 per cento di processi penali che durano più di due anni, Potenza è al 131° posto sui 133 tribunali che hanno risposto al censimento della giustizia penale realizzato nel 2014 dal ministero della Giustizia. Ma Potenza è anche uno dei tribunali con la percentuale più alta di incarichi scoperti. A novembre del 2014 mancavano a Potenza otto magistrati: il 24 per cento della pianta organica prevista: la media nazionale è al 14 per cento. Potenza è il 110° tribunale con più posti vacanti su 139. A Potenza, inoltre, parecchie indagini finiscono con l’archiviazione ancora prima di arrivare al processo: i giudici per le indagini preliminari (GIP) archiviano il 74,3 per cento delle indagini. In questa classifica, Potenza è in “buona compagnia” insieme a tribunali molto più prestigiosi: i GIP del tribunale di Roma, per esempio, archiviano più o meno la stessa percentuale di procedimenti e quelli del tribunale di Torino una percentuale addirittura superiore. La situazione di Potenza è simile a quella di molti altri piccoli tribunali del sud. Secondo Leo Amato, giornalista del Quotidiano della Basilicata che segue la cronaca giudiziaria, in Basilicata c’è un problema in più: il petrolio. «C’è un grosso divario tra le forze di cui dispone il tribunale di Potenza e la dimensione delle risorse che circolano nella regione». L’estrazione petrolifera e la presenza di grandi società internazionali portano grossi afflussi di denaro e spesso, nel clima clientelare della politica locale, si è sospettato che questi soldi fossero stati usati in maniera illecita. Le indagini su questi temi però sono complicate e i processi lo sono ancora di più: «A Potenza non ci sono le risorse per affrontare un maxi-processo come per esempio quello dell’ILVA di Taranto. È giusto chiedere che si arrivi a una sentenza in fretta, ma allora bisogna organizzarsi per tempo e far sì che a Potenza ci sia un collegio giudicante con le risorse per poter fare udienza ogni due settimane». Ma la procura di Potenza non è diventata famosa per la lunghezza dei suoi processi: la sua fama è legata a quella di Henry John Woodcock, un magistrato che, arrivato 17 anni fa, trasformò una piccola città della provincia meridionale in uno dei principali capoluoghi della cronaca giudiziaria italiana. Henry John Woodcock ha 49 anni ed è nato a Taunton, nell’Inghilterra occidentale. Figlio di un professore di inglese e di una donna italiana, è cresciuto a Napoli dove ha iniziato la sua carriera nella giustizia. Nel 1999 fu nominato al suo primo incarico: sostituto procuratore presso la procura della Repubblica del tribunale di Potenza. Quello della Basilicata è un distretto giudiziario piccolo e apparentemente poco movimentato: in tutta la regione ci sono una media di 4-5 omicidi l’anno. Con 67 mila abitanti, un’unica linea ferroviaria a binario unico, nessuna autostrada e l’aeroporto più vicino a cento chilometri di distanza, Potenza è una città isolata e sonnolenta, dove esistono ancora dinamiche che sembrano arcaiche in gran parte del resto del paese. «Qui il magistrato ha ancora un ruolo sociale importante», racconta Fabio Amendolara, collaboratore del quotidiano Libero che da 16 anni segue il tribunale della città. «Appena insediati, c’è la corsa a portarli in giro come in una processione della statua della Madonna». A Potenza, come in molti altri luoghi del sud, politica e imprenditoria locali intrecciano spesso relazioni clientelari. Dal dopoguerra fino ad anni molto recenti, la regione è stata governata dalla stessa classe dirigente, espressione di poche famiglie locali. Anche la magistratura a volte finisce con il far parte di queste reti di potere. «Spesso in queste relazioni non c’è nulla di penalmente rilevante», spiega Amendolara, anche se per due volte la procura di Catanzaro, competente per indagare sui giudici di Potenza, ha ritenuto che si fossero verificati dei reati. La prima inchiesta – “Toghe Lucane”, portata avanti da Luigi de Magistris, oggi sindaco di Napoli – si è risolta in un nulla di fatto. La seconda, “Toghe Lucane-bis”, è diventata un processo che è in corso ancora oggi. Quando arrivò a Potenza, «Woodcock era scollegato da questi sistemi: tutto quello che trovava lo iscriveva nel registro degli indagati», racconta Amendolara. Nei dieci anni che trascorse alla procura di Potenza, Woodcock indagò comandanti provinciali della Guardia di Finanza, dei Carabinieri, persino un capo divisione del SISDE, il servizio segreto civile. Indagò magistrati, avvocati e politici locali. Nel 2006 il giornalista delCorriere della Sera Marco Imarisio lo descrisse così: «Uno che lavora dalle 7 del mattino alle 22, e raggiunge l’ufficio in sella alla sua Harley Davidson, pioggia o neve non importa, deciso ad applicare il suo metodo. Da una scintilla lucana, l’immane incendio. Woodcock parte da reati commessi in loco e poi allarga, allarga a tutta la Penisola». Furono proprio le inchieste di portata nazionale a renderlo un personaggio noto in tutto il paese. La più famosa è quella che i media ribattezzarono “Vallettopoli”, iniziata nel 2006 in seguito alle indagini sulla gestione di alcune slot machines: arrivò a coinvolgere decine di personaggi pubblici come Salvo Sottile, portavoce dell’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini, il manager televisivo Lele Mora, il fotografo Fabrizio Corona e Vittorio Emanuele di Savoia. Le accuse erano disparate: dall’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione nella gestione di casinò e slot machines, allo sfruttamento della prostituzione, fino al peculato per aver utilizzato auto pubbliche per trasportare showgirl. Buona parte dell’inchiesta, costituita da migliaia e migliaia di pagine disordinate, dove atti e intercettazioni si accumulavano alla rinfusa, finì stralciata o archiviata. Diversi filoni furono sottratti alla procura di Potenza per incompetenza territoriale. Vittorio Emanuele fu prosciolto dal tribunale di Como e assolto da quello di Roma, insieme a numerosi altri imputati. Altri, come Sottile, furono condannati. Molte sue altre inchieste seguirono un percorso simile, come le cosiddette “Vallettopoli 2″, “Vipgate” e “Somaliagate”. Le ordinanze con cui chiedeva gli arresti erano quasi sempre lunghe e disordinate. Le sue inchieste, a pochi mesi dall’inizio, arrivavano a coinvolgere decine di persone con accuse di reati disparate. A differenza di altri magistrati molto noti all’epoca, come lo stesso De Magistris, gran parte delle inchieste di Woodcock sono arrivate a processo: cioè sono state ritenute “solide” da almeno un giudice terzo, ma quasi altrettanto spesso i suoi imputati sono stati assolti o prescritti oppure le inchieste sono state spostate in altre procure per ragioni di competenza territoriale. «Errori ne faceva tanti», racconta Amendolara, «si innamorava di molte tesi, arrivava all’arresto e poi si perdeva. In alcune cose ci aveva visto giusto. Come nel caso “Tempa Rossa” di questi giorni, dove sono coinvolte persone che lui era stato il primo a indagare». Altri commentatori sono meno teneri nei suoi confronti. Per molti la sua abitudine di allargare continuamente il raggio delle indagini, invece che concentrarsi su un aspetto e cercare di arrivare a una condanna, era un segno di narcisismo e di amore per l’attenzione mediatica che gli procuravano. Sul sito Cinquantamila, il giornalista Giorgio dell’Arti ha raccolto alcune delle critiche più dure che sono state rivolte a Woodcock. Nel 2007 il giornalista Filippo Facci scrisse sul Giornale: «Le sue inchieste più note sono state una collezione di incompetenze territoriali, nomi altisonanti assolti, ministri prosciolti, valanghe di richieste d’arresto ingiustificate». Mattia Feltri, che oggi lavora alla Stampa, scrisse: «Si potrebbe dire che Woodcock ha fra le mani la stessa indagine da sempre. Insomma, ne comincia una e da questa ne scaturisce un’altra e così via». Di certo c’è che Woodcock iniziò molte più indagini di quante avrebbe mai potuto portare a compimento. Quando fu trasferito alla DDA di Napoli, nel 2009, a Potenza lasciò decine di fascicoli aperti; i magistrati rimasti a Potenza, raccontano i giornalisti che seguono la cronaca giudiziaria locale, “tremavano” all’idea di dover mettere mano alle migliaia di pagine confuse che aveva lasciato dietro di sé. «C’è un’era prima e un’era dopo Woodcock», dice Amendolara. Oggi in molti pensano che la stagione di Woodcock, con i suoi lati positivi e quelli negativi, sia terminata. Tra gli altri lo pensa il senatore Salvatore Margiotta, indagato da Woodcock nel 2008, quando il magistrato chiese alla Camera l’autorizzazione ad arrestarlo per corruzione. Il suo processo è durato otto anni e lo scorso 26 febbraio, Margiotta, oggi senatore del PD, che dichiara di essere favorevole allo sfruttamento del petrolio in Basilicata, è stato assolto per insussistenza del fatto. In un’intervista al Corriere della Sera, Margiotta ha detto: «Ho stima degli attuali magistrati della procura di Potenza e penso che dietro l’inchiesta Tempa Rossa non ci sia la volontà di alzare un polverone politico».

Corruzione in atti giudiziari, 8 indagati a Salerno. Anche Pagano, ex direttivo Anm. Perquisizione in tribunale su ordine della procura di Napoli. L'inchiesta nata da un'indagine per usura nell'agro nocerino sarnese. Dalle intercettazioni sarebbero emersi possibili raccomandazioni e favori a imprenditori amici. Il giudice coinvolto, in servizio a Potenza, sostituì il sottosegretario Ferri nel comitato direttivo del sindacato delle toghe. Consigliere Fi chiede apertura pratica al Csm, scrive Vincenzo Iurillo il 18 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". C’è un giudice di Potenza sotto indagine a Napoli per fatti commessi a Salerno. Si chiama Mario Pagano ed è il nome di punta del decreto di perquisizione eseguito stamane dalla Squadra Mobile di Napoli, diretta da Fausto Lamparelli, e da militari della Guardia di Finanza.  Le forze dell’ordine sono entrate in azione al Tribunale di Salerno (nella foto), e nelle case e negli uffici di cancellieri, imprenditori e di quattro avvocati salernitani. La Procura di Napoli, sezione pubblica amministrazione – pm Celeste Carrano, procuratore aggiunto Alfonso D’Avino – competente per i reati attribuiti a magistrati in servizio a Salerno, ha indagato otto persone in tutto. Gli inquirenti ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico. Un gruppo capace di intervenire su provvedimenti del tribunale civile di Salerno e della tributaria per favorire alcuni imprenditori amici. Pagano presiede una sezione civile del Tribunale di Potenza, ma è indagato per vicende accadute nel periodo in cui era giudice a Salerno. Nei suoi confronti l’accusa è di corruzione in atti giudiziari. L’inchiesta, a quanto si apprende, è nata come stralcio di una attività d’indagine della Dda di Salerno su vicende di usura nell’agro nocerino sarnese. Dall’intercettazione del cellulare di uno degli indagati gli investigatori sarebbero poi risaliti alle parole del giudice, ascoltato dagli investigatori mentre discuteva di presunti interventi su provvedimenti giudiziari, di presunti favori, di raccomandazioni. Parole che potrebbero anche essere prive di rilievo penale: le perquisizioni sono state disposte appunto alla ricerca di riscontri di un’eventuale attività criminosa, ancora da dimostrare. La Squadra Mobile e la Finanza hanno acquisito alcuni documenti ora al vaglio del pm e stanno effettuando accertamenti bancari e patrimoniali. Mario Pagano è un giudice noto e stimato, da tempo impegnato nelle attività associazionistiche della magistratura. E’ segretario distrettuale di Magistratura Indipendente a Potenza. Per un periodo Pagano ha fatto parte del comitato direttivo centrale dell’Anm: nel giugno 2013 è subentrato come primo dei non eletti a Cosimo Ferri, quando questi venne nominato sottosegretario alla Giustizia del governo Letta. Sul caso del giudice Pagano potrebbe presto intervenire il Csm. Il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha infatti chiesto al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica in Prima Commissione per “valutare se sussistano profili di incompatibilità ambientale o funzionale sotto il profilo dell’appannamento dell’immagine di terzietà e imparzialità” per il magistrato coinvolto nell’indagine.  Se il vertice di Palazzo dei marescialli darà il via libera alla richiesta la Commissione incaricata dovrà accertare se vi sono i presupposti per un trasferimento d’ufficio del giudice sotto inchiesta.

Comitato d'affari in Tribunale, nei guai il giudice Pagano. Il magistrato di Roccapiemonte, attualmente in servizio a Potenza, è indagato dalla Procura di Napoli, insieme ad avvocati, cancellieri e ad un funzionario della Provincia di Salerno. Contestati anche i reati di associazione per delinquere alla corruzione in atti giudiziari, abuso di ufficio, scrive il 18 aprile 2016 “La città di Salerno”. Un comitato di affari che operava all'interno del Palazzo di Giustizia di Salerno. Una storia di interferenze, raccomandazioni, processi pilotati e computer violati per accedere a informazioni riservate. È lo scenario investigativo disegnato dall' inchiesta che ha portato all'esecuzione di dieci perquisizioni, nei confronti, in particolare, di un giudice, nonché di avvocati, cancellieri e di un funzionario della Provincia, per una serie di reati che vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione in atti giudiziari, abuso di ufficio, traffico di influenze, millantato credito, rivelazione di segreto di ufficio e accesso abusivo in un sistema informatico. Un ruolo centrale sarebbe stato rivestito, secondo l'ipotesi accusatoria al vaglio della procura di Napoli, dal giudice Mario Pagano, 56 anni, che è stato in servizio nella sezione civile del Tribunale di Salerno prima di trasferirsi al Tribunale di Potenza. In particolare, Pagano avrebbe raccolto informazioni sulle cause che gli venivano «segnalate» da esponenti del presunto sodalizio allo scopo di pilotare i fascicoli ed assegnarli a giudici «compiacenti» o da contattare per «condizionarne la decisione». Cause soprattutto civili e controversie tributarie (Pagano ha fatto anche parte della commissione tributaria di Salerno). L'inchiesta è stata avviata dai pm Celeste Carrano e Ida Frongillo della procura di Napoli - competente ad indagare sui magistrati del distretto di Salerno - coordinati dal procuratore aggiunto Alfonso D'Avino. Per verificare la fondatezza di una serie di elementi acquisiti da intercettazioni telefoniche, i pm hanno incaricato la squadra mobile di Napoli di eseguire una serie di perquisizioni. Tutto nasce da una telefonata tra un avvocato, Roberto Lambiase, e un suo amico, ascoltata dagli inquirenti della procura di Nocera Inferiore. Lambiase (indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso con il magistrato) sosteneva di aver corrotto, consegnandogli un orologio Rolex, il giudice Pagano per ottenere lo spostamento di una udienza riguardante una causa di fallimento, e perché venisse respinto un ricorso della controparte. L'avvocato, nel corso della stessa conversazione, avrebbe affermato che Pagano era solito «vendere» le sentenze. Verità o millanterie? È il nodo che stanno tentando di sciogliere gli inquirenti della procura partenopea che nel frattempo hanno acquisito una serie di elementi tali da far ipotizzare l'esistenza di un «comitato di affari». Di cui farebbero parte, oltre a Pagano indicato come promotore, anche gli avvocati Augusta Villani (che è anche Got, giudice onorario a Salerno), Nicola Montone, funzionario presso l'ufficio recupero crediti del Gip del Tribunale di Salerno e cognato del giudice, Michele Livrieri, assistente giudiziario addetto alla cancelleria degli Affari civili, gli avvocati Giovanni Pagano e Gerarda Torino, il tributarista Michele Torino, e Renato Coppola, dipendente della Provincia di Salerno e considerato il «factotum» di Pagano. Indagato per concorso in rivelazione di segreto e accesso in sistema informatico anche un imprenditore, Giacomo Sessa, che avrebbe ottenuto informazioni riservate su una causa in cui era coinvolto.

Tenente Giuseppe Di Bello. A Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. Tenente della polizia provinciale di Potenza. A Potenza viene sospeso e condannato. Servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016.

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!”. Scrive “Potenza News” il 5 aprile 2016. Il tempo ha dato ragione al Tenente di Polizia Provinciale, Giuseppe Di Bello, il primo a denunciare l’inquinamento presso l’invaso del Pertusillo (Potenza). A seguito dei risultati delle analisi sull’inquinamento delle acque, effettuate da Di Bello nel 2010 (durante il tempo libero ed a proprie spese) attestanti l’enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi, decise di denunciare tutto alla magistratura. Affidò a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, le analisi al fine di divulgarle. Alla magistratura si rivolse anche l’allora assessore regionale all’Ambiente, Vincenzo Santochirico, che denunciò il Tenente per procurato allarme. E così oltre al danno anche la beffa, Di Bello fu denunciato per violazione del segreto d’ufficio, immediatamente sospeso dall’incarico e dallo stipendio per due mesi. Da sei anni, in attesa del processo, Di Bello ha accettato di prestare servizio presso il Museo Provinciale come addetto alla sicurezza del museo. La Cassazione annulla la condanna a 2 mesi e 20 giorni (anche se con rinvio) e Di Bello torna più forte di prima e forma una squadra invincibile, per le ricerche volontarie, formata da una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale. Ecco cosa racconta di aver trovato, Di Bello e la sua squadra, sul letto dell’invaso del Pertusillo: «Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. È evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perchè sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata».

“Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio con Il Fatto Quotidiano lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «Mi chiamo Giuseppe Di Bello, sono tenente della polizia provinciale ma attualmente faccio il custode del Museo di Potenza. Da sei anni sono stato messo alla guardia dei muri, trasferito per punizione perché ho disonorato la divisa che porto. L’ho disonorata nel gennaio del 2010 quando mi accorgo che la ghiaia dell’invaso del Pertusillo si tinge di un colore opaco. Da bianca che era la ritrovo marrone. Affiora qualche pesciolino morto. L’invaso disseta la Puglia e irriga i campi della Lucania. Decido, nel mio giorno di riposo dal lavoro, di procedere con le analisi chimiche. Evito di far fare i prelievi all’Arpab, l’azienda regionale che tutela la salute, perché non ho fiducia nel suo operato. Dichiara sempre che tutto è lindo, che i parametri sono rispettati e io so che non è così. L’Eni pompa petrolio nelle proprie tasche, e lascia a noi lucani i suoi veleni. Chiedo la consulenza di un centro che sia terzo e abbia tecnologia affidabile e validata. Pago con soldi miei. Infatti le analisi confermano i miei sospetti. C’è traccia robusta di bario, c’è una enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi. E’ in gioco la salute di tutti e scelgo di non attendere, temo che quei documenti in mano alla burocrazia vadano sotterrati, perduti, nascosti. Perciò le analisi le affido a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, affinchè le divulghi subito. Tutti devono sapere, e prima possibile! Decido di denunciare i fatti alla magistratura accludendo le analisi che ho fatto insieme a quelle precedenti e ufficiali dell’Arpab molto più ottimistiche e tranquillizzanti ma comunque anch’esse costrette a rilevare delle anomalie. Alla magistratura si rivolge anche l’assessore regionale all’Ambiente che mi denuncia per procurato allarme. Il presidente della Regione, l’attuale sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, dichiara pubblicamente che serve il pugno duro. Infatti così sarà. I giudici perquisiscono l’abitazione di Bolognetti alla ricerca delle analisi, che divengono corpo di reato. Io vengo denunciato per violazione del segreto d’ufficio, sospeso immediatamente dall’incarico e dallo stipendio (il prefetto mi revocherà per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza) mentre l’invaso del Pertusillo si colora improvvisamente di rosso, con una morìa di pesci impensabile e incredibile. Al termine dei due mesi di sospensione vengo obbligato a consumare le ferie. Parte il procedimento disciplinare, mi contestano la lesione dell’immagine dell’ente pubblico e mi pongono davanti a un’alternativa: andare a fare l’addetto alla sicurezza del museo o attendere a casa la conclusione del processo. E’ un decreto di umiliazione pubblica. Ma non mi conoscono e non sanno cosa farò. Infatti accetto l’imposizione, vado al museo a osservare il nulla, ma nel tempo libero continuo a fare quel che facevo prima. Costituisco un’associazione insieme a una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale e procedo nelle verifiche volontarie. Vado col canotto sotto al costone che ospita il pozzo naturale dove l’Eni inietta le acque di scarto delle estrazioni petrolifere. In linea d’aria sono cento metri di dislivello. Facciamo le analisi dei sedimenti, la radiografia di quel che giunge sul letto dell’invaso. Troviamo l’impossibile! Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. E’ evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. Anzi, a volerla dire tutta è un colabrodo! La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?”.

Intervista di V.Pic. per il “Corriere della Sera”.

Tenente Giuseppe Di Bello, il rischio di disastro ambientale lei lo denuncia da anni. Perché?

«Nel gennaio 2010 avevo visto cambiare il colore dell'invaso del Pertusillo, sotto il bivio di Montemurro. C'era una patina anomala. Ho fatto fare le analisi. C' erano metalli pesanti, idrocarburi alogenati e clorurati cancerogeni. Come ufficiale di polizia provinciale ho sporto denuncia. Ma sei mesi dopo, l'indagine è stata archiviata. Intanto sono stato sospeso dal servizio per rivelazione di segreti d' ufficio: quelle analisi, su cui però non hanno fatto controlli».

Ha fatto altre analisi?

«Sì, a spese mie, anche quando sono tornato in servizio in un museo. Nel 2011 con un canotto a remi ho prelevato i sedimenti sui fondali dell'invaso. Ho trovato 559 mg/kg di idrocarburi, e metalli pesanti in misure elevatissime. E dopo è andata anche peggio. Sotto il pozzo di reiniezione, Costa Molina 2, c' erano alifatici clorurati cancerogeni 7.000 volte oltre i limiti. Era la prova che il pozzo perdeva. Ora è stato sequestrato. Vicino al Tecnoparco in Val Basento (partecipato al 40 per cento dalla Regione), a Pisticci, nei pozzi dei contadini c' erano sostanze cancerogene anche 1.000 volte oltre i limiti. Mi hanno denunciato ancora, ma purtroppo avevo ragione».

Di chi è la colpa?

«Il procuratore Roberti ha parlato di mafia dei colletti bianchi. Truccano i codici dei rifiuti da pericolosi a non pericolosi. E inquinano la falda, da anni. Ma sono i pozzi vuoti il vero affare perché reiniettano ad oltre 300 atmosfere veleni nelle viscere della terra. Arpab non ha mai controllato, la Asl si è allineata e la Regione ha sminuito. Il peggio può ancora arrivare».

Cioè?

«Il rischio è che, grazie allo sblocca Italia, si sblocchino altri 18 permessi. In Val d' gri con un'autorizzazione sono stati fatti 50 pozzi, già in funzione. La Lucania fornisce acqua potabile a gran parte del Sud Italia. Se va così non ce ne sarà più».

LA PROVINCIA DI POTENZA, DOPO IL SERVIZIO DELLE IENE, SI PRONUNCIA SULLA QUESTIONE "DI BELLO". A seguito del servizio sul petrolio in Basilicata e l’intervista a Giuseppe Di Bello andato in onda Domenica 17 Aprile su Italia 1 realizzato dalla trasmissione televisiva “Le Iene” arriva la risposta dalla Provincia di Potenza, scrive “Potenza News” il 19 aprile 2106. Riportiamo integralmente la precisazione del Direttore Generale dell’Ente, dopo aver ascoltato il Comandante della Polizia provinciale: “La Provincia di Potenza non ha sospeso preventivamente il ten. Giuseppe Di Bello, ma a seguito del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria, notificato all’interessato il 25 maggio 2010, ha provveduto, in data 27 maggio 2010, alla “sospensione cautelare dal servizio” dello stesso, per la durata di due mesi, ai sensi dell’art 5 del CCNL 11-04-2008 comparto Regioni ed Autonomie locali. L’Amministrazione ha applicato dunque una “misura cautelare interdittiva” (artt. 289 e ss. C.p.p.), la quale è stata richiesta dalla Procura della Repubblica e concessa con Ordinanza del Tribunale di Potenza (sez.G.I.P. n.24/10), ed ha avviato, quindi, il procedimento disciplinare ai sensi delle norme di legge. Trascorsi i due mesi, durante i quali il dipendente Di Bello ha comunque percepito quanto nel caso specifico è previsto dal CCNL (un’indennità pari al 50% della retribuzione base mensile, la retribuzione individuale di anzianità, ove acquisita, e gli assegni del nucleo familiare, con esclusione di ogni compenso accessorio) ed a seguito dell’ordinanza con cui il Gip dichiarava la perdita di efficacia della predetta misura cautelare, l’amministrazione ha riammesso tempestivamente il dipendente Di Bello in servizio, in data 26 luglio 2010, ripristinandogli l’intera retribuzione mensile. A tutela della posizione economica e lavorativa del dipendente, l’azione disciplinare – che avrebbe potuto comportare la sua sospensione dal servizio, senza stipendio – è stata interrotta in attesa della sentenza definitiva, nel rispetto del principio di presunzione di innocenza. Sempre per consentire il mantenimento in servizio del lavoratore con relativo stipendio, il procedimento disciplinare è rimasto sospeso anche dopo le condanne nei primi due gradi di giudizio e lo è tutt’ora nelle more della pronuncia definitiva dell’autorità giudiziaria. La sentenza della Corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza della Corte di appello di Potenza, ma non ha assolto Di Bello, rinviando la decisione finale alla Corte di Appello di Salerno. L’Ufficio per i procedimenti disciplinari della Provincia di Potenza, pertanto, non ha ancora assunto alcun provvedimento a carico del lavoratore. L’assegnazione temporanea di Di Bello presso il Museo provinciale è avvenuta in piena condivisione con l’interessato e con la rappresentanza sindacale unitaria (Rsu), di cui all’epoca faceva parte. Si è trattato di un percorso condiviso, teso a contemperare la garanzia stipendiale e la tutela del lavoratore assoggettato a procedimento penale con le esigenze dell’amministrazione, relative alla necessità di completare la riorganizzazione dei servizi museali, compreso quello di vigilanza. L’attuale compito cui egli è assegnato non costituisce affatto un “demansionamento”, dal momento che Di Bello assolve alle mansioni previste per il suo profilo professionale quale tenente del corpo della Polizia Provinciale ed ha percepito, e tutt’ora percepisce, le indennità previste dal ruolo e dalla funzione al pari di tutti gli altri agenti e sottoufficiali del servizio”. Dunque stando a queste dichiarazioni il tenente Di Bello per indossare nuovamente la divisa dovrà attendere l’iter burocratico della giustizia.

Basilicata, il Texas italiano tra petrolio, disastro ambientale e aumento dei tumori. Traffici di rifiuti pericolosi. Sversamenti e perdite nel lago che alimenta l’acquedotto pugliese. Campioni di acqua con metalli pesanti. Lo scandalo che ha portato alle dimissioni del ministro Federica Guidi ha svelato il lato oscuro della regione da cui si estraggono 85mila barili al giorno, scrive Michele Sasso l'11 aprile 2016 su "L'Espresso". Non ci sono solo veleni, dossier e tante telefonate imbarazzanti. Dietro il caso che ha portato alle dimissioni del ministro del governo Renzi Federica Guidi si gioca una partita più importante: l’ipotesi di disastro ambientale con epicentro la Basilicata. Tra il centro olio di Viaggiano, i pozzi di Tempa Rossa e la diga del Pertusillo c'è un triangolo di appena 40 chilometri quadrati. Tutto in Val D’Agri. Nel cuore della Provincia di Potenza, dove nel 1989 si scoprì l'oro nero del più grande giacimento terrestre made in Europa. Il Texas italiano, dove si pompa greggio a ritmo di 85mila barili al giorno, grazie a 39 pozzi e una rete di 100 chilometri di condotte sotterranee per il trasporto dell’olio estratto verso la raffineria Eni di Taranto. La piccola Basilicata copre l’8 per cento del fabbisogno nazionale, ma è fanalino di coda italiano per disoccupazione e sviluppo. Dietro affari da centinaia di milioni di euro per la procura di Potenza c’è un fiume di liquidi inquinanti e rifiuti pericolosi finiti nella rete dell'acqua potabile. Da inchiesta sul potere e la capacità di scrivere e cancellare presunti favori alla compagnia petrolifera Total, è diventato un problema di salute pubblica. Ci sono 60 indagati e sei arresti per il filone parallelo del centro olio Eni di Viggiano (dove viene trasformato il greggio estratto sotto terra) con l’accusa di aver gestito illecitamente i rifiuti, smaltendo come non pericolosi rifiuti invece “pericolosi” in modo tale da avere un vantaggio economico. Inoltre viene contestato di aver taroccato i dati sull'inquinamento delle emissioni. Ora sono i carabinieri del nucleo operativo ecologico che hanno messo sotto la lente migliaia di cartelle cliniche, acquisite negli ospedali lucani per verificare la presenza di tumori sulla popolazione. Ecco come la lunga serie di reati contestati agli arrestati potrebbe aver fatto male alla salute di uomini e ambiente. I rilievi si stanno allargando in tutta la regione, con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti. Epicentro il paese di Viaggiano, quartier generale di Eni, dove per “risparmio dei costi – si legge nell'ordinanza del gip – del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro olio” con rifiuti speciali pericolosi che venivano “dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita” con un codice che li indicava come “non pericolosi”, e poi inviati con autobotti agli impianti di smaltimento (come Tecnoparco, in Valbasento, a pochi chilometri) con “un trattamento non adeguato e notevolmente più economico”. Dai calcoli degli investigatori, il risparmio ipotizzabile per questo “sistema” sarebbe fino al 272 per cento e si tradurrebbe in una cifra che oscilla tra i 44 e i 110 milioni di euro ogni anno. La restante parte dei reflui liquidi sarebbe stata trasferita nel pozzo “Costa Molina 2” (sotto sequestro), in cui “i liquidi venivano reiniettati, sebbene l'attività di reiniezione – precisa il gip – non risultasse ammissibile per la presenza di sostanze pericolose”. C’è poi il capitolo aria, con emissioni che per il gip è “uno dei settori più sensibili e di maggiore impatto ambientale del ciclo produttivo petrolifero”: in questo caso, per “celare le inefficienze dell'impianto, i vertici del centro olio decidevano deliberatamente e in diverse occasioni di comunicare il superamento dei parametri” con una “condotta fraudolenta”, grazie ad una giustificazione tecnica che “non corrispondeva al vero” o “diversa da quella effettiva”. Centinaia di intercettazioni tra i dipendenti raccontano il malaffare: “Io ora preparo le comunicazioni… ci inventiamo… una motivazione”. E la preoccupazione: “Mi sono cagato sotto”. Da anni queste foto compaiono sui quotidiani locali grazie al lavoro di denuncia dei volontari e delle onlus locali, come l'organizzazione lucana ambientalista. Immagini che raccontano il livello di inquinamento intorno al lago del Pertusillo e le 23 tra sorgenti, corsi medi e piccoli che assicurano l’approvvigionamento per l’acquedotto pugliese e più di 4 milioni di persone. Nel 2010 sono iniziate a morire le carpe che vivono nell'invaso artificiale costruito negli anni sessanta per convogliare 115 milioni di metri cubi d'acqua. I pozzi di petrolio sono a meno di un chilometro e pescano a 4-5 chilometri sotto la superficie, mentre la falda è più in alto. Con la moria dei pesci sono state fatte le analisi che hanno confermato il peggio: idrocarburi e metalli pesanti con alte concentrazioni oltre i limiti di legge. Analisi eseguite grazie all’autotassazione dei residenti e affidata ad Albina Colella, docente di geologia all’Università della Basilicata. «Non ci siamo fermati e studiando i sedimenti abbiamo fatto un’altra scoperta: su dieci campioni, sei hanno rivelato la presenza di idrocarburi e tossine cancerogene con concentrazioni altissime», conferma Colella a “l’Espresso”. Da dove vengono? Il sospetto è lo smaltimento illecito dei rifiuti o acque di scarto petrolifero convogliate in un pozzo e poi fuoriuscite a causa di una perdita. «La Val d’Agri non è un deserto», sottolinea Albina Colella: «Ma un territorio ricco di acqua e agricoltura, fragile e vulnerabile all’inquinamento. L’estrazione andava fatta con parametri della Norvegia e non in stile Nigeria. Invece siamo partiti pompando petrolio senza calcolare rischi e con studi insufficienti. Abbiamo certamente 7-8 pozzi dove non ci dovrebbero stare, perchè lì sotto si raccolgono le acque piovane che alimentano la falda». Un anno fa, a gennaio, un altro campionamento. Questa volta a ridosso degli scarichi industriali del pozzo petrolifero “Tempa rossa” al centro dello scandalo. E ancora numerosi metalli pesanti in valori enormemente superiori ai limiti previsti dalla normativa comunitaria. Le analisi fanno emergere un cortocircuito: i controlli effettuati dall’Arpab (l’agenzia regionale per il controllo sull’ambiente) garantivano che fosse tutto nei limiti di legge e in linea con i livelli di sicurezza, mentre quelle rilevate dall’Università hanno riscontrato un ampio superamento dei valori minimi. Parere opposto per Eni che ha la gran parte dei pozzi della zona: «Lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il centro olio di Viggiano è ottimo secondo gli standard normativi vigenti», facendo riferimento ai risultati emersi da «studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale e autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale». Un anno fa a portare fino al parlamento europeo di Bruxelles le paure e i rischi di un’intera regione ci pensò l’eurodeputato del M5s Piernicola Pedicini, medico del principale ospedale oncologico locale, a Rionero in Vulture. Presentò un’interrogazione mettendo in fila tutti i rischi per le falde acquifere e un’anomala distribuzione di tumori e malattie cardiorespiratorie nell’area. Questa la risposta del commissario Ue per l’ambiente Karmenu Vella: «In seguito a vari reclami sulle questioni riferite dall’onorevole deputato, la Commissione ha avviato una procedura d’indagine e sta valutando ora le risposte fornite dalle autorità italiane. Una volta terminata questa valutazione, sarà stabilito il seguito appropriato». «Stiamo ancora aspettando una risposta ufficiale dalla Commissione», annota Pedicini: «È gravissimo questo ritardo e ci auguriamo che grazie alle inchieste aperte dalla Magistratura anche l’Unione europea acceleri le sue indagini. Una cosa è però certa: abbiamo un drammatico incremento dei tumori e di altre malattie che, in particolare negli ultimi anni, stanno colpendo la salute dei lucani. Tutti denunciavano da anni, ma soprattutto la Regione minimizzava le proteste. Ora le risposte devono arrivare». Perché nonostante i dati rassicuranti del registro dei tumori regionale, che certifica l’incidenza delle patologie tumorali sarebbero in linea con i dati nazionali, altri numeri sono preoccupanti. L’associazione “Medici per l'ambiente” e i report Istat raccontano un quadro della salute capovolto: tra il 2011 e il 2014 il tasso di mortalità è cresciuto del 2 per cento, nello stesso periodo a Corleto Perticara (meno di 3mila abitanti e a due passi dal centro Tempa Rossa) è aumentato del 23 per cento. Secondo l’Istat, fra il 2006 e il 2013 il tasso di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio è salito del 14 per cento in tutto il Paese, schizzando invece al 29 nelle due province lucane, pur avendo una produzione industriale minima. Un ultimo dato racconta una regione incontaminata, ma pericolosa: nella provincia di Potenza il tasso di ospedalizzazione per tumore maligno nei maschi (tra 0 a 14 anni) è cresciuto del 48 per cento fra il 2011 e il 2014.

SCANDALO ENI TOTAL. La Procura di Potenza indaga per disastro ambientale. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 3 aprile 2016. Interrogatori, agenda da riempire e un ricorso da depositare: la settimana che comincia domani sarà per i pm di Potenza impegnati nell’indagine sul petrolio - che ha risvolti politici non meno delicati di quelli giudiziari - molto importante proprio per il futuro dell’inchiesta stessa, che ha portato giovedì scorso sei persone agli arresti domiciliari con due ordinanze del gip e all’iscrizione di 60 persone nel registro degli indagati. Gli interrogatori di garanzia e l’agenda dei pubblici ministeri sono collegati: prima cominceranno quelli degli arrestati, ma l’attenzione generale è già concentrata sull'interrogatorio dell’ex ministra Federica Guidi - che si è dimessa il giorno stesso degli arresti - e della ministra Maria Elena Boschi, citata dalla sua collega quando era prossimo l'inserimento nella legge di stabilità di un emendamento necessario a far procedere i lavori a Corleto Perticara (Potenza), dove la Total sta costruendo il secondo centro oli lucano per sfruttare 50 mila barili di petrolio all’anno dal 2017. All’emendamento era molto interessato l’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli, compagno della Guidi, che, infatti, appena la compagna gli confermò che sarebbe stato inserito, telefonò al dirigente di una società petrolifera. Guidi e Boschi saranno sentite a Roma: nei prossimi giorni sarà fissata la data, mentre riguardo al premier Renzi, che in tv ha dichiarato «l'emendamento è mio, se vogliono i pm mi ascoltino», in ambienti vicini alla procura si apprende che i pubblici ministeri di Potenza «non pensavano» di sentirlo. Attesa, da domani, anche per il ricorso dei pm contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gemelli. Dalle parole dei sei arrestati - l’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (Pd), e cinque dipendenti dell’Eni (sospesi dalla compagnia) - i pm si aspettano elementi utili per portare avanti altri accertamenti e approfondimenti. Vicino è finita ai domiciliari nell’ambito del filone di inchiesta che riguarda la costruzione del centro oli di Corleto; gli altri cinque in relazione all’accusa di traffico illecito dei rifiuti prodotti nel centro oli dell’Eni di Viggiano (Potenza), dove da giovedì è sospesa la produzione di 75 mila barili al giorno di petrolio (con centinaia di operai e tecnici in ansia per il lavoro e migliaia di abitanti della zona e ambientalisti soddisfatti). La compagnia ha preso una posizione netta: gli accertamenti che ha fatto condurre da esperti nazionali e internazionali parlano di «qualità dell’ambiente ottima» e di operazioni di smaltimento rispettose delle leggi. I pm aspettano altre analisi dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico: diranno loro se l’ombra dell’accusa di disastro ambientale potrà concretizzarsi. Infine, il filone per il momento meno chiaro dal punto di vista delle notizie trapelate e su cui il riserbo degli investigatori è più stretto: lo scenario è il porto di Augusta, punto di riferimento di diverse compagnie petrolifere. Fra gli indagati vi sono Gemelli e il capo di stato di maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi: da mesi i pm di Potenza, Laura Triassi e Francesco Basentini, indagano per associazione per delinquere e traffico di influenze sullo stesso Gemelli, su De Giorgi, su Nicola Colicchi, considerato un "lobbista», e su un consulente del Ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena. E’ la parte dell’inchiesta che potrebbe riservare rilevanti sorprese.

Il «comitato d’affari» e i politici: così venivano favorite le aziende. Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Il compagno della Guidi «si mostra attento agli emendamenti del settore energetico», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto «Tempa Rossa». Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni — visto che ne parlava come un «favore» fatto al compagno Gianluca Gemelli — non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi «soci». Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: «Non è una cosa di sistema... capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli... chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?». Sottolinea il giudice: «La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i “grossi”, lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai “grossi”, vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali». Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della «rete» che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Tra le «contropartite» pretese da alcuni amministratori locali — prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto — ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: «Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente».

Il fastidio di Renzi con i pm per la convocazione di Boschi. Lo sfogo con i collaboratori: Abbiano il coraggio di chiamarmi, così ci divertiamo un po’, scrive Maria Teresa Meli su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Davanti alle telecamere, con Lucia Annunziata che lo incalza con abilità e tenacia, Matteo Renzi non si lascia sfuggire i suoi più reconditi pensieri sulla vicenda giudiziaria che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi. Dice di non credere ai complotti e alla giustizia a orologeria. Ma ha un’aria di sfida che non passa inosservata quando invita i giudici a chiedergli di ascoltarlo. Non solo su quella storia, ma anche su «tutto il resto: la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari, la Variante di Valico». Ed è proprio da quel «tutto il resto» che traspare il tono della sfida nei confronti dei pm della Procura di Potenza. I quali, non a caso, più tardi fanno filtrare che non è nelle loro intenzioni ascoltare il premier. Renzi è con i collaboratori quando arriva quella replica e sorride: «Perché non vogliono interrogarmi? Ho detto che quell’emendamento era mio, abbiano il coraggio di chiamarmi, dopo quello che ho detto, così ci divertiamo un po’. Visto che vogliono sentire la Boschi proprio per quell’emendamento, perché non me? Forse avrebbero bisogno di una lezione su come funziona il Parlamento... È allucinante voler ascoltare Maria Elena...». I collaboratori che gli stanno di fronte annuiscono. Non capiscono il motivo per cui i pm della Procura di Potenza abbiano deciso di tirare in ballo la Boschi. Ma il premier ha un’idea del perché. E la illustra ai fedelissimi. È un convincimento andato maturando dopo che è scoppiato il «caso Guidi» e che non formulerebbe mai ad alta voce di fronte ai giornalisti. È l’unica spiegazione che è riuscito a darsi: «La verità è che c’è un disegno organico dietro tutto ciò. L’obiettivo è quello di far raggiungere il quorum al referendum sulle trivelle nella speranza di darmi un colpo». Il presidente del Consiglio non contesta l’inchiesta: «Non spetta a me mettere bocca su un’indagine». Ma è la decisione dei magistrati di coinvolgere la ministra che rappresenta in modo più significativo la novità dell’esecutivo Renzi che lo ha lasciato perplesso. Come lo ha sconcertato anche il fatto che dopo aver pubblicamente detto che l’emendamento era opera sua, ora i pm non chiedano di ascoltare pure lui. Della sua «performance» in tv è contento: «Pensavano che mi presentassi tutto intimorito e piagnucolante e invece no. Ho voluto dare un messaggio molto duro». Questa volta il presidente del Consiglio si riferisce ai grillini, ai leghisti e a tutti quelli che hanno «utilizzato questa vicenda per fare un polverone pazzesco». Renzi ce l’ha in particolar modo con i Cinque Stelle. Ma per loro ha già pronta la controffensiva: «Domani (oggi per chi legge, ndr) Bonifazi sarà a Milano per chiedere il risarcimento danni a Grillo e David Ermini sarà a Massa Carrara per querelare Di Maio, che ha avuto la faccia tosta di dire che prendiamo i soldi dai petrolieri. A lui il Pd chiederà di rinunciare all’immunità. Del resto, loro sono sempre pronti a dire che bisogna rinunciarci...». Non una delle parole che vengono pronunciate al chiuso di una stanza, davanti a persone di assoluta fiducia del premier, è stata proferita in televisione. Ma dall’Annunziata Renzi si è lasciato sfuggire qualche indizio sul suo stato d’animo. Quando ha detto di sperare che l’indagine sia «una cosa seria». E ha fatto l’esempio del senatore Salvatore Margiotta, accusato e condannato, sempre a Potenza, per la costruzione del Centro Oil della Total e poi assolto dalla Cassazione. Non è escluso che oggi, in direzione, citi di nuovo questo esempio. Senza fare nessun attacco ai magistrati, però.

L’ammiraglio De Giorgi indagato per una fornitura. La sindaca: ho solo aiutato. Parte il ricorso per l’arresto di Gemelli. Trucchi per celare i veleni, scrive Virginia Piccolillo su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. «Ma quando vengono i magistrati a sentire Rosaria Vicino?». A Corleto Perticara, da una settimana passata dalla tranquillità di paesino da 2.500 anime a centro delle cronache giudiziarie, si accomuna la ex sindaco ai domiciliari che deve subire l’interrogatorio di garanzia al ministro delle Riforme che, per cortesia istituzionale, riceverà la visita dei magistrati a Roma. Lei no. Dovrà uscire dalla villa videosorvegliata e fare i 60 chilometri di tornanti che portano a Potenza. La sua difesa la ripetono in molti: «Ha solo aiutato i ragazzi a trovare un posto di lavoro». Altrettanti però replicano: «Solo quelli che voleva lei. Ad altri, magari più preparati, ha impedito che gli venisse dato». E ripetono quella intercettazione in cui Rosaria Vicino, all’offerta di un posto per un geologo, rilancia con un suo protetto: «È geometra. Ma è sveglio». Oggi a Corleto ci sarà anche una manifestazione dei Cinquestelle ed è atteso Di Maio. Ma i riflettori sono tutti puntati sulla Procura di Potenza. Sarà una settimana di interrogatori per l’indagine sul petrolio lucano, ma non ci sarà quello del premier Matteo Renzi. Che i magistrati «non pensavano» proprio di ascoltare. Da ambienti investigativi filtra che questo non è un «processo all’emendamento allo sblocca Italia», all’origine dei guai dell’ex ministra Guidi. Lei lo aveva annunciato in anteprima al suo compagno Gianluca Gemelli, in un’intercettazione nella quale diceva di averne parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Informazione poi spesa da Gemelli per ottenere, secondo la Procura, utilità. Su quella frase verrà ascoltata, come atto dovuto, la Boschi, già nei prossimi giorni assieme alla Guidi. E, a microfoni spenti, si raccomanda di non confondere le ricostruzioni giornalistiche con le carte dell’inchiesta. Né sul filone politico, né su quello della «lobby» che agiva in vista del business del «dopo emendamento». In questo ambito è stato indagato per abuso d’ufficio il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe De Giorgi per una vicenda legata a forniture. Per Gemelli, molto attivo a facilitare affari, oggi stesso potrebbe essere presentata la richiesta di appello conto la mancata autorizzazione all’arresto. Intanto c’è da ascoltare anche i cinque arrestati dell’indagine sui veleni spacciati per acqua sporca, nel centro Oli di Viggiano. È una tranche delicatissima che, dopo i risultati dell’indagine epidemiologica, potrebbe portare all’incriminazione per disastro ambientale. Per ora a testimoniare i trucchi compiuti per trasformare i codici dei rifiuti tossici e reiniettarli così nel pozzo di smaltimento delle acque reflue oppure degli «incidenti» ripetuti per il malfunzionamento dell’impianto con lavoratori finiti intossicati al pronto soccorso ci sono le parole degli stessi funzionari Eni intercettati. Anche se la compagnia parla di «qualità dell’aria ottima» e certificata.

Guidi, due incontri con i petrolieri. Poi i "favori" a Gemelli. I verbali. Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l'ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati il 04 aprile 2016 su " La Repubblica". Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell'ex ministro che va ben oltre l'ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della "lobby petrolifera", promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio "cortesie" destinate a favorire gli affari del compagno. Il mafioso. Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare "fornitore di servizi ingegneristici" per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell'23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l'azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata - e Gemelli. Quest'ultimo ha appena chiesto di poter "fare tutto ciò che riguarda l'ingegneria per eventuali lavori successivi". Broggi risponde in maniera netta: "Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c'è quell'incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu... Tutto si fa nella vita". Gemelli ringrazia: "Tu sei un mafioso siciliano!". "Da una telefonata successiva - scrive il gip - si capisce come l'incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont". Insomma, l'accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l'emendamento) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore "spingendo" le ditte di Gemelli. Mimì e Cocò. Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. "Senti - chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?". "No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante", risponde Gemelli svelando che "questo tizio", l'uomo di Tecnimont, aveva rinviato l'appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo. "I due dell'Ave Maria si sono visti", esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po' infastidito perché la cosa è "adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l'istituzione che dice 'prendi una società italiana'; però c'è modo e modo". "La Guidi li stanerà". L'altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest'ultimo è l'interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l'inserimento dell'emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stabilità. L'incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: "Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia". "E il ministro - scrive il gip - ha detto che avrebbe convocato le Regioni (...) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati". In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta "assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto"". "L'incontro è andato bene", riferirà in un'altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica "a me ha detto che è andato tutto bene", la risposta. Lo sblocco dei fondi navali. Sull'asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal "programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa". Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L'ipotesi dell'accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi - presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis - fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. "Venne da me Colicchi - racconta Pastena - e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi". Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi - che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell'intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno "Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale" (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il "parere preliminare delle Commissioni". Parere che la Guidi definisce "urgente", auspicando che l'iter si concluda "al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa". Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.

Estrazioni del petrolio, la ministra Guidi pilotava il governo per aiutare il fidanzato. La responsabile dello Sviluppo economico e l'imprenditore Gemelli parlano anche di accordo con la ministra Boschi Ecco le intercettazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". «E poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d'accordo anche “Mariaelena” (il ministro Boschi ndr), quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte...! Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempra Rossa, dall'altra parte si muove tutto»: così parlava la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidial telefono con il suo compagno, Gianluca Gemelli, a proposito dell'emendamento che il governo stava per inserire nella Legge di Stabilità relativo ai lavori per il centro oli della Total in contrada “Tempa rossa”, a Corleto Perticara (Potenza), nei quali Gemelli stesso aveva interesse essendo alla guida di due società del settore petrolifero. L'imprenditore chiedeva alla sua compagna-ministro se la cosa riguardasse pure «i propri amici della Total, clienti di Tecnimont» e la Guidi rispondeva: «Eh certo, capito? Certo, te l'ho detto per quello!». Gemelli a questo punto, dopo aver parlato con la ministra Guidi chiama al telefono Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total e gli svela la notizia della volontà del governo di inserire nella legge di Stabilità, in discussione all'epoca in Senato, l'emendamento che avrebbe sbloccato “tempra rossa”, tirando in ballo anche la ministra Boschi: «La chiamo per darle una buona notizia, si ricorda che tempo fa c'è stato casino, che avevano ritirato un emendamento, per cui c'erano problemi su Tempra rossa, pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, ragion per cui, se passa... e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni... è tutto sbloccato». Le intercettazioni sono agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere. Guidi, che non è indagata nell'inchiesta, informa spesso il compagno, per il quale il gip di Potenza ha rigettato la richiesta di arresto, sui provvedimenti del governo per quanto riguarda le estrazioni petrolifere. Per questi affari Gemelli è indagato per aver sfruttato l'interesse della sua compagna-ministro e di aver fatto affari per oltre due milioni e mezzo di euro. Secondo il giudice per le indagini preliminari, che commenta queste intercettazioni sull'emendamento ritirato, precisa che: «non essendo stato possibile farlo “passare" nel testo del decreto "Sblocca Italia" il Governo (per iniziativa del ministro Guidi con l'intesa del ministro Boschi (“è d'accordo anche Mariaelena”), lo aveva sostanzialmente riproposto nel testo del disegno della legge di Stabilità (“Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità”), finendo con l'essere, unitamente alla legge di Stabilità, approvato a fine dicembre 2014. Il nuovo tentativo di inserimento, infatti, aveva esito positivo». La ministra Guidi si interessa del lato economico e finanziario del suo compagno Gemelli, al quale chiede come è messo “economicamente” e perché “è sempre sofferente in banca”. Guidi però insiste, vuole capire meglio e l'imprenditore spiega che ha “troppi mutui” da pagare. A questo punto la Guidi suggerisce: «Eh, per quello dico che dovresti riuscire a prendere altri lavori Gianluca...!»; Gemelli rispondeva "eh lo so gioia, non è che mi sono fermato, l'hai visto...».

Quella clamorosa intercettazione della Guidi. Le opposizioni: «Ora si deve dimettere». La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi rassicura il compagno, interessato ai lavori, sul destino di un impianto di estrazione di Total in Basilicata: verrà approvato un emendamento alla legge di Stabilità. «È d’accordo anche Maria Elena», dice riferendosi a Boschi. Le opposizioni gridano al conflitto di interessi: «Si dimetta. E al referendum votiamo Sì», scrive Luca Sappino il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Non è nuova alle polemiche sul conflitto d’interessi, Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi. Appena nominata, il 22 febbraio 2014, in molti notarono la scarsa opportunità della scelta del presidente del consiglio di mandare negli uffici di via Molise proprio la vicepresidente di Confindustria, figlia di Guidalberto Guidi, anch’egli a lungo vicepresidente di Confindustria e presidente della Ducati Energia, azienda di famiglia. Federica Guidi lasciò ogni incarico formale, ovviamente, e si difese dicendo di non esser socia ma solo dipendente delle varie aziende: «Sto battendo ogni record», si vantò, «il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta già arrivando la prima mozione di sfiducia individuale». Mozione però mai calendarizzata. È però adesso un’intercettazione di una telefonata avuta con il compagno Gianluca Gemelli, a riaprire il dibattito. Gemelli, interessato ai subappalti per le sue aziende, stava infatti seguendo con attenzione il destino dell’impianto Total di Tempa Rossa, giacimento petrolifero nell'alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, e viene chiamato dal ministro per ricevere rassicurazioni. Nella telefonata, negli atti di un'inchiesta in cui è indagato anche lo stesso Gemelli, per "traffico di influenze illecite" perché avrebbe "sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico”, Guidi rassicura il compagno sul destino di un emendamento alla legge di stabilità che risolverà ogni problema. Nello scambio il ministro dice così: «Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Mariaelena la... quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte... Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa... ehm... dall'altra parte si muove tutto!». A quel punto, Gemelli può chiamare subito il rappresentante della Total con cui era in contatto e farsi valere con l’informazione ricevuta dal contatto privilegiato: «La chiamo per darle una buona notizia. ehm.. Si ricorda che tempo fa c'è stato casino. Che avevano ritirato un emendamento… ragion per cui c'erano di nuovo problemi su Tempa ross ... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato...ragion per cui…se passa...e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni...(...) se passa quest'emendamento... che pare... siano d'accordo tutti… perché la boschi ha accettato di inserirlo... (...) è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! (...) e quindi questa è una notizia...». Immancabili sono a questo le reazioni politiche. Il Movimento 5 stelle, con una dichiarazione congiunta dei capogruppo di Camera e Senato, Michele Dell’Orco e Nunzia Catalfo, chiede le dimissioni di entrambi i ministri citati, di Guidi e però anche di Boschi. Più su Guidi si concentra invece Sinistra Italiana che annuncia una mozione di sfiducia, sperando che questa volta venga discussa. Tutti però girano la notizia sul prossimo referendum sulle trivelle: «La miglior risposta a queste indecenze», dicono i 5 stelle, «oltre alle dimissioni di Guidi e Boschi è andare tutti a votare domenica 17 aprile e votare sì contro le trivellazioni marine». Sconcertata si definisce anche Forza Italia, almeno per bocca di Alessandro Cattaneo, già sindaco di Pavia: «Se ciò che stiamo leggendo in queste ore fosse vero, è chiaro a tutti che siamo di fronte ad un caso sul quale il Governo non può non fare chiarezza». «Sempre garantisti», dice ovviamente Cattaneo, «ma di fronte a certe parole e fatti non si può che restare sorpresi ed agire di conseguenza. Le intercettazioni sul Ministro Guidi sono sconcertanti».

Caso Guidi, quella notte in cui l'emendamento uscì dalla legge (e poi rientrò). Presentato il 17 ottobre del 2014, scatenò le proteste dei Cinque Stelle e di Sel. E venne precipitosamente ritirato. Mentre il Pd diceva di non saperne niente. Il grillino Cioffi: “Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?” Ecco la storia della modifica che ha portato alle dimissioni della ministra, scrive Susanna Turco l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Presentato dal governo in una notte d’ottobre 2014, poi precipitosamente ritirato ("… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte", dice la Guidi nelle intercettazioni), dopo le proteste dei Cinque stelle e Sel, durante la discussione in commissione Ambiente sul cosiddetto Sblocca Italia. Presentato poi di nuovo, in dicembre, e approvato nel maxiemendamento alla Legge di stabilità: anche qui tra le proteste dei Cinque stelle. La storia dell’emendamento che è all’origine delle dimissioni della ministra Guidi, quello che dava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa, sul quale il compagno della titolare allo Sviluppo economico aveva forti interessi, è nei resoconti di quella notte in commissione ambiente. E, poi, nell’intervento in Aula al Senato, quando il grillino Andrea Cioffi domanda: "Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?". Tutto comincia all’ora di cena del 17 ottobre. E’ un venerdì, e il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, "avverte che il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52 del Governo". Dopo l’annuncio, Realacci dice subito che i sub-emendamenti andranno presentati entro le 22.  Poi fa slittare il termine alle 23. Sia il deputato di Sel Filiberto Zaratti, che la deputata grillina Claudia Mannino, dicono infatti che ci vuole tempo "per valutarne attentamente il contenuto". Poco dopo, avendo letto l’emendamento, è la grillina Mirella Liuzzi ad aprire il fuoco: "L’emendamento 37.52 del Governo rappresenta una vergogna sotto il profilo del rispetto della tutela ambientale, tanto più essendo stato presentato da un Governo che si dichiara di centrosinistra", dice. La Mannino protesta: il testo "introduce poteri di intervento inconciliabili con lo stato di diritto". Zaratti (di Sel) ci mette un altro carico: "L’emendamento autorizza procedure di esproprio in ambiti di particolare rilevanza ambientale, non è degno del Parlamento di uno Stato civile". Ecco la protesta grillina in commissione Ambiente contro l'emendamento pro-Tampa Rossa che, nella notte dell'ottobre 2014, ha portato alla precipitosa marcia indietro del governo. Le urla, gli interventi concitati. “E' una assoluta vergogna, una cosa pericolosissima, e la fate qui in commissione, alle dieci di sera. Neanche Berlusconi era arrivato a tanto”, dice Liuzzi. E Mannino: “In un paese civile questo emendamento è irricevibile”. Mentre il Pd Borghi, placido chiarisce: “Il mio gruppo non era a conoscenza della presentazione di questo emendamento”. Alla fine il Cinque stelle De Rosa invita il presidente della commissione Realacci a “rivalutare l'ammissibilità dell'emendamento”. Cosa che, dopo essersi consultato col governo, Realacci farà. Dichiarandolo inammissibile. Interessante, a questo punto, la puntualizzazione del Pd Enrico Borghi: fa presente come "il gruppo del Partito democratico non era stato preventivamente messo a conoscenza della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 37.52. Chiede pertanto che su di esso possa essere aggiornata la discussione ad un successivo momento". A questo punto, Realacci sospende la seduta. Chi c’era, racconta che subito dopo in commissione arriva anche Claudio De Vincenti, allora viceministro allo Sviluppo Economico, e che nell’ora e mezza di pausa dei lavori, c’è un lungo conciliabolo tra lui e Realacci. Un deputato Cinque Stelle dice di aver notato la cosa perché "è strano che un viceministro venga in commissione di notte", e ricorda che "De Vincenti si portò via Realacci per parlarci: era evidentemente alterato, molto arrabbiato. Come se sapesse benissimo cosa stava succedendo a quell'emendamento: altro che disinteressarsene". La seduta riprende alle 21.35. E il presidente Realacci cambia improvvisamente orientamento. Dichiara infatti "inammissibile" l’emendamento, per "estraneità di materia": in sostanza, dice, perché nell’articolo 37 l’estensione delle "procedure autorizzative derogatorie" era prevista per "aumentare la sicurezza delle forniture di gas" e quindi non c’entra con "le opere relative al trasporto e allo stoccaggio di idrocarburi". La Liuzzi però protesta: dice che Realacci non è stato "corretto", perché avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità dell’emendamento, prima di dare un termine per la presentazione dei subemendamenti. "A questo punto l’emendamento dovrebbe essere discusso e votato", conclude la Liuzzi. Realacci replica di aver agito così "in considerazione dell’ora tarda e della necessità di lasciare tempi adeguati ai gruppi per la presentazione dei subemendamenti". A quel punto è il grillino De Rosa ad "avanzare il dubbio" che si sia fatto così "nella speranza che nessun deputato si accorgesse della portata dell’emendamento 37.52 e si opponesse alla sua votazione". Realacci ribadisce le sue ragioni e la discussione passa oltre. Poi, però, l’emendamento si riesce a "rimetterlo dentro" (sempre parole della Guidi) nella legge di Stabilità. E il 18 dicembre il senatore grillino Cioffi in Aula lo definisce un "emendamento con nome e cognome". "Ma cosa c'è dentro questa finanziaria? Tante cose. Ci sono alcuni emendamenti presentati dal Governo che hanno nome e cognome. Ce n'è uno che si chiama «Total». Se volete, possiamo usare «Total» sia come nome che come cognome: «Total Total». (Applausi dal Gruppo M5S). Quando voi inserite nella legge che rendiamo opere strategiche anche i tubi che servono per portare il petrolio di Tempa Rossa (che è una concessione data alla Total), nonché le infrastrutture che verranno realizzate nel porto di Taranto, stiamo facendo un regalo alla Total. Ci verrebbe allora da chiedere: ma la Total ha soffiato nell'orecchio di qualcuno, che è il Governo, e gli scrive un emendamento? La Total per caso - lo pongo come ipotesi, signora Presidente, mi consenta; sa, «mi consenta» si porta - ha agevolato il percorso per presentare un emendamento a suo favore? La Total ha contribuito economicamente - in maniera trasparente, perché non si possa mai pensare che lo faccia in maniera non trasparente, nel qual caso sarebbe un reato e i reati li accerta la magistratura, ed è il caso che li inizi ad accertare, magari su questa cosa - la Total, dicevo, ha dato dei contributi al Governo che gli fa un regalo?"

Guidi, le guerre nel Pd della Basilicata. Indagini, una talpa aveva avvisato il compagno. Le intercettazioni dimostrano nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio. Scontri fra Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute e il governatore della Regione Marcello Pittella, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Dietro all'estrazione petrolifera emergono in Basilicata guerre intestine al Partito democratico. Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza hanno permesso di registrare nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio (il comprensorio dei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara, Gorgoglione, Gallicchio ed Armento) coinvolto direttamente o indirettamente nell'attività di estrazione petrolifera, «da fare campo di conquista anche attraverso vere e proprie guerre intestine tra le vari anime dello stesso Partito», scrive il gip. Da un lato vi è la figura di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, punto di riferimento politico dell'ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, arrestata oggi dai carabinieri, e dall'altra parte il governatore della Regione Basilicata, Marcello Pittella, il quale con la sua azione politica «avrebbe cercato di mettere le “bandierine” (per richiamare il termine utilizzato da Vicino nelle intercettazioni) sui territori da “conquistare”». Gli investigatori hanno documentato come spesso Vicino ha utilizzato l'auto dei vigili urbani del paese per fare la spesa, e poi ancora per raggiungere il cantiere, e i vari imprenditori interessati all'esecuzione dei lavori legati al Centro Oli di Tempa Rossa «al solo fine di segnalare agli stessi le persone da assumere». Vicino poteva contare su un notevole consenso elettorale ottenuto «da ricondursi anche ai posti di lavoro che la stessa riesce a far ottenere attraverso le pressioni esercitate nei confronti delle imprese impegnate nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, che si vedono costrette (in alcuni casi colluse) nell'assumere persone segnalate dal primo cittadino, in cambio del rilascio delle necessarie autorizzazioni comunali o in cambio di una più celere trattazione delle pratiche annesse (permessi di costruire), ovvero in cambio di vantaggi economici anche solo promessi derivanti da concessioni, delibere». In questo modo Vicino avrebbe ottenuto non solo «il controllo dell'elettorato attivo in vista delle prossime elezioni amministrative locali», ma anche «l'impegno del sottosegretario De Filippo a far assumere il figlio all'Eni». Più volte nelle intercettazioni De Filippo ha rassicurato la Vicino di un suo intervento «presso una non meglio specificata Azienda con sede in Roma (seppure mai menzionata espressamente, la stessa è facilmente individuabile nell'Eni spa)», scrive il giudice. Il compagno della ministra Guidi, l'imprenditore Gemelli indagato in questa inchiesta a Potenza, durante alcune intercettazioni si soffermava sul ruolo politico di Pittella, e sui contatti "forti" che suo fratello, l'europarlamentare Gianni Pittella, aveva con il premier Matteo Renzi: «ma lui tramite il fratello che è al parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero, ma comunque... ! Speriamo che funzioni questo Sblocca Italia». Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto, a distanza di qualche tempo, anche insieme alla propria compagna, il ministro Federica Guidi, quando avevano appreso da una talpa la notizia delle indagini in corso da parte della procura di Potenza che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori che aveva ottenuto in Basilicata.

“Potenza, ecco come funziona il sistema degli affari petroliferi”. Il pm Woodcock fu il primo ad avviare le inchieste sul “Totalgate”. La maledizione in Basilicata è: tante indagini, poche condanne, scrive Guido Ruotolo il 4 aprile 2016 su "La Stampa". L’ultimo caso sulle estrazioni petrolifere, che ha visto indagato anche il compagno della ministra Guidi, incrocia la “maledizione di Potenza”, dove si sono fatte tante indagini ma si celebrano pochi processi. Sono tornate telecamere e microfoni. E il bivacco di giornalisti da oggi affollerà di nuovo il palazzo di giustizia. Come ai vecchi tempi di Henry John Woodcock, il pm anglonapoletano famoso per le sue retate «eccellenti», dal fotografo di gossip Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele (di) Savoia. Proprio lui, Woodcock, con tre diverse inchieste (2001,2004,2008) accese i riflettori su quelli che negli atti giudiziari venivano definiti «gli affari petroliferi». Impressionante il sistema di corruzione già scoperto quindici anni fa dal pm che poi traslocò alla Procura di Napoli. Va subito detto che la maledizione di Potenza è che si fanno le indagini ma non si celebrano i processi. I dibattimenti delle prime due inchieste sugli «affari petroliferi» infatti sono stati sospesi con la sopraggiunta prescrizione. Per la terza, il “Totalgate”, è iniziato il processo di primo grado. Finora sono cambiati per tre volte i collegi giudicanti per cui il dibattimento è stato azzerato per due volte. Anzi ha rischiato di dover ripartire da zero un’altra volta per gli stretti rapporti - pare di natura sentimentale - intrecciati dai due giudici a latere. Comunque prima dell’estate anche “Totalgate” è destinato alla prescrizione. Dunque nel 2008 il gip di Potenza ha accolto le richieste di arresto anche dell’amministratore delegato di «Total Italia», Lionel Lehva. E la stessa “Total” fu affidata in gestione commissariale a Piero Sagona, storico consulente della Banca d’Italia. Quasi un anno senza illeciti e violazioni del Codice penale, dall’aprile 2009 al febbraio 2010. Poi, a leggere le cronache giudiziarie di questi giorni, si è tornati, per dirla con il gip di Potenza, «a pratiche antiche e accettate». Per Woodcock, gli affidamenti degli appalti da parte del colosso petrolifero francese erano «pilotati e predefiniti negli esiti dai protagonisti del “comitato d’affari” costituito, appunto, dal manageament di “Total Italia”, da imprenditori, da pubblici ufficiali, politici e faccendieri, “istituzionalmente” deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite». Rileggendo gli atti delle tre inchieste colpiscono alcuni elementi che si ritrovano nelle diverse indagini. Il punto di partenza è riassunto da Woodcock: «La corruzione e la collusione tra potere economico, potere politico e frange deviate di istituzioni dello Stato - persino i Vigili del fuoco, ndr - costituiscono il modus operandi ordinario nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Il flusso di denaro pubblico rappresenta l’occasione di corruzione e di arricchimento illecito a favore di imprenditori senza scrupoli, faccendieri e funzionari pubblici corrotti». Ma questo sistema di corruzione ambientale è solo della Basilicata? Colpisce che in ogni inchiesta sono coinvolte politici e funzionari pubblici, un’amministrazione comunale, una impresa locale. Prendiamo appunto l’inchiesta “Totalgate”. Al centro delle indagini del pm Woodcock c’erano tre appalti: due per la fornitura del trattamento e dello smaltimento dei fanghi di perforazione; un appalto per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa. Bene, quelle gare furono truccate. Il 20 dicembre del 007 si precipita a Potenza l’amministratore delegato di Total, Lionel Lehva, per «pianificare la sostituzione delle buste contenenti le offerte»: «Quando si arriva - registrano le cimici degli investigatori - a far vincere Ferrara (l’imprenditore prescelto, ndr), è vinta». Sempre Lehva detta le incombenze da assolvere: «La busta D, dì che la cambino.... Ok?». L’impresa Ferrara, secondo l’intesa con i francesi, «deve sottoscrivere un contratto di cinque anni di fornitura di olii lubrificanti e carburanti per 15 milioni di euro. E Total si impegna a far vincere la gara per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa all’Associazione temporanea di imprese “Ferrara” «sostituendo fraudolentemente le buste contenenti le offerte presentate e depositate alterando i verbali di gara». Colpisce che tra gli attuali indagati di Potenza vi sia anche Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e Salute dell’Eni di Viggiano. Colpisce perché fu arrestata per corruzione dal pm Woodcock nella inchiesta «Oro nero» del 2004. Arrestata per corruzione, ma il processo è stato prescritto. E, dunque, per l’Eni dirigente da promuovere. Infatti era una specialista in autorizzazioni e relazioni pubbliche del distretto di Ortona, nel 2004, quando imponeva alle ditte contrattiste l’assunzione di certo personale su indicazione del sindaco di Calvello.  

Tempa Rossa, fino a 7 anni di carcere per i vertici Total. Il processo si riferisce all'inchiesta condotta nel 2008 dall'ex pm Woodcock, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 aprile 2016. Il Tribunale di Potenza ha condannato in tutto nove persone - imputate a vario titolo per corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del Centro oli di «Tempa Rossa» - nell’ambito del processo allora chiamato «Totalgate», per pene che complessivamente ammontano a 47 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, sono stati condannati l’ex ad di Total Italia Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione) e l’ex manager della Total Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), due ex dirigenti locali della Total, Roberto Francini e Roberto Pasi (sette anni di reclusione ciascuno), l’imprenditore Francesco Rocco Ferrara (sette anni di reclusione), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), l’ingegnere Roberto Giliberti e il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Corleto Perticara (Potenza) Michele Schiavello (cinque anni ciascuno), e l’imprenditore Nicola Rocco Donnoli (due anni e sei mesi). Per Lehva e Juguet è stata disposta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, mentre per Pasi, Francini, Ferrara, Tornetta, Schiavello e Giliberti l’interdizione è perpetua. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo il giudice, Aldo Gubitosi, ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». Il pm, Veronica Calcagno, aveva chiesto pene per un totale di circa 90 anni di reclusione. La vicenda si riferisce a un’inchiesta condotta nel 2008 dal pm Henry John Woodcock - ora in servizio a Napoli - sulla realizzazione del Centro oli di "Tempa Rossa», in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero poi dovuto ospitare la struttura, e la concessione degli appalti per i lavori. Il Comune di Corleto Perticara (Potenza) è stato condannato in solido «quale responsabile civile» al risarcimento dei danni alla parte civile (con Schiavello, Pasi, Francini e Giliberti). «Non posso che esprimere la mia più viva soddisfazione per un verdetto che conferma la bontà dell’impianto accusatorio da me costruito grazie al lavoro di un gruppo affiatato di ragazzi della polizia giudiziaria (la squadra mobile e la polizia municipale di Potenza e i carabinieri del Noe del capitano Ultimo) che hanno collaborato con me». Così il pm Della Dda di Napoli Henry John Woodcock commenta l’esito del processo a Potenza scaturito dall’inchiesta Tempa Rossa, coordinata negli anni scorsi dal magistrato quando era sostituto alla procura del capoluogo lucano.

Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo». Scontro con la minoranza. M5S presenta la mozione di sfiducia, scrive Alessandro Trocino su "Il Corriere della Sera” il 4 aprile 2016. «Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza». Conclude così la sua replica Matteo Renzi, a una direzione del Partito democratico più nervosa del previsto e che, dopo i duri attacchi della minoranza, approva la relazione del segretario con 98 voti favorevoli e 13 contrari. Renzi rivendica lo sblocco del progetto Tempa Rossa, che è costato le dimissioni del ministro Federica Guidi e sul quale c’è un’inchiesta della magistratura: «Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». Parole che arrivano qualche minuto dopo che il ministro Maria Elena Boschi, in un ufficio decentrato di Palazzo Chigi, è stata sentita dai magistrati come persona informata dei fatti. E pochi minuti prima della condanna degli ex vertici della Total per turbativa d’asta e corruzione nella vicenda Tempa Rossa. Renzi difende appassionatamente l’operato del governo: «Noi schiavi delle lobby? Ma le multinazionali oggi creano 1,2 milioni di occupati, il 14% del Pil e il 25 dell’export». Le inchieste: «Noi non siamo come gli altri. Se qualcuno ruba, si proceda e si metta in galera». E rivendica la diversità anche su altro: «Non farò più di due mandati. Fuori di qui ci sono due nemici: populismo e demagogia». Renzi deve subire il duro attacco di Gianni Cuperlo: «Matteo, penso che tu sia profondamente onesto. Ma non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo». E ancora: «Sento il peso di stare in questo partito». Il governo dovrà fare fronte anche alla mozione unitaria presentata dal centrodestra e a quella del Movimento 5 Stelle. Che recita: «L’inchiesta petrolio svela l’operato di un articolato e consolidato comitato d’affari».

Inchiesta Petroli in Basilicata, quello che sappiamo. Dai nomi dei personaggi coinvolti fino alle ipotesi di reato: una guida per capire l'indagine che sta facendo tremare il governo Renzi, scrive il 4 aprile 2016 "Panorama".

Quali sono le conseguenze politiche? Dopo che è caduta la testa del ministro Federica Guidi, Maria Elena Boschi, 35 anni, è finita nel mirino delle opposizioni e sarà interrogata dagli inquirenti. Le chiederanno con ogni probabilità se era conoscenza del legame tra il ministro e l’imprenditore indagato e se sapesse della convenienza che questa ne avrebbe ricavato dallo sbloccamento dell’operazione Tempa Rossa della Total. Il ministro Boschi ha non solo per ora negato di sapere chi fosse l'imprenditore siracusano che sollecitava l'introduzione dell'emendamento che avrebbe consentito alla sua azienda di aggiudicarsi alcuni appalti milionari, ma ha difeso la ratio del provvedimento: «Conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno della Guidi o chiunque altro ha violato la legge è giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia». Sono già state presentate due mozioni di sfiducia al governo: una dei Cinque Stelle e un’altra di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’indagine della Procura di Potenza che ha provocato le dimissioni del ministro Guidi, nota come Scandalo Petroli, fotografa un quadro politico inquietante. Un affresco, secondo l'accusa, costruito attorno agli interessi lobbistici e ai perversi intrecci tra la politica e i vertici industriali dell'Eni e della Total, all'interno di un sistema clientelare del quale i soggetti-chiave erano non solo i dirigenti dei colossi petroliferi, ma anche uomini delle amministrazioni locali e del governo centrale che avrebbero dovuto vigilare, nonché ditte appaltatrici che avrebbero goduto di trattamenti di favore. Partita dai carabinieri del NCO che stavano indagando su un traffico di rifiuti tossici prodotti negli stabilimenti petroliferi in Basilicata, l'inchiesta muove da un'ipotesi: che i rifiuti liquidi prodotti dall’attività estrattiva degli impianti petroliferi presenti in Basilicata venissero sistematicamente classificati come non pericolosi e dunque versati nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, al fine di abbattere i costi di smaltimento. Con ovvie ricadute sull'ambiente e sulla qualità della vita della cittadinanza. E con la complicità interessata di uomini della Politica.

Quali sono le ipotesi di reato? L’ipotesi di reato, in generale, è quello di disastro ambientale, una fattispecie specifica introdotta nella nuova legislazione del maggio 2015 che prevede dai 5 ai 15 anni di carcere per chi se ne renda responsabile. Il disastro ambientale viene definito dal codice penale come «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Ma ci sono altre ipotesi di reato, perché attorno al reato principale - il disastro ambientale - si muovevano ditte appaltatrici e pezzi di politica locale e regionale, in un quadro corruttivo e apparentemente privo di controlli adeguati. 

In quali filoni è composta l'inchiesta? Il primo, affidato ai carabinieri del Noe, riguarda l'impianto Eni di Viggiano, operativo in Basilicata, che secondo l'accusa - e con la complicità degli organismi di controllo e della politica nazionale e locale - avrebbe continuato a sversare nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, i suoi rifiuti tossici, sforando anche sistematicamente sui limiti delle emissioni previste per legge. Il secondo filone di indagine, seguito dalla squadra mobile della Polizia di Stato, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total, nell'alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, e che secondo i giudici avrebbe dato il via a un sistema oliato di corruzione e tangenti per l'assegnazione degli appalti e dei subappalti in relazione alla costruzione e ai lavori dell'impianto.   Il terzo filone riguarda il porto di Augusta, attorno all'ipotesi di traffico di influenze e traffico illecito di rifiuti, all'interno di una più vasta associazione a delinquere alla quale facevano parte, secondo la procura, il capo di Stato maggiore della marina Giuseppe De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, per il quale la procura potrebbe chiedere l'arresto, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore-lobbista Nicola Colicchi.

Che cosa ha portato alle dimissioni del ministro Guidi? In una telefonata intercettata il 13 dicembre 2014 il ministro Guidi rassicura il compagno che un emendamento alla Legge di stabilità sbloccherà l’operazione Tempa Rossa, sottolineando anche il voto favorevole di Maria Elena Boschi, cui era interessato lo stesso Gianluca Gemelli, 42 anni, commissario di Confindustria siracusana e noto imprenditore edile siciliano, nonché compagno del ministro dello Sviluppo.

Perché è coinvolto anche il sindaco di Corleto Perticara? La Procura di Potenza ha dedicato a Rosaria Vicino, Pd, 62 anni, 800 pagine di ordinanza di custodia cautelare e 13 capi di accusa, tra cui corruzione, peculato e voto di scambio. Dalle intercettazioni emergerebbero pressioni per far assumere il figlio all’Eni e quali fornitori utilizzare. Ma il sindaco – stando ad alcune telefonate intercettate -  si sarebbe mosso anche per raccomandare altre personaggi e far loro avere gli appalti necessari alla prosecuzione dei lavori dell'impianto Tempa Rossa di Corleto Perticara, la cittadina di cui era sindaco. È coinvolto nell'inchiesta, secondo l'intercettazione, anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo che - per i servigi resi - «avrebbe a sua volta ricevuto dall'Eni un hotel a Milano».

Quali possono essere le conseguenze economiche della vicenda? Dopo l'apertura dell'inchiesta, che ha svelato un sistema ben oliato di corruzione e omessi controlli, l'Eni ha deciso di sospendere le estrazioni del petrolio in Basilicata, in particolare in Val D’Agra dove si estraggono 75 mila barili al giorno e dove c'è il giacimento di Viggiano, il più importante d’Europa dopo quelli russi. Anche i dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati sospesi.

Un dossier anonimo contro l’ammiraglio De Giorgi: “Ecco tutte le spese pazze”. Inchiesta di Potenza, spuntano documenti sul capo di stato maggiore della Marina: «Festini e scambi di interessi con il fidanzato della ministra Guidi», scrive Grazia Longo il 12 aprile 2016 su “La Stampa”. La stagione dei veleni è appena cominciata. Non si sono ancora placate le polemiche per il dossier contro il ministro Graziano Delrio, che ne spunta fuori un altro. Stavolta nel mirino c’è il capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, al centro del filone siciliano dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. È probabile che di questo dossier si discuta venerdì alla Procura di Roma nell’incontro previsto fra il procuratore Pignatone e il collega di Potenza Luigi Gay quando verrà affrontato anche il dossier che riguarda il ministro. Questa tranche in particolare verrà trasferita a Roma, mentre si stanno ancora valutando eventuali altri passaggi. Contro di lui c’è un dossier anonimo che è stato consegnato alla procura di Potenza, alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Documenti, allegati, che contestano l’operato e le spese folli dell’alto ufficiale della Marina, in pole position, fino a poco prima dello scandalo, per diventare il nuovo capo della Protezione civile. Festini e spese pazze sono denunciate dalla gola profonda che accusa De Giorgi. Si legge ad esempio dei «festini da lui organizzati da comandante a bordo della nave Vittorio Veneto... con tanto di trasferimento a mezzo elicottero, di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da comandante della nave Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati a un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco». Grande amante del lusso, secondo il dossier, l’ammiraglio fece spendere 42 milioni di euro per rifare l’area delle cabine degli ufficiali della nave Bergamini, dopo una visita a Fincantieri. Nell’inchiesta di Potenza - il procuratore Luigi Gay, l’aggiunto Francesco Basentini, la pm Laura Triassi e Elisabetta Pugliese della Dna - l’ammiraglio è accusato di abuso d’ufficio. Il sospetto è che ci sia stato uno scambio di «interessi» tra lui e il fidanzato dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. L’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli - anche in questo caso indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra - avrebbe avuto il suo tornaconto grazie alla costruzione di un pontile per lo stoccaggio del petrolio. In cambio avrebbe speso la posizione della Guidi per uno stanziamento del ministero delle Finanze. Più in particolare, si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale. Nelle pagine del dossier anonimo (che come tale va preso con tutte le cautele), viene rappresentato un capo di stato maggiore che folleggiava a champagne, intimoriva i sottoposti, i quali solo per paura non ne denunciavano l’atteggiamento. Fango e menzogne contro l’ammiraglio? La sua carriera militare è senza macchia. Venerdì mattina, intanto, verrà interrogato in procura a Potenza in merito all’accusa di abuso d’ufficio. Inevitabilmente, anche se non c’entra con le indagini, l’attenzione ricadrà sul dossier e sulla sua immagine in sella al cavallo bianco. La gola profonda sostiene di essere un militare della Marina che preferisce restare anonimo per paura: «Non ho il coraggio di venire allo scoperto perché ho già abbondantemente pagato per non essermi piegato alle richieste del capo di Stato maggiore». De Giorgi, secondo quanto stigmatizzato nel dossier, volle spendere cifre da capogiro per il quadrato e le cabine degli ufficiali. Ben 42 milioni e 986.000 euro che l’ammiraglio «cercò di coprire con un auto investimento da parte di Fincantieri che invece non aveva alcuna intenzione di finanziare neanche parzialmente e quindi si spesero decine di milioni del contribuente». C’è poi un altro importante business nel campo dei mezzi navali per attività di spionaggio e che fa parte del rinnovamento della flotta navale per oltre 5 miliardi all’attenzione della procura di Potenza: «la produzione di unità sottili stealth ad altissima velocità, con scafi e strutture di carbonio trattato con l’applicazione delle nanotecnologie». De Giorgi ci teneva tantissimo, al punto che «propose con una lettera al capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli, chiedendogli l’approvazione a firmare una convenzione con la società As Aeronautical». È quanto riportato in una lettera del 30 novembre 2013, allegata al dossier. La gola profonda denuncia che «l’Aeronautical Service tecnicamente non esiste e non dispone di apparecchiature, né di maestranze all’altezza. Il suo responsabile, ingegner Bordignon, millanta coperture illustri come De Giorgi e Valter Pastena». Proprio quel Pastena, consulente dell’ex ministra Guidi, anche lui indagato a Potenza. Per quanto concerne invece i party con i soldi pubblici, l’anonimo racconta: «Famosi sono stati i festini organizzati dal comandante a bordo della Vittorio Veneto in navigazione, con tanto di trasferimento a mezzo elicottero di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da Comandante della Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati ad un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco appositamente noleggiato. Tutti sapevano e tutti, per paura delle sue vendette, tacevano circa l’uso improprio che l’ammiraglio, una volta diventato capo delle Forze Aeree della Marina, faceva degli elicotteri e soprattutto del velivolo Falcon 20 che in versione Vip lo trasportava continuamente come in un taxi, spesso in allegra compagnia da una parte all’altra dell’Italia, per l’esaudimento di interessi personali ma a spese del contribuente».

AMM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".

“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.

Nuove ombre su De Giorgi: ​"Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".

Scoppia il caso sulle caprette di De Giorgi. "Noi, zimbelli della Nato". Le caprette tosaerba all'Arsenale militare di Venezia. Animali che brucano per risparmiare sui giardinieri. Svelata un'altra stravaganza del militare ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina. E i colleghi francesi, inglesi e spagnoli emettono sarcastici belati se si trovano in missione con un marinaio italiano, scrive Fabio Tonacci il 13 aprile 2016 su “La Repubblica”. "I marinai fanno “beee...”. Grazie alle caprette tibetane di Giuseppe De Giorgi, i nostri militari della Marina sono diventati lo zimbello della Nato. Perché l'idea di sostituire i giardinieri di alcune basi con delle capre, magari ha pure una sua ragione ecologista. E magari fa risparmiare qualche spicciolo sulla manutenzione dei prati. Ma il punto è che da un anno a questa parte, i colleghi francesi, inglesi e spagnoli sfottono senza pietà, emettendo dei dolorosi e sarcastici belati appena si trovano in missione con un marinaio italiano. Ora, questa storia delle caprette inserite nell'organico dell'Arsenale militare di Venezia (tre capre alpine), nella stazione aeromobili di Marina di Grottaglie e in una base a Cagliari (una trentina in tutto, di specie tibetana), rientra nel ventaglio delle stravaganze a cui De Giorgi ha abituato i suoi sottoposti, ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina nel dicembre 2012. E paragonata alle accuse che gli vengono ora rivolte dai pubblici ministeri di Potenza (abuso di ufficio e traffico di influenze per il porto di Augusta) e da un esposto anonimo su presunte commesse milionarie poco chiare della Marina, qui siamo nel campo del colore. Ma fino a un certo punto. Perché le povere caprette sono diventate un problema serio. Sporcano, ovviamente. Hanno bisogno delle cure dei veterinari, ovviamente. E non rispettano le consegne del codice militare, ovviamente, per cui una di queste è rimasta incinta, altre vagano nelle basi in cerca di cibo. Costringendo i marinai a fare i pastori. Era stato il Fatto Quotidiano, ad ottobre scorso, a raccontare la loro presenza nelle caserme. Tutto era nato da una battuta, che battuta non era, pronunciata da De Giorgi durante alcune visite ufficiali alle basi. A chi gli faceva notare l'erba alta causata dalla mancanza di fondi per pagare i giardinieri, il capo di Stato Maggiore rispose: “Metteteci delle capre, che sono anche ecologiche”. Così un sottoufficiale dell'arsenale di Venezia preposto alla salute, con 22 anni di servizio alle spalle, racconta a Repubblica quello che successe dopo la visita di De Giorgi: “Ci siamo visti recapitare tre caprette nell'agosto scorso, forse donate da qualche allevatore veneto. C'erano una decina di marinai nell'Arsenale in quel momento, e alcuni di loro si sono dovuti occupare della gestione degli animali. Oltretutto, erano state vaccinate? Erano capi registrati all'ufficio sanitario? E c'era un ordine di servizio per cui ci dovevamo mettere a spalare il letame? Cosa fare nel caso di decesso, visto che ci potrebbero essere rischi di brucellosi? Nessuno mi dava risposte, e allora mi sono permesso di scrivere al mio superiore osservando che le capre starebbero molto meglio in libertà sulle Dolomiti. Risultato? Tre giorni di rigore e procedimento disciplinare. Ora sono in attesa di trasferimento”. Le caprette di De Giorgi sono intoccabili, come le vacche in India. “L'ultima volta che sono andato all'Arsenale per alcune pratiche amministrative – dice il sottoufficiale – ne ho viste due, diverse rispetto alle prime che abbiamo avuto”.

Nell'imbarazzo generale, la questione è arrivata anche in Parlamento, grazie all'interrogazione rivolta al ministero della Difesa dall'onorevole di Sel Donatella Duranti. E' questa è la risposta del sottosegretario Domenico Rossi: “E' vero, in alcune basi sono presenti capre di tipo alpino o misto tibetano oggetto di donazione, nonché alcuni daini prelevati dalla tenuta di San Rossore. In virtù delle loro abitudini alimentari, esse si nutrono di erba contribuendo in tal modo a tenere sotto controllo la crescita della vegetazione, anche in funzione antincendio. Sono ospitati in ampie, dedicate e circoscritte aree verdi all’interno delle quali sono garantite adeguate coperture e ricoveri per preservarli dalle intemperie, dalle piogge e dai rigori termici. Sono stati regolarmente vaccinati ed è stato richiesto il rilascio del codice di identificazione, come previsto dalla normativa vigente. Possono essere considerati, a buon titolo, delle vere e proprie «mascotte». Adesso basta solo spiegarlo ai marinai francesi. 

L'esposto. Il magistrato Petrucci: «Io, vittima di ordinaria ingiustizia». L’ex Procuratore della Repubblica si rivolge al Csm, scrive “Taranto Buona Sera” il 22 aprile 2016. “Una storia di ordinaria ingiustizia”: così l’ex Procuratore della Repubblica di Taranto, Aldo Petrucci, ha voluto intitolare l’esposto inviato al Consiglio Superiore della Magistratura, al Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, al Procuratore Generale della Corte d’Appello di Potenza e al Presidente della Corte d’Appello di Potenza. Otto pagine nelle quali sono condensati anni di indagini e processi a suo carico, un polverone giudiziario e mediatico che poi si è dissolto con l’assoluzione da ogni accusa. Resta però l’ombra di una giustizia che non ha funzionato, l’ombra di quella che lo stesso dottor Petrucci definisce «pesante e triste vicenda giudiziaria di cui sono stato vittima per la superficialità e l’insipienza professionale di alcuni magistrati del Distretto di Potenza». Il suo è un vero e proprio atto d’accusa. Ma quando e perché tutto ha avuto inizio? «Tutto ha avuto inizio - scrive il dottor Petrucci - nel 2006 quando ero Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, un ufficio impegnato a tempo pieno in indagini complesse in materia ambientale ed in materia di illecita gestione delle risorse finanziarie pubbliche, dall’Asl al Comune capoluogo». È in quel momento che accadde qualcosa di inaspettato: la Procura di Potenza avvia una indagine nei confronti del dottor Petrucci sulla base di interrogazioni parlamentari dell’onorevole Giuseppe Lezza fatte pervenire in copia per due volte a quell’Ufficio. La prima volta il procedimento viene archiviato. La seconda volta il procedimento viene assegnato al p.m. Ferdinando Esposito, «amico dell’on. Lezza» (scrive il dr. Petrucci nell’esposto) e poi finito alla ribalta delle cronache nazionali per le sue frequentazioni ad Arcore e per altre controverse vicende. «Sono stati tre anni di indagini condotte con metodi che non fanno onore né alla Magistratura italiana né all’Arma dei Carabinieri». Il dottor Petrucci parla di «testimoni intimiditi» e di «gravi violazioni di regole processuali». Nell’esposto dell’ex Procuratore sono riportate anche alcune confidenze, come quelle rese nel corso delle indagini da un carabiniere di Potenza a colleghi del Comando Provinciale di Taranto: “Sappiamo che il Procuratore sarà assolto, perché non c’è niente, ma egli deve andare a giudizio”. La storia via via si fa più pesante. Nel febbraio 2009 al dottor Petrucci viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini, ma dall’accusa di abuso di ufficio si passa a quella di corruzione in atti giudiziari. «Negli atti – racconta l’ex Procuratore di Taranto – non vi era uno straccio di prova delle accuse formulate, non un indizio, nulla. Contava solo aver determinato un ampio clamore mediatico diretto a fini extraprocessuali». Nel corso dell’udienza preliminare è il p.m. a chiederne il proscioglimento “non avendo trovato negli atti (testualmente) né un provvedimento né un comportamento che potessero sorreggere tale accusa”. Ancora più netta la sentenza del Gup, che liquida le accuse formulate a carico del dottor Petrucci come “congetture facilmente confutabili alla luce di semplici e banali constatazioni di ordine logico”. «In sintesi - spiega il dottor Petrucci - la Procura ha chiesto il mio rinvio a giudizio con grande e grave clamore mediatico, la Procura stessa ha chiesto il proscioglimento in udienza, essa non ha impugnato la sentenza che censurava radicalmente il suo operato, ma intanto quel Procuratore è stato promosso Procuratore della Repubblica di Napoli». Da qui gli interrogativi che oggi, a conclusione della sua vicenda, pone il dottor Aldo Petrucci: «Quali garanzie offre al cittadino una Magistratura siffatta? Chi paga per il danno d’immagine provocatomi ingiustamente? Chi risarcisce il costo delle risorse umane e finanziarie impegnate per i tre anni di indagini volte alla ricerca spasmodica di un fatto-reato? Perché una vicenda che doveva chiudersi con un decreto di archiviazione è stata portata fino all’udienza preliminare, pur sapendo che negli atti non vi era nulla che giustificasse le imputazioni formulate?». Tutto finito? No, perché a carico del dottor Petrucci restava l’accusa di peculato per l’uso improprio delle utenze telefoniche d’ufficio. «Una perizia disposta dal Tribunale ha accertato che il costo delle telefonate contestatemi è stato di 25 euro nell’arco dei 20 mesi esaminati, cioè poco più di un euro al mese. E per questi 25 euro è stato portato avanti un processo durato tre anni, con 15 udienze ed una perizia tecnica costata oltre mille euro». La vicenda è andata avanti fino a quando la Corte d’Appello di Potenza ha messo definitivamente la parola fine, scrivendo che la condotta contestata al dr. Petrucci “neppure astrattamente” (cioè neppure per ipotesi) poteva avere rilievo penale. Anche qui, altre domande: «Si può celebrare un processo per ben 15 udienze per un danno patrimoniale complessivo di 25 euro in 20 mesi? (pari al costo di un caffè al mese) È comparabile tale danno al costo del processo in termini economici e di sofferenza umana? È compatibile questo modo di amministrare giustizia con l’esigenza di rendere spediti i procedimenti?» «Ho fatto il Magistrato per 45 anni - conclude amaramente il dottor Petrucci - e la mia storia professionale è sempre stata assolutamente corretta, come è dimostrato dalle valutazioni altamente positive che ho sempre avuto, poi è arrivata l’aggressione morale dell’ex on.le Lezza, che si è fatto scudo dell’immunità parlamentare, sino alle scelte di qualche Ufficio giudiziario di Potenza che ha fatto scempio in mio danno delle regole poste a tutela della civiltà giuridica». Adesso l’ex Procuratore chiede che vengano assunte «le iniziative che l’ordinamento prevede per censurare le gravi ingiustizie che ho patito e per impedire che analoghi episodi di “malagiustizia” si verifichino ulteriormente».

Il giudice Giuseppe Tommasino fu accusato ingiustamente, scrive Lilly De Amicis il mercoledì 6 luglio 2011 sul Blog “Tutto il resto è noia”. Giornalista iscritta all'Ordine dal marzo 1986. Il 25 febbraio 2009 ripresa dal sito L'Occidentale, pubblicai questa notizia, da allora sono accadute molte cose di cui ne dà conto l'avv. Michele Imperio in un lungo articolo che pubblichiamo di seguito. C'è da dire che di questa vicenda se ne erano perse le tracce e grazie ad una lettera di un legale che mi invita a pubblicare quanto segue, torno su questo argomento e ognuno dei lettori ne trarrà le considerazioni che crede. Ecco il lungo articolo dello scorso 2 maggio e buona lettura. "In Puglia è in corso in questo momento un conflitto molto aspro fra partito trasversale degli onesti e sistema dalemiano di potere, cioè quel sistema che si è fatto conoscere attraverso le vicende dell’ex vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (P.D.), arrestato in carcere, dell'ex assessore alla Sanità ora senatore Alberto Tedesco (P.D.) in attesa di essere messo agli arresti domiciliari, se il Senato darà l'autorizzazione e dell’imprenditore faccendiere Giampaolo Tarantini (P.D. e U.D.C.), messo anche lui agli arresti domiciliari a vita, un sistema di intrecci fra affari-sanità-politica, che va dallo spaccio della droga al favoreggiamento della prostituzione, dalla gestione illegale degli appalti pubblici, alla gestione illegale delle nomine dei primari ospedalieri, il tutto con un ritorno economico e elettorale per alcuni esponenti politici del P.D. (corrente di D'Alema). Dico alcuni perché, per la verità, non tutto il P.D. pugliese è a favore di questo sistema di potere. Anzi ora che il sistema è emerso, una parte del partito, una volta succube, manifesta con più chiarezza la propria contrarietà. Si tratta di quella parte del Partito Democratico che guarda con simpatia e con speranza alle posizioni del sindaco di Bari Michele Emiliano. Il lettore di questo post può rendersi conto personalmente di questo conflitto leggendo la lettera che il sindaco Michele Emiliano ha scritto recentemente al segretario regionale del P.D. Sergio Blasi, a proposito del caso del consigliere regionale dello stesso P.D. Michele Mazzarano, chiamato in causa nello scandalo della Sanità pugliese da Giampaolo Tarantini e tuttavia restio a lasciare le proprie poltrone e i propri incarichi. Tra i Magistrati il partito di Emiliano registrerà adesioni? La storia che sto per raccontare dimostra come il sistema dalemiano di potere ha fatto breccia nei Magistrati pugliesi di M.D. perché esso prevede una scientifica tutela della loro eventuale compartecipazione al sistema stesso con l’innesto addirittura di un programma di protezione ogniqualvolta un altro magistrato o un avvocato o chiunque sia, attacchi le posizioni del sistema o comunque si sforzi di dare alla Giustizia un minimo di imparzialità, di serietà e di trasparenza. Premetto che il lettore meno informato deve sapere che in ogni Tribunale ci sono tre posti di comando: il Presidente del Tribunale, il Procuratore Capo della Repubblica e un po’ meno il presidente della sezione dei giudici delle indagini preliminari. Questo ultimo posto direttivo nell’anno di grazia 2005 nel Tribunale di Taranto era occupato dal Giudice Giuseppe Tommasino, un Magistrato originario della provincia (Manduria), persona molto per bene, discendente a sua volta di persone per bene, il padre uno stimato funzionario del ministero della P.I., la madre una professoressa, lui stesso un Magistrato benvoluto da tutti, apprezzato, gran lavoratore (sotto la sua guida l’Ufficio G.I.P. aveva azzerato tutto l’arretrato), estensore di sentenze in cui non si rinvengono nè assoluzioni facili nè impeti giustizialisti. Insomma un giudice giusto, che faceva processi giusti, precisazione questa che dovrebbe essere pleonastica, perché un processo non dovrebbe essere che un processo giusto. E che invece pleonastica non è, tant'è che lo stesso legislatore di Sinistra (proprio D’Alema!) si è dovuto affannare in passato per raffreddare i bollenti spiriti di alcuni Magistrati di M.D. e quindi garantire che il processo, se pure gestito da magistrati di M.D., sia comunque un processo giusto. Ora però il giudice Giuseppe Tommasino aveva un difetto: non aveva caratterizzazioni politiche. O meglio, non le aveva sul posto di lavoro dove per due volte aveva rinviato a giudizio il sindaco di Forza Italia del posto Rosanna Di Bello e anche esponenti politici di centro e di sinistra. Ma al di là e al di fuori del posto lavoro, Tommasino poteva considerarsi un moderato, era stato tanti anni prima candidato al Parlamento per il Patto Segni, una formazione moderata, suo fratello Paolo è attualmente sindaco per il PDL a Manduria, insomma si capisce che è un moderato. Il Tribunale di Taranto, come tanti uffici giudiziari, era, e forse è tuttora, avvilito dai problemi della fuga di notizie sui processi e, in particolare, dai problemi delle fughe di notizie sui mandati di cattura. Dal 1992 in poi, cioè dall’inizio dell’era giustizialista (prima se lo veniva a sapere il CSM erano dolori amari) più di qualche indagato, nell’intermezzo fra la richiesta del P.M. e la decisione del G.I.P. si vedeva arrivare questa telefonata: “Pronto? Ah! caro dottore! sono il maresciallo Tal dei Tali …………..scusi se la disturbo …sa…. ma volevo dirle che la Procura ha richiesto un mandato di cattura contro di lei ………… sa ……….per quella vicenda…………..se ne occupa il dottor Tizio o Caio …………….……….noi……se vuole….., dottore….., siamo a disposizione…………. ……………………… ………….” E dall’altra parte del filo: “ah, grazie, grazie maresciallo!………………si, si, incontriamoci!………….” Per tre volte Tommasino era venuto a conoscenza di questi fatti gravissimi, di questa fuga di notizia e per tre volte aveva sporto (ahimè;) regolare denuncia alla Procura della Repubblica, cosa che non aveva fatto di certo piacere a più di qualcuno. Perché queste denunce su queste fughe di notizie comportano varie conseguenze negative: prima di tutto il tentativo di “aggiustamento” del mandato di cattura fallisce o comunque viene disturbato. In secondo luogo la denuncia attiva un’istruttoria scomoda e imbarazzante. Perché il P.M. incaricato è costretto, per forza di cose, a sospettare di addetti ai lavori, di funzionari di polizia, di carabinieri, di militari della guardia di finanza e soprattutto di colleghi Magistrati. E quindi inevitabilmente l'indagine produce accuse, sospetti, veleni, fango su questi soggetti. Ora però – tutti pensano - per come funziona la Giustizia in Italia, che cosa può cambiare se qualche mandato di cattura viene "aggiustato"? Alla fin fine anche i Marescialli e i Magistrati devono campare! O no? ........Ma si, ma che si faccia i fatti suoi questo Tommasino! Ma che non rompa i c…………! .........Ma insomma!!!!!! Ma che cosa vuole!!!!! Tutto comunque fila liscio e senza danni per il giudice Tommasino, fino a quando, un giorno avviene che tra questi destinatari di mandati di cattura, messi preventivamente a conoscenza del provvedimento giudiziario, capita un certo Cosimo Tomaselli, un imprenditore di Fragagnano (quindi non di Manduria, come pure si è detto, che è il comune di residenza di Tommasino). Tomaselli è imparentato con un ex parlamentare del P.D., tale on.le Ugo Malagnino, uno che ha partecipato alla nota cena del ristorante "La Pignata" di Bari, una cena fatta di commensali che se un Magistrato li avesse arrestati tutti, sicuramente non avrebbe sbagliato. Tomaselli è quindi un “Dalema’s boy”, così li chiamano, ma - per carità! - non per questo (il lettore ci comprenda) aveva importanti commesse da alcuni Ospedali. Li aveva - ovviamente - per la sua professionalità. Il P.M. di Taranto A.C. ipotizza a carico di Tomaselli il solito reato di sanitopoli (vendeva, secondo l'originaria accusa, attrezzature sanitarie usate spacciandole per nuove, poi in Corte di Appello è stato assolto) e chiede al g.i.p. Michele Ancona (M.D.) l’emissione di un mandato di cattura nella forma più restrittiva, più severa e più invasiva che è il carcere. Quindi ricapitoliamo: Tommasino e Tomaselli non sono della stessa città, non sono della stessa area politica, non sono amici, nemmeno si conoscono. Eppure ad un certo punto Tommasino diviene, per la accusa rappresentata da magistrati di M.D., autore della soffiata. Le cose vanno così: Una mattina si presenta nell’ufficio del giudice Tommasino l’avvocato E.A., il difensore di Cosimo Tomaselli e chiede che lui, Magistrato presidente dei G.I.P., fissi una riunione col g.i.p. assegnatario della richiesta del mandato di cattura. Vuole che lo convinca a non emettere la misura detentiva a carico di Tomaselli, il quale è disperato e - naturalmente - innocente. Il giudice rimane basito e chiede: “ma come ha fatto Tomaselli a sapere in anticipo della richiesta di un mandato di cattura?” A questa domanda l’avvocato risponde: "la notizia gli è stata propalata da militari della Guardia di Finanza". Dunque un’altra fuga di notizie! Un altro clamoroso buco nella correttezza dell'azione giudiziaria! Tommasino vuole vederci chiaro, vuole accertarsi di come stiano realmente le cose. Lui che non è pratico di informatica e che è il Presidente dei G.I.P., quindi titolato per Legge a conoscere di tutte le richieste che pervengono all'Ufficio, chiede alla cancelliera di consultare il computer per accertarsi che ci sia effettivamente un procedimento e una richiesta di custodia cautelare a carico di Tomaselli. Dopo qualche giorno l’imprenditore Cosimo Tomaselli viene effettivamente arrestato però non più in carcere, bensì con le modalità degli arresti domiciliari. Anche questa volta la fuga di notizie – forse - ha parzialmente smorzato il progetto. Tommasino riferisce al Procuratore l’ennesima fuga di notizie di cui era venuto a conoscenza. Il Procuratore Capo della Repubblica apre un procedimento penale a carico della cancelliera del dott. Tommasino. E perchè il Procuratore Capo ha assunto questa iniziativa? Perché emerge dalle sue indagini che la cancelliera aveva effettuato gli accessi relativi al procedimento a carico di Tomaselli. Successivamente però la posizione della cancelliera viene archiviata perché Tommasino riferisce al Procuratore Capo di aver dato lui quella disposizione. Ma un altro G.I.P. pensa bene, allora, di rimettere alla valutazione della Procura della Repubblica di Potenza la posizione di Tommasino che, così, da accusatore diventa accusato! Assurdo! La vicenda assume col tempo contorni grotteschi: la pratica finisce nelle mani di un P.M. di M.D. di Potenza Cristina Correale (MD) e va soggetta allo stesso fenomeno della palla di neve che diventa valanga. Cristina Correale (M.D.) non solo continua a indagare il giudice Tommasino per la fuga di notizie, rimanendo insensibile a qualunque richiesta di approfondimento del Magistrato (il quale giunge persino ad indicare il nome e il cognome del maresciallo della G.d.F. che aveva informato Tomaselli), ma poiché alla attenzione di questo Magistrato era stata mandata anche una posizione del Procuratore Capo della Repubblica di Taranto A.P. (quello che aveva archiviato il processo a carico della cancelliera e che giustamente non aveva indagato Tommasino) pensa bene di collegare le due vicende. E quindi ecco il cervellotico teorema: Il Procuratore Capo non aveva indagato Tommasino (e perché lo avrebbe dovuto fare?) e Tommasino, a sua volta, lo avrebbe ricambiato, assolvendo il marito separato (un maresciallo di Marina) di una amica del Procuratore Capo e archiviando anche la posizione del sindaco di Martina, altro amico dello stesso Procuratore. Questo ultimo fatto però era avvenuto tre anni prima, sicchè Tommasino - secondo l'accusa - aveva poteri sovrannaturali che gli consentivano di prevedere, con tre anni di anticipo, che egli avrebbe avuto bisogno un giorno della pietà del Procuratore! Ma c’è di più! Il P.M. Cristina Correale dava per scontato che tra Tommasino e il Procuratore Capo A.P. c’erano buoni rapporti. Invece anche le pietre del palazzo sapevano che i rapporti fra i due, al di là delle necessarie interlocuzioni istituzionali, erano pessimi. Nessuno sapeva poi di questa relazione segreta del Procuratore Capo con la moglie separata di un maresciallo di Marina, per giunta imputato, perché - per ovvie ragioni che tutti possono immaginare - il Procuratore Capo la teneva gelosamente riservata. Ma che colpo di genio! Certo che occorre avere una fantasia fuori dal comune per ipotizzare accuse come queste! E quindi – ecco dove scatta il progetto di protezione - si muove una accusa infondata di corruzione giudiziaria al giudice Giuseppe Tommasino allo scopo di far allontanare per sempre dal Tribunale di Taranto questo Magistrato scomodo, non omologato, rompicoglioni, classificabile nell’area ostile del centro-destra, il quale - pensate un pò - con queste credenziali, si permetteva pure di fare denunce penali contro gli addetti del Palazzo !!!!!!!! Ma guarda tu !!!!!!!!!! Ricevuto l’avviso di garanzia e quindi messo per la prima volta a conoscenza delle accuse, Tommasino ovviamente va a verificare nel proprio computer la sentenza da lui emessa contro questo imputato a lui sconosciuto (il maresciallo di marina) e scopre che le sentenze a suo carico sono due, una effettivamente di proscioglimento, ma l’altra di condanna (!!!!) a distanza di due mesi l’una dall’altra. E quanto alla archiviazione del sindaco di Martina Franca, a parte che era di tre anni prima, si sa benissimo nell’ambiente giudiziario che, se non vi è sollecitazione della parte lesa, le centinaia di richieste di archiviazione dei P.M. che provengono ai G.I.P. si trasformano, nel 99% dei casi, in provvedimenti di archiviazione. Naturalmente i media tarantini e persino quelli nazionali, ai quali una sapiente regia comunica la notizia, impostano i loro articoli in modo completamente fuorviante e distorto gettando sul giudice Tommasino tonnellate di fango! Toghe sporche sullo Jonio!!!! titola a caratteri cubitali e a cinque colonne il quotidiano "Repubblica", l'immancabile in certe occasioni. A questo punto Tommasino pensa bene di trasformarsi da g.i.p. in detective e fa lui le vere indagini che nessuno ha voluto fare e come si sarebbero invece fatte nella Prima Repubblica. Contatta un dipendente dell’imprenditore Tomaselli e registra su un nastro la conversazione. Nel corso della conversazione il dipendente gli dice che sì, che Tomaselli effettivamente aveva saputo da militari della Guardia di Finanza di questo mandato di cattura, fa il nome e cognome del militare in questione, in un primo tempo si era preoccupato, ma poi - dopo - si era rasserenato perchè aveva trovato la strada giusta: la strada del fratello di un Magistrato, ma non un Magistrato asettico e di centro-destra come Tommasino, bensì un Magistrato di M.D. e per giunta protetto dagli alti livelli delle organizzazioni correntizie e associative della Magistratura. Pensate voi che queste prove offerte al giudice appulo-lucano Cristina Correale (M.D.) erano sufficienti per vedere almeno archiviare il caso del giudice Giuseppe Tommasino? Ma nemmeno per sogno! Anzi! Quelle ulteriori accuse erano una dimostrazione in più che Tommasino (il rompic.....) voleva infierire sugli addetti del palazzo e quindi una ragione altra per infierire ulteriormente su di lui !!!!!!!!!!!! Tommasino deve affrontare quindi l’udienza preliminare. Ma qui evidentemente - e per fortuna - l'influenza sui processi di M.D. cessa e quindi arriva finalmente la piena assoluzione. Assoluzione che vien data - attenzione! - su conforme richiesta del P.M. di udienza, un Magistrato serio, il quale sbianca in volto quando legge quel processo. Sui giornali e sui blog però non più titoli cubitali a cinque colonne ma solo due fredde righe di rettifica. Le accuse a carico del giudice Tommasino si sono dimostrate (sic!) completamente infondate, recita mestamente un blog della Rete. Ma c'è un Magistrato il quale è il vero responsabile della fuga di notizie. A lui però non è successo nulla perché lui si è dimostrato un soggetto disposto a partecipare a congiure e complotti, è iscritto alle corporazioni della Magistratura e per questo è un intoccabile, insomma è uno che potrebbe far parte, un domani, del “gioco grande”. Ricordate il "gioco grande" di Giovanni Falcone? Era quel gioco sporco, perverso e criminale che coinvolgeva alcuni uomini politici, alcuni funzionari dello Stato e soprattutto alcuni Magistrati (Francesco Di Maggio di M.D. tanto per non fare nomi, ma non solo lui). ..……..Speriamo che qualcuno non stia pensando di riattivarlo questo gioco grande….…………….il corvo è comparso di nuovo ............però non più a Palermo......ma a Bari .......contro un Magistrato che ha scoperchiato un certo sistema di potere, non più nascente ma nato e cresciuto............... Alla prossima".

«Io, magistrato ostaggio da 15 anni per aver denunciato pm e politici». La battaglia di Di Giorgio contro il sistema di potere in Puglia, scrive Cristina Bassi, Martedì 28/06/2016, su "Il Giornale". In quel di Taranto c'è una guerra che coinvolge politici, magistrati, forze dell'ordine. Nessun colpo è escluso. Dura da oltre 15 anni tra esposti anonimi, «corvi», intercettazioni più o meno lecite e registrazioni abusive, dossier avvelenati e testi pentiti. Oggi c'è un magistrato, il sostituto procuratore sospeso Matteo Di Giorgio, condannato a 15 anni in primo grado. Che sostiene il processo d'Appello e accusa: «I miei detrattori sono convinti di averla vinta, perché mi sono spinto a denunciare il pm di Potenza che mi ha perseguito e i carabinieri responsabili delle indagini. La condanna è arrivata dopo che 67 persone hanno testimoniato a mio favore, a mio sfavore solo le controparti. Un vero paradosso giudiziario rispetto al quale ho chiamato in causa la Procura di Catanzaro, competente per le indagini sull'operato dei magistrati potentini, e il ministero della Giustizia». Un passo indietro. Nel 2000 Di Giorgio mette nel mirino l'amministrazione di Castellaneta, nel Tarantino, guidata dal sindaco e allora senatore Ds Rocco Vito Loreto. L'indagine che coinvolge pezzi grossi del Comune e lo stesso primo cittadino, avrebbe danneggiato politicamente Loreto. «Per vendetta - spiega Di Giorgio - Loreto fa partire, direttamente o tramite amici, una serie di esposti contro di me». Le vicende sono diverse: tra le altre, presunti lavori di ristrutturazione non pagati nella villa della moglie del magistrato. Presunte pressioni su un consigliere comunale con la minaccia di arrestargli i familiari. E quelle sul proprietario di un villaggio turistico perché non facesse più lavorare un «sodale» di Loreto. «Preciso - dice Di Giorgio - che tutte le presunte parti lese mi hanno scagionato». In un caso John Woodcock decide di non procedere contro il collega di Taranto, ma indaga per calunnia Loreto che finisce ai domiciliari e non viene rieletto né nella sua cittadina né a Roma. In altri casi, siamo nel 2009, il pm Laura Triassi procede e dispone molte intercettazioni, «anche in base a un esposto anonimo - sottolinea Di Giorgio -, in violazione di legge». Il risultato è appunto, nel 2014, la pesante condanna al pm sospeso per concussione e corruzione. «Ho denunciato - continua il magistrato - una inaccettabile collusione tra organi inquirenti, carabinieri e testimoni dell'accusa. Dimostrata tra l'altro da gravi violazioni del segreto d'ufficio sulle indagini che mi riguardano». Nel frattempo Loreto viene condannato in primo grado per una presunta aggressione a Di Giorgio e al figlio, che era studente nel liceo di cui era preside. «Diversi testimoni - aggiunge la toga sospesa - hanno segnalato di aver ricevuto pressioni per accusarmi. Sono in possesso di registrazioni, fatte per suo conto da un coimputato, che lo dimostrano. Un teste chiave, Vito Pontassuglia, ha raccontato di aver ricevuto minacce dai carabinieri e dal pm perché dichiarasse il falso». Poi un amico di Loreto, Vito Putignano, si sarebbe ribellato al «sistema». «Mi ha contattato - spiega Di Giorgio - dicendo di aver custodito esposti anonimi contro di me scritti dall'ex senatore, di averne depositati altri scritti sempre da Loreto e da lui stesso solo firmati e di essere stato tranquillizzato sul processo perché i magistrati erano dalla loro parte. La cricca è persino riuscita a far dichiarare inattendibili un procuratore capo e un aggiunto che hanno testimoniato a mio favore».

L’altra campana.

«Il Pd mi ha scaricato nel tritacarne giustizia Non difendo più i pm», scrive Gian Marco Chiocci, Venerdì 05/04/2013, su "Il Giornale". Un comunista d'altri tempi, l'ex senatore Rocco Loreto. Da re delle preferenze bulgare in quel di Taranto a prima vittima vip del pm Henry John Woodcock. Oggi che si ritrova al centro di una vicenda giudiziaria allucinante, il preside eletto tre volte a Palazzo Madama maledice i tempi in cui parlava di un misero uno per cento di mele marce in magistratura.

«Posso tranquillamente affermare che la percentuale è molto più alta, anche se la stragrande maggioranza dei giudici è composta da persone perbene. Rispetto a quei tempi antichi, quando difendevo le toghe senza se e senza ma, dico che la politica, e soprattutto il partito dei Ds, oggi Pd, deve scrollarsi di dosso la subalternità ai pm. So di cosa parlo. Quello che certi magistrati hanno combinato sulla mia pelle ha dell'incredibile».

Quando cominciano i suoi guai?

«La mattina del 4 giugno del 2001, dopo tre legislature in Parlamento, non essendo stato rieletto vengo sbattuto in galera su richiesta dell'allora carneade pm potentino Woodcock. Ebbene sì, sono stato il suo primo arrestato eccellente, il primo di una lunghissima serie di vip indagati o trascinati nelle sue inchieste. Le manette scattano per calunnia e violenza privata nei confronti di un suo collega magistrato della procura di Taranto. E qui occorre fare un passo indietro, e andare all'allora ministro della Giustizia, Piero Fassino».

Prego.

«L'8 settembre (in tutti i sensi) del 2000 porto un dossier di 130 pagine al ministro Fassino su alcune situazioni gravissime riscontrate nella procura di Taranto, lo consegno all'allora capo della sua segreteria particolare Morri. La consegna seguiva un'esplicita richiesta a mettere per iscritto quanto avevo esposto loro a voce, e l'obiettivo era quello di inviare quanto prima gli ispettori. La notizia del dossier circola presto, e quattro giorni dopo, casualmente, il pm che avevo preso di mira nel report, arresta il mio vicesindaco, il capo dell'ufficio tecnico, il segretario comunale e un ex assessore, in un'indagine sull'amministrazione che guidavo a Castellaneta. Passarono le settimane e dal ministero non filtravano notizie, così parlai con Loris D'Ambrosio, allora consigliere giuridico del ministro, che a malincuore mi disse: Senatore, ho letto tutto. È una cosa molto grave ma col ministro abbiamo convenuto che non è il caso di mandare gli ispettori perché potrebbe sembrare un soccorso rosso. Ribattei stizzito: Non capisco ma mi adeguo. Però in quel dossier ho denunciato reati specifici.... Al che D'Ambrosio mi disse che lo avrebbe mandato al Csm, al pg della Cassazione, e a Potenza, competente a indagare sui giudici di Taranto».

A Potenza, vuol dire Woodcock?

«Esatto. Col tempo verrò a sapere che Woodcock aveva aperto ben tre procedimenti su questo pm tarantino che stando alle mie accuse, tra l'altro, non si era fatto pagare o si era fatto sottopagare, in forte ritardo, alcuni lavori nella sua villa in campagna da un imprenditore. Feci una memoria integrativa e riassuntiva alla quale allegai anche tre registrazioni audio-video dove l'imprenditore mi raccontava com'erano andate le cose, i lavori da 60 milioni non pagati, eccetera. A un certo punto Woodcock convoca contestualmente l'imprenditore e un poliziotto stretto collaboratore del pm da me accusato, che arrivano insieme a Potenza. Nell'interrogatorio l'imprenditore fa retromarcia, corregge, precisa, dice che qualche soldo l'ha preso ma poca roba perché la colpa era sua che aveva abbandonato i lavori. Woodcock allora gli mostra un video, poi gli altri due, gli dà tempo di riflettere, l'interrogatorio viene sospeso, e quando riprende, riferisce che c'era accordo nella videoregistrazione sostenendo che in un'altra stanza si mettevamo d'accordo e in quella con le telecamere recitavano. Giura che gli incontri erano stati tre (come le tre cassette allegate dal senatore), e che sempre s'era svolto quel teatrino. Non sapeva, il tapino, che di registrazioni ne avevo fatte otto, e che dall'integrale dei filmati (che avevo tagliato per non coinvolgere persone di passaggio) risultava che eravamo rimasti sempre a tu per in una sola stanza. Bene. Di fronte a una prova del genere, il processo si doveva chiudere lì. E invece sono stato rinviato a giudizio, e ho pure rinunciato alla prescrizione perché voglio giustizia piena: ma il bello deve ancora arrivare».

Che altro c'è?

«Quando scopre di esser stato registrato a sua insaputa, l'imprenditore condannato per estorsione in un'altra vicenda, mi minaccia. E così si apre un nuovo procedimento su mia querela, che finisce sempre a Woodcock che chiede e ottiene la condanna dello stesso imprenditore a cui aveva creduto quando mi ha arrestato, con la motivazione che lui, l'imprenditore, aveva accettato di essere videoregistrato con l'accordo, però, che mai avrei potuto utilizzare i video. Una follia. Non solo. Lo steso Woodcock sarà il pm che indagherà sul pm che io avevo attaccato in quel famoso dossier. Benevolmente, col senno di poi, posso dire che se avesse tenuto a bada la sua voglia di arrestare il primo vip per concentrarsi di più sul collega che oggi è sotto processo a Taranto, sarebbe stato meglio per tutti».

Il processo al suo nemico pm a che punto è?

«Se prima procedeva spedito al ritmo di una udienza a settimana, avendo sentito 26 testimoni e acquisiti 15 verbali, adesso con due giudici trasferiti ad altra sede rischia di ricominciare daccapo con un altissimo rischio di prescrizione. Ed è una vergogna perché dal processo sono emerse cose pazzesche in quella procura, intercettazioni agghiaccianti. Ma qui la stampa è narcotizzata, nessuno dà conto di quanto accade in aula».

La morale di questa storia?

«Tornassi indietro rifarei tutto, ogni battaglia da sindaco e ogni battaglia da parlamentare, a cominciare da quella sull'autonomia dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza che mi portò a scontrarmi nientemeno con Giorgio Napolitano, fermamente contrario all'idea che carabinieri e finanzieri dovessero avere un capo proveniente dal loro interno. Certa magistratura mi ha distrutto la vita, ma non mollo. La politica deve avere uno scatto d'orgoglio, e il partito a cui appartenevo, che mi ha subito mollato e a cui non sono più iscritto proprio per questa sua politica prona sui giudici, deve capire che bisogna guardare alla realtà delle cose, e lottare tutti insieme, da destra a sinistra, affinché le mele marce tornino a essere quell'un per cento di tanti anni fa».

Alla fine si è tutti vittime di questa giustizia. A sinistra, quanto tocca a loro fanno reprimenda e pentimento.

Penati: «Lo strapotere dei pm? Colpa della sinistra». Parla l'ex leader del Pd lombardo, scrive Errico Novi il 25 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Vasco Errani suo malgrado è già un simbolo: personifica il Pd che ha perso la sintonia con le Procure. L'ex governatore dell'Emilia, assolto definitivamente dopo 7 anni, non rappresenta un caso isolato. Rispetto alla sua vicenda giudiziaria, quella dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati si distingue solo perché l'assoluzione, nel caso di quest'ultimo, non è ancora definitiva. I pm dell'inchiesta sul presunto "sistema Sesto" non si sono rassegnati e hanno fatto appello.

Onorevole Penati, qualcosa è cambiato per sempre, tra il Pd e i pm?

«Non vedo cambi di passo, a dire la verità. Bisognerebbe mettere mano a una riforma complessiva del sistema giudiziario, ma non mi pare in vista. Le inchieste su alcune personalità politiche si sono risolte in assoluzioni, questo dovrebbe porre il tema del rapporto tra politica e Procure».

Tra le personalità in questione c'è anche lei.

«Non è un fatto personale, il problema è complessivo e va risolto innanzitutto con il superamento di una distorsione: quella che induce a confondere i pm con i giudici, la magistratura inquirente con la magistratura giudicante. Le indagini dei pubblici ministeri vengono prese per sentenze inappellabili: sono solo ipotesi che vanno provate nel processo».

Chi è che fa confusione?

«Tutti, anche la sinistra. Se non si è ancora trovato l'equilibrio tra la politica e le magistratura la maggiore responsabilità è della sinistra».

Spieghi perché.

«Perché non poteva essere certo Berlusconi a riformare il sistema, lui che era un super indagato e per questo il meno credibile di tutti. La condizione di Berlusconi non può però nascondere il fatto che il sistema vada riformato».

Dove si deve intervenire?

«Su tempi delle indagini e del processo, responsabilità dei magistrati, separazione delle carriere. Una riforma di questo tipo richiede una condizione precisa: deve essere chiaro che chi spera di lucrare sulle vicende giudiziarie altrui è solo un illuso. A turno tocca a tutti».

Anche ai cinquestelle?

«Anche a loro. E intanto la sinistra dovrebbe aver avuto sufficienti lezioni per aprire gli occhi. I Ds sembrava fossero i soli eredi legittimi del sistema crollato con la fine della Prima Repubblica, poi si è visto che le inchieste hanno riguardato tutto lo spettro delle forze in campo».

Lei dice: la giustizia deve avere tempi più rapidi.

«Pensi a Errani: la sua vicenda è iniziata del 2009, è finita nel 2016. La mia parte nel 2010, sono passati 6 anni e abbiamo fatto solo il primo grado».

I pm hanno impugnato la sua assoluzione?

«Certo. Nonostante la sentenza che mi ha riconosciuto innocente contenga un duro attacco al modo in cui sono state condotte le indagini. Nonostante quel giudizio severo, uno dei pm che hanno sostenuto l'accusa contro di me, Walter Macchi, è stato appena promosso dal Csm».

Procuratore della Repubblica di Bergamo.

«Tra i temi di una riforma dovrebbe esserci anche il criterio di valutazione delle performances dei giudici. Criterio che potrebbe essere più scientifico. Perché possiamo conoscere in tempo reale le statistiche sulla prestazione di un calciatore e non è possibile raccogliere con tutta calma quelle relative al lavoro dei magistrati?»

Di recente il guardasigilli Orlando ha ipotizzato una riforma del Csm che limiti le correnti: dal Csm è arrivato un parere che fa a pezzi la proposta.

«La politica è debole e c'è il dilagare incontrollato di uno strapotere giudiziario: ma io non credo che la questione si possa risolvere con l'azione di un governo risoluto: ci vuole un patto più largo che coinvolga tutte le forze politiche. Si deve consentire e favorire l'azione tempestiva dei magistrati contro la corruzione, ma la politica non deve restare prigioniera. Mettono in mezzo la Raggi per una consulenza da 5mila euro all'Asl: cos'altro ci vuole per aprire gli occhi?»

I magistrati fanno fronte comune, i partiti no.

«E con la magistratura diventano normali prassi inconcepibili: penso al fatto che per nominare un magistrato della competenza indiscutibile come Francesco Greco alla Procura di Milano, ci sia voluto un accordo tra le correnti. Ma scherziamo?»

Lei davvero esclude di tornare alla politica attiva?

«Due giorni fa, per la prima volta dopo tanto tempo, ho partecipato a un dibattito pubblico a Milano, con i radicali. Se ci saranno delle proposte le valuterò ma le lancette non si spostano indietro. Un ritorno a ruoli come quelli avuti in passato non sta nei miei progetti. E poi in questo momento sono politicamente un homeless».

Che intende?

«Il Pd mi ha espulso nel 2011, dopo che sono stato assolto nessuno si è preso il disturbo di chiamarmi e dire senti, ti andrebbe di rientrare? '. Non lo dico perché sicuramente sarei tornato a far politica ma perché una telefonata mi avrebbe fatto piacere, non posso negarlo».

Se resta fuori riconosce un potere enorme ai pm.

«Io ho subito una cura che poteva uccidere un cavallo, è già tanto che sono ancora in piedi».

 “L'incredibile e strana persecuzione di due Magistrati pugliesi: Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis, scrive ancora Michele Imperio su "Ok Notizie Virgilio" il 9 luglio 2011. Nove mesi fa avevamo postato la notizia dell’arresto quasi contemporaneo di due magistrati pugliesi Giuseppe De Benedictis e Matteo Di Giorgio, entrambi classificabili come Magistrati dell’area di centro destra, tendenza beninteso manifestata al di fuori dell'esercizio delle funzioni nell'ambito delle quali i due magistrati erano assolutamente irreprensibili. Giuseppe De Benedictis aveva addirittura concesso l’arresto dell’on.le Raffaele Fitto (PDL). E dato il clamore di certa stampa avevamo lanciato l’allarme che poteva trattarsi di un odioso piano dei giudici di Magistratura Democratica, i quali stavano cominciando ad avviare una sorta di pulizia etnica oltre che di uomini politici anche di Magistrati di altra estrazione politica, utilizzando anche contro costoro (i colleghi Magistrati) lo strumento della incriminazione penale e della carcerazione preventiva. In questa perversa ottica si collocavano – secondo noi - le due quasi contemporanee carcerazioni dei magistrati pugliesi Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis arrestati a distanza di soli quattordici giorni l’uno dall’altro, un evento che non si era mai verificato in tutta la storia della Puglia. Anzi in passato il Magistrato veniva rispettato in quanto tale. I panni sporchi, se c'erano, si lavavano - come si dice - in famiglia, onde non generare disdoro per le Istituzioni. Ora invece anche i Magistrati, classificabili come vicini ad ambienti politici di centro-destra, possono essere destinatari di questa iniziativa plateale e clamorosa che è l'incriminazione penale e il mandato di cattura che - lo ricordo - non è "pane e fichi" ma è una misura particolarmente umiliante e estremamente invasiva che bisogna adottare - stando alla legge - solo in presenza di situazioni di particolare gravità. Il dott. Matteo Di Giorgio già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, insignito per meriti acquisiti sul campo dell’incarico di delegato della Procura distrettuale antimafia di Lecce presso il Tribunale di Taranto, è stato all'improvviso arrestato l’11 novembre 2010 con una serie di accuse per fatti vetusti, risalenti alcuni addirittura al 2001, alcuni dei quali già prima facie di scarsissima o nulla rilevanza penale (per esempio far mantenere aperto un bar dalla Amministrazione Comunale di Castellaneta anche se non era in regola con le licenze). Lo stesso mandato di cattura parlava di concussione ma escludeva in modo assoluto che il Dott. Matteo Di Giorgio avesse mai preteso denaro per se o per altri soggetti per queste operazioni ipotizzandosi a suo carico soltanto la volontà di perseguire "mire e utilità politiche". Infatti con riferimento alle elezioni amministrative del 2008 (e questa è la sua vera colpa) egli aveva tentato, senza riuscirci, di candidarsi presidente della Provincia di Taranto senza coordinarsi con la Massoneria e con le alte sfere della magistratura associata che, evidentemente, nei Tribunali di Potenza e Taranto godono di spazi particolari. Vedi per esempio caso Cannizzaro-Genovesi-Restivo-Claps. Ora anche i profani sanno che perchè si configuri invece il reato di concussione occorre che l’attività estorsiva del pubblico ufficiale sia finalizzata a conseguire denaro o altra utilità (ovviamente simile al denaro). Ed è molto discutibile allo stato attuale della giurisprudenza che tra queste "altre utilità" rientrino le “utilità politiche” perché allora bisognerebbe incriminare del reato di concussione almeno il 90% della classe politica di destra di centro e di sinistra. Il mandato di cattura a carico del dott. Matteo Di Giorgio già per questi motivi appariva quindi anche al profano un mandato di cattura esagerato dato che il Magistrato può disporre - per legge - la cattura di un individuo solo se è certo che il fatto determinerà una condanna a una pena detentiva che superi il limite della sospensione condizionale della pena (anni due di reclusione). Peraltro il Procuratore Capo della Repubblica di Potenza Giovanni Colangelo, insediatosi però a Potenza quando già l'indagine era stata avviata, quel mandato di cattura non lo ha voluto firmare. Evidentemente non era d'accordo. Peraltro "voci" riferiscono che a Potenza non ci vuole stare più. Vorrebbe trasferirsi a Napoli. Torno ora a parlare di questa vicenda perché proprio qualche giorno fa la Corte di Cassazione ha annullato ben due dei quattro capi di accusa mossi al dott. Matteo Di Giorgio e precisamente: 

1. aver indotto la prima vittima tal Giuseppe Di Fonzo a non denunciare il suo presunto strozzino, parente del Magistrato, promettendogli il suo interessamento per l'iter di accesso al fondo antiusura; 

2. aver indotto la seconda vittima tal Giovanni Coccioli a ritrattare le accuse a lui stesso mosse dal Coccioli nell'ambito di un'annosa diatriba con un senatore del posto Rocco Loreto, facendogli ottenere in cambio la gestione di un bar abusivo allo stadio di Castellaneta. 

Il primo capo di accusa è stato annullato senza rinvio (cioè cancellato completamente) l'altro è stato annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Potenza per nuovo esame. Ora è raro che la Cassazione annulli i capi di accusa di un mandato di cattura senza rinvio. Se lo fa è perchè evidentemente si tratta proprio di una castroneria, nella specie confermata (ahimè;) dal Tribunale del riesame di Potenza. 

Annullati questi due capi di accusa rimangono a carico del Magistrato Matteo Di Giorgio altre due imputazione: 

1. aver esercitato presunte pressioni sul proprietario di un villaggio turistico "Città del Catalano" per far revocare il servizio di vigilanza a tal Vito Pentassuglia (esponente, secondo l'accusa, dello schieramento politico avversario al suo quello di Sinistra) e poi aver fatto altre pressioni sempre sul titolare di quel villaggio turistico per farsi concedere due mesi di vacanza "quasi" gratuiti in due appartamenti del residence medesimo;

2. aver costretto alle dimissioni un consigliere comunale di Sinistra tal Domenico Trovisi dietro la minaccia di far arrestare due suoi familiari. 

Ora la Cassazione - come tutti sanno - non entra nel merito delle vicende processuali perchè si limita a valutare solo i profili di legittimità (ossia il rispetto della legge sostanziale e processuale da parte del Magistrato che ha emesso il provvedimento). Però appare strano che un Magistrato si esponga fino a quel punto solo per farsi "quasi" pagare (e perchè non per intero?) una vacanza in un villaggio turistico della sua stessa città. Questo può capitare a un impiegato di quart'ordine che non ha il denaro sufficiente per pagarsi la vacanza ma non a un Magistrato il quale è lautamente retribuito. Inoltre "voci" apparse anche sulla stampa (settimanale locale "Wemag";) riferiscono che gli episodi relativi alle dimissioni del consigliere comunale di Sinistra Domenico Trovisi non si sono svolte affatto come è stato raccontato nel mandato di cattura, ma si sono verificati con queste modalità: in quel periodo il Magistrato concittadino Matteo Di Giorgio si trovava ad esaminare per ragioni del suo ufficio alcune intercettazioni telefoniche dalle quali emergeva che due giovani familiari di Domenico Trovisi, persona molto in vista in città in quanto titolare di oleifici, discoteche ed altre importanti attività economiche, fossero responsabili di un grave reato. Per pietà e per senso di concittadinanza il giovane familiare non è stato arrestato dal Magistrato Matteo Di Giorgio e il Trovisi ha pensato bene - per decenza - di dimettersi spontaneamente da consigliere comunale. Però...... "voci"..... Mi chiedo: ma si può trattare un Magistrato come una pezza da piede per fatti di questo genere? Peraltro - come ho detto - tutti i capi di imputazione annullati o non annullati dalla Cassazione si riferiscono a vicende vecchie, datate nel tempo (intorno al 2001 circa) che ormai affondavano nelle polveri degli archivi della Procura della Repubblica di Potenza tanto era stato il tempo trascorso dalla loro archiviazione disposte queste archiviazioni da un valoroso Magistrato che allora era in forza alla Procura della Repubblica di Potenza, che si chiamava John Woodcock. Solo il trasferimento di questo Magistrato dalla Procura di Potenza a quella di Napoli ha consentito che quelle denunce fossero riprese e valorizzate. Per verificare queste denunce poi è stata messa in moto la macchina giudiziaria come per le grandi occasioni, riguardanti fatti gravissimi di criminalità organizzata, sono stati addirittura impiegati anche ex Carabinieri allontanati dall’Arma per ragioni disciplinari o penali e per ben due anni (pensate!) tutte le stanze del Tribunale di Taranto sono state disseminate di cimici per le intercettazioni ambientali!!!!!!!!!!! Al punto che personalmente una volta mi è capitato di essere invitato da un Magistrato a interloquire con lui nel bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, proprio per la presenza – risaputa - di queste invasive cimici. Inoltre è successo pure che molti Magistrati del Tribunale di Taranto e - praticamente quelli più valorosi - infastiditi da tante pressioni, hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso altre sedi. E’ il caso per esempio della dott.sa P.N., del dott. G.D., del dott. G.C. e di altri. Anzi addirittura il dott. G.C., benchè giovanissimo, ricopriva nel Tribunale di Taranto, sua provincia di residenza, il prestigioso ruolo di presidente del collegio penale. Ebbene egli ha preferito chiedere il trasferimento presso un altro Tribunale e autoretrocedersi a Pretore di piccoli paesi pur di sfuggire al clima giacobino e velenoso che, per via di queste intrusioni, si è creato nell'ambiente giudiziario tarantino. Mi chiedo: ma data l’inezia delle accuse e la mole delle forze messe in campo non sarà per caso che l'inchiesta contro il Magistrato Matteo Di Giorgio sia stata solo un pretesto e che invece da Potenza e forse da più in là qualcuno voleva inquisire tutti i Magistrati del Tribunale di Taranto per tentare una sorte di pulizia etnica a sfondo politico? Capisco che questa è un'ipotesi suggestiva ma l'arresto altrettanto plateale e contemporaneo del dott. Giuseppe De Benedictis di Bari a soli quattordici giorni di distanza e anche questo - come vedremo - carico di simbologia, è opera - formalmente - di un'altra Procura esterna, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. In quel periodo si vociferava di intrusioni del dott. Matteo Di Giorgio nella vicenda dei parchi eolici, un'inchiesta che partiva da Roma e precisamente dal P.M. dott. Giancarlo Capaldo, fratello di quel Pellegrino Capaldo, grande amico di Nicola Mancino, il noto e diabolico stratega del 1992. Questa inchiesta sui parchi eolici doveva fare strage di uomini politici e di Magistrati dell'area meridionale e poi invece si è rivelata un flop, un'autentica bolla di sapone. Ma ci ha fatto capire che la testa del drago di questa e di altre inchieste non sta a Taranto. E - forse - nemmeno a Potenza. Sta a Roma. Ed è - guarda caso! - la stessa testa pensante che ha gestito lo scandaloso processo a carico di Raniero Busco per la morte avvenuta venti anni fa di Simonetta Cesaroni (la compiuterista asseritamente assassinata negli Uffici di copertura del Sisde dal fidanzato impazzito Raniero Busco). .......Bha.......a pensar male - dicono - si fa peccato. Però qualche volta si coglie il giusto!............”

Altrettanto non si può dire della Procura di Taranto che ha visto un suo magistrato Matteo Di Giorgio arrestato a seguito di un’inchiesta coordinata dal pm di Potenza, Laura Triassi, e condannato in 1° grado dal Tribunale di Potenza a 15 anni per concussione e corruzione in atti giudiziari. Ma non è tutto. Come pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua del magistrato dai pubblici uffici, motivo per cui è stato attualmente sospeso dalle funzioni dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Sentenza processo al pm Di Giorgio, i fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino, scrive “Il Corriere del Giorno" il 28 ottobre 2015. La sentenza “integrale” del processo che ha condannato il pm Matteo Di Giorgio e per cui il Tribunale di Potenza ordinò ai sensi dell’art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti di Argentino e Petrucci (ex procuratore capo) per il reato di falsa testimonianza. Dalle motivazioni della sentenza del processo di primo grado a carico dell’ex pm Matteo Di Giorgio escono con le ossa rotte insieme al principale imputato (condannato a 15 anni di reclusione) anche le istituzioni tarantine, i massimi esponenti del passato e attuali della Procura di Taranto, nella fattispecie l’ex procuratore capo Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto Pietro Argentino, rappresentanti delle Forze dell’ordine, agenti della Digos, il vicequestore vicario in servizio fino a qualche anno fa, Michelangelo Giusti, un sostituto commissario della sezione di pg della Polizia di Stato  della Procura e numerosi Carabinieri in servizio nelle caserme di Castellaneta e Ginosa. I due magistrati, poliziotti e militari dell’Arma dei Carabinieri, sono fra i 21 testimoni esaminati in dibattimento per i quali, con l’accusa di falsa testimonianza, il collegio del Tribunale di Potenza ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura lucana. Nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, principio sacrosanto sancito dalla Costituzione, ma quello delineato nelle 665 pagine delle motivazioni è uno scenario inquietante. Dal processo basato su intercettazioni e numerose testimonianze emerge quello che viene battezzato “sistema Di Giorgio”, descritto come “una struttura a piani sovrapposti, le cui fondamenta erano costituite dall’esercizio o dallo sviamento delle sue funzioni giudiziarie o della sua qualità”. Un sistema, stando alla sentenza, che faceva leva sulla “connivenza di altri funzionari pubblici che operavano nella stessa struttura o diversamente abusando, a proprio profitto, delle ‘maglie larghe’ di una organizzazione dell’ufficio che prevedeva pochi controlli e lasciava ampi margini di discrezionalità nella assegnazione e nella gestione dei procedimenti”. (vedi Allegato 1 – pag. 15) I fatti che riguardano il procuratore aggiunto Argentino sono emersi dalle testimonianze di due carabinieri. Il maresciallo Leonardo D’Artizio, all’epoca dei fatti in servizio alla compagnia di Castellaneta, ha riferito di un incontro tenuto di pomeriggio in Procura a Taranto con Argentino, sostituto procuratore, da lui e dal capitano Gabriele Stifanelli, comandante della compagnia (attualmente tenente colonnello). Argomento: presunti illeciti al comune di Castellaneta e pressioni di Di Giorgio sul consigliere comunale Domenico Trovisi per far cadere l’Amministrazione guidata dal sindaco e senatore Rocco Loreto. Tali circostanze gli erano state riferite da un assessore comunale, Pontassuglia, il quale, però, non aveva voluto mettere nero su bianco. Le sue dichiarazioni, comunque, erano state registrate dal maresciallo. D’Artizio ha raccontato che Stifanelli prese appuntamento con Argentino ma, quando spiegarono il motivo della loro presenza in Procura, il magistrato li condusse dal procuratore capo Aldo Petrucci. Quest’ultimo disse loro che non si poteva iniziare un’indagine così delicata con quegli elementi. La vicenda finì lì, “perché non c’è mai stata la possibilità di iniziare un’indagine”. Sarebbe stata insabbiata sul nascere, stando alle dichiarazioni rese non solo da D’Artizio. Il racconto trova conferma in quanto riferito dal comandante Stifanelli. Quest’ultimo, l’anno successivo, il 2004, in un altro contesto, l’indagine sul suicidio di un carabiniere in servizio a Castellaneta, riferì al pm Vincenzo Petrocelli dell’incontro avvenuto nel 2003 e di una relazione acquisita dallo stesso Argentino. “Era fine estate, ricordo. E poi non se ne fece niente”. Sono state le parole dell’ufficiale dell’Arma, uno dei migliori in fatto di produttività e di contrasto al crimine in provincia di Taranto da diversi anni a questa parte. Una deposizione definita “genuina” dal collegio in quanto il teste è estraneo al contesto del processo Di Giorgio e, al tempo stesso, “in stridente contrasto” con quelle di Argentino e Petrucci i quali, malgrado l’avvertimento del presidente del collegio su possibili responsabilità penali che potevano emergere dalle loro dichiarazioni, hanno negato di aver ricevuto il capitano Stifanelli e di aver acquisito la relazione. “Può ipotizzarsi un comune interesse a coprire, forse, la loro responsabilità, per avere omesso di formalizzare e inoltrare la denuncia di D’Artizio e Stifanelli. Verosimilmente perché essa coinvolgeva pesantemente il loro collega e amico Di Giorgio”. Altrimenti, sono sempre le motivazioni della sentenza, non si spiega la ragione per la quale, dopo tre anni, nel 2006, dopo aver appreso delle dichiarazioni rese da Stifanelli, Petrucci ha chiesto una relazione ad Argentino che l’ha fornita. “I dottori Petrucci e Argentino, a parere del collegio, hanno così tentato di creare una copertura reciproca, formalizzando a “futura memoria” le rispettive posizioni in un atto scritto che non riportava però fedelmente i fatti accaduti”. Un rimedio peggiore del male, stando alle conclusioni dei giudici. Durante la testimonianza, Argentino ha dichiarato di aver incontrato due marescialli dei quali non ricordava il nome ma non il capitano Stifanelli e ha sostenuto che non gli fu fatto il nome della fonte, non gli fu riferito del possibile coinvolgimento di Di Giorgio e non gli fu consegnata alcuna relazione. Anche sul contenuto dell’incontro la sua deposizione stride con quella dei testi ritenuti attendibili, D’Artizio e Stifanelli, è scritto nella sentenza, “non è credibile”. La relazione di servizio dei Carabinieri, si legge nella sentenza, avrebbe dovuto essere trasmessa a Potenza dal procuratore Petrucci ma ciò non avvenne mai. Anzi, il capitano Stifanelli rischiò di essere perseguito sotto il profilo disciplinare per una nota di censura inviata dalla Procura al comando provinciale. Riuscì ad evitare provvedimenti soltanto perché non più in servizio in Puglia. Quei fatti sono datati e le presunte responsabilità dei magistrati non sono più perseguibili per via della prescrizione. Quella stessa prescrizione prevista dal Codice, ed osteggiata dalla Magistratura. Nel frattempo, il processo a carico di Di Giorgio ed altri imputati è approdato in appello.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto. 
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.

Alla ricerca dell'Appia perduta: in Basilicata tra pale eoliche e nuovi Don Chisciotte. Li chiamano "Erection Manager" perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose, scrive Paolo Rumiz su “La Repubblica”. Don Chisciotte era niente. La Mancha nemmeno. La lotta vera con i mulini a vento la fai in Basilicata, Italia, tra l'Ofanto e Melfi. Comincia con una strada misteriosamente chiusa al traffico; la Statale 303, di nuovo lei, ma ancora più sfasciata, e degradata a Provinciale. Non ci passa più nessuno, come se il tratturo antico se la fosse rimangiata. E noi la risaliamo in un silenzio ingannatore, tra finocchietto e ginestre, attirati dalla Medusa. Nessuno di noi sa che questa sarà la tappa più dura del viaggio. Il grano è pettinato al contrario, perché dopo Borea è arrivato lo Scirocco con tafani nervosi. Ed è un corpo a corpo, contro la salita, contro il vento, persino contro le pecore, che scendono a slavina verso il fiume.

"Di dove siete?", chiede il giovane pastore che le segue stravaccato in macchina. Non ha mai visto nessuno passare a piedi di là. Gli italiani non camminano nella pancia del loro Paese. "Siamo del Nord".

La sorpresa si tramuta in sbalordimento. "E dove andate? ".

"A Brindisi".

Ride, si sbraccia per salutarci e passa oltre, strombazzando dietro al gregge lanciato verso l'abbeverata in una scia di caccole. Ma già dal fiume sale un'autocisterna piena d'acqua, con un altro giovanotto al volante. Musica rock dal cruscotto, cicca accesa e portiera aperta per ventilare le ascelle. Anche lui non ha mai visto nessuno a piedi da queste parti.

"Ditemi un po', ma che fate? Passeggiate? Con sti zainetti 'ncoppa?".

"Andiamo da Roma a Brindisi ".

"A piedi?".

Noi in coro: "Certamente".

E lui: "Ma chi vi paga?".

Noi: "Storia lunga. Ma lei piuttosto, che fa?".

"Bagno la strada per i mezzi pesanti che arrivano. Tra poco cominciano a lavorare quelli delle pale".

Alziamo gli occhi verso la collina. La traccia dell'Appia, già divorata dai campi di grano e dagli orti, muore contro un gigantesco parco eolico. Sopra di noi quattro colonne mozze di torri in costruzione, targate Alfa Wind, immense già prima di essere finite. Roba di ottanta metri, senza contare le pale. Ed è solo l'inizio. Le alture e i boschi dove Federico II di Svevia andava a caccia sono talmente scorticati dall'industria del vento che anche il gomitolo della nostra strada ci sfugge di mano. ... Goethe, Viaggio in Italia, 1786: i Romani "lavoravano per l'eternità. Avevano calcolato tutto, tranne la follia dei devastatori, a cui nulla poteva resistere". Ed ecco i primi mostri, peseranno come 5- 6 carri armati ciascuno. Lenti, inesorabili, indifferenti alla nostra presenza, passano sull'ex 303 dissestandola definitivamente. Azienda "Ruotolo", "Fratelli Runco" da Cosenza. Giganteschi anche gli autisti. Sembrano i padroni. E invece no, i capi sono altri: mercenari alieni dalle mani di pianisti, giovani tecnici stranieri che lasciano la fatica agli italiani. Passano ragazzi spagnoli, col sorriso vagamente canzonatorio, abbronzati, in T shirt nere, su furgoni bianchi o land-rover. Il nome della ditta, "Moncobra", sembra rubato a un film di Tarantino. Poi gli irlandesi. Li chiamano "Erection manager", altro nome dell'altro mondo, perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose. Poco oltre, un podere, con un contadino che suda attorno ai pomodori. Gli chiedo cosa pensa dei giganti intorno a lui, ma non risponde. Come se il mondo non lo riguardasse. Ma che fai, vorrei dirgli, non vedi che sei rimasti solo, che i vincenti sono loro? Non capisci che qui nessun politico verrà mai, e tantomeno a piedi, a vedere cosa sta succedendo quassù? Guarda cosa è accaduto a San Giorgio la Molara, sopra Benevento, diventata inaccessibile perché l'eolico gli ha devastato le strade. E guarda qui a due passi, in contrada San Nicola. Hanno espropriato terreni agricoli per fare una enorme centrale elettrica collegata alle pale, e l'hanno dichiarata "temporanea". Ma qui nulla è temporaneo. Qui si svende l'Italia. E ognuno sa che è "per sempre". Ancora torri immense. Di una è stato appena scavato il basamento, grande come mezzo stadio di calcio. Oltre, bulldozer sventrano altri campi da grano, e lo sterro lascia ai lati montagne di detriti che saranno spianati chissà quando. La morte della strada è certificata dai ruderi di una cantoniera: "Anas" c'era scritto, ma è rimasta solo la lettera "A", e tu ti chiedi perché in Italia non esiste il reato di incuria e abbandono del pubblico bene. Attorno, la dolcezza dei declivi, anziché consolarti, ti ara l'anima e ti fa schiumare di rabbia. Capisci di essere un vano ficcanaso, un moscerino impotente; se ne accorge anche l'ultimo degli operai. "Che fate?" ci chiedono da un cantiere. "Un film", rispondiamo. "E come si chiama?". "Appia antica". E loro giù a ridere. Dalla cima del colle, chiamato Torre della Cisterna, appare la Puglia sterminata a desertica. L'unica terra, forse, che le pale eoliche non riescono a schiacciare, ma paradossalmente sembrano mettere a misura. Sotto di noi, una superstrada e una ferrovia, con una traccia plausibile dell'Appia che passa sotto i piloni di entrambe. Ma è subito Far West, il corpo a corpo col filo spinato, poi con una recinzione abusiva, infine con un canneto, dal quale usciamo quasi nuotando, tenuti su dal fogliame, senza toccare il terreno, pieni di sete e graffiati da capo a piedi. Ma Riccardo, la nostra guida, ritrova il gomitolo e apre la strada, tranquillo. Sulla mappa Igm c'è scritto "strada provinciale di Leonessa", ma la strada è solo uno sterrato senza anima viva. Tracce di basolato sotto un dito di polvere. E noi avanti, tra i campi, fino a una valletta incantata piena di ginestre. Profumo da sballo. In cima, un ripetitore. E la vista magnifica sul castello di Melfi.

Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira. In nome di un finto progresso il paesaggio di un'intera regione è stato sfregiato da impianti mostruosi. Regalando solo povertà, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Altroché elicotteri che spargono petali! Nulla può dare più dolore, a chi ama Roma e la sua storia, della distruzione, sul nostro corpo, sulla nostra memoria, sulla nostra anima, del tempio di Baal Shamin. E il fumo che si alza dalle rovine, un fungo che richiama i più tragici simboli della guerra, fino all'assurda violenza della bomba atomica, in un richiamo doloroso tanto più dove non c'è nessun nemico, ma solo pietre di un mondo perduto, è un'immagine intollerabile che mai vorrei vedere. E, dietro quel fumo, le teste decapitate dei martiri. Gli attentati criminali a Ninive, a Nimrud, a Hatra, in un crescendo di violenza e di terrore, sono macabri annunci che minacciano di non avere fine. Qualcuno può consolarsi pensando che in Italia non potrebbe accadere. E invece accade, in un silenzio ancora più tombale dell'indifferenza per i morti e le rovine di Palmira, di chi si indigna per il carro funebre di Totò. L'Isis è a casa nostra e, per di più, con la presa in giro della tutela dei beni culturali, del territorio, del paesaggio, dell'ambiente. Ecco, negli anni Settanta l'ideologia pseudo marxista aveva innalzato la bandiera dell'ambientalismo, trasformando anche parole e concetti; e contrabbandando il paesaggio in territorio e le belle arti in beni culturali. Sono stato io, al ministero, a ripristinare la terminologia «belle arti» e «paesaggio». Ma era ormai troppo tardi. Orrori non a Palmira ma nel centro storico di Roma venivano imposti da sindaci e ministri, dopo preventiva distruzione del passato: penso alla teca di Richard Meier, all'Ara Pacis; penso allo sconvolgimento di Piazza San Cosimato; penso alla cancellazione di Bernini da Piazza Montecitorio. Tutto questo è accaduto con il consenso delle autorità. Fino allo sconvolgente allestimento su un trampolino da piscina del Marco Aurelio, sottratto alla piazza del Campidoglio. Ovunque sono cresciuti orrori: a Firenze il Palazzo di Giustizia, a Venezia il cubo di Santa Chiara. Oggi, mentre i colleghi dell'Isis distruggono indisturbati, indisturbati lavorano i costruttori di casa nostra. Ma non bastava sconvolgere il volto del territorio con edifici innominabili. Occorreva proprio intervenire capillarmente sul paesaggio. Ed ecco allora che, prima il Molise e la Puglia, e ora la Basilicata, sono state cancellate; nella prospettiva di Matera capitale europea della cultura, la strada per raggiungere quella città è stata puntellata di pale eoliche, con una accelerazione tipica di chi teme di perdere il vantaggio che norme della incivile Europa hanno concesso a speculatori e facilitatori. Superata Benevento, martoriata da rotatorie decorate con immagini di Padre Pio lanciato verso il cielo, si iniziano a vedere centinaia e centinaia di croci, in disordine, rarefatte o affollate. Sono pale che non girano, ferme, piantate su tutti i colli a perdita d'occhio. Da Grottaminarda a Flumeri, a Frigento, a Gesualdo, a Buonabitacolo, ad Accadia, a Sant'Agata, a Lacedonia, a Candela, a Palazzo San Gervasio, a Spinazzola, a Genzano di Lucania, ad Ascoli Satriano, a Canosa, a Troia, a Foggia. Via via, come alberi di una foresta meccanica, con l'ironia di chiamarne la insensata proliferazione senza ordine né logica, che non sia la cupidigia, di permesso in permesso, di amministrazioni comunali, regionali, intrinsecamente mafiose, in una stabile trattativa con uno Stato criminale, parchi eolici. Ed è inutile richiamare quello Stato e quell'Antimafia, che si agitano per la colonna sonora del Padrino o per un comico manifesto, al rispetto dell'art. 9 della Costituzione, scritto per garantire un mondo perduto, all'opposto di quello che vediamo. E quando vandali su vandali bruciano i boschi, eccoli non trovare più alberi, ma incendiare pale, il cui fusto è nero. E nero resterà fino a quando una mano pietosa tenterà di svellere quei giganteschi chiodi che hanno crocifisso i colli, stuprandoli e riempiendoli di cemento armato fino al midollo. Intorno la vegetazione è scomparsa, gli uccelli volano altrove, ma i nostri occhi contemplano l'orrore dove fino a qualche anno fa c'era la curva di dolci colline. E qualcuno avrà detto: «Ma non sono luoghi importanti, non ci sono monumenti significativi» (e non è vero). Una ragione in più per lasciare integro un paesaggio e conservargli la bellezza del suo essere remoto, lontano, una meraviglia da scoprire. Nessun paesaggio è meno importante di un altro, in Italia. E sembra assai singolare che le stesse autorità che hanno assistito imprudenti e complici, magari magnificando l'energia pulita, a danno di una purissima bellezza, siano oggi, con le stesse espressioni, a celebrare la romantica difesa di paesi abbandonati, di borghi dimenticati, in alcune giornate disperatamente dedicate alla memoria di un uomo giusto che oggi sarebbe furibondo e che non aveva previsto, tra i vari aspetti positivi un riscatto del meridione e della Basilicata attraverso la cultura. Mi riferisco a Carlo Levi e al Festival della Luna e i Calanchi ad Aliano, dove Levi fu al confino. L'organizzatore Franco Arminio pensa agli antichi forni, alle tradizioni, ai canti, alla lingua, in un riscatto di ciò che il progresso ha cancellato nel disprezzo per la povertà. Ed è bellissimo sulla carta. Ma le colline sono perdute. Arminio coltiva la «paesologia». Ed è forse troppo tardi. Così come Carmen Pellegrino inventaria paesi abbandonati (e forse per questo salvati), autodeterminandosi come «abbandonologa». Ma niente è meno abbandonato di ciò che vive dentro noi, e che i barbari minacciano e distruggono, come l'Isis ha fatto con il tempio di Baal Shamin. E mentre noi ci difendiamo in trincea, ad Aliano, ovunque sono disseminate mine e lanciate bombe, esattamente come a Palmira con le mostruose pale eoliche e gli immondi pannelli fotovoltaici. Vorremmo cominciare veramente una lotta contro la mafia e il potere che la sostiene invece che declinarla in prediche, appelli, e luoghi comuni. Qui, i luoghi e la bellezza comune, risparmiati per secoli, si sono sottratti. Un paesaggio perduto è come un tempio distrutto. E non ho mai visto difendere questi paesaggi sfregiati quelle autorità sconcertate contro i simboli, e pronte a dichiarare e a scrivere la loro indignazione per i carri funebri trainati dai cavalli convocati dalla mafia. I simboli di mafia, cari Saviano, don Ciotti, Boldrini, Alfano, sono queste violentissime ferite al paesaggio (non petali di rose) che voi vi ostinate a non vedere, e che rappresentano la più terribile testimonianza del patto Stato-mafia degli ultimi 10 anni. Franco Arminio si rifugia nel paese di Carlo Levi, e le massime autorità dello Stato applaudono. Sordi, ciechi, muti.

CONCORSI TRUCCATI.

Scandalo sanità in Basilicata, arrestato governatore Pittella: "Dobbiamo accontentare tutti". Operazione della Guardia di Finanza su nomine e concorsi nel sistema sanitario lucano: ordinanze nei confronti di una trentina di persone. Il presidente della Regione ai domiciliari per falso e abuso d'ufficio. Il gip: "Deus ex machina della distorsione istituzionale", scrive Leo Amato il 6 luglio 2018 su "La Repubblica". È un vero e proprio terremoto quello che si è abbattuto sulla Regione Basilicata. C'è anche il governatore Marcello Pittella (Pd), infatti, tra i destinatari dell'ordinanza di misure cautelare eseguita questa mattina dagli agenti della Guardia di finanza di Matera. L'inchiesta riguarda nomine e concorsi nella sanità lucana. Per Pittella il gip della città dei Sassi ha disposto gli arresti domiciliari. In carcere, invece, è finito il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria provinciale di Matera, Pietro Quinto, che attraverso il suo legale, Vincenzo Montagna, ha già annunciato le dimissioni dall'incarico. In carcere anche il direttore amministrativo dell'Asm Maria Benedetto. Ai domiciliari il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria di Potenza, Giovanni Chiarelli, il direttore amministrativo dell'Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero, Gianvito Amendola. Nella stessa inchiesta ai domiciliari anche il direttore generale della Asl di Bari, Vito Montanaro. In tutto le misure cautelari eseguite sono una trentina.

IL PROCURATORE: "SCAMBIO RECIPROCO TRA POTERI APICALI". Il sistema sanitario lucano è stato piegato a "interessi privatistici e logiche clientelari". È quanto ha sostenuto il procuratore capo di Matera, Pietro Argentino, commentando l'inchiesta della Guardia di finanza. Argentino ha parlato di concorsi pilotati col "taroccamento" dei punteggi e la distruzione dei verbali con i voti reali ottenuti dai "raccomandati". Il gip Rosa Nettis, che ha accolto la richiesta di misure cautelari avanzata dal pm Salvatore Colella, parla di "un sistema di corruzione e di asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori, su sollecitazione di una moltitudine di questuanti espressione (...) di pubblici poteri apicali che si interfacciavano tra loro, in uno scambio reciproco di richieste illegittime e promesse o dazioni indebite".

IL GIP: "PITTELLA SUGGERIVA DI ACCONTENTARE TUTTI". Il giudice evidenzia un motivo di fondo dietro tutte le condotte contestate: "la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale". Pittella è accusato di abuso d'ufficio e concorso in falso e sarebbe stato il "deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana", in cui le assunzioni sarebbero servite ad alimentare "il consenso elettorale" e come merce di scambio per "politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania". Inoltre, nell'ordinanza di custodia cautelare, il gip scrive anche che, relativamente a un concorso del 2015 "il cui esito ha vacillato fino alla fine", tutto è stato poi "sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito... di accontentare tutti". In questo senso andrebbe inteso il ruolo del direttore generale dell'Asl di Bari Vito Montanaro, finito a sua volta agli arresti domiciliari, che si sarebbe attivato per favorire un paio dei concorrenti ad alcune delle selezioni finite sotto indagine, 4 in tutto: in particolare l'attuale responsabile dell'anticorruzione della stessa Asl di Bari, Luigi Fruscio. Dalla Campania, invece, arriva la vincitrice del concorso per un posto da dirigente amministrativo al Centro oncologico regionale di Basilicata, Lucia Esposito (non indagata), prima di non eletti in Senato del Pd nel 2013, ma entrata lo stesso a Palazzo Madama a settembre dell'anno scorso per l'ultimo scampolo della scorsa legislatura.

SPUNTA ANCHE IL VESCOVO DI MATERA (NON INDAGATO). Tra gli altri sponsor, che non risultano indagati, gli inquirenti hanno individuato l'ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (Leu). Mentre il vescovo di Matera Antonio Caiazzo, il deputato nonché ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo (Pd), il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), e il questore di Matera, Paolo Sirna (tutti non indagati) avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell'Azienda sanitaria della città dei Sassi, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, come l'assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 (mai avvenuta perché secondo il gip gli indagati avrebbero saputo dell'inchiesta). Quinto, per cui è stata disposta la custodia cautelare in carcere, è accusato anche di corruzione per aver affidato una serie di incarichi legali al professore di diritto amministrativo dell'Università di Bari, Agostino Meale, in cambio della sua disponibilità come relatore della tesi di laurea del figlio e dell'impegno per assicurargli un dottorato di ricerca.

Scandalo sanità a Matera, tra i 30 arrestati anche il direttore generale della Asl di Bari, Montanaro. Il direttore generale della Asl Bari, Vito Montanaro. Il manager è coinvolto in una maxi-inchiesta della procura di Matera su appalti truccati nella sanita, insieme al responsabile dell'Anticorruzione dell'Asl, Luigi Fruscio. Domiciliari anche per il professor Agostino Meale, scrive Chiara Spagnolo il 6 luglio 2018 su "La Repubblica". Finisce agli arresti domiciliari il direttore generale dell'Asl di Bari, Vito Montanaro, coinvolto in una maxi-inchiesta su appalti truccati nella sanita, partita dalla Procura di Matera e che ha fatto finire ai domiciliari anche il governatore lucano Marcello Pittella del Pd. Nel filone barese dell'indagine è coinvolto anche il responsabile dell'Anticorruzione dell'Azienda sanitaria del capoluogo pugliese, il barlettano Luigi Fruscio, anch'egli agli arresti domiciliari. L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo di Matera, Pietro Argentino, e condotta dal pm Salvatore Colella, ha portato all'emissione di 30 provvedimenti cautelari: 2 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 20 agli arresti domiciliari e 8 obblighi di dimora. Abuso d’ufficio, falso ideologico per soppressione, truffa aggravata, turbata libertà degli incanti e corruzione le accuse contestate all'esito degli accertamenti della guardia di finanza. Montanaro e Fruscio sono coinvolti nell'indagine a causa di un presunto abuso d'ufficio, che si sarebbe consumato proprio per l'assunzione a tempo indeterminato del responsabile dell'Anticorruzione, inserito in una graduatoria, che sarebbe stata fatta scorrere in maniera poco trasparente. Montanaro attualmente è commissario dell'Asl di Bari, in attesa di essere riconfermato direttore generale nell'ambito delle nuove nomine che la Regione dovrà effettuare per tutte le aziende sanitarie pugliesi. La riconferma di Montanaro per Bari era data come quasi certa. Ai domiciliari è finito anche Agostino Meale, professore ordinario di diritto amministrativo dell'Università di Bari con l'accusa di corruzione in concorso con il dg della Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente a Bari. In particolare, Meale avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea del figlio di Quinto, studente a Bari, lo avrebbe poi indirizzato per la pratica forense presso un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità a supportarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Dal dg Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per complessivi 57 mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della ASM, della ASP e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari.

Sanità Basilicata, arrestato governatore Pittella (Pd): “Influenza le scelte. Se si ricandida, pericolo che ricommetta reati”. Il presidente della Regione ai domiciliari con l'accusa di concorso in falso e abuso d'ufficio in un'inchiesta su raccomandazioni nelle nomine e manipolazione di concorsi. Altre 29 persone ai vertici del sistema sanitario lucano sono state raggiunte da misure restrittive perché accusate "a vario titolo di reati contro la Pubblica amministrazione", scrive il 6 luglio 2018 "Il Fatto Quotidiano". Un’inchiesta su manipolazione di concorsi e raccomandazioni nelle nomine ai vertici della sanità lucana arrivata fino al presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd), agli arresti domiciliari con l’accusa di concorso in falso e abuso d’ufficio. È lui il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale”, scrive il gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza di custodia cautelare. È Marcello Pittella “che influenza le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta“, si legge. E, volendosi ricandidare a governatore alle prossime regionali, scrive il gip, il pericolo di reiterazione dei reati è “quantomai attuale e concreto“, visto che “ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi ‘placet‘ ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”. Marcello, fratello del senatore ed ex eurodeputato del Pd Gianni Pittella, è agli arresti domiciliari nella sua casa di Lauria, in provincia di Potenza, come hanno confermato all’Ansa persone a lui vicine che hanno definito la sua posizione nella vicenda “surreale“. “Dobbiamo accontentare tutti“, diceva in un’intercettazione. Frasi che rivelano, secondo le indagini della Guardia di Finanza, come il presidente della Regione cercasse di gestire nomine e concorsi pubblici, per esempio gonfiando il punteggio ottenuto dai candidati, sostiene chi indaga. Gli accertamenti eseguiti dalla Procura e dalla Guardia di Finanza hanno evidenziato il “totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche“, ha detto in conferenza stampa il Procuratore Pietro Argentino. Altre 29 misure restrittive sono state eseguite nei confronti dei vertici delle aziende sanitarie lucane e anche della Asl di Bari. In totale due arresti in carcere, 20 ai domiciliari e otto obblighi di dimora eseguiti da cento agenti delle Fiamme Gialle che riguardano persone coinvolte “a vario titolo in fatti riconducibili a reati contro la Pubblica amministrazione“. Sono 31 i capi di imputazione contenuti nell’ordinanza il gip, in cui si parla di un “sistema di corruzione e asservimento della funzione pubblica a interessi di parte”. L’inchiesta è iniziata un anno e mezzo fa dopo l’esposto di un ex dipendente della cooperativa “Croce verde Materana” che denunciava un tentativo di truffa all’Azienda sanitaria di Matera circa irregolarità contributive nell’ambito di un servizio di trasporto di persone infermi che sarebbe stato svolto da personale non assunto. Da questo episodio è partita l’inchiesta. Quinto “collettore” delle raccomandazioni di Pittella – Il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” da Pittella. Così il procuratore Argentino, nella conferenza stampa sull’operazione, spiega i rapporti tra il governatore e Quinto, in carcere con le accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Quinto è la figura chiave dell’inchiesta, per il gip figura di “indubbio potere“. Dal 29 maggio 2017, si legge nell’ordinanza, ha saputo di essere intercettato e gli inquirenti ritengono sia stato avvisato dal senatore Salvatore Margiotta che aveva appena incontrato. “Molto altro ancora si sarebbe appreso di tale malgoverno del potere e della funzione pubblica se non ci fossero state illecite ingerenze – si legge nell’ordinanza – Tuttavia due mesi di captazione sono bastati a disvelare le dinamiche interne di una sfrontata gestione di uno dei settori nevralgici della Pubblica amministrazione”. Quinto, da commissario della Asm, intrattiene – secondo gli inquirenti – “significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco”, spiega il pm Argentino. E in carcere è finita anche la direttrice amministrativa della stessa Asm, Maria Benedetto. “Nulla si muove senza il suo dictat” – La ratio che muove ed è al centro di questo sistema, scrive ancora il giudice Angela Rosa Nettis, è “sempre la stessa”: vale a dire “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”. E’ la politica infatti “che condiziona pesantemente” la gestione delle Asl lucane “ed in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità”. E questo “non solo al fine di ampliare il consenso elettorale ma anche allo scopo di ‘scambiare’ favoriai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. E se questo è il quadro, conclude il gip, il “deus ex machina di questa distorsione istituzionale” è proprio il governatore Pittella: “Nulla si muovesenza il suo dictat“. 

“Concorsi truccati con precisione matematica” – Gli investigatori “si sono trovati in presenza di concorsi letteralmente truccati“, raccontare ancora il pm Argentino in conferenza stampa. In particolare per “quattro procedure concorsuali risultate ‘viziate’ perché caratterizzate da abusi d’ufficio, rivelazioni indebite di segreti d’ufficio e falsi in atti pubblici”. Un “taroccamento” dei punteggi, ha proseguito il procuratore, “condotto con precisione matematica“, con la “creazione di verbali ideologicamente falsi” e la “distruzione di verbali con i punteggi effettivamente conseguiti dai candidati ‘raccomandati‘, con la complicità dei componenti segretari”. Il pm Argentino ha aggiunto poi che si tratta di concorsi per un posto a tempo indeterminato da dirigente amministrativo, “vinto da tre persone, e non deve apparire come una stranezza – ha precisato – perché uno è il vincitore effettivo, e gli altri due sono anch’essi vincitori attraverso il sistema di scorrimento delle graduatorie e delle convenzioni fra Asl”. Poi altri concorsi per otto posti da assistente amministrativo, per un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo nel Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero in Vulture, e per due posti a tempo indeterminato da dirigente medico di otorinolaringoiatria. Gli altri arresti tra Basilicata e Bari – Ai domiciliari invece il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza, Giovanni Chiarelli, il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Corb di Rionero, Gianvito Amendola. Ci sono poi il direttore generale dell’Asl di Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell’anticorruzione della stessa Asl, l’avvocato Luigi Fruscio di Barletta, tra le trenta persone destinatarie di misure cautelari eseguite da “circa cento tra uomini e donne delle Fiamme Gialle”. A quanto apprende l’Ansa, ai due indagati pugliesi, entrambi agli arresti domiciliari, viene contestato un episodio di abuso d’ufficio legato ad un presunto concorso truccato alla Asl di Matera. C’è anche un professore ordinario dell’Universitàdi Bari tra le persone arrestate. Si tratta dell’avvocato Agostino Meale, docente di diritto amministrativo. Meale, finito ai domiciliari, è accusato di corruzione in concorso con il dg della AsmQuinto, per aver ottenuto incarichi di consulenza e assistenza legale in cambio della disponibilità ad agevolare la carriera universitaria e professionale del figlio di Quinto, studente

Pittella e il secondo mandato: “Pericolo di reiterazione dei reati” – Nelle scorse settimane il Pd lucano aveva dato mandato a Pittella, fratello dell’senatore ed ex eurodeputato Gianni e governatore dal 2013, di correre per un secondo mandato in Regione alle elezioni per il rinnovo del parlamentino lucano, previste tra fine 2018 e inizio 2019. Per questo, scrive il gip, il pericolo di reiterazione dei reati è “quantomai attuale e concreto solo se si consideri che negli ultimi giorni ha manifestato la volontà di ricandidarsi come Governatore della Basilicata e ciò fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi ‘placet‘ ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare, potendo contare su appoggi locali, in uno scambio di utilità vicendevoli”.

Basilicata, concorsi e gare truccate: 22 arresti. Ai domiciliari Pittella. Il gip: una talpa rivelò l'indagine. Tra gli arrestati anche anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane: Giovanni Chiarelli (Asp Potenza) è ai domiciliari; Pietro Quinto dell'Asm Matera è in carcere, così come il direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera, Maria Benedetto. Il governatore Marcello Pittella ai domiciliari nell'ambito di una maxi inchiesta della procura di Matera. A Montanaro contestata assunzione responsabile Anticorruzione, l'avvocato Luigi Fruscio, scrive Massimiliano Scagliarini il 6 Luglio 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, è stato arrestato oggi dalla Guardia di Finanza nell'ambito di una maxi inchiesta della procura di Matera su concorsi e forniture nelle aziende sanitarie lucane. Pittella è agli arresti domiciliari nella sua casa di Lauria (Potenza). Coinvolto anche il direttore generale dell’Asl Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell'anticorruzione della stessa Asl, l'avvocato Luigi Fruscio.  Il presidente della Regione è accusato di falso e abuso d'ufficio per la gestione di un concorso da dirigente che sarebbe stato truccato per favorire Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri e Luigi Fruscio. In questa vicenda sarebbe intervenuto anche il commissario straordinario della Asl di Bari, Vito Montanaro, per favorire Fruscio con la commissione. Ai candidati - secondo l’accusa - sarebbero state fornite le tracce in anticipo. Il buon punteggio, «attribuito a tavolino», ritengono gli inquirenti, avrebbe consentito a Fruscio lo «scorrimento della graduatoria con assunzione presso altre aziende sanitarie locali». Ai due indagati si contestano i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Montanaro, infatti, avrebbe anche passato a Fruscio le tracce della prova, ricevute direttamente da Maria Benedetto, direttore amministrativo della ASM e presidente della commissione esaminatrice (Quinto e Benedetto sono in carcere). L'INCHIESTA - L'inchiesta, coordinata dal procuratore capo, Pietro Argentino, e condotta dal pm Colella, ha portato all'emissione di trenta misure restrittive, tra cui due custodie cautelari in carcere, venti arresti domiciliari e otto obblighi di dimora. Le accuse contestate, a vario titolo, sono abuso d’ufficio, falso ideologico per soppressione, truffa aggravata, turbata libertà degli incanti e corruzione. L’indagine nasce da una denuncia relativa a irregolarità per la convenzione con l'associazione Croce Verde Materana. Da qui sono partite le intercettazioni telefoniche e ambientali sui vertici della Asm di Matera.

LA PITTURAZIONE A CASA - Tra le persone arrestate e poste ai domiciliari ci sono anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane, Giovanni Chiarelli dell'Asp Potenza (ai domiciliari) e Pietro Quinto dell'Asm di Matera, in carcere, così come il direttore amministrativo dell’Asm, Maria Benedetto. Per Quinto, le accuse sono di corruzione e turbata libertà degli incanti. A Quinto è contestata la corruzione perché avrebbe ricevuto da un imprenditore, Gaetano Appio, la pitturazione interna del suo appartamento di Bari in cambio di presunti favori nel procedimento di accreditamento presso la Asm. Proprio Quinto, secondo il procuratore di Matera, Pietro Argentino, era «il collettore dei desiderata della politica e non solo per le raccomandazioni all’interno dei concorsi della sanità». «Gli investigatori si sono trovati davanti a quattro concorsi letteralmente truccati. In particolare, quello per concorso pubblico da un posto di dirigente amministrativo è stato vinto da tre persone, perché uno è vincitore effettivo e gli altri due lo sono di fatto per effetto dello scorrimento delle graduatorie».

L'ASSUNZIONE DEL DIRIGENTE ANTICORRUZIONE - Il filone che vede indagato il manager dell'Asl barese Montanaro (che attualmente era commissario dell'azienda sanitaria in attesa della definizione delle nuove nomine) riguarderebbe appunto l'assunzione del responsabile della stessa Anticorruzione dell'Asl Bari, il 40enne barlettano Luigi Fruscio (passato da tempo determinato a tempo indeterminato attraverso lo scorrimento della graduatoria ritenuto illegittimo). Fruscio ha prestato servizio come dirigente Asl a tempo determinato dal febbraio 2015 fino alla fine di agosto dello scorso anno.

SCAMBIO DI FAVORI - Tra gli arrestati anche un docente di diritto amministrativo dell’Universita di Bari, Agostino Meale. È accusato di aver ottenuto incarichi legali da Quinto in cambio di agevolazioni alla carriera universitaria del figlio Giuseppe Quinto. In particolare, Meale avrebbe accettato di fare da relatore della tesi di laurea del figlio di Quinto, studente a Bari, lo avrebbe poi indirizzato per la pratica forense presso un avvocato amico e, infine, avrebbe dato la sua disponibilità a supportarlo nel dottorato di ricerca presso la propria cattedra. Dal dg Quinto avrebbe in cambio ottenuto, fra giugno 2017 e gennaio 2018, incarichi per complessivi 57 mila euro circa in qualità di legale di volta in volta della ASM, della ASP e della Asl di Bari, in sette diversi procedimenti dinanzi ai Tribunali amministrativi di Matera, Potenza e Bari.

«CONCORSI LETTERALMENTE TRUCCATI» - Gli investigatori «si sono trovati in presenza di concorsi letteralmente truccati», in particolare per «quattro procedure concorsuali risultate viziate perché caratterizzate da abusi d’ufficio, rivelazioni indebite di segreti d’ufficio e falsi in atti pubblici», ha spiegato il procuratore Argentino. Le indagini hanno permesso di appurare il «taroccamento» dei punteggi, ha proseguito il procuratore, «condotto con precisione matematica», con la «creazione di verbali ideologicamente falsi» e la «distruzione di verbali con i punteggi effettivamente conseguiti dai candidati raccomandati, con la complicità dei componenti segretari». Il procuratore ha aggiunto poi che si tratta di concorsi per un posto a tempo indeterminato da dirigente amministrativo, («vinto da tre persone, e non deve apparire come una stranezza - ha precisato Argentino - perché uno è il vincitore effettivo, e gli altri due sono anch’essi vincitori attraverso il sistema di scorrimento delle graduatorie e delle convenzioni fra Asl»), per otto posti da assistente amministrativo, per un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo nel Crob di Rionero in Vulture (Potenza), e per due posti a tempo indeterminato da dirigente medico di otorinolaringoiatria.

NON È FINITA QUI - Ma l'inchiesta, con tutte le ramificazioni, non è finta qui. «L’indagine - ha detto il procuratore Argentino - va ancora completata».

II GIP: TALPA INDEGNA RIVELO' INDAGINE - Il commissario straordinario dell’Asm di Matera, Pietro Quinto, avrebbe scoperto a metà dello scorso anno di essere intercettato nell’ambito dell’inchiesta della Procura sulla sanità, perché «qualche indegna talpa istituzionale - precisa il gip nell’ordinanza - gli faceva rivelazioni sull'attività investigativa in corso». A maggio 2017, infatti, gli investigatori capiscono che Quinto ha ricevuto una «soffiata» sulle indagini: il suo atteggiamento, nelle successive telefonate e nelle conversazioni, cambia drasticamente atteggiamento. E fa lo stesso il direttore amministrativo dell’Asm Maria Benedetto, alla quale Quinto rivela quanto saputo. Quest’ultima, a sua volta, avrebbe imposto maggiori accortezze ai suoi collaboratori, aumentando il volume della radio nelle conversazioni, o uscendo sui terrazzi per parlare. Secondo il gip, «è stato possibile ricostruire nel dettaglio» che Quinto "ha appreso dal senatore Salvatore Margiotta» che non risulta indagato «di essere intercettato, e forse anche da qualche forza dell’ordine».

SALVINI: PRONTI A LIBERARE LA REGIONE - La lunga rincorsa verso le elezioni regionali del prossimo autunno era appena cominciata con l'indicazione del Pd per il «bis» di Marcello Pittella (ora agli arresti domiciliari nella sua Lauria): l’inchiesta sulla sanità che in Basilicata ha scatenato una bufera rimette però tutto in gioco nei dem e di conseguenza nel centrosinistra. E all’orizzonte apre una prospettiva di vittoria, fino a pochi mesi fa quasi impensabile, per il centrodestra (con la Lega di Salvini che si «prepara - afferma il suo leader - a liberare la Basilicata") e soprattutto per il Movimento cinque stelle, che chiede le dimissioni immediate del governatore e può sognare di piazzare la prima bandierina «gialla» su una Regione. «A prescindere dalle inchieste e dagli arresti delle scorse ore - ha detto Salvini - Lega e Centrodestra si preparano a liberare la Basilicata alle prossime elezioni regionali. Vogliamo "rimettere al centro gli interessi di tutti i Lucani - conclude - e non solo di pochi affaristi».

Gli arrestati. 

In carcere: Pietro Quinto e Maria Benedetto, commissario e direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera.

Ai domiciliari: Il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd), Agostino Meale, Vito Montanaro, Maddalena Berardi (direttore amministrativo dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza), Anna Rita Di Taranto, Davide Falasca, Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri, Luigi Fruscio, Giovanni Chiarelli (commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza), Gianvito Amendola, Carmine Capobianco, Grazia Maria Ciannella, Gennaro Larotonda, Domenico Petrone, Lorenzo Santandrea, Rosanna Grieco, Carmela Lascaro, Roberto Lascaro e Claudio Lascaro.

Obbligo di dimora: Graziantonio Lascaro, Cristoforo Di Cuia, Gaetano Appio, Michele Morelli, Francesco Mannarella, Roberta Fiorentino, Angela Capuano e Ferdinando Vaccaro.

Parla il procuratore della Repubblica di Matera Pietro Argentino: «I fatti dimostrano che i concorsi sono stati pilotati», scrive il 6 Luglio 2018 "la Gazzetta del Mezzogiorno". «Mi devo attenere ai fatti e i fatti dimostrano che per un certo periodo di tempo, alcuni concorsi sono stati pilotati». Così ha commentato lo scandalo che ha colpito la sanità lucana, a margine della conferenza stampa, il Procuratore della Repubblica di Matera, Pietro Argentino. «L'inchiesta prosegue - ha aggiunto argentino - e gli accertamenti eseguiti dalla Procura della Repubblica di Matera e dalla Guardia di Finanza hanno evidenziato il totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche con il commissario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) a fare da collettore delle raccomandazioni che promanano dal presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella». «Il governatore Pittella risponde quindi a titolo di concorso». Durante la conferenza stampa i militari della guardia di finanza di Matera che hanno condotto le indagini hanno spiegato anche il motivo del nome dell'operazione L’hanno chiamata «Suggello», dal termine utilizzato in un’intercettazione della dirigente amministrativa Maria Benedetto, arrestata stamane insieme con il commissario dell’Azienda sanitaria materana, Pietro Quinto, ed altre 28 persone indagate ed ai domiciliari, tra cui il governatore Pittella, più 8 con obbligo di dimora. La scelta è ricaduta su questo nome - spiegano i finanzieri- perché la lista dei raccomandati, letta dalla Benedetto a Quinto, aveva il suggello del presidente Pittella».

Nomine e concorsi nella sanità: arrestato il governatore Pittella. Terremoto alla Regione Basilicata. Finisce ai domiciliari il presidente (Pd), in carica dal 2013. Con lui altri 29 in manette, scrive Sergio Rame, Venerdì 06/07/2018, su "Il Giornale". Terremoto giudiziario alla Regione Basilicata. Il governatore Marcello Pittella, esponente del Partito democratico in carica dal 2013, è finito agli arresti domiciliari. È, infatti, tra le persone coinvolte nella maxi inchiesta condotta dalla procura di Matera per questioni connesse a concorsi e nomine nella sanità lucana anche il direttore generale e la direttrice dell'azienda sanitaria di Matera. Per i trenta finiti in manette si configurano adesso una sfilza di reati contro la Pubblica amministrazione in Basilicata. Le accuse sono tutte pesantissime. Si va dall'buso d'ufficio al falso ideologico, dalla truffa aggravata alla corruzione. E coninvolge una trentina di esponenti di spicco della Regione Basilicata. Oltre al governatore, fratello dell'eurodeputato dem Gianni Pittella, sono finiti agli arresti anche il direttore generale dell'Asl di Bari, Vito Montanaro, e il responsabile dell'anticorruzione dell'Asl, Luigi Fruscio. "È la politica che condiziona pesantemente la gestione delle Aziende sanitarie lucane e in particolar modo le procedure selettive per assumere personale nella sanità", scrive il gip Angela Rosa Nettis secondo cui l'intero sistema era stato orchestrato non solo per "ampliare il consenso elettorale" ma anche "allo scopo di 'scambiare' favori ai politici di pari schieramento che governano Regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania". "Deus ex machina di questa distorsione istituzionale nella sanità lucana", secondo gli inquirenti, era proprio Pittella che non si limitava a "formulare gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l'efficienza della Sanità regionale" ma influenzava anche "le scelte gestionali delle Aziende sanitarie ed ospedaliere lucane interfacciandosi direttamente con i loro direttore generali i quali sono stati tutti nominati con delibere di giunta regionale nonchè con i successivi decreti del governatore". Fu grazie al direttore generale Asm Pietro Quinto (da oggi in carcere) che don Angelo Gallitelli, segretario del vescovo di Matera Antonio Giuseppe Caiazzo interessato a far ammettere la sorella Maria e un amico al percorso di formazione, a numero chiuso e per massimo 50 posti per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità nella scuola primari, riuscì a "trovare prontamente un'alternativa" a Pittella. Fu, infatti, messo in contatto con Vito De Filippo, all'epoca viceministro dell'Istruzione nel governo Gentiloni (e prima ancora con Matteo Renzi) e ora deputato del Pd. "Le richieste del prelato - si legge nell'ordinanza cautelare del gip di Matera - risulteranno esaudite perché la sorella di Gallitelli risulterà vincitrice del concorso, che era stato indetto dall'Università della Basilicata per l'anno accademico 2016/17". La circostanza rende molto bene l'idea di come Quinto fosse "il collettore delle raccomandazioni che promanano" da Pittella. Era infatti lui a "intrattenere significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco".

La rovinosa caduta del governatore Pittella. La maxi inchiesta della procura di Matera incastra il presidente della Regione Basilicata: Pittella finisce agli arresti domiciliari dopo 25 anni di politica, scrive Giorgia Baroncini, Venerdì 06/07/2018, su "Il Giornale". Il governatore della Regione Basilicata Marcello Pittella, figlio dell'ex senatore Domenico Pittella e fratello di Gianni, per anni capogruppo SD al Parlamento europeo e attuale senatore del Pd, è finito agli arresti domiciliari dopo la maxi inchiesta della procura di Matera.

La carriera in politica. Nato a Lauria (Potenza), Pittella diventa nel 1993 consigliere e assessore alle attività produttive e allo sport del paese natio per il Psi. Eletto nel consiglio della Provincia di Potenza, si dimette da assessore e diviene in seguito capogruppo dei Democratici di Sinistra.

Già presidente nel consiglio provinciale di Potenza nel 1999, due anni più tardi viene eletto sindaco di Lauria con il 66,57% dei voti validi. Il 31 maggio 2005, prima del termine naturale del mandato, lascia l'incarico di sindaco per candidarsi alle elezioni regionali in Basilicata del 2005 nella lista Uniti nell'Ulivo. Nel 2012 viene nominato assessore alle attività produttive nella rinnovata giunta presieduta da Vito De Filippo.

Presidente della Basilicata. Dopo le dimissioni di De Filippo a seguito delle indagini giudiziarie su diversi consiglieri e assessori accusati di peculato, Marcello Pittella, nonostante il suo coinvolgimento nella vicenda, diventa vicepresidente della Basilicata. Si candida alle primarie il 22 settembre e, battendo il presidente in carica della Provincia di Potenza Piero Lacorazza (Pd), Nicola Benedetto (Cd) e Miko Somma (Comunità lucana - Movimento no oil), diventa il candidato del centrosinistra per la presidenza alle elezioni regionali del 2013.

Nella tornata elettorale del 17 e 18 novembre 2013 è eletto presidente della Regione Basilicata con oltre 148 mila voti (59,6%). Nelle scorse settimane il Pd lucano aveva dato mandato a Pittella di correre per un secondo mandato in Regione alle elezioni per il rinnovo del parlamentino, previste al più tardi per l'inizio del 2019.

Sanità: operazione Gdf Matera, eseguite 30 misure. Pittella ai domiciliari, scrive il 6 luglio 2018 "Il Corriere del Giorno". Le indagini sono cominciate circa un anno e mezzo fa in seguito all’esposto di un dipendente di una ditta fornitrice di servizi che non aveva ricevuto la sua quota di Tfr. Maxi operazione della Guardia di Finanza in Basilicata . Gli accertamenti eseguiti dalla Procura della Repubblica di Matera e  hanno evidenziato il “totale condizionamento della sanità pubblica da parte di interessi privatistici e da logiche clientelari politiche” che ha portato a 30 misure di cui 22 arresti , dei quali 2 in carcere e 20 ai domiciliari. L’inchiesta si basa sull’assunzione di una ventina di persone, “raccomandati dal presidente Pittella e da altre autorità civili e religiose” come è riportato negli atti, come il senatore ed vice ministro degli Interni, Filippo Bubbico ma anche alcuni vescovi. Gli indagati avevano fornito le tracce in anticipo in alcuni concorsi interni, favorendo alcuni candidati a danno di altri. I concorsi nelle Asl della Basilicata funzionavano così, come ha ricostruito la Guardia di Finanza: le graduatorie venivano realizzate parallelamente. Quelle “reali” e quelle, in rosso, con il bonus raccomandati. Le indagini sono cominciate circa un anno e mezzo fa in seguito all’esposto di un dipendente di una ditta fornitrice di servizi che non aveva ricevuto la sua quota di Tfr. Le misure restrittive sono state eseguite dalla Guardia di Finanza di Matera nell’ambito di un’operazione sul sistema sanitario in Basilicata nei confronti di persone coinvolte “a vario titolo in fatti riconducibili a reati contro la Pubblica amministrazione“. L’attività come comunicato dalla Guardia di Finanza “vede impegnati, allo stato, circa cento tra uomini e donne delle Fiamme Gialle“. Agli arresti domiciliari da questa mattina anche presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella (Pd) nella sua casa di Lauria (Potenza) per “falso e abuso d’ufficio“. Il provvedimento gli è stato notificato dalla Guardia di Finanza, nell’ambito dell’inchiesta su alcuni episodi di manipolazioni di concorsi e raccomandazioni nel sistema sanitario. Persone vicine al governatore hanno definito la sua posizione nella vicenda “surreale“. Secondo il Gip di Matera Angela Rosa Nettis nell’ordinanza d’arresto il governatore della Regione Basilicata Marcello Pittella  sarebbe il “deus ex machina’ della “distorsione istituzionale” nella sanità lucana, sottolineando che Pittella “non si limita ad espletare la funzione istituzionale formulando gli atti di indirizzo politico per il miglioramento e l’efficienza” della sanità regionale, “ma influenza anche le scelte gestionali delle Asl  interfacciandosi direttamente con i loro direttori generali” tutti da lui nominati. Tra le persone arrestate e poste ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Salvatore Colelladella Procura di Matera, compaiono anche i commissari delle uniche due aziende sanitarie lucane, Giovanni Chiarelli (Asp Potenza) e Pietro Quinto (Asm Matera) che deve rispondere delle accuse di corruzione e turbata libertà degli incanti. Ai domiciliari è stato posto anche il direttore amministrativo dell’Asm, Maria Benedetto,  il direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera regionale San Carlo di Potenza, Maddalena Berardi, e un dirigente del Centro oncologico regionale della Basilicata di Rionero, Gianvito Amendola. Nell’ambito della stessa indagine, è stato posto agli arresti domiciliari anche Vito Montanaro direttore generale dell’ Asl di Bari,  ed il responsabile dell’anticorruzione della stessa Asl, l’avvocato Luigi Fruscio di Barletta. Ai  due indagati pugliesi, viene contestato un episodio di abuso d’ufficio legato ad un presunto concorso truccato alla Asl di Matera. Vito Montanaro, direttore generale dell’ Asl di Bari, (a lato nella foto) sarebbe intervenuto, rivolgendosi al direttore generale della Asl materana Pietro Quinto, per agevolare il posizionamento “utile” in graduatoria di Luigi Fruscio, attualmente responsabile anticorruzione della Asl di Bari (anche lui ai domiciliari), nel concorso indetto nel giugno 2017 per un posto da dirigente alla ASM. Quinto è accusato anche di corruzione per aver affidato una serie di incarichi legali al professore di diritto amministrativo dell’Università di Bari, Agostino Meale, ottenendo in cambio la sua disponibilità come relatore della tesi di laurea del figlio e dell’impegno per assicurargli un dottorato di ricerca. Dalla Campania, invece, arriva la vincitrice del concorso per un posto da dirigente amministrativo al Centro oncologico regionale di Basilicata, Lucia Esposito (attualmente non indagata), prima di non eletti in Senato del Pd nel 2013, che era entrata lo stesso a Palazzo Madama a settembre dell’anno scorso per l’ultimo scampolo della scorsa legislatura. Il commissario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto (in precedenza direttore generale della stessa Asm) secondo gli inquirenti è “il collettore delle raccomandazioni che promanano” dal presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, ed intrattiene significativi rapporti con altre figure politiche e religiose di spicco“. Quinti attraverso il suo legale, Avv. Vincenzo Montagna, ha annunciato le proprie dimissioni dall’incarico ricoperto. Il buon punteggio, “attribuito a tavolino“, secondo gli inquirenti, avrebbe consentito al Fruscio lo “scorrimento della graduatoria con assunzione presso altre aziende sanitarie locali”. Ai due indagati baresi si contestano i reati di abuso d’ufficio e rivelazione di segreti d’ufficio. Il gip del tribunale di Matera, dr.ssa Rosa Nettis, che ha accolto la richiesta di misure cautelari avanzata dal pm Salvatore Colella, lo descrive nella sua ordinanza come “un sistema di corruzione e di asservimento della funzione pubblica a interessi di parte di singoli malversatori, su sollecitazione di una moltitudine di questuanti espressione (…) di pubblici poteri apicali che si interfacciavano tra loro, in uno scambio reciproco di richieste illegittime e promesse o dazioni indebite“. Il giudice mette in evidenza  “la politica nella sua sempre più fraintesa accezione negativa e distorta, non più a servizio della realizzazione del bene collettivo ma a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale”  in cui le assunzioni sarebbero servite ad alimentare “il consenso elettorale” utilizzato come merce di scambio per “politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania“. Inoltre,  il gip nell’ordinanza di custodia cautelare scrive  anche che, relativamente a un concorso del 2015 “il cui esito ha vacillato fino alla fine, tutto è stato poi sopito con la mediazione del governatore Pittella, che avrebbe suggerito… di accontentare tutti“. Tra i vari “sponsor” che al momento non risultano indagati, gli inquirenti hanno individuato l’ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (ex Pd ora Leu). Mentre il vescovo di Matera Antonio Caiazzo, il deputato ed ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo (Pd), il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), ed il questore di Matera, Paolo Sirna avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell’Azienda sanitaria della città dei Sassi, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, come l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019 che non si è concretizzata in quanto secondo il gip gli indagati avrebbero appreso dell’inchiesta.

Concorsi truccati, ecco come favorivano i raccomandati. Quattro le selezioni finite nel mirino della magistratura, scrive Basilicata 24 il 06 luglio 2018. Il commissario straordinario dell’Asm di Matera, Pietro Quinto, raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito dell’inchiesta su concorsi e assunzioni pilotate nella sanità lucana per gli inquirenti era il “collettore” delle raccomandazioni che promanavano dal governatore lucano, Pittella, e da altre figure di spicco della politica e della Chiesa lucana.

I concorsi truccati. Dalle indagini è emerso che sono quattro, al momento, i concorsi completamente truccati.  Il primo riguardava un posto, a tempo indeterminato per dirigente amministrativo all’Asm. Tre sono stati i vincitori, il primo effettivo, gli altri due, sono stati assunti con il sistema dello scorrimento delle graduatorie in altri presidi sanitari pubblici della Basilicata. Il secondo concorso riguardava otto posti per assistente amministrativo, riservati esclusivamente a disabili. Il terzo era un posto a tempo indeterminato a dirigente amministrativo presso il Crob di Rionero. Il quarto riguardava due posti a tempo indeterminato per dirigente medico otorino laringoiatra.  

Come truccavano i concorsi. Il gip di Matera che ha disposto le ordinanze di custodia cautelare accogliendo così le richieste della Procura spiega che gli indagati “taroccavano i punteggi e compilavano successivamente verbali di concorso falsi dopo aver distrutto i verbali precedentemente formati riportanti l’effettivo punteggio conseguito dai candidati “raccomandati” con la complicità dei componenti segretari depositari di tali verbali”. Il dominus dei raccomandati. Pietro Quinto, il commissario straordinario dell’Asm, considerato dagli inquirenti il “dominus di tutto il sistema” pur senza apparire in alcun documento, avrebbe agito per favorire i raccomandati, attraverso il direttore amministrativo, Maria Benedetto anche lei finita in carcere. Diverse le persone che sarebbero state segnalate a Quinto sia da Pittella che da altre figure di spicco, politiche e religiose. Spuntano, infatti, tra i segnalatori, anche (non sono indagati) l’ex viceministro degli interni Filippo Bubbico (Leu), l’attuale deputato Pd ed ex sottosegretario lucano alla Salute Vito De Filippo, il deputato barese Gaetano Piepoli (Cd), il vescovo di Matera Antonio Caiazzo e il questore di Matera, Paolo Sirna. Secondo gli inquirenti avrebbero sollecitato il commissario straordinario dell’Asm, Pietro Quinto, a intercedere su altre vicende, e tra queste l’assunzione del figlio di Piepoli alla Fondazione Matera 2019. Assunzione poi non avvenuta perché gli indagati avrebbero avuto notizia dell’inchiesta.

Raccomandazioni nelle Asl lucane, Pittella ai domiciliari: «Vuole ricandidarsi…», scrive Simona Musco il 7 luglio 2018 su "Il Dubbio". In carcere due manager, misure restrittive per altri 28, incluso il presidente della Regione: «Poteva reiterare abusi e falsi per conquistare voti». «Un avvilente quadro di totale condizionamento della sanità pubblica da parte degli interessi privatistici e di vile asservimento a logiche clientelari politiche». Con queste parole il gip di Matera Angela Rosa Nettis sintetizza l’inchiesta che ieri ha fatto finire ai domiciliari il presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella, del Pd. Sarebbe lui il «deus ex machina» di quella che il giudice definisce «distorsione istituzionale nella sanità lucana». Nata dalla segnalazione per un tentativo di truffa alla Asm, l’inchiesta della Guardia di Finanza ha fatto venir fuori un quadro ben più complesso, fatto di concorsi truccati e raccomandazioni, e ha portato in carcere Pietro Quinto e Maria Benedetto, rispettivamente commissario e direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Matera. Venti le persone ai domiciliari, tra i quali, oltre Pittella, Agostino Meale, professore dell’università di Bari, Maddalena Berardi, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza, e Giovanni Chiarelli, commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Potenza, ai quali si aggiungono otto obblighi di dimora. Per il governatore, accusato di falso e abuso d’ufficio, avendo concorso in illeciti materialmente consumati da Benedetto, il gip ha ravvisato il pericolo di reiterazione dei reati, data l’intenzione di ricandidarsi alla guida della Regione. Elemento, si legge, che «fa ritenere che continuerà a garantire i suoi favori e imporre i suoi “placet” ai suoi accoliti pur di consolidare il suo bacino clientelare». Dalle carte, la politica si manifesterebbe nella sua accezione distorta, «a soddisfacimento dei propri bisogni di locupletazione e di sciacallaggio di potere e condizionamento sociale», al punto da piegare la sanità per ampliare il consenso elettorale e «scambiare favori ai politici di pari schieramento che governano regioni limitrofe, come è il caso della Puglia e della Campania». In questo quadro Pittella – figlio dell’ex senatore Domenico e fratello di Gianni, per anni capogruppo Sd al Parlamento europeo e attuale senatore dem – avrebbe influenzato le scelte gestionali delle Aziende sanitarie lucane. Tra i “poteri forti” della sanità lucana», relazionandosi con i «poteri forti» per essere sempre in credito. La Finanza ha contato quasi 14mila telefonate in meno di tre mesi, che assieme alle conversa- zioni intercettate negli uffici dell’Asm hanno consentito di monitorare i rapporti di Quinto con parlamentari del precedente governo – alcuni ancora in carica , tanto da spendersi con l’allora viceministro all’Istruzione, Vito De Filippo, per soddisfare la richiesta del segretario del vescovo di Matera, don Angelo Gallitelli, che aveva chiesto l’ammissione della sorella Maria e di un suo amico al percorso di specializzazione a numero chiuso per le attività di sostegno. Ma gli interlocutori sono tanti: come il questore di Matera, Paolo Sirna, che aveva segnalato un conterraneo per un concorso, il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, che lo contattò per due assunzioni, o il deputato Gaetano Piepoli, che chiese l’assunzione del figlio nella Fondazione Matera 2019, in cambio spendendosi per inserire il figlio di Quinto come tirocinante alla Procura generale di Bari. Nessuna di queste persone risulta indagata: la raccomandazione, precisa il gip, «non costituisce una forma di concorso morale nel reato di abuso d’ufficio» in assenza di altri fatti significativi. Rimane, dunque, la figura del dg, «ambiziosissimo quanto inosservante della legalità». Un’immagine consegnata dalle intercettazioni, andate avanti da marzo 2017 al 29 maggio 2017, quando una talpa svelò le indagini in corso. L’Asm di Matera, tramite le assunzioni, rappresentava per Pittella «una possibile proficua leva sociale di consenso elettorale». Sarebbero quattro i concorsi ‘ viziati’, con candidati selezionati in base a logiche clientelari, tramite «una gestione direttoriale centrale da parte del presidente Pittella», sulla base di un piano delle assunzioni, «calibrato sulla necessità di collocamento del personale». Perfino le singole prove, in alcuni casi, sarebbero state costruite “su misura” per i candidati segnalati, informati preventivamente sulle tracce. Ma non solo: i punteggi sarebbero stati rimaneggiati, anche distruggendo i verbali pubblici, e le assunzioni venivano effettuate con l’utilizzo distorto dello scorrimento delle graduatorie, in modo che anche gli esclusi potessero essere «opportunamente ‘ ripescati’ in altre Asl anche fuori regione». Emblematico il caso del concorso per un posto da dirigente amministrativo, il cui esito ha vacillato sino alla fine per i forti interessi in campo, per poi risolversi con la mediazione di Pittella, «che avrebbe suggerito la soluzione più diplomatica possibile». Ovvero «accontentare tutti».

Scandalo sanità, le denunce di chi veniva considerato "pazzo". Parla un medico in servizio a Policoro che ha presentato diverse denunce contro il "sistema marcio", scrive Giusi Cavallo il 12 luglio 2018 su "Basilicata24". Gli hanno dato del pazzo, screditandolo sul posto di lavoro. Pietro Mondì è un medico originario della Sicilia che ha scelto di lavorare e vivere in Basilicata, a Policoro. Dirigente Medico di Psichiatria, attualmente in servizio all’ambulatorio di psicogeriatria. Al telefono, mi ha chiesto come mai non avessi pubblicato quanto da lui inviato nelle ore successive allo scandalo che ha travolto la sanità lucana. “Le avranno raccontato che sono pazzo- mi ha detto senza mezzi termini con il suo accento siciliano. Di “pazzi” come lui ne ho conosciuti parecchi per sapere che il venticello della calunnia soffia sempre dove serve. Di certo il dottor Mondì è uno che parla senza peli sulla lingua, fa nomi e cognomi di coloro i quali ritiene responsabili dello sfacelo in cui è piombata la sanità lucana. Nomi che sono nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Matera ma anche nomi che ne sono fuori. Lo stesso Mondì i nomi li ha fatti anche in diverse denunce presentate contro “il sistema” prima che l’inchiesta della Procura di Matera alzasse i riflettori sulla cattiva gestione della sanità lucana. Il febbraio scorso il medico aveva presentato denuncia, ai carabinieri di Policoro, contro le nomine dei commissari straordinari delle Asl lucane. Oggi Mondì torna a scrivere con ufficialità alla Task Force inviata dal Ministero in Basilicata a seguito dell’inchiesta che ha portato a 22 arresti, tra cui quello del governatore Pittella e del commissario straordinario dell’Azienda sanitaria di Matera, Pietro Quinto. Chiede agli esperti inviati dal ministro Giulia Grillo di essere ascoltato al riguardo di fatti che ritiene stiano compromettendo il servizio sanitario lucano e in particolar modo della struttura in cui presta servizio. Segnala una persecuzione nei suoi confronti, anch’essa ampiamente segnalata all’autorità giudiziaria di Matera e a tutti i corpi delle forze dell’ordine. Ritenendo che i fatti da lui conosciuti potrebbero essere di interesse per l’attività della Task Force ministeriale, Mondì chiede con forza di essere ascoltato da essa. Al telefono, il dottor Mondì è un fiume in piena, si augura che “il nuovo Ministro della Salute Grillo invii alla Asl di Matera Ispettori che appurino, ascoltino chi vuol essere ascoltato come me, guardino attentamente i bilanci, il reale stato giuridico del personale, le modalità adottate dal dottor Quinto per dare gli incarichi di strutture semplici dipartimentali”. Racconta anche del suo lavoro, della sua professionalità “sottostimata”. Nell’ambulatorio di cui è dirigente non c’è la folla-spiega- per questo ho chiesto di dare una mano al Centro di Salute mentale, ma chissà perché preferiscono tenermi chiuso in una stanza a fare poco o niente”. “La Procura - aggiunge - ha aperto questa indagine, adesso deve allargarla, se ci sono gli estremi! Non è che si può indagare su questo e non su quest’altro? Per dirla come Amleto: “C’è uno spettro che si aggira per la sanità lucana e per tutte le Pubbliche amministrazioni, dove la piovra ha affondato i tentacoli e posto gli uomini giusti nei posti giusti per controllare totalmente la vita Politica e Sociale della Regione. Occorrerebbe aprire il Vaso di Pandora dei mali e dei misteri lucani per bonificare la Regione”. Esprimo il parere mio e di molti altri cittadini- prosegue- tra i quali anche operatori sanitari della A.S.M., persino medici in servizio e medici in pensione che l’operazione “Suggello” è solo “puvvirazzu”, come diciamo noi siciliani, polverone in italiano, e finirà in una bolla di sapone. L’Eminenza grigia, io credo, se ne stia tranquilla a dirigere la sua struttura, insieme col medico favorito, ovviamente divenuto il suo braccio destro. Vogliamo solo un polverone che legittimi una Procura per tempo avvolta nell’oblio? A riprova di ciò le ricordo che ho presentato una denuncia per delle accuse non meno pesanti di quelle ad oggi contestate al dottor Quinto. Chiedo che fine ha fatto questa denuncia della quale non so niente. Ecco perché dovrebbero ascoltarmi sia la Task Force Ministeriale che i magistrati”. 

Concorsi con tracce svelate in anticipo e punteggio stabilito a tavolino. Il ruolo dell’ex dg dell’Asp Giovanni Bochicchio. Indagato anche l'ex direttore dell'Asp, e attuale dg del Crob, per il concorso per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall'Azienda sanitaria di Matera, scrive il 7 luglio 2018 "Basilicata 24". Tra gli indagati a piede libero dell’inchiesta sulla sanità lucana che nella giornata del 6 luglio ha portato a 22 arresti c’è anche Giovanni Bochicchio, ex direttore dell’azienda sanitaria di Potenza e attuale Dg del Crob di Rionero. Il filone in cui è indagato è quello sul presunto taroccamento del concorso per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall’Azienda sanitaria di Matera con delibera del 24 dicembre 2015. Bochicchio, scrive il gip nell’ordinanza, nella sua qualità di direttore dell’azienda sanitaria di Potenza, e in concorso con altri indagati avrebbe fornito in anticipo le tracce dei temi della prova pratica di concorso a tre candidati: Vito D’Alessandro, Alessandra D’Anzieri e Luigi Fruscio (tutti e tre finiti ai domiciliari) per la copertura di un posto di dirigente amministrativo indetto dall’Azienda sanitaria di Matera con delibera del 24 dicembre 2015. Con attribuzione “a tavolino” del punteggio – scrive il gip – si sarebbe determinata la vincita del concorso per D’Alessandro e il posizionamento “utile” in graduatoria per gli altri due concorrenti per consentire loro di beneficiare dello scorrimento delle graduatorie ed essere assunti in altre strutture sanitarie pubbliche della Basilicata determinando per i tre candidati un un vantaggio patrimoniale ingiusto consistito nell’assunzione con la qualifica dirigenziale. L’esito favorevole ai tre candidati, sarebbe stato determinato grazie alla collaborazione di Maria Benedetto (finita in carcere), direttore amministrativo dell’Asm e presidente della commissione di concorso, Maddalena Berardi, direttore amministrativo dell’Azienda ospedaliera San Carlo e componente della commissione d’esame (finita ai domiciliari), Davide Falasca, dirigente amministrativo dell’Aor San Carlo componente della commissione e Ferdinando Vaccaro collaboratore tecnico dell’As esperto di informatica componente aggiuntivo della commissione esaminatrice che avrebbero eseguito le direttive loro impartite dal presidente della Giunta regionale Pittella, dal direttore generale dell’Asm Quinto, dal direttore dell’Asp Bochicchio e dal dirigente Montanaro (anche lui indagato a piede libero). Benedetto Maria - spiega il gip - d’accordo con Quinto avrebbe invitato il candidato D’Alessandro a esprimere preferenze per i temi della prova pratica, avrebbe poi stabilito i temi della prova passando le tracce a D’Alessandro che a sua volta sarebbe stato incaricato di passarli a D’Anzeri. Mentre il dirigente Montanaro li avrebbe forniti a Fruscio dopo averli chiesti e ottenuti dalla stessa Benedetto. 

Il Crob, il San Carlo e le solite coincidenze nella gestione del personale. Procedura di mobilità e trasferimento anche per la moglie del fratello del genero del direttore generale dell'ospedale San Carlo, scrive il 6 giugno 2018 su "Basilicata 24". Appena ieri, 5 giugno, ci siamo occupati del fratello del genero del direttore generale dell’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza. Il primo classificato in una graduatoria per la mobilità attraverso una procedura piuttosto bizzarra. Oggi scopriamo che anche la moglie del fortunato fratello del genero del direttore Maglietta, è beneficiaria di una procedura di mobilità. In sostanza su sua richiesta la dottoressa dirigente medico viene trasferita dal Crob all’ospedale San Carlo. Nella delibera di trasferimento del 31 maggio 2018 si legge chiaramente che adesso quel posto al Crob di dirigente medico di medicina nucleare è vacante. E quindi? Serve o non serve al Crob un dirigente medico di medicina nucleare? Perché se serve, quel trasferimento sarebbe, almeno al momento, inopportuno. Se non serve, perché è stata assunta? Ad ogni modo è ragionevole immaginare che ci sarà un nuovo concorso o una procedura di mobilità per la copertura di quel posto ormai vacante. Chissà forse qualcuno si sta già riscaldando a bordo campo. Il fatto che in questa vicenda di ordinaria amministrazione siano coinvolti il fratello, e la di lui moglie, del genero del direttore Maglietta è una pura coincidenza, per carità. La fortuna è sempre dalla parte degli audaci.

Assunzioni all’ospedale San Carlo: Il gioco delle tre carte del direttore generale. Mobilità bizzarra e concorsi soverchi, scrive il 5 giugno 2018 "Basilicata 24". Siamo alle solite? Si utilizzano le istituzioni pubbliche per sistemare amici e familiari? Sembrerebbe che ancora una volta l’azienda ospedaliera San Carlo di Potenza agisca con scarsa trasparenza, in modo del tutto discrezionale e contraddittorio, in materia di assunzione di personale. Cosa sarebbe successo questa volta? Il San Carlo bandisce, nell’agosto 2017, l’avviso di mobilità per un posto di tecnico di radiologia, pubblicando la relativa graduatoria a distanza di quasi un anno: il 28 maggio 2018. Il 14 maggio 2018, e cioè ancor prima di completare le procedure di mobilità, viene bandito un concorso per la copertura a tempo indeterminato di 7 posti di tecnico di radiologia. Circostanza alquanto bizzarra considerato che il concorso viene bandito nonostante esista una graduatoria di ben 12 idonei per la mobilità. In questa graduatoria il primo classificato sarebbe il fratello del genero del direttore generale del San Carlo, guarda caso l’unico a beneficiare del trasferimento per mobilità volontaria. Si tratterebbe dell’ennesimo escamotage per beffare la legge. Un gioco da ragazzi: Si fa la mobilità per un posto di tecnico di radiologia per poi bandire un concorso per 7 posti, senza aver, di fatto, utilizzato la graduatoria della mobilità, o meglio dopo averla utilizzata per un unico partecipante, guarda caso un familiare del direttore generale. E sarebbe un atto tanto più grave ed illegittimo se si considera che il nostro ordinamento, a buona ragione, consideri prioritario il ricorso alla procedura di mobilità di personale proveniente da altre amministrazioni invece dell’utilizzo di graduatorie concorsuali di idonei, seppure ancora valide ed efficaci. Perché? Perché il percorso della mobilità consente l’acquisizione di personale già formato e l’immediata operatività del personale. In un contesto legislativo generale caratterizzato da un particolare favore riservato all’istituto della mobilità quale strumento per conseguire una più efficiente distribuzione organizzativa delle risorse umane nell’ambito della pubblica amministrazione, con significativi riflessi sul contenimento della spesa pubblica, appare oltremodo irragionevole la scelta di bandire un nuovo concorso in presenza di una valida graduatoria di idonei interessati alla mobilità volontaria.

Marcello Pittella e la pedagogia del clientelismo. Assunzioni a tutta birra e carriere fulminanti. Il presidente della Basilicata userebbe le procedure di mobilità a proprio piacimento, scrive il 26 agosto 2017 "Basilicata 24". Vi ricordate la storia dell’Ente Parco val d’Agri? Casi di assunzioni urgenti a tempo determinato che, per uno strano gioco di prestigio, a volte anche in pochi giorni, perdono il requisito dell’urgenza e diventano motivo di necessario distacco ad altri enti. In particolare alla Regione. Ce ne siamo occupati in una nostra inchiesta. Ebbene, cari amici lettori, il mercato delle clientele è sempre aperto.

Gli esempi emblematici, ma non rari. Luglio 2015, distacco “comandato” di Cristina Florenzano alla Regione Basilicata, nella segreteria “particolare” del Presidente (determinazione Direttore -Ente Parco- n. 319 del 21/07/2015). Marzo 2015, distacco “comandato” architetto Giusy Lucia D’Avenia, al Dipartimento Presidenza Giunta Regionale (deliberazione giunta regionale n. 232 dell’8/03/2016). Giugno 2016, nulla Osta al trasferimento di Maria Greco, “vincitrice” del concorso da Funzionario Amministrativo classe C con prova orale il 13/3/2015. Poiché nell’albo pretorio del parco si vede solo l’intestazione dell’atto, non è dato sapere a quale Ente sia stata trasferita. Verosimilmente agli uffici della Regione.

Il caso Cristina Florenzano. Sembrerebbe che “i comandati”, assunti con un livello coerente con la funzione esercitata nell’Ente Parco, nel momento in cui passano ad altro Ente salgano di livello. Sarebbe il caso di Cristina Florenzano la quale, “comandata” nella segreteria particolare del Presidente della Giunta Regionale, ha un incarico il cui “trattamento economico è determinato ai sensi della Disciplina delle Posizioni Organizzative”. Senza malignare, occorre aggiungere che Florenzano è stata rappresentate del candidato Marcello Pittella all’interno del Comitato organizzativo promotore delle primarie di centrosinistra per la scelta del candidato presidente per le elezioni regionali. L’incarico alla Florenzano è stato prorogato circa un mese fa.

Il caso Lucia D’Avenia. L’architetto Giusi Lucia D’Avenio dipendente del Parco, prima comandata al Dipartimento Presidenza della Giunta Regionale, oggi è entrata definitivamente nei ruoli regionali con inquadramento livello economico C1, giusta delibera della Giunta n. 825 del 4 agosto 2017.

Tutto questo è possibile? Sì. Basta adottare le procedure di mobilità previste dall’articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001: “… le amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità … provvedendo, in via prioritaria, all’ammissione in ruolo dei dipendenti provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo e bla bla bla…” Come al solito sul piano formale (e legale) è tutto a posto. O quasi (La Florenzano, in quanto dipendente a “tempo determinato” non poteva essere “comandata”) I percorsi lavorativi a propria immagine e somiglianza questi signori li sanno ricamare per bene:

· Ti assumo, magari anche a tempo determinato, magari anche senza concorso o attingendo da una graduatoria di un concorso scaduto da dieci anni e magari anche con procedura d’urgenza per la copertura urgente di una funzione urgente;

· Poi dell’urgenza e di tutto il resto ci facciamo una pippa e ti distacco o comando nel posto e nell’Ente dove la politica ha stabilito che devi andare;

· Arrivato il quel posto c’è già la garanzia di uno scatto di carriera in termini di livello e di posizione.

· Il gioco è fatto ed è tutto regolare;

· Ci sarà qualche mugugno ma, quelli esclusi dalla giostra delle prebende capiranno “che o sei con me o sei fuori dalla pagnotta”.

La pedagogia del clientelismo. Insomma, a parte le stranezze procedurali e concorsuali, l’Ente Parco incarna una palese contraddizione. Lamenta carenze di personale, non a caso negli ultimi mesi avrebbe messo mano più volte all’organizzazione degli uffici, di fatto moltiplicandoli, assume a tutto spiano – a tempo determinato – adducendo motivi di urgenza e indifferibilità. Subito dopo però, a volte anche dopo poche settimane, il personale assunto è ceduto “in comando” ad altri Enti. E’ tutto regolare? Rimane ancora forte il dubbio che l’Ente Parco e non solo (si veda Arpab,) funzioni come area di transito per sistemare amici e compari di politici, in particolare del governatore Pittella, in posizioni più sicure e ben retribuite. Tutto questo si chiama “pedagogia del clientelismo”.

Il bordello delle assunzioni all’Arpab e alla Regione Basilicata. I Concorsi? E che li facciamo a fare! E’ ormai da mesi che l’Arpab sembra impegnata affannosamente sul fronte delle assunzioni. Ma c'è qualcosa di strano, scrive Michele Finizio il 22 agosto 2017 su "Basilicata 24". I concorsi? E che li facciamo a fare! E’ ormai da mesi che l’Arpab sembra impegnata affannosamente sul fronte delle assunzioni. Mentre sui versanti dell’efficienza delle proprie prerogative a tutela dell’ambiente sembra, al contrario, molto svogliata: siamo più vicini alle chiacchiere che ai fatti. Sulle assunzioni, invece, siamo dentro i fatti, Regione compresa.  E che fatti! Ricominciamo.

Il “bordello” delle assunzioni all’Arpab. Il direttore generale Edmondo Iannicelli continua a pescare dirigenti da una graduatoria del 2009 relativa ad un concorso del 2008. Quella graduatoria, non prorogabile, poiché il vincitore fu assunto all’epoca né utilizzabile perché vecchia, è diventata il pozzo senza fondo da cui l’Arpab attinge personale dirigente e non. La lista si sta allungando oltre ogni decenza e questo suscita qualche dubbio. La domanda è: un ente sub regionale (quindi pubblico) può assumere personale facendo ricorso a vecchie graduatorie? Boh. Si parte il 19 luglio del 2017 quando il direttore generale assume a tempo pieno e determinato, per tre anni, dal 20 luglio 2017, nel ruolo di dirigente professionale l’ing. Auletta Maria Angelica Domenica. Assunzione senza concorso, grazie allo scorrimento di una vecchia graduatoria del 2009 il cui vincitore era stato assunto. Con delibera n. 251 dell’8 agosto viene assunta a tempo pieno e determinato l’architetto Marianna Denora, funzione dirigente, mediante scorrimento delle graduatorie dei concorsi pubblici del 2008. Assunzione senza concorso. Con delibera n. 255 del 14 agosto, sono assunti in qualità di collaboratori amministrativi, Colucci Rosaria e Mango Antonello, “utilmente collocati, quali idonei non ancora assunti, nella graduatoria approvata con DD n. 198/2011. Stesso disco. Con deliberazione n. 258 del 21 agosto, viene assunto un dirigente, Lo Galbo Fabrizio con una procedura di scorrimento di una graduatoria approvata nel 2010 il cui primo classificato era stato assunto. Stessa canzone.

Tutto regolare? La presidente del Consiglio Comunale di Lagonegro assunta all’Asp. Chi è la fortunata assunta? Lei, Mariangela Gioia, eletta nella lista civica del sindaco Pd Mitidieri alle elezioni amministrative del giugno 2016, scrive il 6 novembre 2017 "Basilicata 24". Ci ha incuriosito l’assunzione a tempo determinato, pieno ed esclusivo, per un anno, di un collaboratore tecnico professionale sociologo all’Asp di Potenza.  La curiosità è originata da due “stranezze” contenute in alcune di quelle diavolerie formali che spesso gli enti utilizzano per oscurare ben altre sostanze. La prima deriva dal fatto che la persona assunta è seconda in una graduatoria di un concorso per titoli e colloquio relativo ad un avviso pubblico dell’Azienda sanitaria di Matera. La seconda deriva dal fatto che la persona assunta è presidente del consiglio comunale di Lagonegro eletta nella lista civica (Pd) alle elezioni amministrative del giugno 2016. Area Pittella. Andiamo per ordine. Dunque l’Asm fa un avviso per la copertura di un posto di sociologo. Una persona si classifica prima in graduatoria. Sembrerebbe che questa persona sia stata assunta dall’azienda materana. L’Asp di Potenza avrebbe necessità di un sociologo e quindi lo reperisce dalla graduatoria materana. Assume così la seconda classificata “nelle more di apposita procedura di mobilità finalizzata alla copertura a tempo indeterminato del posto in argomento da indicare nel redigendo Piano dei fabbisogni di personale”. L’Asp, modifica la propria pianta organica cosi che risulta un posto vacante di sociologo. La Regione Basilicata approva con delibera di Giunta. Insomma, attraverso una procedura che sul piano formale non farebbe una piega, si arriva a creare le condizioni per l’assunzione di questo benedetto sociologo. Facciamo rilevare che la selezione è stata effettuata con il criterio dei titoli e del colloquio. Chi è la fortunata assunta? Lei, Mariangela Gioia, coordinatrice della casa di riposo di Maratea, notoriamente bacino elettorale di tutti i partiti, consigliere comunale e presidente del Consiglio a Lagonegro. Eletta nella lista civica del sindaco Pd Mitidieri (Marcello Pittella). Nulla di strano, per carità. La persona assunta, tra i tanti sociologi disoccupati, probabilmente è la più brava, ma non sarebbe la più bisognosa.  In questi casi si sa, è il merito che conta e non la posizione economica dei candidati. La persona assunta, in quanto presidente del Consiglio comunale di Lagonegro ha chiesto legittimamente, ai sensi di legge, i permessi per mandato politico. Diciamo che la necessità, e a quanto pare l’urgenza, di avere un sociologo, si è poi attenuata. Insomma, volevamo vederci chiaro in questa vicenda per dissipare ogni dubbio e soddisfare ogni curiosità. Ma non ci siamo riusciti e vi spieghiamo perché.

La trasparenza è tutta fuffa? Andiamo sul sito dell’Asp e cerchiamo la delibera del direttore generale del 10 luglio 2017 di conferimento dell’incarico alla sociologa. Abbiamo anche il numero del documento.  Clicchiamo su Albo Pretorio On line. Ecco, ci siamo. Compare un link: “delibere del direttore generale archiviate dopo il 18 marzo 2013”. Clic. Il sistema ci offre 12 elementi dall’1 al 4 novembre. E il resto? Proviamo a fare la ricerca filtro. Inseriamo numero della delibera, data, oggetto. Aspettiamo, aspettiamo. Il sistema gira a vuoto, niente, nessuna delibera con i criteri inseriti. Trenta minuti di operazioni senza nulla ottenere. Andiamo sul sito dell’Asm e cerchiamo una delibera del direttore generale del 21 aprile 2017 di approvazione della graduatoria di merito.  Andiamo sull’albo pretorio on line ed ecco il link al documento. Sì è proprio la delibera che cerchiamo, Clic. Ma la delibera non si scarica, è un pdf, ma non si scarica, perché? Perché “per accedere al file occorre inserire il valore chiave associato alla delibera”. Così è scritto. E che cos’è questo valore chiave? Dove lo troviamo, chi ce lo fornisce? Mistero. Probabilmente il valore chiave è scritto sulla delibera, ma se ho la delibera in mano è evidente che non ho bisogno di cercarla sul sito. Fatto sta che non siamo riusciti a scaricare il file. Saremo noi degli incompetenti. Ignoranti in diavolerie informatiche. Certo è che per accedere alla campana di vetro delle due aziende, bisogna attraversare oscuri cunicoli.

Da notare una cosa: Procura di Matera VS Procura di Potenza.

ESCLUSIVA. La sentenza della Cassazione che ha spedito in carcere l’ex-pm Matteo Di Giorgio, scrive Antonello de Gennaro il 19 ottobre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Ancora una volta è il Corriere del Giorno a pubblicare in esclusiva  la sentenza integrale della sezione feriale della Suprema Corte di Cassazione dello scorso 8 agosto, contenente le motivazioni depositate il 18 ottobre, che hanno mandato in carcere l’ex-magistrato della Procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un processo che ha visto confermare nei tre gradi di giudizio  la struttura accusatoria della Procura di Potenza, ed infatti nella sentenza di primo grado, ed in quella di appello le pene erano diminuite solo e soltanto per la sopraggiunta prescrizione di alcuni dei reati commessi. Il procedimento ha visto confermare nel merito le accuse al Di Giorgio precedentemente in servizio presso la Suprema Corte di Cassazione, con a capo il procuratore Aldo Petrucci. Da ricordare che il Tribunale di Potenza al termine del processo di primo grado ordinò ai sensi dell’ art. 207 c.p.p. la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti anche dei magistrati tarantini Pietro Argentino ed il Petrucci  “per il reato di falsa testimonianza“, i quali alle rispettive udienze dibattimentali del 6 e 27 febbraio 2014 avevano reso “dichiarazioni che, alla luce delle altre acquisizioni processuali, venivano ritenute  non credibili dal Collegio giudicante“. Le accuse processuali espresse e contenute nella sentenza del Tribunale di Potenza nei confronti  dei magistrati Argentino e Petrucci , come anche la decisione del pm dr.ssa Laura Triassi della Procura di Potenza ,  da noi pubblicata in precedenza, nella sua richiesta di archiviazione del 16 marzo 2015 , erano quindi fondate e veritiere, ed i due magistrati si sono “salvati” solo e soltantanto  grazie al proscioglimento conseguenziale ad un discutibile principio espresso da due sentenze della Corte di Cassazione secondo le quali “un testimone non è punibile in forza dell’esimente (art. 384 comma primo Cp) allorquando il testimone (è il caso dei magistrati Argentino e Petrucci – n.d.a.) rende false dichiarazioni per evitare di essere a sua volta incriminato per un reato precedentemente commesso“. Anche l’“allegra” archiviazione della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura  del procedimento nei confronti di Argentino, successivamente diventato con il minimo dei voti necessari procuratore capo di Matera, circostanza ammessa e confessata al Corriere del Giorno da  alcuni dei componenti della sezione disciplinare del CSM che lo avevano prosciolto, i quali hanno dichiarato (a posteriori)  che “avremmo dovuto ascoltare il procuratore generale ed ascoltare i testimoni, e quantomeno sospendere il procedimento considerando delle attività giudiziarie in corso a Catanzaro che vede contrapposto Argentino ai magistrati di Potenza“.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe, scrive il 19 luglio 2014 Antonio Giangrande. Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace? «Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon. Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione. L’ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana. Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali. «Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, scrive Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio – scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” –  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L’attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell’università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante – fra l’altro – di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all’on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l’on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell’area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l’arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall’attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell’area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l’arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede….Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato…

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno… É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare…

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un’idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l’Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

ESAME DI AVVOCATO. TRUCCATO ANCHE A POTENZA.

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

TI SEI DIVERTITO? (OVVERO L’ESAME DI AVVOCATO), scrive Federico Baccomo su “Studio Illegale”. Nonostante quello che si può pensare, io non sono nato Avvocato. Ero uno qualunque prima che il superamento di un esame mi elevasse a un rango tale per cui la gente sbadiglia quando dico di cosa mi occupo. Dicevo. Ho superato un esame per essere quello che sono. Io, che vivo la mia vita professionale come un totano nella rete, ho superato un esame per essere quello che sono. Lo ripeto perché mi sembra molto divertente. Ed è questa la caratteristica principale dell’esame d’avvocato. E’ una delle cose più divertenti che possa capitare di fare. Scherzi, lazzi, giochi, burle. In una parola, un gran divertimento. Come ogni esame che si rispetti, l’esame d’avvocato è diviso in due fasi: lo scritto e l’orale. E questo sembra quasi banale. Ma sarebbe un errore pensarlo, perché, a differenza di ingegneri, architetti o altri professionisti poco spiritosi, la cosa divertente del nostro esame è che tra i due momenti – scritto e orale – può passare anche un anno. Un anno. Ci pensano le commissioni d’esame a creare la giusta suspence, rilasciando i risultati dopo sei/sette mesi dallo svolgimento delle prove, con il popolo dei candidati che, al rullare dei tamburi, dice “oooooooooOoOoOOOOOOOHHH”. E sembra proprio di stare allo stadio prima di un rigore. Un rigore con una rincorsa di sette mesi. Spassosissimo. E, per quelli che ce l’hanno fatta a fare centro, una media di altri tre/quattro mesi prima di sostenere l’orale. Col risultato di un esame che, come un bellissimo e lunghissimo gioco, occupa un anno di vita. Questo io lo trovo assolutamente divertente, perché permette di assaporare mille sensazioni (tra cui, l’ansia, l’agitazione, l’angoscia, l’amarezza, la demoralizzazione, ecc.) e di sentirsi gioiosamente parte di un felice meccanismo di selezione. Per alcuni colleghi, poi, è tutto ancora più divertente. Siccome può capitare che l’iter si prolunghi oltre l’anno senza che siano riusciti a sostenere l’esame orale, sono costretti, in attesa dell’orale, a rifare l’esame scritto nonostante l’abbiano già passato l’anno prima. E’ uno scherzo bellissimo. E loro si divertono molto, essendo persone che sanno stare al gioco. Certo, alcuni, all’inizio, si arrabbiano un po’, sostenendo che il Consiglio nazionale forense si disinteressa della dignità o della sorte dei suoi futuri appartenenti. Ma poi lo capiscono subito che è solo un bellissimo scherzo. Anzi, io credo che il Consiglio semplicemente voglia che il candidato arrivi al titolo con gradualità. Il successo, quando è improvviso, può dare alla testa. E poi si diventa presuntuosi. E non ci si diverte più. Oggi, è cominciato l’esame scritto. Dura tre giorni. Tre giorni per tre elaborati: un parere in materia civile, un parere in materia penale e un atto su una materia a scelta (civile, penale, amministrativo). A questo punto, in maniera molto superficiale, ci si potrebbe chiedere: io che mi occupo di fusioni e acquisizioni societarie, perché devo svolgere un tema d’esame su Caia, vicina di Tizio, che sbatte i tappeti fuori dalla finestra? Ha Tizio diritto a un risarcimento per il danneggiamento del cortile? E se Caia compie l’azione di pulitura del tappeto tutta nuda, ci sono profili per riconoscere la legittimità del gesto? Di più, sempre ingenuamente, si potrebbe notare che un chirurgo non è tenuto a saper curare una carie o un cardiologo a saper togliere le emorroidi. E allora perché l’avvocato deve provare di conoscere la disciplina del matrimonio e quella del tentato omicidio, la contrattualistica e il diritto condominiale, l’infanticidio e il contratto di locazione? Ma questo, come si diceva, è tutto frutto di ingenuità. E l’Ordine degli Avvocati non risponde all’ingenuità. E poi, finché il cliente paga, queste sono quisquilie di cui possiamo anche non tenere conto. Il fatto è che si fanno tre prove scritte per divertirsi. Presentarsi per tre giorni in un capannone dove solitamente tengono la fiera del ciclo e motociclo, insieme ad altri 3000 ragazzi, stipati in banchetti di 40×80, dalla mattina alle 8.00, per uscirne solo intorno alle 19.00, è qualcosa di molto divertente. Sembra un po’ di stare in colonia. Si mangiano i panini fatti in casa, ci si ritrova nei bagni per parlare, si fanno tante amicizie. E, proprio come in colonia, alle volte viene da piangere, con la malinconia della mamma. Ma è solo un attimo e poi si torna tutti a ridere felici. Purtroppo, però, si sentono dire tante cattiverie. In particolare, è facile sentire tanta gente che non sa stare allo scherzo dire una certa parola e fare la faccia di chi ha capito tutto. La parola in questione è Catanzaro. Catanzaro per un avvocato non è solo il capoluogo della Calabria. Catanzaro è un simbolo. Catanzaro è la Mecca del praticante avvocato. A Catanzaro, nel 1997, avvenne qualcosa di molto bello. I commissari d’esame, la mattina di una delle prove, entrarono con un foglio in mano e dissero: “Ora fate attenzione perché non ripeteremo”. E cominciarono a dettare la soluzione del compito. Pensate quante risate si sono fatti quando il 98% dei candidati ha passato l’esame, mentre nella maggior parte del resto d’Italia le teste dei candidati cadevano impietosamente (con percentuali tra il 10 e il 30% di promossi). Furono in 6 su 2.301 a non copiare. Naturalmente furono i meno spiritosi. Perché quando si scherza, è importante fare gruppo. Poi successe che qualche malvolente magistrato mise in piedi un’inchiesta, ma si scoprì presto che anche quello era solo un gioco e all’esito del processo si è festeggiata una prescrizione da tutti attesa e felicemente accolta. In fondo a Catanzaro quella era la tradizione. E, ancora più in fondo, si stava solo giocando. Chi non ha mai sbirciato le carte di quello andato al bagno? Chi non s’è mai aggiunto delle armate sulla Kamchatka mentre gli altri erano distratti? Chi non ha mai mosso un pochino il maglione per stringere la porta quando giocava a calcio ai giardinetti? Il legislatore, tuttavia, in quel caso se ne ebbe un po’ a male ed orchestrò una soluzione. Oggi, per evitare ingiustizie, si procede così: da ogni sede d’esame, partono alcuni tir che portano i compiti svolti, per esempio, a Roma e li fanno correggere a, per esempio, Bologna. E’ un po’ come se a scuola, invece di mantenere la disciplina durante un compito, si lasciassero gli studenti a fare quello che gli pare e poi si prendessero i temi e si facessero correggere alla professoressa del piano di sotto. E’ evidente che è tutto uno scherzo. Uno scherzo ancora più gustoso se si pensa a quanto può essere professionalmente importante questo esame per un ragazzo che impiega un paio di anni per potervi accedere. Come si vede, le premesse per divertirsi ci sono tutte. Ah… quanti ricordi che ho anche io del mio esame. Ricordo che, alla vigilia, ho dovuto presentarmi insieme a tutti gli altri candidati, con un trolley pieno di codici e una catena, presso la sede della Fiera Campionaria. Dopo cinque ore di coda, ho potuto raggiungere il mio banco all’interno di un enorme capannone e lì ho legato il bagaglio. I candidati, infatti, devono portare all’esame il proprio materiale di consultazione. I commissari d’esame, furbi come lepri marzoline, pretendono, però, di controllare tale materiale affinché nessun furbacchione introduca libri non autorizzati e/o bigliettini e/o note e/o appunti. E allora si deve passare in mezzo a una serie di controlli di questo manipolo di giovani e meno giovani professori/magistrati/avvocati che giocano al sergente controllore, per vedersi approvati i propri codici. Ogni codice ha più di 5.000 pagine. Ogni candidato ha almeno 4 codici. 3.000 i candidati. Che fanno 60.000.000 di pagine da controllare. A rifletterci ora, a mente fredda, sono stato fin troppo pessimista, visto che avevo infilato gli appunti nei calzini. Quello che non ci stava nei calzini, comunque, l’avevo messo in una tasca del trolley che non è stata aperta. Tutto questo avviene il giorno prima dell’inizio dell’esame, quando il candidato è in quello stato d’animo di contagiosa gioia che anima chiunque alla vigilia di una prova e lo spinge a riversarsi in piazza. Chi di noi ha bisogno di concentrarsi, studiare e/o rilassarsi? A noi piace fare una coda di ore, nella Milano di dicembre, per farci perquisire come terroristi legali. E anche tutto questo contribuisce al divertimento. E poi cominciò l’esame vero e proprio. Gli epici tre giorni. Ma quello che ivi avvenne – tra commissari compiacenti, errori nella dettatura dei temi d’esame, carabinieri che sorvegliavano i cessi, tentativi di rimorchio, svenimenti, acrobatici suggerimenti, scene isteriche, allarmi in funzione per ore, ecc. – non lo posso raccontare. Fa parte di quei ricordi personali che noi ex praticanti serbiamo nel cuore tra le cose più care e per i quali non esistono parole. (Dedicato a N. che ha fatto l’esame sette volte. Poi l’ha passato. E la moglie l’ha lasciato.).

Esame di Stato per Avvocato: vi racconto cosa accadde…Ogni anno, come sovente, tutte le sedi dell’Esame di Stato per Avvocato (una per ogni Corte d’Appello) saranno prese d’assalto da migliaia di fiduciosi, ma spesso scettici, aspiranti avvocati che, date le difficoltà dell’esame stesso (e forse la “quantità industriale” di avvocati già presenti sul territorio nazionale), spesso si ritrovano a essere puntualmente respinti e a doverlo ripetere ad oltranza (per fortuna ci sono sempre i “bravi e fortunati” che riescono a superarlo in un batter di ciglio e in prima battuta!). Anche quest’anno stressatissimi giovani avvocati già “giurati”, dunque, dopo aver studiato per mesi o dopo aver ripetuto per l’ennesima volta gli stessi codici, leggi e decreti, si recheranno nelle sedi dell’Esame di Stato per Avvocato con un sicuro altissimo livello di ansia e di tensione, spesso acuite dallo stesso contesto. Leggende metropolitane(?) raccontano di un ambiente alquanto “rigido” dove spesso il concetto di giustezza e di liceità nel modus operandi delle persone deputate a garantire l’ordine e la legalità di questo ufficialissimo “evento” pubblico, talvolta si confondono e vengano interpretati in maniera piuttosto personale ed arbitraria. Non basta, quindi, a quanto pare, aver sudato già le “doverose” sette camicie di rito per laurearsi in legge, non basta aver sopportato ingiustizie, angherie e più banalmente la spietata concorrenza dei tanti che prima e dopo di te si sono iscritti a giurisprudenza, non basta aver sopportato un vivere in quegli anni come in un sistema classista e gerarchico dove al vertice si erge quasi con “scettro e pastorale la sacra casta”! Sembra, infatti, che anche dopo, occorra recuperare delle “buone spalle larghe”, augurandosi che bastino per indossare nuovamente almeno altre 7 camicie!

Intervista: lo sfogo di una partecipante all’Esame di Stato per Avvocato, scrive Pasqualina Scalea su “Controcampus”. A tal proposito, a seguire, un’intervista o forse sarebbe più opportuno parlare di uno “sfogo”, una “confessione”, un “racconto” di uno dei tanti aspiranti avvocati campani che ha voluto raccontare per Controcampus la sua ultima esperienza di Esame di Stato per Avvocato in Campania, dopo aver conseguito la laurea presso un’università nella stessa regione. Per ovvi motivi il nostro “quasi avvocato e lettore” di Controcampus rimarrà nell’anonimato, così come preferiamo stendere il silenzio sul luogo specifico di svolgimento dell’Esame di Stato per Avvocato.

Tra qualche mese, a dicembre, ci ritroveremo tutti al patibolo. Ogni anno la percentuale dei promossi all’esame di stato per avvocato, è più bassa dell’anno precedente. Pertanto, se non ti dispiace, comincerei dalla fine invece che dal principio, giusto per rendere spiegabile l’ansia e la frustrazione che ognuno di noi vive nel corso dei tre giorni di esame. E’ chiaro a tutti che ormai la volontà politica generale è quella di ridurre il numero degli avvocati. La maggior parte dei parlamentari è un avvocato e nessuno ama la concorrenza. Siamo rimasti tra (se non l’unico) Paese in Europa ad aver mantenuto un esame di stato per avvocato per l’accesso alla professione quando, invece, la selezione dovrebbe farla il mercato. Tra l’altro ci si dovrebbe interrogare su questa riflessione: se alcuni anni fa a superare l’esame erano il 96% dei candidati e oggi il 17-30% cosa vuol dire? Che tutti gli incapaci sono nati nelle ultime due generazioni o che molti degli ATTUALI avvocati sono in realtà degli incapaci? Allora perché non fare un esame per restare nell’albo? Troppo pericoloso, forse? Cane non morde cane?"

“C’è, poi, un altro paradosso che devi conoscere. Dopo un anno di pratica è possibile sostenere un giuramento (che non prevede alcun esame ma solo la lettura di una formula) e patrocinare cause per un valore non superiore a € 25mila. Io, grazie a questo nulla osta, ho oggi un fatturato di circa diecimila euro (e nessuna di queste pratiche mi è stata passata da mio padre, per chiarirci). Questo “nulla osta” vale per sei anni dal momento del giuramento; dopo di che, se non hai superato il famoso esame di stato per avvocato, non può più patrocinare. Dunque, il paradosso: dopo un anno di pratica appena, posso patrocinare ma dopo 7 anni di pratica, cause mie, un mio fatturato, no. Allora? Come si spiega? Si spiega col fatto che i patrocinanti con il nulla osta sono utili a quegli avvocati che non possono andare in udienza e mandano questi ragazzi (a costo generalmente pari a zero! Per essere chiari l’ho fatto e lo faccio anche io). Il nulla osta esiste solo per questo. Ma quando questi ragazzi, manovalanza a costo zero, diventa concorrenza, diventano degli incapaci.”

“E continuo dalla fine, posso?” La correzione dei compiti: vogliamo parlarne? Una farsa. Nel mio caso (che è uguale a quello di tutti gli altri, non sono una vittima) tre compiti di almeno 4 pagine intere ciascuno. Corretti con una media di due minuti e mezzo, senza alcun segno di correzione. Assolutamente plausibile credere che non siano stati letti, no? Anche perché nella sostanza, col senno di poi, si è in grado di dire se uno ha scritto sciocchezze o cose giuste. Le mie erano cose giuste! E, voglio dire, non esiste solo il massimo dei voti ma anche la sufficienza. Pare che se ne siano dimenticati!"

“Ho visto i compiti di alcuni miei amici che li hanno fatti uguali (sì hanno copiato tra di loro), te lo giuro, IDENTICI (qualche sinonimo qua e là del tipo o-oppure, inoltre-in più, etc.) con voti assolutamente diversi: un promosso a voti pienissimi, una promossa “rosicata”, un bocciato che con quei voti avrebbe dovuto ritirarsi. Mah! E andiamo alla tre giorni dello scorso anno. Io l’ho sostenuto già due volte e posso farti un paragone. La prima volta è stato tutto molto tranquillo, forse fin troppo; i membri della commissione ti davano una mano, se chiedevi un consiglio te lo davano (ok, ognuno diverso dall’altro il che ti metteva in crisi…chi aveva ragione? Ma almeno ci provavano), se chiedevi un bicchiere d’acqua, mamma mia, te lo portavano (devi sapere che non ci sono distributori, quindi se ti sei portata qualcosa, bene se no, niente). Devo essere sincera il primo anno fu un po’ anche un paradosso: ho visto cellulari sui banchi e gente che copiava dallo schermo. Ora dico, anche questo forse era troppo, ma il secondo anno (2010) è stato assurdo.”

“Intanto si è presentato questo ispettore “mandato direttamente dal ministro Alfano per vigilare sul Concorso”. Ecco, appunto. Non è un CONCORSO. E’ un esame di stato per avvocato ma da ignorante qual è, non conosce la differenza. Il secondo giorno si è presentato in compagnia di un membro importante dell’ordine forense, personaggio veramente ignobile, secondo me. Non una parola di sostegno, no, contro di noi a trattarci come criminali. Ci ha detto insieme all’ispettore che chi copiava commetteva reato (anche su questo vorrei aprire una parentesi: I REATI SONO SOLO QUELLI PREVISTI DAL CODICE PENALE. Non è un reato “copiare”, al massimo è un illecito amministrativo tant’è che tra i trenta/cinquanta espulsi dello scorso anno nessuno è stato perseguito).”

“L’ispettore e i suoi bravi giravano nelle classi, ci fermavano davanti ai bagni e nei corridoi e ci urlavano addosso. Ecco, nella mia esperienza personale questo tizio mi ha urlato in faccia “Che cos’hai? Caccia quello che hai! URLAVA, con dei modi!!!! “Io ti faccio perquisire” se non che con molta calma gli ho detto “Guardi che lei mi sta trattando come una criminale ma io nella mia vita non ho neanche mai preso una multa”. Un’umiliazione, uno stress, una tensione che ci-mi faceva stare fisicamente male. Io mi sono sentita malissimo. Non mi sono mossa dal banco. Qualcuno dirà, chi non aveva nulla da temere non doveva avere paura. Non è così. Per la prima volta l’ho capito. Era l’aria che si respirava, quel modo di fare, di urlare che faceva stare male. Ogni tanto qualcuno della commissione o qualche esaminando entrava in aula e diceva, fuori un altro! Hanno espulso una quantità di gente. E, mi risulta, anche qualcuno “sulla base del sospetto” il che ovviamente non si può fare (ma questi sono fortunati, se fanno ricorso, lo vincono necessariamente). Una ragazza al momento della consegna dell’ultimo compito si è abbassata per firmare e l’ispettore ha visto o ha creduto di vedere una sagoma nella tasca dei jeans e le ha urlato di cacciare il cellulare. La ragazza (sangue freddo) ha detto che erano sigarette, che lui non poteva metterle le mani addosso e che quindi se ne andava. L’ha trattenuta chiedendo a dei militari (mi pare finanzieri) di perquisirla ma si sono rifiutati. La perquisizione è possibile solo per armi e droga e su mandato di un giudice. Non può venire un tizio qualsiasi a dire, perquisitela (una donna poi!). Forse anche l’ispettore dovrebbe rifare l’esame di stato per avvocato. Ma questo non tutti lo sapevano o hanno avuto la lucidità di dirlo e sembra che nei bagni la polizia (femminile) abbia chiesto alle ragazze di levare gli stivali e alzarsi le maglie. Nemmeno questo possono fare. Perfino all’aeroporto per farti levare le scarpe TE LO CHIEDONO e non te lo intimano e ti danno dei calzini.”

“Alla fine, mia cara chi doveva copiare ha copiato comunque. Chi aveva i suoi santi in paradiso ha ricevuto il compito bello e fatto e amen. Come al solito la mano dura colpisce quelli che sono soli. Nel mio caso, il giorno del terrore è stato il secondo, compito di penale. Quando quello mi ha urlato addosso, a me veniva da piangere e non mi sono mossa più, non ho parlato più con nessuno (anche se lì è un vociferare continuo). Quel giorno sapevo di essermi giocata l’esame e il terzo giorno sono andata spavalda. Non avevo altro da perdere (e non sbagliavo). E come me ho avuto l’impressione che fossimo tutti più spavaldi, consapevoli. Metterceli contro, non ci pesava più. Non li avremmo più rivisti e molti sapevamo che ormai il dado era tratto (in negativo). Ho camminato spavalda nei corridoi e amen. L’ispettore sembrava quasi spaventato e, infatti, alla fine non è uscito se non dopo molte ore e scortato.”

“Ci hanno trattato come criminali e invece stavamo solo facendo un esame di stato farsa e tra i banchi a controllarci c’erano molte persone che mi chiamano “collega” in udienza, mi chiedono favori, non di rado “consigli” e cercano di trattare con me le loro cause (perse)!”.

Un esame all'italiana, scrive “Pensiero Precario”. Venerdì 20 giugno 2014 sono usciti i risultati della prova scritta dell’esame di stato di avvocato 2013/2014 che ha suscitato gioie ma soprattutto dolori, pianti, polemiche, rabbia, sconforto. E’ normale. Dopo 2 anni di praticantato (ora 18 mesi) - spesso e volentieri non pagato o sottopagato - il praticante si ritrova a dover superare un doppio esame (scritto e orale) che potrebbe (e sottolineo potrebbe) finalmente dargli la chance di una vita normale. Diventare avvocato al giorno d’oggi non vuol dire più molto. Non ha di certo il significato che poteva avere anche solo 20 anni fa. Per la maggior parte delle persone oggi diventare avvocato vuol dire avere uno stipendio senza dover soccombere alle leggi del mercato che vedono il praticante un “nessuno” senza alcuna tutela, forza lavoro in eccesso e pertanto non retribuibile. Per molti pertanto, diventare avvocato significa raggiungere una posizione socialmente riconosciuta, ottenere un minimo potere contrattuale che permette di strappare al proprio datore di lavoro il tanto agognato corrispettivo. Tuttavia, non è sulla condizione dei praticanti avvocati che voglio soffermarmi. Ne uscirebbe un discorso troppo lungo per quanto meritevole di attenzione. Il trattamento vergognoso a cui questi sono soggetti non è una novità, ma in un momento di crisi del genere la drammaticità di tale condizione viene ancora più in risalto senza che però se ne parli a sufficienza. Qualcosa finalmente è stato fatto. Ora, il nuovo codice deontologico prevede l’obbligo, dopo sei mesi, di retribuzione da parte del dominus nei confronti del collaboratore. Tuttavia si tratta di un provvedimento debole, una finta risposta alle reiterate lamentele di chi si sente umiliato dopo anni di studi e sacrifici. Un’apparenza di cambiamento che non comporterà alcun cambiamento. Parlavo quindi della speranza di diventare avvocato come possibile inizio di una vita normale. Normale nel senso di acquisire quel minimo di indipendenza economica che possa permetterti di chiedere un mutuo, di poter pagare un affitto e iniziare a costruire una famiglia, di poter affrontare le piccole difficoltà quotidiane senza il continuo ma fondamentale supporto dei propri genitori. Ebbene, la porta d’accesso a tale vita per chi sceglie la professione forense è, nella maggior parte dei casi, l’esame di stato. Un esame apparentemente come gli altri, ma paradossale nelle modalità di svolgimento. Solo a Milano quest’anno ci sono stati circa 3.250 candidati che hanno sostenuto le tre prove scritte all’interno del padiglione della vecchia fiera. Una schiera di aspiranti avvocati che si ritrovano, il giorno prima delle prove, in file interminabili con trolley alla mano, in attesa di entrare in questo enorme hangar che sarà il loro unico riparo per tre lunghi ed intensi giorni. Si entra e si aspettano ore prima che arrivi il proprio turno. Sembra di essere all’imbarco di un aeroporto: metal detector, perquisizione e via, ciascuno (bagaglio alla mano) parte per il proprio personale “viaggio” verso l’acquisizione del titolo. Dopo aver incatenato per bene il trolley (contenente i costosi codici commentati) al banco – ebbene sì, è necessario incatenarli perché in assenza del candidato c’è gente che si diletta a rubarne il contenuto – torni a casa, aspettando con la massima concentrazione ed un po’ di tensione la tre giorni intensiva che ti aspetta. Le voci che girano intorno a quest’esame tuttavia danno l’impressione che la preparazione non sia l’arma sufficiente per svolgere l’esame con successo. Da quanto si tramanda di praticante in praticante, sembra quasi che non esista modo per affrontare nel modo migliore tale prova se non il votarsi a Dio, alla Fortuna o a qualsivoglia entità astratta. Il perché di queste voci è subito svelato il primo giorno della prova. Dopo aver dettato le tracce d’esame e aver dato il via alle scritture, i commissari devono subito cominciare a preoccuparsi di arginare il caos che si crea all’interno dell’enorme stanza. La situazione non è facilmente descrivibile: candidati che passeggiano tra i banchi, modelli di atti e pareri che passano di mano in mano, commissari che tengono banco in mezzo a capannelli di esaminandi che penzolano dalle loro labbra in cerca di un indizio risolutivo, continui richiami all’ordine e alla continenza (ebbene sì, proprio quella considerate le finte code ai bagni). Se volessi paragonare tale situazione ad un’immagine, quell’immagine – con le dovute proporzioni – sarebbe il gran bazaar di Istanbul. Un enorme spazio dove all’interno di centinaia di viette – i corridoi creati tra un blocco di banchi ed un altro – si muovono centinaia di persone che passeggiano e chiacchierano amabilmente. Non c’è che dire, una fortuna per i candidati che possono contare anche sul supporto di migliaia di altre teste. L’unione fa la forza! Peccato che tutto ciò faccia somigliare l’esame scritto ad una farsa, ad una rappresentazione teatrale dell’assurdo più che ad un concorso pubblico. Ed è a quel punto che il pensiero torna ai mesi precedenti: mesi di studio, mesi di esercitazioni, mesi di corsi intensivi. Ritrovi carbonari durante i quali scrivere atti e pareri a profusione secondo schemi e formule predefinite elaborati da scuole iper-costose. Eh sì! C’è il sistema Just Legal Service, c’è il metodo Ius and Law, ci sono i modelli, i trucchetti, i segreti che ogni singolo corso vende ai propri iscritti in cambio di una somma che varia a seconda della validità del metodo insegnato e dei servizi offerti. Non si va mai comunque al di sotto dei 650 Euro e si arriva anche a 3.000 Euro per tre mesi (intensivi) di lezione. Ebbene, nella maggior parte dei casi si scopre subito che tutto quello che i corsi vendono a caro prezzo non è altro che un enorme specchietto per le allodole. Tornando alla tre giorni di prove scritte, dopo aver concluso i compiti ed averli minuziosamente imbustati e consegnati, l’esame diventa pian piano un ricordo annebbiato, che annega nel mare degl’impegni lavorativi e ogni tanto torna a galla grazie alle parole di un collega o un amico. In quel lasso di tempo – 6 mesi per l’esattezza – i candidati vivono in un limbo di incertezze, fra chi ottimisticamente pensa di averlo passato e chi fatalisticamente pensa che sia solo una questione di “fattore C”. Infatti non è forse quella dello svolgimento dell’esame la fase peggiore di tale procedura concorsuale. Ma è il momento della correzione degli scritti. Tralasciando le numerose storie (vere ma non dimostrabili se non con testimonianze di vecchi commissari) sui criteri di selezione officiosi (quali la calligrafia, o peggio ancora, un numero limite prestabilito di candidati ammissibili sulla base di una curva pseudo-gaussiana), è un dato di fatto che: i compiti che vengono “corretti” sono intonsi, senza alcun segno indicativo della parte errata o inopportuna, senza alcuna motivazione scritta del voto assegnato o anche solo dell’esito finale; da verbale risulta che spesso e volentieri i commissari non dedicano tempo sufficiente alla correzione del compito, facendo pensare ad una lettura superficiale (se lettura c’è stata) piuttosto che ad una attenta valutazione di un elaborato di non immediata comprensione. Ma com’è possibile? Perché un concorso pubblico in cui c’è in ballo il futuro professionale di migliaia di persone, per cui molte persone hanno speso molto in termini di tempo, denaro e fatica viene gestito in modo così approssimativo e superficiale? Quali sono gli interessi che spingono coloro che hanno il potere di cambiare lo status quo a non cambiare nulla? Perché fare ancora affidamento su un sistema di valutazione e selezione vetusto, senza criterio e non meritocratico? Apparentemente è un problema comune a tutti i concorsi pubblici tanto da diventare una prassi accettata. Ogni tanto si legge qualche articolo sul tema (relativamente al concorso di magistratura di quest’anno, si veda "Il Fatto Quotidiano"), ma poi inevitabilmente tutto finisce nel dimenticatoio. Il mio grido di protesta vuole essere quello di tutti quegli aspiranti avvocati che amano il loro lavoro, ma che vedono i loro sforzi frustrati da un sistema illogico che accoglie gli incompetenti e troppo spesso allontana dalla professione i meritevoli. Affinchè però il mio grido non sia solo di protesta e distruttivo, con questa lettera voglio anche proporre delle piccole misure (condivise dalla quasi unanimità della base praticante forense – e non solo) che possono portare ad un miglioramento della situazione attuale. Seguirà quindi un elenco dei principali problemi legati alla procedura d’esame di avvocato con le rispettive possibili soluzioni:

1) Il numero eccessivo di candidati

Come spesso si sente dire in giro: “Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia”. Effettivamente il numero di laureati in giurisprudenza è elevato. Non essendoci numero chiuso e venendo tale facoltà considerata come una delle più appetibili in termini di sbocchi lavorativi garantiti, molte persone scelgono questa strada. Il problema è che il sistema non è in grado di accogliere tutti questi laureati in giurisprudenza: ci sono i concorsi di notaio e di magistrato, ma non ogni anno e i posti sono pochi; ci sono le aziende ma in questo momento di crisi, anche le offerte provenienti dal privato sono in calo. Cominciare la pratica legale è l’unico modo per avere un posto di lavoro ed un salario certi. Ovviamente ciò crea delle forti distorsioni in tema di diritti del lavoratore: rapporti di lavoro non regolarizzati, paghe da miseria, orari di lavoro eccessivi, tutto questo perché la domanda è elevata e i giovani, pur di lavorare, sono disposti ad accettare tutto. La soluzione quindi è diminuire il numero della forza-lavoro a disposizione. Ciò permetterebbe di acquisire una maggiore forza contrattuale nei rapporti con il dominus, con sicure ripercussioni sulla qualità del lavoro (in termini di mansioni e retribuzione). I modi per contenere ed abbassare tale numero sono molti: 1) numero chiuso alla facoltà di giurisprudenza; 2) abolire la possibilità di andare fuori corso a meno che non si presenti all’università un regolare contratto di lavoro (che appunto certifichi impegni extrascolastici che giustifichino il ritardo negli studi); 3) obbligo di retribuzione del praticante quale condizione necessaria per l’iscrizione e la permanenza nell’Albo (da provare attraverso la presentazione mensile all’Ordine del cedolino/fattura); 4) la previsione di un pre-test a crocette sul diritto civile, penale e amministrativo prima delle tre prove scritte al fine di effettuare una prima scrematura oggettiva basata sulla cultura giuridica generale.

2) Irregolarità nel corso delle prove

Un numero più basso di laureati e praticanti porta ad avere di conseguenza un numero più basso di candidati. Ciò permetterebbe di gestire molto meglio la situazione caotica sopra descritta. Tolleranza zero per chiunque parli, copi, si alzi senza un valido motivo; con i commissari (e i delegati) non si deve parlare se non per questioni di “cancelleria” (fogli aggiuntivi, modalità di correzione di errori ecc…); fissare orari precisi per l’inizio e la fine del compito (in altre parole, dopo le 7 ore si smette di scrivere).

3) Tempi d’attesa biblici

Il numero inferiore di candidati porterebbe un altro vantaggio: ridurrebbe drasticamente il periodo intercorrente tra lo svolgimento delle prove e l’uscita dei risultati. Definire incivile un’attesa di 6 mesi è dir poco.

4) Criteri di correzione poco chiari

Infine ritengo un diritto della persona esaminata l’essere valutato sulla base di criteri certi, oggettivi e ben definiti. E soprattutto, è un diritto del candidato sapere quali siano stati gli errori commessi nello svolgimento delle prove (attraverso le dovute segnalazioni) e, se respinto, la motivazione sulla base della quale i commissari hanno maturato la decisione.

Queste sono solamente alcune delle idee proposte dall'ambiente degli aspiranti avvocati per cambiare questa "porcata" di procedura selettiva. Tante altre sono presenti in blog, forum, documenti più o meno ufficiali, ma rimangono rigorosamente inascoltate. Spero che questo "grido di rabbia" possa scuotere un po' le coscienze e far sì che, anche per la categoria dimenticata dei praticanti avvocati, qualcosa possa cambiare.

Concorso magistratura 2014, “Irregolarità”. Piovono denunce, rischio annullamento. Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su "Il Fatto Quotidiano" del 4 luglio 2014. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti i codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia.  Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. Che aggiunge: “I candidati con i codici commentati sono stati espulsi. Pertanto, se, a fronte di una irregolarità così macroscopica sono stati espulsi i candidati, è evidente che la Commissione giudicatrice ha ripristinato la regolarità del concorso”. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.

Potenza, esame per avvocati. Sequestrati anche i compiti. Continua l’indagine: indagati cinque avvocati e quattro praticanti, scrive “Il Quotidiano della Basilicata”, il 4 settembre 2014. Utilizzavano smartphone e indirizzi email creati per ricevere le tracce dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di avvocato direttamente dagli studi legali in cui avevano svolto il praticantato: alcuni compiti sono stati sequestrati ieri a Potenza, dai Carabinieri dalla sezione di Polizia giudiziaria del Tribunale, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura del capoluogo lucano, con nove persone indagate, tra legali e candidati. La vicenda si riferisce alle prove scritte dell’esame di Stato che si sono svolte lo scorso dicembre: la commissione di Trieste, chiamata a valutare i testi dei partecipanti, aveva già annullato una sessantina di compiti. Ieri i Carabinieri - l’inchiesta è coordinata dal pm Daniela Pannone - hanno effettuato il sequestro probatorio di altri compiti, non ancora annullati. Gli investigatori hanno indagato a tutto campo, arrivando a collegare il traffico telefonico e internet di pc e cellulari, per ricostruire nelle ore della prova scritta il «viaggio» delle soluzioni fornite ai praticanti. Le caselle email sono stati aperte «ad hoc» per inviare e ricevere i testi, utilizzando anche programmi per nascondere gli indirizzi «Ip» (Internet protocol address, le «targhe» dei dispositivi utilizzati) e server statunitensi. Gli aspiranti praticanti hanno poi ricevuto la posta elettronica in sede d’esame, forse «passando» il testo anche ad altri candidati. Dei nove indagati, cinque sono gli avvocati che avrebbero spedito le soluzioni, e quattro i praticanti che le hanno utilizzate. Alcuni casi sarebbero stati scoperti anche a Catanzaro. L’ipotesi di reato riguarda la violazione della legge del 2012 sull’ordinamento forense, e in particolare l’articolo 46.

Esame per avvocati: «Le risposte copiate da internet». Bufera sulle prove sostenute a Potenza nel 2013. Sarebbero una trentina gli elaborati definiti sospetti dalla Procura, scrive ancora Leo Amato su “Il Quotidiano della Basilicata”, del 26 agosto 2014. Per la commissione d’esame avrebbero copiato da un sito internet per questo hanno annullato le loro prove inviando una formale denuncia alla Procura della Repubblica. Ma per il Tar, almeno a prima vista, i brani sono identici a quelli riportati sui codici commentati, che i candidati possono consultare liberamente. E’ di nuovo bufera a Potenza sul concorso per avvocati quattro anni dopo lo “scandalo” per gli avvisi di garanzia inviati a 110 giovani giureconsulti, seguito dall’archiviazione delle accuse. Tutto sarebbe nato dalla denuncia dei commissari dell’Ordine degli avvocati di Trieste, incaricati di correggere le prove degli aspiranti lucani. Proprio come allora avevano fatto i colleghi di di Trento. Ma questa volta, oltre alle evidenti somiglianze tra gli elaborati, sarebbero state scoperte anche le fonti da cui sono derivate. Si tratta di alcuni siti internet che avrebbero pubblicato nel giro di qualche minuto le soluzioni alle traccia del parere di diritto civile estratta dalle buste aperte in contemporanea in tutta Italia il 10 dicembre dell’anno scorso. Chiaro quindi che qualcuno dall’interno dev’essere riuscito a comunicarla ai suoi complici all’esterno, che hanno effettuato qualche ricerca e hanno elaborato una risposta adeguata. Poi però hanno deciso di di permettere anche ad altri di approfittarne, purché fossero riusciti a trafugare uno smartphone tra i banchi. Sarà stato per depistare, per incrementare gli accessi sulle loro pagine web, o per puro spirito di ribellione. Ma a distanza di qualche mese quando i commissari si sono accorti della perfetta corrispondenza tra le soluzioni proposte e quelle finite in alcuni degli elaborati non l’hanno presa bene. Per questo a maggio ne sono stati annullati una trentina, escludendo i candidati che intanto avevano sostenuto anche la seconda e la terza prova: la redazione di un parere di diritto penale più quella di un atto giudiziario. Infine hanno inviato una denuncia alla Procura della Repubblica di Potenza che da allora ha avviato un’indagine per accertare l’ora in cui risultano inserite in rete le soluzioni alle tracce e il loro autore. Nel frattempo tra i candidati “esclusi” c’è chi come Giusi Caputo non s’è data per vinta, per questo ha proposto ricorso al Tar chiedendo di annullare il verbale della commissione. Il suo per il momento sembra essere un caso isolato, fatto sta che i giudici di via Ridola le hanno dato ragione bloccando in via cautelare la sua esclusione. Secondo il presidente del Tar, Michele Perrelli: «l’annullamento della prova di diritto civile, cui è conseguito in automatico (e quindi senza neppure la mera lettura) l’annullamento delle altre due prove scritte, non appare sorretto da sufficientemente solida motivazione specie in ordine alla individuazione dei siti in rete che hanno pubblicato identica soluzione rispetto a quella “copiata”». «Gli ampi stralci evidenziati dalla commissione - prosegue Perrelli - corrispondono a quanto riportato dai Codici commentati, legalmente ammessi alla consultazione in sede di esame da parte dei candidati, in relazione a pronunzie giurisprudenziali di giudici, sia di merito che di legittimità, che hanno delibato fattispecie analoghe a quella ipotizzata nella traccia offerta alla elaborazione degli aspiranti avvocati». Motivo per cui è stata ordinata «la valutazione delle tre prove scritte consegnate dalla candidata da parte di commissione con diversa composizione (eventualmente anche presso Corte di Appello diversa da quella di Trieste) che dovrà svolgere la correzione adottando accorgimenti a garanzia dell’anonimato». In caso di esito positivo potrà quindi sostenere l’orale con gli altri 121 giovani procuratori che hanno superato gli scritti. S’intende in attesa dell’udienza del 10 settembre in cui verrà discusso il merito della vicenda, e dell’esito delle indagini che sono state affidate ai militari dell’aliquota di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza.

Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti, scrive “La Gazzetta del Sud" del 01/06/2014. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni.

Avvocati, a Bari è record di bocciati nell’esame finito sotto inchiesta: passa uno su tre. Ammessi all'orale soltanto in 573 su 1.600. L'elenco sarà acquisito dal pm per capire se tra i candidati ci siano quelli accusati di aver alimentato la truffa scoperta dai carabinieri, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica” del 16 giugno 2015. I candidati all’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato erano più di 1.600, ma soltanto 573 hanno superato la prova scritta. I risultati del primo step della selezione, al centro di uno scandalo scoperto dai carabinieri, sono stati pubblicati nei giorni scorsi. Un elenco atteso non soltanto dagli aspiranti avvocati, ma anche e soprattutto dalla Procura. Che ha deciso di acquisire la lista di coloro che hanno superato la prova scritta. Quest’anno l’esame per l’abilitazione alla professione forense è stato caratterizzato dalle polemiche: i carabinieri del reparto operativo, nel terzo giorno delle prove scritte, svoltesi nel dicembre scorso alla Fiera del Levante, sono intervenuti, facendo luce su un tentativo di truccare la selezione. Gli elaborati dei candidati sono stati corretti dalla commissione istituita presso la Corte d’appello di Firenze. Il risultato è di fatto in linea con quello degli scorsi anni. Anche quest’anno in pochi, circa il 35 per cento, sono riusciti a superare con successo la prima parte della selezione. L’elenco, però, diventerà materia d’indagine perchè il sostituto procuratore Luciana Silvestris vuole capire se tra i candidati, risultati idonei per affrontare la seconda prova, quella orale, ci siano anche quelli sospettati di aver alimentato il “sistema” ideato, secondo l’accusa, dall’ex funzionaria amministrativa dell’Università di Bari (è recentemente andata in pensione) Tina Laquale. I carabinieri del reparto operativo hanno sorpreso la donna mentre consegnava al cancelliere Giacomo Santamaria, segretario di una delle commissioni d’esame, gli elaborati destinati ad alcuni candidati. Almeno cinque quelli iscritti nel registro degli indagati, sia pure con posizioni diverse. I primi tre sono finiti nell’inchiesta all’indomani dell’intervento dei carabinieri. C’erano i loro nomi sulla busta gialla consegnata da Laquale a Santamaria, che aveva il compito di introdurli nelle aule. Uno dei tre aspiranti avvocati, secondo la ricostruzione che è stata effettuata dai carabinieri, avrebbe dovuto passarli ad altri candidati. Scorrendo l’elenco di coloro che hanno superato la prova scritta, si scopre che soltanto uno dei tre è stato ammesso alla seconda fase della selezione. E sono stati bocciati anche gli aspiranti avvocati, madre e figlia, praticanti in uno noto studio legale della città, iscritti nel registro degli indagati in un secondo momento e con un’accusa ben più grave: quella di aver pagato per ricevere i compiti. Nel decreto di perquisizione notificato nel marzo scorso a Tina Laquale, il pubblico ministero Silvestris non usa giri di parole: l’ex funzionaria è accusata di «ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, degli elaborati riferiti alle prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato». Ma il sospetto della Procura è che madre e figlia non siano state le uniche a pagare: sono «numerosi i candidati», secondo il pm, che avrebbero beneficiato del “sistema”. Da qui la necessità di acquisire l’elenco degli ammessi alla prova orale. Nel fascicolo sono indagati anche due docenti dell’Ateneo barese, componenti della commissione d’esame del concorso. Il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bari, Giovanni Stefanì, il 22 giugno 2015 su Rai tg3 Regione ha detto: “l’esame è un terno al lotto”.

Test per avvocati, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su “La Repubblica” del 18 marzo 2015. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.

«L’esame da avvocato resta una farsa, un vero e proprio colabrodo». È la posizione del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, Emmanuele Virgintino, «È un esame che non assegna il giusto merito ai candidati che vogliono questa professione. Con o senza codici commentati cambia poco, è tutta una manfrina. Una storia conosciuta, tutti raccomandano tutti. Per non parlare di quello che è successo a dicembre 2014, con gente che si faceva passare le tracce scritte dall’esterno».

Ordini professionali, se l'esame di Stato diventa una beffa. Difformità di valutazione, barriere all'ingresso e scandali clamorosi, come quello di Catanzaro con i duemila compiti-fotocopia. Nei "Veri intoccabili" (Chiarelettere) Franco Stefanoni racconta le "lobby del privilegio". Leggine un estratto di Franco Stefanoni su "Sky tg 24". Facilissimo, ordinario, capestro. L’accesso agli ordini non brilla per omogeneità. In base ai dati forniti a fine 2009 dal ministero dell’Università, nel corso degli anni Duemila la probabilità di ottenere l’abilitazione a un ordine o a un collegio si è ridotta in media del 10 per cento: solo il 55 per cento dell’intero popolo dei candidati raggiunge il traguardo dell’albo. A fronte di un afflusso di aspiranti professionisti che cresce di anno in anno, calano le probabilità di farcela, nonostante l’incremento generale degli iscritti: tra il 1997 e il 2010 il loro numero complessivo da 1,5 a oltre 2 milioni. Ma l’accesso all’albo segue criteri differenti e all’interno delle varie categorie si trova di tutto. Per veterinari e farmacisti l’esame di Stato per immatricolarsi all’ordine è una pura formalità: a livello nazionale passa il 98 per cento dei candidati. Non è molto diverso per odontoiatri (96 per cento), biologi e medici (95 per cento). Per altre categorie, invece, le prove scritte e orali possono diventare una batosta. Tra i consulenti del lavoro le supera appena il 31 per cento, tra gli avvocati il 24 per cento, tra i notai addirittura un misero 7 per cento. Esclusi i casi in cui gli esami si svolgono a Roma a livello nazionale, come per giornalisti, biologi o notai, in generale le prove si tengono a livello locale, con accorpamento delle sedi nei luoghi in cui il numero di candidati è ridotto. Per categorie come consulenti del lavoro, psicologi, geologi, assistenti sociali, chimici e tecnologi alimentari gli esami sono gestiti dai consigli regionali in sinergia con le università. In tutti gli altri casi ci pensano invece gli ordini provinciali. Sono i consigli dislocati sul territorio che contribuiscono a preparare e organizzare le sessioni scritte e orali, e che indicano la composizione delle commissioni d’esame, in genere condivise con membri scelti dai ministeri competenti: Università, Lavoro, Giustizia. All’interno delle commissioni sono designati professionisti, accademici, magistrati, esperti della materia, che periodicamente sono chiamati a valutare la preparazione di futuri ingegneri, avvocati o architetti. Nei casi in cui è richiesto, i candidati devono certificare lo svolgimento di un periodo di tirocinio da uno a due anni in uno studio professionale o in una struttura autorizzata. Il più delle volte il tirocinio è remunerato al minimo o per nulla, con ricadute professionali e familiari notevoli per chi rimane troppo a lungo in attesa di ottenere l’accesso. Talvolta, come accade per notai e avvocati, l’aiuto per preparare gli esami è fornito da apposite organizzazioni che fanno capo agli ordini stessi e alle università. Gli avvocati, per esempio, possono scegliere tra 77 scuole, con qualità di insegnamento e tariffe molto differenti tra loro. Non sono le uniche spese. Se a livello locale il candidato non deve sopportare costi di vitto e alloggio, non è così quando deve spostarsi a Roma per sostenere gli esami. Secondo l’Antitrust la scarsa uniformità della selezione fa sorgere il sospetto che alcuni ordini stabiliscano a tavolino un’implicita barriera all’entrata. L’accusa è che i consigli, oltre a esaminare i candidati sotto il profilo tecnico, agiscano sotto la spinta di logiche corporative. Ma riforme parlamentari ad hoc su singole categorie e moniti del garante sono serviti a poco. D’altronde, il potere di un consiglio locale si esprime anche nella capacità di aprire o chiudere il rubinetto ai nuovi colleghi. A ciò contribuiscono fattori strutturali: per gli aspiranti medici esiste già il numero chiuso al momento dell’iscrizione all’università. Oppure, come avviene per i notai, c’è un numero fisso di posti stabilito in base a parametri economici e territoriali. Altrimenti la prassi può essere influenzata da logiche localistiche: in una zona dove il numero di iscritti all’albo è ritenuto eccessivo e il lavoro non basta per tutti può scattare la stretta, che poi potrà essere premiata in termini di voto al rinnovo degli organi dell’ordine. Viceversa, in zone dove predominano le logiche clientelari e di scambio elettorale può essere più conveniente abbassare la guardia sull’accesso all’albo e imbarcare iscritti, che troveranno il modo di sdebitarsi al momento del voto. Le differenze di valutazione tra una città e l’altra balzano all’occhio. Per esempio, a fine anni Duemila gli aspiranti architetti sono promossi per il 94 per cento a Napoli e l’86 per cento a Palermo, ma solo per il 34 per cento a Torino e il 25 per cento a Trieste. A Palermo supera l’esame appena il 14 per cento dei candidati dottori commercialisti, a Udine il 7 per cento, mentre a Torino passa il 90 per cento. Sono tuttavia gli avvocati a vantare il primato della minore omogeneità. A fine anni Duemila gli idonei risultano il 16 per cento a Salerno, il 21 per cento a Milano, il 22 per cento a Firenze e Trento, il 27 per cento a Torino. In altre sedi d’esame la situazione si ribalta: 50 per cento a Bologna, 53 per cento a Catanzaro, 65 per cento a Palermo e Lecce. Tale disomogeneità sussiste malgrado una riforma del 2003 varata dal leghista Roberto Castelli, ministro alla Giustizia, che ha ridotto la variabilità dell’esito delle prove forensi. Fino ad allora, infatti, gli scarti tra una sede e l’altra erano ancora più marcati. Con le nuove regole cambia la formula: nelle commissioni non sono più presenti membri dei consigli locali ma liberi avvocati del foro, e a chi svolge l’incarico di commissario è vietato di candidarsi alle elezioni dell’ordine immediatamente successive agli esami. Questo per annullare il pericolo di scambi di interessi e voti tra consiglieri e candidati. La riforma Castelli ha introdotto un’altra novità: gli elaborati di ogni sede sono corretti dai consigli di un’altra sede distrettuale abbinata con sorteggio. Vagonate di scritti sono spediti a ordini lontani centinaia di chilometri. Motivo? Contenere il fenomeno del cosiddetto turismo forense: aspiranti avvocati che si spostano da una città all’altra, con la compiacenza di colleghi che attestano tirocini di facciata, nella speranza di affrontare un esame più facile. Così, dal 2003, si spariglia: gli scritti di Milano sono corretti a Roma e viceversa. Siccome le prove orali restano di competenza della sede originaria, non è infrequente che si cerchi di compensare il tasso di ammessi e respinti: se dagli elaborati di Milano, corretti a Roma, risultano troppi promossi, agli orali Milano ne boccerà di più. I candidati che non ce la fanno possono tentare di diventare avvocati all’estero e poi farsi riconoscere in Italia: la via preferita è quella spagnola, ma i corsi formativi sono costosi e pochi la percorrono, anche perché c’è il rischio di restare marchiati dallo stigma del «furbo». Ancora nel 2009 è Catanzaro una delle città più generose nel garantire l’accesso all’albo. Un primato che in passato, quando ogni ordine locale correggeva da sé i propri esami con commissioni composte anche da esponenti del consiglio forense del luogo, è stato ancora più netto e ha dato origine a un clamoroso scandalo. 

Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente » in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. 

Franco Stefanoni è giornalista de “il Mondo”. Da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di Finanza in crac (Editori Riuniti, 2004), Il codice del potere (2007), Il finanziere di Dio. Il caso Roveraro (2008),Mafia a Milano (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.

Luigi De Magistris è il magistrato divenuto tale con il concorso del 1992 ritenuto nullo? Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Federico Sergi è lo stesso di cui se ne sono occupate le cronache? Giovane magistrato si droga in servizio nel tribunale di Palmi, sospeso un anno, scrive "Calabria web oggi", Martedì 16 Giugno 2015. Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come "chance" di recupero, considerato che il giovane magistrato, Federico Sergi, è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All'epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all'esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, Sergi era accusato di "aver violato l'obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio", poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia "riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale" al punto che, si legge nel capo d'incolpazione, "continuava a dimenarsi e a farneticare", facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il "regolare svolgimento del servizio". Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l'accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la "rilevante recidività" e l'"esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria". Sergi, infatti, oltre alla sospensione per due anni per essere stato trovato ubriaco alla guida, era stato sottoposto negli anni precedenti anche ad altri procedimenti disciplinari, uno dei quali finito con la sanzione dell'ammonimento. Il pg ha quindi concluso chiedendo di valutare il più severo dei provvedimenti, la rimozione. Una sanzione più lieve è stata chiesta dal difensore, Franco Morozzo della Rocca, ex avvocato generale dello Stato in Cassazione, premettendo che Sergi ha ammesso il fatto contestato, ma chiedendo di inquadrare le accuse in maniera meno grave: l'episodio della crisi in tribunale, ha sostenuto, "ha segnato una cesura, l'ha messo di fronte alle proprie responsabilità, era affetto da depressione e si è curato". Circostanza ribadita in una deposizione spontanea dalla stesso Sergi, che ha spiegato i fatti legandoli ai problemi di salute e familiari. Spiegazioni comprese dal collegio che infatti ha emesso una sanzione meno grave delle richieste.

Ed ancora. Magistrato ubriaco minaccia carabinieri: sospeso per due anni (senza stipendio), scrive “L’Unione Sarda” Mercoledì 23 Ottobre 2013. E' stato fermato in automobile da una pattuglia dei carabinieri, completamente ubriaco. E, alla richiesta di esibire i documenti, è sceso dalla macchina e ha iniziato a dare in escandescenze, prendendo a calci e pugni i due militari e danneggiando anche la loro volante. Non solo. Come se non bastasse se l'è presa anche con un operatore del 118 che, visto il suo stato alterato, voleva solamente accompagnarlo in ospedale per un controllo. Protagonista in negativo della vicenda, non l'ultimo dei balordi. Bensì un magistrato. Si tratta di Federico Sergi, ex pubblico ministero della Procura di Catanzaro. Il processo penale nei suoi confronti (resistenza a pubblico ufficiale) si era risolto con un'assoluzione. Quello disciplinare, invece, è terminato con una sanzione alquanto pesante. La sospensione per due anni dal servizio, durante i quali non percepirà lo stipendio. Motivo? Secondo la Procura generale della Corte di Cassazione ha commesso fatti "idonei a ledere l'immagine del magistrato". Tesi accolta dal "tribunale delle toghe". Sergi, però, rischia anche la dispensa dal servizio, una questione che è all'esame della Quarta Commissione del Csm.

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset e’ entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.

Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.

Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.

Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).

Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le relative fattispecie criminose sono tutte accomunate da alcuni elementi:

reati propri del pubblico ufficiale

accordo con il privato

dazione di denaro od altre utilità

Quindi, la corruzione è categoria generale, descrittiva dei seguenti reati:

art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione

art. 319 c.p. - Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio

art. 319 ter c.p. - Corruzione in atti giudiziari

art. 320 c.p. - Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio

art. 321 c.p. - Pene per il corruttore

In base all'art. 319 codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni. È definita questa corruzione propria ed è la forma più grave di corruzione poiché danneggia l'interesse della pubblica amministrazione a una gestione che rispetti i criteri di buon andamento e imparzialità (art.97 cost). Di questo reato (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, art. 319 c.p.) può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa. In base alla definizione dell'art. 357 c.p. è pubblico ufficiale anche colui che esercita una funzione legislativa. È priva di fondamento la tesi secondo cui nell'esercizio di un'attività amministrativa discrezionale, ed in particolare della pubblica funzione legislativa, non può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, nemmeno qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore. Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal quarto comma dell'art. 122 della Costituzione secondo cui i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.

In base all'art. 318 codice penale il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Questa forma di corruzione viene definita corruzione impropria antecedente poiché l'oggetto della prestazione che il pubblico ufficiale offre in cambio del denaro o dell'altra utilità che gli viene data o promessa, è un atto proprio dell'ufficio e la promessa o la dazione gli vengono fatti prima che egli compia l'atto. Il disvalore della condotta è sicuramente minore poiché pur nella violazione dei beni giuridici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione non ci sono atti che ledano gli interessi della stessa, come avveniva invece nella corruzione propria con ritardi o omissione di atti dovuti ovvero con il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. Il pubblico ufficiale non sarà imparziale avendo accettato una retribuzione non dovuta e venendo meno all'espresso divieto che gli pone la legge e pertanto sarà punito.

La legge 13 gennaio 2003, n. 3 ha istituito nell'ordinamento italiano l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione. L'articolo 68, comma 6, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, ha successivamente soppresso l’Alto Commissario. Con DPCM del 5 agosto 2008 le relative funzioni sono state attribuite al Dipartimento per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione che ha istituito il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. L'Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), unità del Consiglio d'Europa a Strasburgo che monitora la corruzione, il 30 giugno 2007. GRECO è stato fondato nel 1999 da 17 paesi europei, oggi ne conta 49, e include anche paesi non europei. L'ultima valutazione di GRECO sullo stato della corruzione in Italia è stato pubblicato in marzo 2012, ed è disponibile in inglese e francese.

Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.

Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.

Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari)  ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano. I tratti caratteristici di questa fattispecie di reato sono:

la stabilità dell’accordo, ossia l’esistenza di un vincolo associativo destinato a perdurare nel tempo anche dopo la commissione dei singoli reati specifici che attuano il programma dell’associazione. La stabilità del vincolo associativo dà al delitto in esame la tipica natura del reato permanente;

l'esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. La commissione di un solo delitto non integra la fattispecie in esame.

Parte della dottrina e della giurisprudenza richiede inoltre l’esistenza di un terzo requisito, vale a dire il fatto che l’associazione sia dotata di una "organizzazione", anche minima, ma adeguata rispetto al fine da raggiungere. Sul punto però non v'è uniformità di vedute: secondo taluno in dottrina non è necessaria alcuna organizzazione; secondo altri, invece, è indispensabile una struttura ben delineata "gerarchicamente" organizzata. Infine, soprattutto in giurisprudenza, si è sostenuto talvolta che è sufficiente una struttura "rudimentale". L'associazione per delinquere va ricondotta nella categoria dei reati a concorso necessario e presenta delle affinità con il concorso di persone nel reato (definito eventuale, poiché integra la fattispecie monosoggettiva); ciononostante i due istituti vanno tenuti nettamente separati. Infatti, mentre nel concorso di persone due o più soggetti s'incontrano e occasionalmente si accordano per la commissione di uno o più reati ben determinati dopo la realizzazione dei quali l'accordo si scioglie, nell'associazione per delinquere, invece, tre o più soggetti si accordano allo scopo di dar vita a un'entità stabile e duratura diretta alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti per cui dopo la commissione di uno o più reati attuativi del programma di delinquenza i membri dell'associazione restano uniti per l'ulteriore attuazione del programma dell'associazione. Diretta conseguenza di ciò è che l'associazione per delinquere è punibile, teoricamente (non è questo il caso di trattare problemi di carattere probatorio), per il solo fatto dell'accordo, con un'eccezione rispetto alle ordinarie norme penali.

Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

Gli obiettivi sono:

il compimento di delitti;

acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;

concessioni;

autorizzazioni;

appalti o altri servizi pubblici;

procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;

limitare il libero esercizio del diritto di voto;

procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Ciò nonostante si può star tranquilli che in Italia nulla succede se chi delinque sono quelle istituzioni che dettano legge ed operano i controlli.

Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.

Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni. 

Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del  dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Copiano all’esame, nei guai 12 avvocati salernitani, scrive "Salerno Notizie". Inchiesta sulla prova scritta del 2011 – 2012 per l’abilitazione professionale. La soluzione del compito fu presa da un sito internet, secondo l’accusa che ha portato sotto inchiesta 12 avvocati salernitani destinatari di un avviso di conclusione delle indagini . A darne notizia il quotidiano La Città oggi in edicola. La questione è seguita dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali a quello proposto dal sito internet dal quale sarebbe stato copiato il compito. Il tema – scrive La Città - era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio.

Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Che tra gli esaminandi di ogni categoria vi sia una quota che provi a “copiare” è storia vecchia, ma stavolta la tentazione di truccare la selezione è costata cara a dodici avvocati, finiti sotto inchiesta e destinatari di un avviso di conclusione delle indagini firmato pochi giorni fa dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Nel mirino c’è la sessione 2011/2012 per l’abilitazione alla professione forense e in particolare la prova scritta che nel dicembre di quattro anni fa si svolse nel campus universitario. Una prova finita da subito al centro delle polemiche perché alcuni candidati lamentarono un sistema di controllo d’impronta poliziesca, con l’utilizzo persino di metal detector. Eppure nemmeno quella sorveglianza così rigorosa bastò a evitare che qualcuno riuscisse a utilizzare in aula telefoni di ultima generazione e si collegasse al web per copiare un tema che nel frattempo era stato inserito sul sito Altalex, specializzato in argomenti giuridici. La commissione però se ne accorse. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali in tutto e per tutto all’elaborato circolato su internet. Il tema era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio. La correzione si svolse a Lecce, in ossequio al principio di incrocio tra le sedi che era stato introdotto per evitare il rischio di collusioni tra esaminandi ed esaminatori. Lì furono annullati i compiti copiati e da lì partì pure la segnalazione alla Procura, che dopo quasi tre anni e mezzo ha chiuso l’inchiesta. Nel frattempo quei giovani praticanti sono divenuti avvocati, superando l’esame negli anni successivi e specializzandosi chi nel diritto civile e chi in quello penale. Ora rischiano di dover affrontare un processo con l’accusa di violazione delle norme sul diritto d’autore, e hanno venti giorni di tempo per chiedere al magistrato di essere ascoltati e fornire la propria versione. «Valuteremo se richiedere l’interrogatorio» commenta l’avvocato Antonio Zecca, secondo il quale la vicenda impone ancora un approfondimento, innanzitutto sulla “paternità” del testo pubblicato sul web. «È mia opinione che il tema non sia stato redatto da chi lo ha firmato – spiega – ma che questi lo abbia preso a sua volta da altri testi e si sia limitato a divulgarlo». Qualcuno ha poi diffuso la notizia che lo svolgimento della traccia era on line e in dodici, secondo l’accusa, lo hanno copiato tal quale pensando così di assicurarsi il superamento dell’esame. Furono invece bocciati (come accadde in quell’anno al 51 per cento dei candidati) e ora si trovano sottoposti a un procedimento penale.

Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare». Più che una difesa, quello di Americo Montera è un contrattacco. E tanto per essere chiaro il presidente dell’Ordine degli avvocati getta subito la “palla” nel campo degli inquirenti: «Certo è stranissimo che si sia potuto copiare – osserva – visto che la prova si svolge sotto la stretta sorveglianza di una commissione di cui fanno parte anche magistrati». La sessione finita nel mirino è quella 2011/2012: agli scritti del dicembre 2011 parteciparono oltre 1250 candidati e in dodici sono ora sotto inchiesta con l’accusa di avere violato le norme sul diritto d’autore, copiando lo svolgimento di una traccia dal sito internet Altalex. Nei giorni scorsi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva e rischiano di dover affrontare un processo, sebbene nel frattempo siano divenuti avvocato superando gli esami degli anni successivi. Tre anni fa la loro prova fu invece annullata, la commissione di Catania che corresse gli scritti si accorse di quei compiti ciclostilati e decretò le bocciature. Ne nacque prima un contenzioso amministrativo, perché qualcuno presentò ricorso al Tar, e poi una denuncia penale che ha dato origine all’inchiesta. E dire che proprio quell’anno gli esami erano già finiti al centro delle polemiche per presunti eccessi nelle misure di vigilanza, giunte per la prima volta all’utilizzo del metal detector. A volerlo fu il presidente di commissione Andrea Di Lieto, avvocato e docente universitario, che ora apprende con sorpresa dell’esistenza di un procedimento penale: «Non ne avevamo saputo nulla – spiega – e d’altronde, non correggendo noi gli elaborati non potevamo renderci conto che ve ne fossero di uguali». Neanche i numeri delle bocciature avevano destato sospetti, perché statistiche alla mano i compiti annullati per irregolarità erano stati al di sotto della media. Però il sospetto che l’uso degli smartphone potesse inquinare la selezione lo avevano avuto: «Per questo pensammo ai metal detector – ricorda Di Lieto – ma dei sei che avevamo richiesto ne arrivarono solo tre. Li utilizzammo a rotazione sui vari varchi e ottenemmo la consegna volontaria di cento telefoni. Però controllare tutti era impossibile».

Eppure secondo il docente il potenziamento della vigilanza è soprattutto una questione di volontà ministeriale: «Di più si può fare, ma aumentando i costi e allungando i tempi, impiegando più personale e strumenti sofisticati. Altrimenti, se non si attivano tutte le procedure in astratto prevedibili, si deve ritenere fisiologico che una parte dei candidati non sia corretta. Accade ovunque e vale per tutte le categorie». Qualche modo per stringere la vite dei controlli ci sarebbe, magari prendendo a prestito gli strumenti da concorsi come quello per l’ingresso in magistratura «dove i libri devono essere consegnati nei giorni prima, in modo che la commissione possa visionarli». Ma su un irrigidimento della sorveglianza non tutti sono d’accordo, a cominciare dal presidente Montera che da quindici anni è alla guida dell’avvocatura salernitana. «Il nostro – sottolinea – è solo un esame per l’abilitazione professionale, cosa diversa dai concorsi che danno accesso a un posto di lavoro. E poi anche questa inchiesta... Non ne conosco i dettagli ma sulle ipotesi di plagio bisogna andarci cauti. Francamente? Mi pare si stia un po’ esagerando».

Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”. La Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi. Un centinaio di elaborati troppo simili per poter parlare di semplice coincidenza. La Commissione esaminatrice di Trento, che nel dicembre 2007 ha corretto le prove scritte degli aspiranti avvocati lucani per l’esame di abilitazione professionale, decide per questo motivo di annullarle in quanto «copiate in tutto o in parte da altri lavori», segnalando poi l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza: ne è scaturita un’inchiesta che ha portato a 110 avvisi di garanzia per gli esaminandi. La vicenda è emersa nel luglio 2008, con la pubblicazione dei risultati delle prove che si sono svolte a dicembre dell’anno precedente: l’esame prevede la redazione di due «pareri» (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolto a Potenza con una Commissione composta da avvocati del Distretto. Gli elaborati, come da prassi, vengono poi inviati per la correzione a una Commissione esterna, stabilita attraverso un sorteggio. Nel 2007 è toccato a Trento, «così come per i tre anni precedenti - ha spiegato uno degli esaminandi - e abbiamo l’impressione che i commissari si siano accaniti contro di noi». Al termine delle correzioni un centinaio di elaborati sono stati annullati: non sarebbe stato però un unico testo quello copiato, ma tre diversi che hanno «ispirato» altrettanti gruppi di esaminandi lucani. La Commissione non si è però fermata alla bocciatura, ma ha segnalato l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha aperto un’inchiesta per capire se, ed eventualmente come, le tracce sono state «passate» agli aspiranti avvocati. Il tutto è proseguito fino ai giorni scorsi, quando il pm di Potenza, Sergio Marotta, ha inviato 110 avvisi di garanzia e di conclusione delle indagini. Per il momento nessuno ha voluto commentare l’accaduto: l’Ordine degli avvocati di Potenza preferisce ricevere una comunicazione ufficiale dalla Procura prima di prendere una posizione e decidere eventuali provvedimenti disciplinari. La vicenda però ha avuto un effetto immediato, forse casuale, già nella sessione successiva, nel dicembre 2008, quando la sede per lo svolgimento della prova scritta è stata trasferita da un quartiere centrale di Potenza a una zona periferica e isolata della città. Dove, per altro, i cellulari hanno pochissimo campo.

Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise". I compiti svolti da molti concorrenti sarebbero identici, cioè copiati. Il caso è finito nelle mani della Procura di Campobasso che ha iscritto sul registro degli indagati 38 persone, tutti concorrenti, quasi tutti molisani. Sono accusati del reato di attribuzione a sé di elaborati altrui in materia di concorsi pubblici. Sono stati già ascoltati dai giudici. Ma presto potrebbero essere contestati altri reati. Il presidente della commissione esaminatrice, l'avvocato Lucio Epifanio, difende l'operato dei commissari e ribadisce che tutto si è svolto nel rispetto delle leggi.

Ci sono molti giovani molisani fra gli indagati dello scandalo dei temi copiati all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, scrive "Primo Numero". Dopo la comunicazione di chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore di Campobasso Rossana Venditti, emergono nuovi particolari sul caso dei temi copiati durante l’esame dell’anno 2007. Secondo l’accusa infatti, i 38 aspiranti avvocati ora indagati, avrebbero copiato in parte o nella totalità le tre prove previste, vale a dire un atto giuridico e due pareri legali. Secondo quanto emerso, la commissione giudicante, composta dalla Corte d’Appello di Trieste, avrebbe riscontrato temi uguali e divisi in sottogruppi. In alcuni casi il testo giuridico sembra sia stato copiato per filo e per segno. Il magistrato Venditti attende ora la scadenza dei 20 giorni durante i quali gli indagati potranno farsi interrogare o potranno presentare memorie giuridiche. Scaduto quel termine è molto probabile il rinvio a giudizio.

Copiano esame per diventare avvocati: 5 termolesi nei guai, continua "Primo Numero". Ci sono anche cinque ragazzi di Termoli e uno di Montenero di Bisaccia tra i 20 indagati dalla Procura di Campobasso per aver copiato l’esame per diventare avvocati. Passaggi importanti del tema di diritto civile e di diritto penale sono identici nei 20 elaborati che sono stati annullati dalla Commissione esaminatrice. Stanno per scadere i 20 giorni di tempo per essere ascoltati dal Pm. Stesse parole, punteggiatura identica, intere frasi copiate. La Procura di Campobasso non ha dubbi: 20 candidati molisani che hanno partecipato al concorso per avvocati nel dicembre del 2007 hanno copiato, e per questo ora sono indagati "per aver attribuito a se stessi elaborati altrui in materia di concorsi pubblici". Tra di loro ci sono anche cinque termolesi tra i 30 e i 33 anni, tre ragazzi e due ragazze e un giovane di Montenero di Bisaccia. Sono difesi dagli avvocati Antonio De Michele e Oreste Campopiano. In questi giorni, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, alla chetichella si stanno recando dal pm di Campobasso Rossana Venditti, chi a farsi interrogare chi a presentare memorie difensive. Sono accusati di aver copiato passaggi importanti sia del tema di diritto civile che di quello di diritto penale. Ora si dovrà capire chi è il vero autore degli elaborati e chi invece ha copiato anche se non sarà facile. I temi infatti non sono stati scaricati da internet come invece si era detto in precedenza. Ma c’è stato qualcuno che ha redatto gli elaborati e tutti gli altri invece si sono semplicemente limitati a svolgere il ruolo comprimario di amanuensi. Le prove erano state annullate a tutti i candidati con temi uguali dalla commissione esaminatrice della Corte di Appello di Trieste, sorteggiata per la correzione degli elaborati molisani. I membri della stessa poi avevano provveduto a mandare tutti gli atti alla Procura della Repubblica di Campobasso.

Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Laudemus sanctum Ivonem, qui fuit advocatus sed non latro. O res mirabilis!». Per decenni, quelle righette carogna contenute nel breviario dei parroci in ricordo di Sant' Ivo alla Sapienza, «avvocato ma non ladro», hanno fatto ridere e irritare intere generazioni di penalisti e civilisti. Una foltissima schiera di giovani legali, però, se l'è tirata. L'ha scoperto la Guardia di Finanza di Catanzaro che sta smistando 2.295 avvisi di garanzia ad altrettanti laureati in legge che, scesi in massa da tutte le lande italiche fino a Catanzaro per passare l'esame di Stato e diventare avvocati a fine '97, hanno fatto (o res mirabilis!) esattamente lo stesso identico compito. Esame per avvocato, compiti tutti uguali Truffa scoperta a Catanzaro: su 2.301 partecipanti solo sei non avevano copiato Riga per riga, parola per parola, virgola per virgola: 2.295 temi in fotocopia su 2.301 partecipanti. Fate i conti: a non avere avuto già il tema in tasca erano in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di truffatori. Riassunto per i non addetti. Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per accumulare esperienza e «imparare il mestiere», farsi timbrare via via dai cancellieri un libretto sul quale viene accertata l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare l'esame di Stato, che viene indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d'appello. Esame non facile. Basti dire che sulla prova scritta (che prevede tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) o sulla successiva prova orale si schianta in media oltre la metà dei concorrenti. Con qualche ecatombe qua e là, soprattutto al Nord, segnata da picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Sarà l'aria buona, sarà il profumo del bergamotto, sarà la percentuale di ferro nell' acqua, ma non c'è allievo che, messo davanti al foglio protocollo o assiso davanti a una commissione, non riesca a tirar fuori il meglio di sé. Basti leggere le tabelle dei promossi e dei bocciati agli esami di maturità pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Promossi: 98,84%. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti hanno fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico «Fiorentino», tutti i 207 dello scientifico «Siciliani», tutti i 209 dell'Itis «Scalfaro» e così via: 19 istituti su 34 senza un trombato. Fantastico il rendimento alle magistrali «Cassiodoro»: sono usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. Va da sé che la voglia di respirare queste brezze salutari, benefiche anche per gli aspiranti avvocati (se è vero che nel 1995, per prendere un anno a caso, venne promosso oltre il 90 per cento dei candidati, è cresciuta di anno in anno, a mano a mano che la fama di Catanzaro risaliva la Penisola, dilagava tra le colline dell'Astigiano, si incuneava nelle valli della Carnia, allagava le piane mantovane. Ma come superare l'handicap della legge, che stabilisce che tu possa fare l' esame a Trento oppure a Palermo soltanto se risulti residente lì da almeno 6 mesi, durante i quali devi aver fatto parte di uno studio legale del posto e aver fatto timbrare il tuo libretto di pratica negli uffici giudiziari locali? Un bel problema. Irrisolvibile se gli avvocati catanzaresi, che per bontà d' animo e disponibilità verso la gioventù non hanno eguali al mondo, non avessero via via accolto nei loro studi mandrie annuali di laureati in legge provenienti da Roma (14%), Torino (6%), Milano (3%), Genova (3%) e così via. Giovani comunisti umbri, leghisti lombardi, forzisti veneti, diessini liguri, postfascisti laziali, popolari friulani. Magari accomunati nella feroce contestazione verso il «lassismo» meridionale, ma compatti nel cercare di prender parte alla spartizione della torta. E che torta! Pensate solo che nel ' 95 i partecipanti in corsa a Catanzaro furono esattamente quanti quelli di Milano e il doppio di quelli di Torino. E che nel '97, l'anno finito nel mirino dei sostituti procuratori Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (una padovana che fra un mese dovrebbe lei pure passare a un'altra sede), riuscirono a superare l'esame, in tutta intera l'Italia, circa 8.000 procuratori legali. Ai quali, se non fosse saltato tutto per la scoperta della truffa, si sarebbero aggiunte altre duemila «pagliette» promosse nel solo capoluogo calabrese. Una su cinque. Meglio di una fiera dell'agricoltura o del passaggio del Festivalbar era, per Catanzaro, l'appuntamento annuale con l'esame. I 260 posti nei 5 alberghi cittadini venivan prenotati con mesi d'anticipo, nascevano qua e là «pensioni» improvvisate per accogliere le torme di pellegrini giudiziari, riaprivano in pieno inverno i villaggi sulla costa che talora offrivano il pacchetto completo: camera, colazione, cena e minibus per portare gli ospiti direttamente alla sede dell' esame dove erano attesi dalla commissione: avvocati, magistrati di corte d'appello, giudici di cassazione, professori universitari. Il tutto senza che i vertici del Palazzo di Giustizia locale, tra cui c'era ad esempio l' attuale «governatore» regionale forzista Giuseppe Chiaravalloti, sentissero mai puzza di bruciato. Finché, un bel giorno ai primi del 1998, grazie probabilmente a una soffiata anonima di chi non ne poteva più dell'andazzo, non viene fuori che una ventina di compiti svolti in dicembre dai candidati riuniti al liceo classico «Galuppi» erano identici. Calligrafie diverse, ovvio. Ma i testi parevano fotocopiati: pagina dopo pagina, riga dopo riga. In marzo, il ministero chiede informazioni. La Commissione d'esame, tenetevi forte, risponde che «non è corretto fare riferimento a gravi irregolarità» ma «soltanto» (testuale: soltanto...) a «comportamenti improvvidi quanto sciocchi di candidati che, al postutto si ritorcono a loro danno, avendo provveduto questa Commissione all' annullamento degli elaborati identici». Cosa abbiano scoperto in realtà, setacciando uno per uno tutti i temi, i due magistrati autori dell' inchiesta e i finanzieri che con il capitano Fulvio Marabotto si sono dovuti sciroppare il noiosissimo confronto tra i 2.301 temi trovando infine quei sei sparuti «fessi» che non avevano copiato l' abbiamo raccontato. Come abbiano fatto tutti quegli aspiranti «uomini di legge» a infognarsi in una faccenda così zozza senza che alcuno sentisse poi il bisogno di andare dal giudice lo racconteranno loro stessi nei prossimi interrogatori. A noi resterà, comunque, un piccolo rovello: superato lo scritto, come se la sarebbero cavata con l'esame orale di deontologia? Potete scommetterci: sarebbe stato un trionfo.

Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva irrogato ad un avvocato la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (articolo 5 del vigente Codice deontologico forense), di lealtà e correttezza (articolo 6 Codice deontologico forense) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (articolo 56 Codice deontologico forense). L’avvocato era accusato di essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule di un Hotel, mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame. Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avvocato aveva proposto ricorso per Cassazione in quattro motivi, lamentando:

1) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli articoli 340 e 494 del codice penale;

2) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine, poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale;

3) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico;

4) la misura eccessiva e sproporzionata della sanzione in rapporto al comportamento ascrittogli.

Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ritiene che non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del giudizio.

Quanto al secondo (sulla composizione del collegio del Consiglio territoriale dell’Ordine), deve considerarsi che la decisione del Consiglio nazionale forense appare aver tratto, dalla natura amministrativa delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e del correlativo procedimento (Cassazione, SU 20360/07, 23240/05), coerente corollario in merito alla validità di deliberazione, che, in rapporto alla circostanza dedotta, non risulta specificamente censurata con riguardo all’osservanza del quorum prescritto.

Il terzo motivo (sulla prova dell’illecito), secondo la Cassazione, si rivela, poi, inammissibile, giacché il ricorrente riporta in termini essenzialmente generici il contenuto delle prove testimoniali che sostiene ingiustificatamente non ammesse dal giudice disciplinare; mentre le uniche circostanze concrete in proposito riferite (in merito alle giustificazioni fornite al personale di vigilanza sulla sua presenza nel luogo dell’esame) non risultano decisivamente contraddire il tenore dell’incolpazione attribuitagli.

Pertanto, la Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo incidente sulla misura della sanzione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).

UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.

Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.

Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.

La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.

Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".

"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.

Da quale pulpito vien la predica?

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.

Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI: GIANGRANDE E PICCENNA.

Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.

Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.

Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.

A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.

Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.

Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte,  sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.   

La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.

In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.

D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.

Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

Potenza, l’ex Pm usava il telefonino per i tarocchi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Avrebbe compiuto sessantacinque telefonate a un servizio di cartomanzia, astrologia e previsioni del lotto con il cellulare che veniva utilizzato nel suo ufficio per il turno di reperibilità; un traffico giudicato «anomalo» dal gestore della rete che perciò bloccato quell’utenza. Per questo comportamento venerdì prossimo il pm di Napoli Claudia De Luca, all’epoca dei fatti sostituto procuratore a Potenza, finirà sotto processo davanti alla sezione disciplinare del Csm, nonostante un’assoluzione in Appello. La montagna di telefonate sarebbe stata fatta in pochi mesi: tra il maggio e l’ottobre del 2003, come riporta il capo di incolpazione a carico del magistrato, formulato dalla procura generale della Cassazione. Destinatario sempre lo stesso numero a tariffazione speciale, che appunto corrispondeva a quello del servizio di cartomanzia e astrologia. Un «uso improprio» del cellulare di servizio, che è stato anche «fonte di danno erariale», scrive la procura generale della Cassazione, che evidenzia anche il «pregiudizio per la reperibilità del magistrato di turno», che si è avuto in conseguenza della decisione del gestore della rete di bloccare quel numero. La vicenda è già costata al magistrato un procedimento penale per peculato, scaturito dall’inchiesta Toghe lucane dell’allora pm e oggi sindaco di Napoli Luigi De Magistris (che avviò l’indagine sulle toghe lucane ma non la portò a termine perché il Csm lo trasferì sia di sede che di funzioni). La pm De Luca però, un anno fa, è stata assolta dalla Corte di Appello di Catanzaro con formula piena. Le si contestava di aver utilizzato il telefono di servizio per scopi personali: dai tabulati acquisiti, i magistrati di Catanzaro sottolinearono come nei 732 giorni oggetto della rilevazione (tra il 2005 e il 2007) dal telefono di servizio di De Luca fossero partite 65 telefonate a un «899» di cartomanzia e ancora una serie di telefonate «non aventi carattere di ufficio». La posizione di De Luca, su sua stessa richiesta, fu stralciata dal processo «Toghe lucane (che poi si è concluso con la quasi totalità di archiviazioni e assoluzioni, ndr)». In primo grado la pm è stata condannata a un anno e sei mesi, mentre in Appello, i giudici l’hanno assolta «perché il fatto non sussiste». Il caso è approdato al Csm su segnalazione del procuratore generale della Corte di cassazione. Il Csm dovrà verificare se la condotta segnalata dal procuratore generale abbia in qualche modo messo in cattiva luce l’immagine della magistratura.

Usava i nostri soldi per i maghi Pm se la cava con una censura. Col telefonino di servizio consultava a pagamento cartomanti ed esperti del lotto Accusata di peculato, in sede penale era uscita indenne per la modestia del danno, scrive Stefano Zurlo il 13/07/2015 su “Il Giornale”. L'album di famiglia della magistratura italiana è una miniera strepitosa di storie incredibili. L'ultima ha per protagonista una signora, pubblico ministero a Potenza, che con il cellulare di servizio chiamava compulsivamente maghi, cartomanti e previsioni del lotto. Forse perché non si fidava troppo della giustizia, di cui pure era alto rappresentante, forse più banalmente perché come tutti era tentata dalla fortuna e cercava, via telefonino, di saperne di più sul proprio futuro. Oggi, dopo dodici anni, l'interminabile vicenda si chiude con la condanna, in sede disciplinare, alla censura. O meglio, le sezioni unite civili della cassazione confermano il precedente verdetto di primo grado. La sanzione è definitiva, il caso pietoso è, finalmente, chiuso. La magistratura subisce un altro sfregio. È o dovrebbe essere un'evidenza elementare: un pm, che fra un'inchiesta e l'altra si metta a chiamare le Wannemarchi di turno, non offre un'immagine alta, equilibrata, credibile del proprio ruolo. Ma ormai siamo abituati a confrontarci con cadute, debolezze e scivolate delle corporazione togata. I casi, puntualmente emersi al Csm, dove si lavano i panni sporchi della casta, sono innumerevoli, talvolta sbalorditivi, con un catalogo di inadempienze, mancanze negligenze che supera ogni immaginazione. Si va dal giudice che ha cosparso di Nutella i bagni del tribunale, non avendo niente di meglio da fare, al pm che ha riscritto il codice facendo ipotizzare un teste che non ricordava nulla di un omicidio. E che naturalmente, pure dopo la seduta non ha saputo dare un nome all'assassino; e poi ancora c'è la pm che si è inginocchiata a chiedere l'elemosina a pochi passi dal suo strategico ufficio e il giudice che ha dimenticato un pacco di sentenze da scrivere in una cassa, manco fossero bottiglie di vino pregiato. E c'è pure un magistrato di sorveglianza che si è superato dando a un detenuto il permesso di andare a trovare il fratello in punto di morte dopo avergli concesso di partecipare pochi giorni prima al funerale dello stesso, risorto dunque per l'occasione. Infine non si può non ricordare quel caso, in bilico fra farsa e dramma, del giudice che non voleva fare udienza perché nel piccolo tribunale marchigiano in cui lavorava c'era il Crocifisso. E per questo, dopo un estenuate procedimento, è stato espulso dalla magistratura. La vicenda ambientata a Potenza si consuma fra il maggio e l'ottobre 2003, quando la donna, pm in quella procura, chiama per 65 volte con cellulare di servizio numeri di cartomanti, maghi e previsioni del lotto. È l'utilizzo dell'apparecchio pubblico ad innescare l'indagine, per peculato, e poi il doppio processo: penale e disciplinare. Ma è altrettanto palese l'imbarazzo per la vicenda che apre un'altra crepa nell'immagine e nella considerazione della magistratura tricolore, qualunque sia la motivazione delle chiamate. In tribunale la signora pm se la cava alla grande. Si scopre che 49 telefonate su un totale di 65 non avevano avuto risposta perché il telefono aveva squillato a vuoto. E delle 16 rimanenti molte erano state brevi, pochi secondi in tutto, con un costo assai contenuto. Cosi, il capo d'imputazione si affloscia sulla propria debolezza. Alla fine l'imputata viene assolta per la modestia, o meglio «il difetto del danno economico» provocato. Resta l'altra questione, più sottile e insuperabile: la ferita per l'istituzione che fa del decoro, della misura, della sobrietà le proprie cifre costitutive. Nel 2013 arriva la condanna alla censura. Non la più grave ma nemmeno la più blanda delle punizioni che possono essere inflitte ad un magistrato. Ora la conferma. C'è un'altra cicatrice sul corpo della magistratura.

Io chiedo conto. Non è successo niente (di Rosario Gigliotti del 15 aprile 2015). L’altro giorno ero anch’io in aula a testimoniare nel processo a don Marcello Cozzi, accusato di diffamazione nei confronti del dott. Cannizzaro e della dott.ssa Genovese. E anch’io, come Gildo, ho detto che accostare i “fatti inquietanti” che avevano riguardato nel passato il dott. Cannizzaro alla vicenda di Elisa Claps, di cui si era occupata in qualità di pm sua moglie, la dott.ssa Felicia Genovese, era un’insostenibile forzatura. Che davanti a quella chiesa il 12 settembre 2010, il primo anniversario della scomparsa (e della morte) di Elisa dopo il ritrovamento del suo corpo, avremmo dovuto solo tacere. E ho visto il dott. Cannizzaro commuoversi per questo atto di pacificazione….…. Questo forse avrei dovuto dire, questo forse avrebbero gradito i miei 5500 concittadini che avrebbero voluto il dott. Cannizzaro come sindaco della città. E chissà quanti altri. Ma Gildo non lo ha detto. Io non l’ho detto. Perché mi sono ricordato, e ho ricordato, le parole di De André con cui quasi 10.000 giovani potentini accompagnarono la grande manifestazione all’indomani del ritrovamento di Elisa: “anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. E mi sono ricordato dei volti dei familiari delle vittime delle mafie (e dei silenzi) con cui abbiamo camminato lungo le strade di Potenza il 19 marzo 2011, molti dei quali ancora in cerca di verità e giustizia. Quello stesso giorno giungeva la notizia dell’archiviazione dell’inchiesta Toghe Lucane. Ancora una volta, come sempre, per dire: “non è successo niente”. Ed oggi, come allora, se la verità non arriva, se gli omicidi sono morti accidentali, se i veleni di ogni genere si spandono nella terra fertile e comprano o uccidono corpi e menti, abbiamo un modo per rimanere in pace: dire ad alta voce “non è successo niente”. Cari amici, questa volta “mi piace” è per dire che, invece, qualcosa è successo e che noi chiediamo conto. Io come allora chiedo conto. E lo faccio riprendendo, e confermando parola per parola, ciò che scrissi all’indomani dell’archiviazione di Toghe Lucane. Sono le domande a cui il mio amico Giulio Laurenzi ha prestato il suo tratto di artista. Sono domande purtroppo ancora attuali, perché fino a quando la luce non arriverà dove le ombre corrompono le menti e minano la fiducia nelle istituzioni dovremo continuare a chiedere verità e giustizia… o dirci e dire che non è successo niente. Perché in quel “voi che vi credete assolti" non ci sono solo la dott.ssa Genovese o il dott. Cannizzaro, ma ci siamo tutti noi, che dobbiamo scegliere da che parte stare.

Felicia Genovese. Ha svolto la funzione di pm presso la Direzione distrettuale antimafia di Potenza. Attualmente magistrato in servizio presso il Tribunale di Roma. Si è occupata del caso di Elisa Claps. Vincenzo Tufano. E' stato procuratore generale presso la corte d'Appello di Potenza. Emilio Nicola Buccico. E' stato sindaco di Matera, senatore della Repubblica e membro laico del CSM. […] E allora, ormai lontani dalle aule dei tribunali e dalle ordinanze che allontanano inequivocabilmente ogni ipotesi di responsabilità penale da tutti gli indagati, io chiedo conto.

Chiedo conto alla dottoressa Felicia Genovese degli atti elementari che non ha compiuto, attraverso i quali si sarebbero evitati quasi 18 anni di sofferenze alla famiglia di Elisa Claps.

Chiedo conto al dottor Tufano di non aver assunto alcuna iniziativa istituzionale nei confronti della dottoressa Genovese, pm della direzione distrettuale antimafia, per verificarne la compatibilità di sede e di funzione, neanche quando divennero di dominio pubblico fatti inquietanti, a prescindere dalla loro rilevanza penale: suo marito, Michele Cannizzaro, si trovava a casa delle vittime il giorno prima dell’omicidio, di chiaro stampo mafioso, dei coniugi Gianfredi, sul quale la stessa Genovese aveva indagato per sei mesi senza astenersi; il dott. Cannizzaro era iscritto alla massoneria ed aveva avuto contatti telefonici con esponenti della ‘ndrangheta; in passato persone legate alla criminalità organizzata calabrese erano state viste dai carabinieri a casa sua, in Calabria, durante un lauto pasto; tutti fatti sui quali l’Autorità Giudiziaria di Salerno ha disposto l’archiviazione.

Chiedo conto all’avvocato Buccico di quale deontologia professionale lo abbia portato, nel corso dell’inchiesta sulla misteriosa morte dei “fidanzati di Policoro”, dopo essere stato in un primo momento il legale della famiglia di Luca Orioli, ad assumere la difesa di coloro che gli Orioli avevano accusato di negligenza in quelle stesse indagini.

Chiedo conto all’avvocato Labriola del trattamento riservato ai genitori di Luca Orioli, facendo pagar loro anche il tempo delle domande disperate di un papà e di una mamma a cui era stato strappato un figlio.

Chiedo conto a quei personaggi che si incontrano nell’ombra come in un film, insieme, ci raccontano, per delle battute di caccia. Me li immagino, tronfi e rossicci, al sole e al vento del sud, quella meravigliosa costa ionica su cui progettavano la loro piccola Venezia. Loro, padroni della terra, dei fiumi, del mare e delle persone.

Io so, ma non ho le prove, diceva Pasolini, con il coraggio e l’intelligenza di un uomo libero. Ed oggi che le 509 pagine di Toghe Lucane sono solo, per alcuni, atti di una storia da dimenticare, posso dire anch’io: io so, ma non ho le prove…P.S. In verità, al testo di Rosario Gigliotti, io personalmente avrei da aggiungere solo una conclusione diversa: "Io so ed ho le prove. E queste prove le ho fornite in centinaia di esposti, denunce e querele formali presentate alle Procure della Repubblica, alle Procure Generali presso le Corti d'Appello, alla Procura Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, al Ministro della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura. Anche di questo io chiedo conto, del silenzio e della neghittosità che ha consentito ad un manipolo di magistrati, qualche avvocato ed alcuni funzionari di Polizia Giudiziaria di perseguitare impunemente la libertà di stampa e d'informazione  provocando sofferenze e terribili offese... senza peraltro riuscire a spegnerla.

Buccico vs Piccenna, diffamato l'ex sindaco. Il giornalista condannato a sei mesi. Lo ha deciso il Tribunale di Catanzaro che giovedì sera 21 novembre 2013 ha condannato i giornalisti Nicola Piccenna e Nino Grilli rispettivamente a sei e quattro mesi di reclusione e 800 e 400 euro di ammenda, scrive L. Amato su “Il Quotidiano della Basilicata”. L’avvocato nonché ex senatore e membro laico del Csm Nicola Buccico, l’ex procuratore capo di Matera Giuseppe Chieco e il pm Annunziata Cazzetta sono stati diffamati. Lo ha deciso il Tribunale di Catanzaro che giovedì sera ha condannato i giornalisti Nicola Piccenna e Nino Grilli rispettivamente a sei e quattro mesi di reclusione e 800 e 400 euro di ammenda. A renderlo noto sono stati gli stessi responsabili dell’articolo intitolato “Trema il palazzo di giustizia”, pubblicato sul settimanale il Resto a dicembre del 2006, «in ossequio al diritto dovere di fornire un'informazione precisa, libera e tempestiva su fatti d'interesse pubblico (...) in segno di attenzione verso i nostri affezionati lettori e verso tutti i cittadini di buona volontà e solidi sentimenti democratici». Al centro della questione che dalla carta stampata è approdata in Tribunale c’è la descrizione di un «lungo summit» che sarebbe avvenuto in quei giorni tra l’avvocato e i due magistrati. L’oggetto della discussione sarebbe stata un’inchiesta che all’epoca aveva fatto scalpore a Matera e non solo. Infatti nel mirino degli inquirenti era finita la gestione della Banca popolare del Materano. Un’indagine «incagliata» stando a quanto scriveva Piccenna nel suo articolo per la testata diretta da Grilli. Di qui l’esigenza di quel confronto tra i pm e il legale, che in realtà all’epoca non difendeva nessuno degli indagati per quanto diversi facessero comunque riferimento al suo studio. Per l’avvocato Danilo Ianniello, che ha assistito il collega Nicola Buccico in udienza (Chieco e Cazzetta non si sono costituiti come parti civili) in dibattimento si è raggiunta «la piena prova della portata diffamatoria dell’articolo. In primis per l’assenza di Chieco a questo incontro-summit, che è emersa sia dal fatto nel giorno indicato il procuratore risultava in ferie sia da una ricevuta coeva per il pedaggio in autostrada di un casello di Roma. D’altra parte anche l’indicazione del cronista che attribuiva una losca finalità a quell’incontro ovvero sosteneva che si fosse trattato di un colloquio diretto a discutere del procedimento “incagliato” sulla Bpm (chiusosi in seguito col proscioglimento di tutti gli imputati a seguito di una perizia disposta dal gup) si è rivelata un’illazione». Per rispetto del lavoro dei magistrati Grilli e Piccenna hanno dichiarato di voler aspettare di conoscere le motivazioni della sentenza prima di effettuare commenti o di valutare il ricorso in Corte d’Appello per quanto «pienamente convinti dell'insussistenza del reato contestatoci».

Nell'anno 2003 nasce l'inchiesta "Toghe Lucane". Duecentomila pagine che squarciano il velo sulla Lucania reale, quella dei centri di potere, della politica collegata con la magistratura. Luigi de Magistris, il PM che conduce le indagini e che viene allontanato prima che possa concluderle. Tutto archiviato, tranne l'evidenza storica che lascia un documento indelebile su uomini e cose della Lucania di oggi, proprio quella di cui il blog “Toghe Lucane”, caparbiamente, continua ad occuparsi!

Piccenna bisogna fermarlo: Giuseppe Galante, Procuratore Capo a Potenza (anno 2007). "Piccenna bisogna fermarlo", così disse Giuseppe Galante (allora) Capo della Procura di Potenza parlando con Emilio Nicola Buccico ex consigliere del CSM, il 16 gennaio 2007. Buccico precisò: "gli ho fatto diciotto querele..." e Galante aggiunse: "io sono a sette-otto". Sono oltre 350 i procedimenti tra penali (parte a carico di Piccenna e parte in cui Piccenna è parte offesa) e disciplinari (a carico di magistrati) che avrebbero dovuto "fermare" Piccenna ma hanno avuto l'effetto di documentare lo stato dell'amministrazione della giustizia in Italia. La pubblicazione sistematica degli atti, aiuterà a fornire materia di conoscenza e di studio a chi volesse approfondire un pezzo di storia contemporanea che cristallizza fatti, persone e istituzioni consentendo di passare dal "sentito dire" alla storia.

Il senatore Buccico registrato di nascosto mentre parla degli attacchi della stampa con Galante (Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Potenza) e Claudia De Luca (sostituto procuratore di Potenza). L'ambiente di Matera, la massoneria e le talpe al palazzo di giustizia.

DE LUCA: buon giorno.

BUCCICO: ho bisogno di due minuti.

DE LUCA: sì, lo sapevo. Buon giorno come sta, senatore buon giorno.

BUCCICO: io sono venuto per parlare con questa gentile fanciulla. Sto andando a Roma e ho detto fammi salutare a Peppino (Galante, ndr). Ma che stai invecchiando, stai. Hai fatto i capelli bianchi, che ti è successo?

GALANTE: Mò, mò ti risponderò male; uì… eh! Come se non lo sapessi.

BUCCICO: Io in questi tre mesi ho fatto diciotto querele.

GALANTE: Diciotto? Io sono a otto, nove.

BUCCICO: Mi sono scocciato, guarda. Sì ho seguito. L'ambiente di Matera si è così deteriorato!

Ma tu non ne hai l'idea. Siamo arrivati a limiti insopportabili. Matera, dottoressa, ha avuto sempre una caratteristica negativa: l'invidia sociale. Appena una persona emergeva in qualsiasi campo era oggetto di strali, lettere anonime, diffamazione. Questo apparteneva alla fisiologia un po'. Anche quando stavi tu (riferito a Peppino, ndr) insomma... lo sai benissimo. Adesso è diverso, adesso è diventato un problema patologico.

GALANTE: Eh sì...

BUCCICO: Adesso c'è un giornale che sono un anno che si dedica esclusivamente a me, a Filippo Bubbico e a n'altri quattro... pure a te, mi sa.

GALANTE: Eh! Eh! Eh!

BUCCICO: Nell'ultimo numero c'è un riferimento che ti riguarda.

GALANTE: Ancora?

BUCCICO: In maniera...

GALANTE: Il giornale o il...

BUCCICO: ... l'ho dovuto comprare. Nell'ultimo numero c'è, diciamo, i materani che hanno fatto il film con Mel Gibson: Apolip.. Apolip...

GALANTE: Io non l'ho letto ancora.

BUCCICO: Nemmeno io l'ho letto, però ieri è venuto uno, dice vedi qua stanno tutte... queste sono tutte persone... è bugia che... io pensavo che avessero lavorato con Mel Gibson.

DE LUCA: eh!

BUCCICO: Perché lui ha molti amici a Matera perché ha girato il film. No, lì in via di parafrasi sono tutti personaggi del materano descritti... con riferimento chiaramente si legge a te (Peppino, ndr) e a Marco (Notar Marco Galante figlio di Peppino), senza nome. Allora, quando è senza nome io faccio finta che non esiste.

GALANTE: Il nome di mio figlio va tutelato.

BUCCICO: No! Questa volta è senza nome. Allora siccome quando è senza nome io faccio finta che non esiste. Altrimenti dovrei fare duecento querele. Io ho fatto le querele soltanto sui fatti certi. L'ultima che mi ha fatto, scusa. Guarda io dico però, a Matera però ha poco credito, sta perdendo credito. Ha avuto, diciamo, un'apertura da parte degli uffici della procura senza limiti. Perché il Procuratore di Matera è un signore, però è un uomo di una bontà senza limiti. Per cui: “voglio le copie di quel processo”. Le dà anche a chi... alle persone a cui non tocca. E no, bello mio, abbiamo messo le carte in mezzo a tutta Matera. Le querele mie, invece, sono finite in mano... non so se la conosci. Si chiama Tina Cazzetta. Conosce Tina Cazzetta?

DE LUCA: ho avuto modo.

BUCCICO: un signor magistrato.

GALANTE: ottimo magistrato.

BUCCICO: preparatissima, leale e che non ha paura di nessuno.

GALANTE: Nooo! di nessuno. Quello è più uomo che donna.

BUCCICO: l'ultima che mi ha fatto dice: “ho visto oggi”, scritto dottorè, scritto. “Ho visto oggi, 28 dicembre, entrare la dottoressa Cazzetta nella stessa stanza in cui un minuto prima erano entrati l'avvocato Buccico e il dottor Chieco. Per farsi gli auguri o per discutere di questo processo incagliato da tanti anni e quindiii... Io ho fatto subito la querela. Quando sono andato a presentare la querela, due giorni dopo, il maresciallo dei carabinieri che ha ricevuto la querela rideva perché...“avvocà, ma stavolta ha toppato”. Che volete dire? Io ho parlato con la Cazzetta di un processo...Insomma, Chieco dal 22 dicembre in ferie non è più venuto a Matera.

DE LUCA: ah, ah, ah, ah, ah.

BUCCICO: Non c'era a Matera quel giorno!

DE LUCA: Embè, finalmente ha fatto un errore. Eh, eh, eh, eh...

BUCCICO: Ne ha fatto più di uno. Ha detto che io ho assolto la dottoressa Pasquin, quella di Vibo Valentia, che non conosco, non ho mai fatto un procedimento... Io da quando...GALANTE: toglimi una curiosità: “chi è questo magistrato... quello per il quale tu ti saresti messo contro ventiquattro del CSM?

BUCCICO: Nooo, mò ti spiego. È una fesseria quella. No, non è quella. Il suo concetto fisso è questo. Lui dice: “tutti gli esposti che noi abbiamo fatto ai magistrati materani sono stati tutti buttati alle ortiche perché Buccico, faceva, presiedeva l'azione disciplinare e non li ha fatti andare avanti. Allora, ho spiegato nelle querele, che la sezione disciplinare è un organo che fa parte del consiglio superiore, ma assolutamente autonomo. Perché, come voi due sapete, il promovimento dell'azione disciplinare spetta bilateralmente o al ministro o al procuratore generale.

DE LUCA: Certo.

BUCCICO: Il CSM non può proporre niente, quindi a noi arrivano solo le carte. Io che ho fatto in più, non ho mai fatto parte della prima commissione, che è la cosiddetta para-disciplinare, dove confluiscono tutti gli esposti di tu... “ho perso una causa? Non se l'è tenuta perché... ha salutato la mia avversaria...” migliaia di questi esposti arrivano.

DE LUCA: infatti.

GALANTE: e l'articolo due.

BUCCICO: e certo, l'ex articolo due. Io non ho mai voluto far parte. Perché, se uno poi conosce di alcune vicende, che in teoria poi possono passare tramite la Procura Generale, si trova in difficoltà. Mai fatto parte in vita mia.

GALANTE: sì, sì, tu me l'avevi detto.

BUCCICO: Mai fatto parte. Quindi ho detto allo... dice che io ho salvato la Granese, mai avuto un procedimento disciplinare; ho salvato Chieco, mai avuto un procedimento disciplinare; ho aaaa... ho assolto la Bia, che è un ottimo magistrato, non ha mai avuto un procedimento disciplinare. Proprio cose inventate di sana pianta. Poi dice che sono riuscito a far assolvere il procuratore di Salerno, Apicella.

GALANTE: Sì, ho letto.

BUCCICO: Il procedimento a carico di Apicella veniva da un'archiviazione. E la sezione disciplinare funziona anche, e c'è un'eccezione giusta di legittimità, daaa... non c'è la scissione GIP/GUP, quindi da gip-gup insieme per cui decide se accogliere una richiesta di archiviazione o rinviare a giudizio. E i membri hanno accolto la richiesta di archiviazione. Dice che sono stato io. Come fa a sapere la camera di consiglio? Che poi è stata unanime (falso, finisce tre a tre con polemiche aspre nel Plenum) io non lo so come scrive tutte queste cose. Poi, i primi tempi in cui stavo al Consiglio, c'era la questione contro i massoni. Io con i massoni non c'ho niente a che vedere, cioè poi lui che mi conosce... sono il contrario mentalmente della massoneria. Che è successo? Che mi ero scocciato, ogni volta sti massoni. Quando venne il problema... io votai l'unico a favore di questo qua. Perché sono ventiquattro anni... Io non lo conosco, uè! Intendiamoci! Ventiquattro anni. Il mio voto contrario ha avuto un risultato che la quarta comm... la terza commissione ha rivisto la pratica, è andata un mese dopo, è stato promosso. A larghissima maggioranza. Perché non puoi, per tutta una vita, uno che è stato massone allora, quando non era vietato, non lo puoi continuare... questo è tutto. Cose dell'altro mondo. Mia figlia che fa le cause...

GALANTE: è brutto quel fatto così come è riferito.

BUCCICO: eh sì, a vabbè, l'ho fatto la querela. Eh... mi difende Amedeo Cataldo.

GALANTE: ah, ah, ah, ah...

BUCCICO: L'ultimaaaa... mia figlia fa le cause con un sottosegretario DS. Io ho telefonato a questo sottosegretario... ha detto non ho mai avuto società, non ho mai fatto una causa... inventate proprio, cose dell'altro mondo. A Matera è pazzo, questi lo sanno a Matera che è pazzo.

DE LUCA: Però lui qualche input lo ha. Cioè no, secondo me, non da Matera...

BUCCICO: No dottorèeee, nooo... dagli uffici di Matera del Tribunale. C'è qualcuno che gli riferisce le notizie.

DE LUCA: e anche da qua. Perché, insomma, voglio dire...

BUCCICO: le posso dire una cosa... le posso dire una cosa... ce l'ha pure qua, Peppino. Sensazioni di Nicolino, lascia perdere! Le posso dire questo? Un processo di cui io ignoravo... Chieco mi aveva soltanto detto “senti, mi sono stancato a essere oggetto di queste cose, siccome lo debbo querelare, io quasi quasi mi astengo in questo processo; notizia che mi ha dato ieri. Non seguii, perché a me o lo fa Chieco... poi io c'ho tanti difetti, ma Peppino glielo può dire, io non m'innamoro mai di un processo. Avevo le mazzate? Facevo appello! Mai detto a un magistrato 'na cosaaa... niente. Non ho più seguito niente. Giustamente, diceva la Cazzetta l'altro giorno in udienza, diceva: “avvocà, ma questo come ha saputo che il processo è finito a me, che ancora non lo sa nessuno? E non lo sapevo neppure io...”

DE LUCA: Ecco qual è il problema.

GALANTE: Ma è vero? Il fatto è vero? L'ha dato alla Cazzetta?

BUCCICO: No l'ha dato; pare che Chieco... in mano alla Procura Generale, c'è stata tutta la procedura. Non l'ha delegato Chieco! Lui si è astenuto alla Procura Generale.

GALANTE: E quindi ha accolto l'astensione...

BUCCICO: Ha accolto l'astensione e poi è arrivato alla Cazzetta. Dice giustamente Tina Cazzetta, dice “non lo sapevi tu”, ha fatto a me, “che te l'ho detto io quando... dopo che lui... ha visto la mia istanza a nome di alcuni clienti perché fossero sentiti ed ha detto senti, fammelo prima studiare, prima che li sentiamo. Dice: “non lo sapevi tu, come lo poteva sapere”. Quindi sono preoccupati di questo fatto.

DE LUCA: eh, ma anche su di lei, sul Procuratore ha notizie anche un po' interne. Francamente non è che questooo... A parte diciamo le bugie eclatanti.

BUCCICO: A Matera sta sempre in Tribunale.

DE LUCA: qua no, qua c'è... però, determinate notizie francamente secondo me, non sono per quello che riguarda più da vicino diciamoo... fatteee... diciamo Licia l'imputazione coatta che è un fatto voglio dire... diventata di pubblico dominio ma...

GALANTE: ... la giunta Bubbico no?

BUCCICO: dice che io ho difeso la giunta Bubbico. Io ho difeso, sai chi ho difeso io in quel processo? Enzo Dragone. Sì, a Matera sorse un processo parallelo, quello Panio.

DE LUCA: Panio.

BUCCICO: S'è fatto anche a Matera, per uno spezzone, archiviato dalla Bia. E ha messo tre articoli che io ho difeso Bubbicooo... tutto perché io sono amico di Bubbicooo... Non l'ho difeso. Ho difeso solo Enzo Dragone che, come tu ricorderai, difendo circa da vent'anni. È un nostro compagno di liceo, fifone nato, che era il direttore generale delle asl. L'ho difeso forseeee... forse trenta volte, insomma, nella mia vita.

GALANTE: Questo è un pazzo pericolosissimo, perché ormaiiii ha inquinatooo... e fa danni, fa molti danni...

DE LUCA: Poi viene in udienza... ad esempio è venuto in udienza preliminare una volta che c'ero io, per un procedimento in cui lui era parte offesa. L'ho conosciuto, l'ho conosciuto in udienza preliminare. C'era un procedimento in cui lui eraaa... un procedimento mi pare di Henry, cioè trattato da Henry, in cui lui era persona offesa. Non ricordo per quale reato. Henry aveva mandato a giudizio le persone da lui accusate. Lui venne in udienza preliminare, c'era la Romaniello, e voleva rendere dichiarazioni. Già facendo intendere che voleva rendere dichiarazioni ulteriormente accusatorieeee... ulteriormenteeee... Quindi l'ho visto, mi sembra anche molto lucido, tra l'altro, nella suaaa... Mi avvicinò pure... si presentò... disseee... ah sì, questa fu la frase. Disse: “io sono considerato un buon informatore”. Io dissi “guardi, dovrebbe sapere allora che, di solito, degli informatori non ce ne facciamo niente, perché non sono utilizzabili all'interno...”

BUCCICO: C'è un corpo di polizia che lo sente molto.

DE LUCA: Voglio dire... fu significativo...

BUCCICO: Lo sente molto.

DE LUCA: Però questa è stata la conoscenza con Piccenna, poi non ho mai... avuto modo.

BUCCICO: Poi si scatenò contro di me, quando io torno a fare l'avvocato e vado in udienza preliminare per un'archiviazione a carico di un.... e trovo duecento persone. Dico alla Bia: “dottorè, io non intendo fare l'udien...”, non la preliminare, la camerale, “dottoressa io non posso fare l'udienza così, vorrei che fosse rispettato il...”. Veramente l'abbiamo sempre fatto normalmente a Matera, devo dire la verità. Tra l'altro a Bari e a Taranto, dove sono stato l'altro giorno per il Comune di Taranto, uno esce e uno entra. La Bia mi ha guardato negli occhi e mi ha detto “finalmente”. Guarda l'ho vista proprio raggiante perché... quindi ha cacciato tutti via. Sono rimasti cinque o sei avvocati i quali sostenevano che essendo avvocati potevano stare. Io gli ho spiegato e se ne sono usciti. È rimasto uno di loro, uno del gruppo Picenna, il quale non se ne voleva uscire. Poi, mi chiama a me e dice: “ma lei in questo momento è ancora al CSM o come avvocato? Fa come ti piace ma te ne devi uscire lo stesso, l'ho detto alla Bia e la Bia l'ha cacciato. Finalmente l'udienza camerale si fa secondo regola, per cui non vengono più pubblicati i resoconti. Io li trovavo sui giornali, con un vulnus per l'indagato, non ancora imputato, enorme... L'avvocato Labriola è il presidente dell'ordine degli avvocati di Matera, è 'na brava persona, non vuol fare querela, non vuol fare querela. Siccome è di Tursi, lei non sa cosa è Tursi nell'immaginario popolare, insomma. Solo io e Peppino lo possiamo capire.... Lo ha chiamato dieci volte indagato, dice che io lo accompagnavo dalla Genovese perché indagato nel processo dei brogli di Scanzano. Ha detto: “fossi stato indagato. Non so' mai stato indagato”. Ha detto, “però io non ne faccio querela”...

DE LUCA: forse è meglio.

BUCCICO: siamo proprio una cosa pazzesca. Pazzesca.

GALANTE: E vabbè...

BUCCICO: Poi da quando so' diventato... maledetto a me che mi so' messo in quest'ambiente politico bruttissimo, perché il livello è medio-basso. C'è un processo da fare di Michele Porcari, che è stato chiamato... Michele Porcari è il sindaco di Matera.

GALANTE: ah, quell'avvocato.

BUCCICO: è un bravo avvocato ma è stato figlio di un bravissimo avvocato. Non so se ha avuto modo di conoscerlo.

DE LUCA: No.

BUCCICO: Con cui io sono stato una vita. Ci siamo divisi il lavoro però, diciamo, era una concorrenza ma una grande stima fra di noi. Debbo dire la verità. Mi chiama lui e poi me lo disse Maria Giulia, io sono stato amico anche della mamma, lui era un ragazzo, “senti mi devi fare una cortesia, mi deve difendere lo studio tuo in questa cosa qua, lo devi fare per papà”. Io stavo al CSM, allora, e allora non volle nominare mia figlia, mia figlia partecipò all'interrogatorio. Quando finì...al CSM lui è venuto, dice no devi venire tu mi devi difendere tu. E allora io ho fatto un'operazione molto semplice: mi so' visto le carte. E ho visto che non c'è niente. Perché possiamo... come gli dico che è stato incapace a fare il Sindaco, però sull'onestà... possono cadere i palazzi. Persona perbene al mille per mille. E allora gli ho detto va bene, e allora ti difendo, non c'ho nessun problema. Non le dico, ogni numero su questo fatto. L'inciucio fra me e questo qua. Io quante volte, lui lo sa, io quante volte... per me è un onore che difendo quelli di sinistra che vengono da... io difendo tutti quanti, tutti quanti ho sempre difeso. O no? Tutti quanti ho sempre difeso.

DE LUCA: è un problema. Perché poi diciamo, al di là della..., del fatto che abbia credito o no, sta di fatto che poi però ci sono foglietti distribuiti per tutta la città, nei bar, nei negozi per bambini, veramente dappertutto. Con queste..., anche a Potenza, sì, sì, Ma anche nei bar, voglio dire, nella piazza Prefettura c'è, c'è il mucchietto di..., sempre i stessi, poi uno li sa a memoria gli articoli di...del Resto.

BUCCICO: Che poi sempre lui scrive. Filippo De Lubac è lui, penso che anche Claudio Galante, l'ultima firma...

GALANTE: eh? Chi è questo?

BUCCICO: Sarà lui, perché ho visto che lo stile è perfettamente identico.

GALANTE: è una mina vagante che ha prodotto danni e che ora bisogna bloccare. Io ho parlato con Mariano Lombardi e ho detto mo' ti devi muovere; e mo' basta!

BUCCICO: Scusa, hai perso tempo solo. Perché è 'nu brav'uomo, io ho presieduto la sua sessione disciplinare l'abbiamo assolto perché l'avevano martirizzato per una cosa che aveva fatto a Salerno. Un brav'uomo totalmente inidoneo a reggere una Procura della Repubblica. Non perdere tempo! Con quella moglie super attiva nei suoi confronti, ha fatto l'errore di aver sposato la capa cancelliera... una situazione abnorme, unica. C'è un aggiunto bravo: Salvatore Murone. Il quale però, per questa rigida divisione dei compiti, dice “no, io da quando sono entrato mi prendo quelle che sono entrate” e tutto il precedente finito fra Spagnuolo e De Magistris... durano anni, anni e anni. Però a Chieco hanno chiesto l'archiviazione per le cose di Picenna. Me l'ha detto Chieco l'altro giorno.

GALANTE: l'archiviazione parziale... io, l'altro giorno, ho chiesto a De Magistris di essere interrogato e non se l'è filato proprio. Che caspita c'entro io in quella bolgia della Banca Popolare del Materano? Questa è colpa di Mariano Lombardi che ha eseguito l'affastellamento di situazioni che non c'entrano nulla con la banca.

BUCCICO: Ma nella Banca Popolare del Materano non c'è reato.

GALANTE: No per...

BUCCICO: ah, ma la faccenda della presidente.

GALANTE: chi presidente? Attilio?

BUCCICO: ehhhh, e vabbè. Ma so' fssarì (sono fesserie).

GALANTE: Ma io che c'entro? Perché la mia posizione? Che poi è quella riservata al CSM. Quella collegata, credo.

BUCCICO: Cioè? Non capisco.

GALANTE: C'è una pratica aperta al CSM contro di me in disciplinare, collegata sicuramente a questa mia limitazione di Catanzaro, che è la bellezza di trecento diciannove ter: corruzione in atti giudiziari, io! Ho chiesto a De Magistris l'altro giorno, sono andato a trovarlo, qui datti da fare perché io voglio rendere interrogatorio. Voglio sapere che caspita c'hai. Che c'entro io. È un faldone enorme con la Banca Popolare del Materano. Non c'entro niente. Questo è Mariano Lombardi che ha messo tutto insieme. Tutto insieme: Matera, Potenza... Origine? Piccenna!

BUCCICO: Però, prima che andasse in pensione Pudìa, ...era in pensione da venti giorni... io ebbi un processo a Catanzaro, mi ha detto “ci siamo stancati degli esposti di questo Picenna”. Me lo disse Pudìa che è il... sì, che era però... detto da Pudìa è diverso perché Pudìa è, diciamo, è il tutore dell'altra metà che è divisa la Procura... dell'altra metà c'è Spagnuolo e De Magistris.

GALANTE: De Magistris è un ottimo magistrato, però si deve muovere. Non posso stare...

BUCCICO: Quindi lui ti disse ha messo tutto insieme? De Magistris ha messo tutto insieme?

GALANTE: Lombardi, Lombardi. Che c'entro io. Mi trovo in una situazione... perciò tu dici i capelli bianchi. Ma per forza.

BUCCICO: Sì, ma pure quell'altra. Vedi la Granese è 'na povera donna ma 'na buona donna.

GALANTE: ha qualche problema... il marito...

BUCCICO: ma sai, sì ha il problema del marito ma che ha fatto? S'era assegnate 'ste cause della Banca Popolare, però senza adottare nessun provvedimento. Prima di ogni cosa... ma dove stanno 'sti reati? Ma proprio a perdere tempo, guarda.

GALANTE: vabbè.

BUCCICO: Vi posso venire a rubare cinque minuti?

DE LUCA: Sì.

GALANTE: Vabbè.

BUCCICO: Peppì... tu conosci Filippo Bubbico?

GALANTE: eh sì.

BUCCICO: siamo nati nello stess... cioè, io sono nato a Matera però mi considerano montese perché papà mio è di Montescaglioso e lui è di Montescaglioso. Io c'ho un ottimo rapporto perché per me è una bravissima persona.

GALANTE: per me è l'unico politico che ha... che ha cervello in testa nella regione Basilicata.

BUCCICO: è una bravissima persona... praticamente, lui si fa scrivere di tutto. Ho detto ma non puoi fare querela?

GALANTE: una l'ha fatta, contro quell'imbecille di Giovanardi.

BUCCICO: gli hanno scritto delle cose antipaticissime, tra l'altro di carattere personale. Lo studio suo che ha fatto questo... il baco da seta... Fate una querela!

GALANTE: questo ultimo che ha scritto Piccenna... quello è pesante! Lì si dovrebbe muovere.

BUCCICO: quello del questore...

GALANTE: quello del Consorzio Seta.

BUCCICO: cioè lui l'ha scritto tre volte, quattro volte.

GALANTE: così come è rappresentato è un fatto pesantissimo.

BUCCICO: Perché lui non se ne frega niente.

DE LUCA: Lui lo fa, invece bisognerebbe dargli addosso. Perché poi...

GALANTE: esatto.

BUCCICO: non se ne frega niente. Io ogni giorno che lo vedo là... Chieco, finalmente, ieri mi ha detto: “no, no basta. Io mi sono stancato. Questa gliela faccio”. Ciao Peppì.

GALANTE: Ciao Nicolì.

DE LUCA: arrivederla procuratò. 

Buccico si racconta: Tratta i magistrati come compagni d'asilo, ma solo quelli che glielo permettono. Il 16 gennaio 2007, l'allora senatore Emilio Nicola Buccico si recò in Procura a Potenza dove incontrò il Procuratore Capo, Giuseppe Galante ed un sostituto procuratore Claudia De Luca, scrive Filippo de Lubac. Motivo dichiarato della visita era discutere il caso di una sua cliente con la D.ssa Claudia De Luca. Capita che un avvocato vada a discutere con il PM dei procedimenti penali e dei processi in cui svolge il ruolo di difensore di una delle parti. All'avvocato Buccico, in quel periodo, capitò almeno due volte a strettissimo giro. La d.ssa De Luca, quella mattina, registrò quella conversazione e consegnò l'audio al PM Luigi de Magistris che, all'epoca era titolare dell'inchiesta “Toghe Lucane” in cui Buccico e Galante erano indagati per il reato di corruzione in atti giudiziari. Poi l'inchiesta venne illecitamente tolta a Luigi de Magistris (gli autori di quell'illecito, NON TUTTI, sono oggi sotto processo a Salerno) e condotta ad una dubbia archiviazione tant'è che, parzialmente riaperta, oggi è processo a Catanzaro. I vertici della Procura Generale ed Ordinaria di Catanzaro (dell'epoca) sono oggi sotto processo a Salerno, mentre i vertici della Procura Generale e parte significativa degli operatori di Polizia Giudiziaria del Distretto Giudiziario di Basilicata (dell'epoca) sono oggi sotto Processo a Catanzaro. Sono questi i danni prodotti dal giornalista di cui il Procuratore Galante si duole nel colloquio registrato? Le posizioni di Buccico e Galante sono, comunque, archiviate e questo ci consente di guardare a queste vicende con maggiore serenità. Il colloquio che si svolse quel 16 gennaio è un documento eccezionale, uno spaccato del modo si fare e di raccontare di Buccico che, a distanza di 8 anni, può essere confrontato con la verità storica e giuridica, entrambe molto diverse da quello che l'avvocato racconta a Peppì e Claudia De Luca. Possiamo farci un'idea della personalità di Nicola Buccico ascoltando la sua viva voce: magistrale la pausa nell'eloquio subito prima di pronunciare il nome di Salvatore Murone. Si percepisce tutta l'attesa che suscita nell'interlocutore, Peppì, e che trasmette a noi stessi mentre ascoltiamo l'incipit: “c'è un aggiunto bravo” e subito dopo una pausa opportuna per creare suspense (si scrive così, ho controllato sul dizionario Treccani, ndr), con tono diverso e liberatorio: "Salvatore Murone". È Buccico stesso che si racconta a noi. L'avvocato Buccico si rivolge al (allora) Procuratore Capo, Giuseppe Galante, nel suo ufficio al Tribunale di Potenza di fronte al sostituto procuratore Claudia De Luca, chiamandolo con un diminutivo: “Peppì”. Questi gli risponde affettuosamente: “Nicolì”. In una sede istituzionale, persone che rivestono ruoli contrapposti nel processo, si relazionano mostrando estrema confidenzialità e parlano violando il segreto istruttorio di un'inchiesta delicatissima. Loro, che la Legge la conoscono bene! L'avvocato Buccico dichiara di aver sollecitato diversi personaggi a proporre querela contro un giornalista. Il Procuratore Galante, infastidito dallo stesso giornalista, dice di aver sollecitato la Procura di Catanzaroaffinché venga fermato perché “ha prodotto danni ed ora bisogna fermarlo”. Quali sono i danni prodotti dal giornalista? Quanti hanno raccolto gli inviti di Buccico a querelare? Cosa ne è stato di quelle querele? Galante e De Luca, durante il colloquio non sembrano mettere in dubbio la mole di informazioni che Buccicosciorina in rapida successione, raccontando di colloqui con magistrati, di articoli, di magistrati mai indagati e mai sottoposti a procedimenti disciplinari. Quello che Buccico racconta durante il colloquio corrisponde alla verità? Galante, procuratore capo a Potenza, apprende dagli articoli che commenta nel colloquio, ipotesi di gravissimi reati in capo a Filippo Bubbico. Afferma con chiarezza che gli articoli riportano fatti "pesantissimi" e quali conclusioni ne trae? Lui che, appresa la notizia di una reato procedibile d'ufficio avrebbe dovuto, appunto, procedere? Invoca il presunto reo, dicendo che si deve difendere e si premura di querelare sette, otto, dieci volte il giornalista! Tutte queste domande, oggi, hanno risposta incontrovertibile e imbarazzante. E noi, questo imbarazzo, lo faremo emergere in tutta la sua ingombrante e insopportabile evidenza. E' un dato oggettivo: tutti i magistrati che hanno prestato fede al nostro avvocato in questa trista vicenda, hanno scoperto (a loro spese) che inventare un reato impossibile non è il modo migliore per dimostrare di essere idonei ad indossare la toga; così come di favoreggiamento si può anche finire sotto processo!

Annunziata Cazzetta, un magistrato che suscita ilarità (e indignazione!). Scrive ancora "Toghe Lucane". Dichiarazione del PM Annunziata Cazzetta in udienza del 28/11/2008: “Quanto all'invito all'astensione, faccio rilevare al Tribunale che questo pubblico ministero non ha alcun rapporto di grave inimicizia con nessuno dei propri indagati... sono gli indagati che, forse, hanno un rapporto di grave inimicizia con me. Ma è un rapporto unilaterale”. La dichiarazione è falsa, Cazzetta mente sapendo di mentire poiché il 26/3/2007, il 30/4/2007 ed il 12/10/2007 aveva presentato querela contro NicolaPiccenna, giornalista che il 28/11/2008 ne chiedeva l'astensione. Non è vero che il rapporto è unilaterale, cioè degli indagati (nel caso il giornalista Nicola Piccenna) poiché è documentato che Cazzetta (per prima) querela il giornalista per ben tre volte. Dopo aver presentato le querele in data 26/3/2007 e 30/4/2007, nel mese di maggio 2007, Annunziata Cazzetta dispone sette mesi continuativi ed ininterrotti di intercettazioni telefoniche a carico del giornalista (da Maggio a Dicembre 2007) con le quindicinali autorizzazioni (firmate dal GIP Angelo Onorati). Chiede ed ottiene (sempre con la firma di Onorati) le perquisizioni domiciliari a carico del giornalista e dei suoi genitori. Dopo aver presentato le querele in data 26/3/2007 e 30/4/2007, nel mese di maggio 2007, Annunziata Cazzetta iscriveva a carico del giornalista il reato di associazione per delinquere finalizzata alla diffamazione del (allora) senatore Nicola Buccico. Reato impossibile, come spiega il decreto di archiviazione emesso dal Tribunale di Catanzaro (Giudice delle Indagini Preliminari) in data 31/7/2014 (sette anni e passa dopo l'iscrizione, e tre anni dopo la richiesta di rinvio a giudizio firmata sempre da Annunziata Cazzetta il 15/6/2011). Dopo aver presentato le querele in data 26/3/2007 e 30/4/2007, Annunziata Cazzetta iscriveva a carico del giornalista il reato di tentata violenza privata con l'uso delle armi per la frase, tratta da un articolo e riportata fedelmente nel capo di imputazione: “sfidavano l'avv. Buccico ad uno scontro fisico con l'uso di armi, scrivendo: "... E no, caro strenuo difensore, la battaglia deve essere ad armi pari. Coraggio, almeno per una volta, una sfida medioevale. Un cavallo a testa, una lancia e via". Reato impossibile, come spiega il decreto di archiviazione emesso dal Tribunale di Catanzaro (Giudice delle Indagini Preliminari) in data 31/7/2014 (sette anni e passa dopo l'iscrizione, e tre anni dopo la richiesta di rinvio a giudizio firmata sempre da Annunziata Cazzetta il 15/6/2011). Dopo aver presentato le querele in data 26/3/2007 e 30/4/2007, Annunziata Cazzetta disponeva l'interrogatorio di Mario Altieri avendo ascoltato le conversazioni telefoniche tra il Capitano dei Carabinieri Pasquale Zacheo (ufficiale di PG) ed il Sostituto Procuratore Luigi de Magistris, il quale delegava quell'ufficiale a svolgere specifiche indagini proprio basate sulle dichiarazioni dell'Altieri. Oggetto dell'interrogatorio, esplicitamente formulata, la richiesta di conoscere cosa Altieri avesse riferito al PM Luigi de Magistris. Gravissima intrusione, illegittima e penalmente rilevante, nella indagini di un altro magistrato requirente! “Quindi non mi astengo assolutamente”, così conclude Annunziata Cazzetta quella sua sciagurata e falsa dichiarazione in udienza il 28/11/2008. Dopo quasi sette anni, dopo che è provato il falso in udienza ed una quantità di reati incompatibili con l'appartenenza all'ordine giudiziario, quando accade che in tutta l'Italia si rida sfacciatamente della lancia e del cavallo ricercati nella perquisizione domiciliare a carico del giornalista Nicola Piccenna (secondo piano, sic!), cosa ritengono di porre in essere per sottrarre l'amministrazione della giustizia al ridicolo in cui Cazzetta l'ha precipitata, il Signor Presidente della Repubblica, l'Esimio Guardasigilli pro-tempore, gli Ill.mi componenti del CSM e gli Ecc.mi magistrati della Corte di Cassazione? 

LA STAMPA DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA.

Come se nulla fosse successo la diatriba si riversa su "Il Quotidiano della Basilicata".

Vulpio e la legge del contrappasso. Scrive Andrea Di Consoli. Sarebbe bello se dopo ogni buriana ci si potesse sedere intorno a un tavolo, e discutere a bocce ferme, deponendo le armi. Non sono abituato a infierire, ma prendo atto che Carlo Vulpio, il giornalista pugliese che scrive sul "Corriere della sera" di cultura, e non più di cronaca, sta oggi subendo sul suo blog lo stesso trattamento che alcuni di noi hanno subito quando si sono messi contro la corrente dominante, in dispregio dell'applausometro popolare e giustizialista (a me hanno dato del mafioso, del venduto, dell'iscritto a busta paga, e la Sciarelli, che non ho denunciato solo perché lavoriamo nella stessa azienda, mi ha mostrato a mia insaputa come un mafioso a braccetto con un altro mafioso, ovvero Michele Cannizzaro, che è l'uomo meno mafioso di Basilicata). Come i nostro lettori sanno, sul "Quotidiano della Basilicata" vige la regola ­ almeno a partire dal 2007, con l'assunzione della direzione di Paride Leporace ­ di pubblicare tutte le notizie, senza innamorarsi né di alcune notizie in particolare, né di tesi o di teoremi o di umori dominanti ed egemoni per una certa fase storica. Quando Vulpio prendeva i suoi applausi nelle pubbliche piazze, noi passavamo le giornate a spiegare agli odiosi forcaioli perché Michele Cannizzaro fosse una persona pulita (e un grande manager sanitario), e perché Felicia Genovese fosse un importante magistrato antimafia, e non i mostri che dicevano di essere i vari Carbone, Sciarelli, Piccenna, don Cozzi. Pazienza, prima o poi la storia assegna equamente meriti e demeriti a ciascun essere umano. E il tempo, si sa, è galantuomo (e non abbiamo l'ardire di appellarci a Dio, come taluni fanno). Carlo Vulpio io l'ho criticato apertamente nel libro "La commorienza", dedicato alla morte dei fidanzatini di Policoro (non è vero, infatti, come lui sostiene, che Marirosa Andreotta abbia partecipato ai famosi festini), e l'ho subìto in televisione (alla Vita in diretta) sul caso Claps, allorquando si ostinava a spiegare/spiegarmi che Danilo Restivo andasse a suo tempo arrestato per omicidio nonostante l'assenza del corpo e della stessa certezza che di omicidio si trattasse (provavo a spiegargli le mie ragioni e l'assurdità delle sue posizioni, ma lui alzava la voce e urlava, come io non sono abituato a fare, in specie davanti a milioni di persone). Pazienza, ognuno ha il suo stile. Prendo atto che oggi lui venga insultato sul suo blog perché candidamente ammette a Il Giornale, proprio come Berlusconi, che a suo tempo lui si candidò all'Europarlamento con l'IDV per non essere arrestato (io pure sono rinviato a giudizio per una querela che mi hanno fatto Galante e Montemurro a causa della lunga intervista che feci a Michele Cannizzaro sul Quotidiano, ma non mi sarei mai sognato di buttarla in politica, oppure di piangere a destra e a manca. Forse perché ho fiducia nella magistratura, nelle mie ragioni professionali e nei documenti che leggo e conservo?) Ma, come dicevo prima, non voglio infierire, anzi, mi piacerebbe che da questa virata di Vulpio nascesse una nuova stagione culturale, una nuova possibilità di confronto e di riscrittura della storia lucana. Mi fa piacere che Vulpio oggi collabori con Sgarbi a Rai1, che critichi le intercettazioni sputtananti, che dichiari Berlusconi innocente sulla vicenda Ruby e che critichi finanche Travaglio. Mi fa piacere, tutto questo cambiamento, perché un seme di complessità e di garantismo io vedo germogliare nel suo operato (e anche un'incrinatura del brutto populismo urlante e massimalista che lo ha reso tutto tranne che intellettuale). Per anni, invece, in Basilicata alcune persone sono state sputtanate e condannate mediaticamente senza pietà anche da lui. E il popolo, divorato dall'odio, dall'invidia e dall'ignoranza dei fatti, applaudiva alle vagonate di merda che venivano scaricate sui signori Buccico, Genovese, Cannizzaro, Bubbico, ecc. Oggi, se Vulpio è in buonafede come lo siamo sempre stati noi, capirà finalmente cosa significhi essere insultati per le proprie posizioni, e che dolore arrechi l'essere additato dalla pubblica piazza quale traditore, venduto, interessato, ecc. Vorrei però porre alcune domande, in conclusione, anche a Vulpio, a cui dovrebbe stare a cuore la Lucania, visto che per anni ha calpestato nel nostre lande. E sono queste: è stata migliore la sanità pubblica lucana senza Michele Cannizzaro (per esempio al San Carlo)? E' stata migliore la politica lucana senza Filippo Bubbico? E' stata più giusta la magistratura lucana senza Felicia Genovese? E chi ha guadagnato del loro allontanamento dalla scena pubblica lucana? E dove sono le verità sul caso Claps, sul caso dei fidanzatini di Policoro, sul caso di De Mare, oggi che i mostri massonici e plutocratici sono in esilio? E perché nessuno chiede scusa a Michele Cannizzaro sulla morte dei coniugi Gianfredi, oggi che conosciamo mandanti ed esecutori del loro omicidio?

Di Consoli si riprende la parola. Contro le anime morte di palazzo. «L’aria sta cambiando. Ma i politici se ne accorgono? Alla Basilicata serve un’avanguardia sociale che volti le spalle ai politicanti.» Caro Paride, ti confesso che non riesco a nascondere un sentimento di stupore e di gioia per i tanti (Logozzo, Galella, Collazzo, Lapolla, Coviello, Potenza, Albano, Massaro, D’Ecclesiis, Pascale ecc.) che hanno sentito la necessità di dire la loro, di emendare le mie parole, di aggiungere un punto di vista originale, un’idea personale, una diversa prospettiva dello sguardo, un tassello di passione. In quale altra regione c’è tutta questa necessità, quest’urgenza, questa generosità di raccontarsi, capirsi e sviscerarsi – esponendosi a critiche e a incomprensioni – che abbiamo noi lucani? Peccato che la nazione intera ci valuti soltanto per il Pil negativo, e non sappia prendere in considerazione questa nostra attitudine alla riflessione, alla condivisione delle idee, delle rabbie e dei sentimenti. Di questo sono felice e orgoglioso, oggi più che mai. Non perché le mie parole siano state al centro di un dibattito, ma perché le mie parole sono state accolte da centinaia di persone, e sono diventate qualcosa di corale. Voglio solo aggiungere due cose, in questa mia lettera, e traggo spunto dalla tua eccellente risposta di ieri alle solite critiche, non solo inesatte, ma anche polverose, di Nicola Piccenna, che non ha colto l’aria nuova di quel che sta accadendo in Basilicata, essendo fermo nostalgicamente e parossisticamente ai tempi – ormai passati, grazie a Dio – in cui il cambiamento veniva auspicato per mezzo delle indagini, dei processi e dei clamori mediatici. Non siamo più nel 2006 e questo, lo capisco, può dispiacergli, ma non può dispiacere a quanti come me conoscono le cavolate e le menzogne mediatico-giudiziarie che sono state dette e propagandate per fini che ignoro, ma che immagino, sia pure con infinita tristezza e sgomento. La prima riguarda il tema dell’identità. Anche io, come tutti i baumaniani, sono un difensore delle identità “liquide” e ibridate, ma ho paura che non voler ammettere di appartenere a una terra conchiusa (a un ethos preciso) sia segno di deresponsabilizzazione, e quindi di ineffettualità intellettuale, nonché affettiva. In questo senso, nella mia vita, anche quando ho parlato d’altro, ho sempre parlato di Lucania. La seconda cosa, invece, mi sta molto più a cuore. Non so se le classi dirigenti se ne stiano accorgendo, ma anche un dibattito come questo dimostra inequivocabilmente che l’aria sta cambiando. Me ne accorgo dal modo di scrivere e di parlare dei miei conterranei. Sono cioè lontani gli anni dei messaggi obliqui, delle frasi cifrate, dei silenzi calcolati, e questo cambiamento lo si deve a te, che hai dato spazio a linguaggi che fino a oggi sono stati relegati nella marginalità (e mi chiedo come sia potuto diventare segretario regionale del Pd un ragazzotto pavido e obbediente come Roberto Speranza). Un’aria nuova di franchezza, di sincerità, di vera discussione sta spazzando via una ritualità socio-politica vecchia, a tratti goffa, fatta di ricatti, sputtanamenti mediatico-giudiziari, interessi personali (mascherati da spirito di servizio pubblico), e arroganze, molte arroganze. Ora però, a questo punto del dibattito, la cosa importante è che nessuno si approfitti di questo clima di autoanalisi e di discussione franca che la Basilicata sta vivendo per accrescere il proprio potere personale, perché nessuno può permettersi il lusso di tradire con la fame di poltrone questi sentimenti puri che stanno sbocciando, e che sono la parte più sacra della nostra comunità, e che vanno difesi dal rischio dell’ennesima delusione. Quello che occorre, in altri termini, è un’avanguardia sociale e intellettuale che volti per un po’ le spalle alla politica politicante (ovvero alla politica del consenso, delle cariche, delle ritualità obsolete). Nel senso che il cambiamento dovrà farlo liberamente la società intera, relegando la politica nella postazione di retroguardia e d’irrealtà nella quale si è vergognosamente accomodata. Chiunque tentasse di trasformare questi sentimenti che stanno nascendo in voti elettorali spezzerebbe un processo “rivoluzionario” che ci potrebbe portare molto lontano. Ma a condizione che nessuno lo svenda per un piatto di lenticchie, o per una stupida candidatura. Perciò io dico: è arrivato per tutti noi che amiamo la Lucania il tempo del dare e non dell’avere. Non chiediamoci cosa la Lucania possa fare per noi, ma chiediamoci con umiltà e passione cosa possiamo fare noi per la Lucania. Se riusciremo a cambiare e a migliore anzitutto noi stessi (uno per uno, casa per casa, bambino dopo bambino), sono sicuro che verrà un tempo che anche chi farà politica non sarà più soltanto un assetato di potere e di danaro (una delle tante lingue di legno che difendono un sistema ridicolo che garantisce, chissà perché, emolumenti a vita, stipendi assurdi, che chi lavora nemmeno si sogna). Distruggiamo pure, perciò, un brutto sistema di satrapie, senza però avere fretta di crearne subito un altro, perché assomiglierebbe troppo a quello appena distrutto (non è questo il fallimento di tutte le rivoluzioni?). Sforziamoci di rimanere per strada, nei campi, nei bar, con gli amici, nei luoghi di lavoro, con le poche cose che abbiamo, con la forza delle idee e delle passioni. Nei palazzi del potere lasciamoci le anime morte e i rimestatori che tutti conosciamo. Perché la malattia da cui tutti dobbiamo guarire si chiama proprio potere. Il primo veleno è lui. E, chi più e chi meno, ne siamo tutti ammalati. Dobbiamo avere certamente fretta di cambiare e migliorare, ma facciamolo con lentezza e con intelligenza.

La lettera di Piccenna: ciò che Di Consoli ignora su Toghe lucane. Egregio direttore, mi risolvo a scriverti questa lettera aperta dopo aver letto l'intervista pubblicata recentemente dal tuo giornale all'intellettuale lucano Andrea Di Consoli, giornalista e scrittore di fama. In origine, avevo in animo di confutare gran parte delle tesi sostenute da Andrea ma, procedendo, mi son reso conto che l'opera diventava monumentale e quindi inutile. Vedi, direttore, commentare Toghe Lucane non può prescindere dal conoscerla e “pacificare gli animi” non può risolversi nell'abusato “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”. Né può costituire valido supporto l'estrema sintesi che opera Andrea (e molti altri con lui) riducendo tutta quella ponderosa inchiesta fatta di duecentomila pagine, 118 faldoni e non ricordo più quanti Cd al decreto di archiviazione. Veramente si pensa che qualcuno dotato di buonsenso possa accontentarsi di una archiviazione ottenuta dal Pm Capomolla dopo aver smembrato l'inchiesta e distribuito gli atti d'indagine in procedimenti stralcio che ne hanno frantumato la logica e diluito la valenza probatoria? Non si tratta di esprimere opinioni, come se si parlasse della formazione dell'Italia Football club, ma di prendere atto del giudizio che ne ha dato la Procura Generale di Catanzaro. Il Pm Eugenio Facciolla si è spinto a scrivere che “il Giudice ha violato la Legge” quando ha archiviato lo stralcio “Marinagri” e su questa base ha proposto appello. No, Toghe Lucane non è del tutto “archiviata” ma, anche se così fosse, non si può lasciar credere a quei (troppo) pochi lucani che leggono i giornali che non vi fossero elementi ed evidenze degne almeno di giudizio politico che, come sostiene anche Di Consoli, è dovere formulare ed utilizzare per trarne conseguenze operative. Il “disastro Basilicata” ha precisi responsabili, nomi e cognomi che non possono passare alla storia come i migliori politici di questa martoriata regione. Dimentica (Di Consoli) gli slogan di recenti campagne elettorali? Chi crede che abbia inventato “Basilicata che bello!” oppure “La Basilicata che sa governare”. Chi crede che abbia inventato “Basilicata, isola felice”? Ignora (Di Consoli) che il Sostituto procuratore Felicia Genovese è stato trasferito e destinato a funzioni collegiali perché non si astenne (come prevede la Legge) dal trattare vicende giudiziarie che riguardavano Filippo Bubbico ed altri assessori e funzionari regionali mentre il di lei marito (Dottor Cannizzaro) concorreva per la nomina a Direttore generale del San Carlo? Ignora che il Sostituto procuratore Felicia Genovese è stata trasferita perché omise di iscrivere nel registro degli indagati Giuseppe Labriola e ne ottenne in cambio il sostegno di Emilio Nicola Buccico, allora membro del Csm, per diventare consulente esterno della commissione antimafia? Ignora che quel Pm omise di sequestrare, nonostante le istanze ed i solleciti della polizia inquirente, i vestiti sporchi del sangue di Danilo Restivo e di chissà cos'altro, ritardando di quasi vent'anni l'inchiesta sulla tragica morte di Elisa Claps? Ignora che Felicia Genovese e Michele Cannizzaro hanno querelato per diffamazione il giornalista che aveva raccontato della incompatibilità della prima a trattare vicende in cui aveva un ruolo non trascurabile il secondo ed hanno dovuto soccombere al lapidario giudizio del Gup Dottor Antonio Giglio: “... la notizia riportata dall'articolista era vera: la dottoressa Genovese si astenne “non prima ... di richiedere l'archiviazione del procedimento a carico dei datori di lavoro di suo marito e solo dopo il rigetto dell'archiviazione”. Molte altre cose, ignora Di Consoli ma ciò non toglie che possa stimare chi gli pare ed augurarsi quanto di meglio per le persone che più gli piacciono. Però l'informazione giornalistica è altra cosa dall'esprimere un giudizio o manifestare la propria opinione. L'informazione è raccontare fatti e rendere noti documenti che il lettore deve poter conoscere per formarsi una sua propria idea, nel caso di specie della Basilicata. Una terra ricca di risorse e povera di uomini coraggiosi. Dove l'amministrazione della giustizia è confusa con l'esercizio delle opinioni e la legalità si vuol far credere sia un'utopia da cavalieri un po' svitati. Fortunatamente, c'è qualcuno che resiste. Che paga un prezzo molto più alto di quello cui Andrea dichiara di essersi sottratto, ma che lo paga con levità, senza

piagnucolii e martirologi. Perché una fondamentale verità esperienziale occorre tener presente prima di iniziare un'intrapresa: una vera battaglia comporta un vero prezzo da pagare. C'è spazio per tutti, ma solo a questa condizione. Il resto sono chiacchiere da bar o da intellettuali ateniesi. La rivoluzione dei vecchi: ma siamo completamente impazziti?

Piccenna ripropone gli arcani di Toghe lucane. Non è il processo di Norimberga ma una vicenda che ha ingannato molti lucani, risponde Paride Leporacenicola. Piccenna mi scrive una lettera aperta sul dibattito scaturito dalla mia intervista a Di Consoli. Di questo lo ringrazio e ne ospito le tesi come già avvenuto in passato. Mi permetto di riflettere che Piccenna resta fermo al passato. Ancorato ad un nozionismo giuridico - emergenziale di cui lui è stato maestro e anche principale mossiere e animatore. Nel rileggere sempre gli stessi nomi, le stesse questioni (quando arrivai in Basilicata la vicenda Panio sembrava il processo Sifar), il complottismo e le anime nere confesso di aver osservato sull'intervento di Nicola uno spesso strato di polvere su questioni che così riproposte non aggiungono nulla e cambiano poco dello stato presente delle cose. In tutta franchezza mi sembra questo un gioco dell'oca delle anime morte. M'interessa capire Toghe lucane su quello che manca non su quello che lo ha affollato con confusione. Poi sai, Nicola, non stiamo analizzando il processo di Norimberga, ma delle vicende che hanno visto molti uomini delle istituzioni combattersi in una guerra civile e giudiziaria che ha ingannato molti lucani. Rimane un gioco delle parti dove alcuni hanno avuto un ruolo in diversi schieramenti e che come spesso capita in Italia hanno anche cambiato maglietta. Mi permetto di dirti che noi stiamo tentando altro. Guardiamo all'oggi. Creando un nuovo linguaggio diverso e collettivo. Stiamo cercando di allargare la sfera pubblica senza alzare cappi metaforici vendicativi. Cerchiamo di far prendere parole alle giovani generazioni contaminandoci con nuovi mezzi di comunicazione. Quando diversi amici mi raccontano che in piazza a Rionero o in un bar di Missanello ci si accapiglia sulle dichiarazioni pro e contro Di Consoli, è per noi una grande soddisfazione aver raggiunto questo dialogo da Bar sport. La mia e la nostra non e' una guerra santa. Si tratta soltanto di una battaglia delle idee che cerca di capire i meccanismi del consenso e tenta di cambiarli. L'ultimo intervento per esempio di Paolo Albano in risposta alle staffilate di Di Consoli apre una discussione sulla Chiesa lucana come non l'ho mai letta nella cattolicissima Basilicata. E considerato che si evoca anche da quelle parti il caso Claps, ne traggo spunto, per chiedere al clero basso e alto evocato da Paolo, una risposta chiara sulla riapertura della Trinità di Potenza. Constato che tu, pur essendo cattolico praticante, non ti appassioni al tema. Caro Nicola, so che sei alle prese con la rinascita di un tuo nuovo giornale. Apprezzo la testardaggine e la determinazione. Ma vedo nel tuo operato quel soldato giapponese, che pur sapendo che la guerra era finita, restava nella jungla aspettando l'ordine di ritirata da Hiroito. Io penso che dalle tue capacità la Basilicata pretenda altro. Quella guerra è ormai finita. Con sincera cordialità.

AMEN!

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

CAMICI NERI E L'OMERTA' LUCANA.

“Omicidio” all’ospedale di Potenza. Medico confessa: l’abbiamo uccisa. Agghiacciante testimonianza nell’audio che vi invitiamo ad ascoltare: “dovevo auto denunciarmi". Inchiesta esclusiva di Giusi Cavallo e Michele Finizio su “Basilicata 24”. Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona… sono responsabile della morte di quella persona… dovrei andare ad autodenunciarmi, però verrei licenziato… il primario ha amicizie, coperture politiche, io no”. È l’inverno del 2013, due medici rievocano un intervento di cardiochirurgia andato male il 23 maggio di quell’anno nella sala operatoria dell’ospedale San Carlo di Potenza, 750 posti letti e centro di riferimento sanitario dell’intera Basilicata. L’uno ascolta, consola e registra. L’altro si dispera, si dispiace, si autoaccusa. “Ho un cruccio, non riesco a dormire…”. Dalle registrazioni in nostro possesso emerge un quadro inquietante. Intrecci tra medici, dirigenti e politica. Coperture, ricatti, paura, omertà. Intanto i cittadini pagano, anche con la vita. Nell’audio parlano due medici. Leggete e poi ascoltate.

Il fatto. E’ il 28 maggio del 2013, un martedì come tanti altri, ma non per la signora Elisa. Lei non sa che quel giorno morirà. Non può neanche immaginarlo. Perché nessuno pensa di morire per causa di un semplice intervento chirurgico di routine: la sostituzione di una valvola cardiaca. Elisa viene dalla provincia di Cosenza. Si affida alle cure dell’Unità Operativa di Cardiochirurgia dell’ospedale San Carlo di Potenza, il cui responsabile (primario) è il dottor Nicola Marraudino, originario di Salandra, molti anni trascorsi al Policlinico di Bari. La signora Elisa, 71 anni, viene portata in sala operatoria. Un intervento durato quasi 8 ore, eppure per prassi ne bastano circa 4. Che cosa è accaduto in tutto quel tempo? Sicuramente un fatto: la signora Elisa è morta. Perché?

Chi c’è in quella sala operatoria? Le nostre fonti ci dicono che l’intervento, così come risulta dal verbale operatorio, è stato eseguito dal dottor Marraudino e dal dottor Michele Cavone. In realtà all’operazione partecipano altri due cardiochirurghi: Matteo Galatti e Fabrizio Tancredi. Il primo non poteva essere lì, perché aveva fatto il turno di notte. Un cardiochirurgo che ha appena smontato dalla notte, regola inviolabile, non può operare. Naturalmente i due “intrusi” non risultano nel verbale operatorio. Qualcuno ha dichiarato il falso?

Che cosa succede in quelle ore? A iniziare l’intervento è proprio Galatti, che non doveva essere in sala operatoria, il quale commette un grave errore: rompe la vena cava superiore della paziente. Viene immediatamente chiamato il primario Marraudino. Che fa Marraudino? Invece di riparare la vena, la chiude con un clamp (morsetto chirurgico) per bloccare l’emorragia. Si sa che il clampaggio totale se protratto oltre alcuni minuti causa la morte cerebrale del paziente. Quel clampaggio dura oltre un’ora e mezza. Assurdo. Un cardiochirurgo dovrebbe saperlo. E’ come se un avvocato non sapesse cosa sia la Carta Costituzionale. Infatti, come probabilmente sa Cavone, nessun manuale di cardiochirurgia e nessun protocollo possono mai autorizzare il chirurgo al camplaggio della vena cava. Il primario intanto procede all’inutile intervento di sostituzione della valvola aortica e tenta di riparare alla meglio la vena cava. Ma ormai è troppo tardi, la paziente è morta. Le fonti ci dicono che Marraudino ha operato sulla donna cerebralmente morta come se fosse viva. Perché?

Il trasferimento in terapia intensiva. Si legge nel registro operatorio: “La paziente viene condotta in terapia intensiva post-operatoria, all’arrivo condizioni emodinamiche instabili P.A. 50/20, dopo circa 15 minuti dall’arrivo, arresto cardiocircolatorio irreversibile. Ore 17.00 Exitus.” Perché una donna già morta viene trasferita in terapia intensiva post-operatoria? Qualcuno vuole nascondere “l’omicidio doloso” consumato qualche ora prima?  Infatti il dottor Cavone, nell’audio, si dispera, si sente complice di un omicidio, ma poi…Poi con una freddezza disarmante confessa che per questa sua omertà “tiene per le palle il primario”. Povero servizio sanitario! Complicità, coperture, ricatti.

Chi ha saputo del fatto? Del caso della signora Elisa si parla subito, tutti lo sanno. Viene informato il direttore sanitario Bruno Mandarino, viene informato il direttore amministrativo Antonio Pedota. Nelle registrazioni audio in nostro possesso si sente un cardiochirurgo che chiede al direttore sanitario se sia possibile il camplaggio della vena cava. Il direttore fornisce una strana risposta: “La domanda non è formale”. Sia Pedota, sia Mandarino sanno perfettamente di che parla il cardiochirurgo che fa domande. Anche il direttore generale Maruggi è informato. Il presidente della Regione, Marcello Pittella, è informato. Ma tutto sembra coperto sotto un velo di colpevole silenzio. A tutti in un modo o nell’altro conviene mettere a tacere la cosa. Che vuoi che sia un errore medico? Può capitare. Certo! Ma questa volta non funziona la tesi dell’errore o della colpa.

E quindi? E quindi niente. Da quasi un anno è aperta un’indagine affidata al pm Anna Gloria Piccininni. Il magistrato dispone la riesumazione del cadavere di Elisa per la conseguente autopsia, siamo a marzo 2014. Il medico legale incaricato dal pm è il dr. Vinci del Policlinico di Bari, dove fino al febbraio 2013 ha prestato servizio il primario Marraudino. L’autopsia, come tutti sapevano, non avrebbe rivelato nulla di particolare. Il primario intanto non fa mistero delle sue amicizie politiche. E’ fedele a certi ambienti politici poiché da loro è stato nominato, capace o incapace. L’azienda ospedaliera San Carlo, nulla fa, per accertare le cause della morte della povera donna. Sempre nelle clip audio di cui siamo entrati in possesso si sente qualcuno che dice: “ma tanto a che vuoi che serva l’autopsia?” Le indagini della Piccininni sembrano finite nel pantano. Perché?

Omertà e coperture sono di prassi. Lo dice il dottor Cavone nell’audio: “questi sono protetti dalla politica”. Ma dalle registrazioni audio in nostro possesso emerge un sistema di malaffare, di ricatti, di coperture che coinvolgono la politica con mani e piedi. Fin quando un politico si permetterà il lusso di nominare primari ospedalieri i cittadini sono a rischio. Marraudino si sarebbe vantato di aver ricevuto nel suo reparto il vice ministro Filippo Bubbico. Suo protettore? Sembrerebbe che fino ad oggi Marcello Pittella abbia fatto buon viso a cattivo gioco, e questo per Marraudino è una garanzia. Intanto la gente muore. Muore perché finisce nelle mani di cosiddetti primari.

Omicidio colposo o doloso? A questa domanda deve rispondere il pubblico ministero Anna Gloria Piccininni che ha in mano il fascicolo da un anno. La stessa che ha disposto un’autopsia inutile. Certo è che la vicenda nei suoi dettagli è gravissima. Emergerebbe il dolo. Adesso che la magistratura può ascoltare le nostre registrazioni audio qualcosa potrebbe cambiare. Oltre l’immobilismo esiste una possibilità: agire. Noi vogliamo che si faccia chiarezza. Che non si alimenti il sospetto di omertà e coperture. Chi ha sbagliato paghi. Il primario, per esempio. Ma non basta. I cittadini non possono fidarsi di un direttore sanitario che fa melina. Non possono fidarsi di un direttore generale immobile, di un direttore amministrativo che fa orecchie da mercante. Non possono fidarsi di chi sa e non agisce, governatore Pittella compreso. Non possono fidarsi di quella politica che ha imposto la nomina di un primario. Non possono fidarsi di chi dovrebbe indagare e invece sembra menare il can per l’aia. Molta gente dovrebbe fare i conti con la propria coscienza e ritirarsi a vita privata. In un caso soltanto i cittadini riprenderanno a fidarsi della politica e dell’azienda ospedaliera San Carlo: la rimozione dai loro incarichi di tutti i responsabili, complici omertosi, della morte di Elisa.

Potenza, donna muore durante l’operazione. Il medico: «Ho lasciato che l’uccidessero». Ospedale San Carlo, un file audio accusa il chirurgo Ministro Lorenzin invia gli ispettori, inchiesta della Procura, scrive “Il Corriere della Sera”. Una inchiesta della procura della Repubblica lucana e una indagine ispettiva predisposta dal ministero della Salute dovranno far luce sulla morte di una donna di 71 anni, sottoposta a intervento chirurgico al cuore per la sostituzione della valvola aortica all’ospedale San Carlo di Potenza. Il caso è scaturito da una denuncia anonima all’inizio di quest’anno, mentre negli ultimi giorni è stata aperta una verifica interna all’azienda ospedaliera San Carlo dopo la diffusione on line di un audio in cui un medico dell’unità operativa fa pesanti rivelazioni sulle cause che hanno comportato il decesso della donna, chiamando in causa i colleghi che avrebbero commesso condotte sia colpose che dolose. La donna non sarebbe morta per complicanze che possono essere fisiologiche in tali interventi ma per errori gravi. Il medico si duole, parlando con una persona al momento ancora sconosciuta, di essere «responsabile della morte di quella persona». «Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona», è un altro passaggio dell’audio. Proprio questo dirigente medico è stato sospeso in via cautelare dall’azienda ospedaliera per 30 giorni nell’ambito di un procedimento disciplinare. Anche la Regione Basilicata è intervenuta chiedendo un report esaustivo all’Aor San Carlo e a breve istituirà una commissione d’inchiesta sull’accaduto.

Donna uccisa in ospedale, e la potenza dell’omertà, scrive Antonello Caporale. Potenza è la città silente. Non vede e non sente. Al massimo spettegola. “Ha la sfortuna di essere piccola ma da capoluogo di Regione dover gestire risorse importanti. Ne consegue che ogni provvedimento è costruito attraverso passaggi burocratici che hanno il sapore di riunioni di famiglia. Suocero e nuora, marito e moglie, papà e figlia o figlio o nipote. I nomi si rincorrono e sono uguali. La contiguità produce vizi”, dice il procuratore della Corte dei conti Michele Oricchio. “Ho lasciato ammazzare una persona” L’ultimo dei quali è all’ordine del giorno: la confessione rapita da un medico a un altro sulle tecniche di copertura della malasanità. Una paziente in sala operatoria che muore durante una travagliata e all’apparenza assai negligente operazione di cardiochirurgia. Lui vede ma non parla, non denuncia: “Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona. Non parlo altrimenti mi cacciano… però tengo il primario (coautore dell’operazione) per i coglioni”. Non si era quasi mossa foglia, nel solco dei panni sporchi da lavare obbligatoriamente in famiglia. Poi d’un botto la pubblicazione del nastro e – per conseguenza – l’agitazione. Comunica il direttore generale dell’azienda sanitaria Giampiero Maruggi: “Abbiamo deciso di sospendere un cardiochirurgo (è il medico che confessa e accusa, ndr) e non nego che stiamo valutando una nostra presa di posizione che potrà essere ampliata anche nei confronti del primario (autore dell’intervento considerato negligente)”. L’eredità del caso Claps e 21 omicidi irrisolti Si allarma la politica. Il sottosegretario (lucano) alla Salute Vito De Filippo chiede conto, vuol sapere. Vuol sapere il presidente della giunta regionale Marcello Pittella, vuole approfondire meglio la magistratura, e tutta la città –finora muta –è in attesa di conoscere l’esito di quest’altro scandaletto. Potenza ha sulle spalle l’eredità Claps, la ragazza uccisa, trovata incredibilmente diciassette anni dopo –e dopo una serie di paurose omissioni e defaillances giudiziarie – nel sottotetto di una chiesa. Muta e sorda da una parte, con il vescovo che nemmeno comprende quando il suo parroco gli dice di aver trovato un cranio, cranio che si trasforma in “ucraino”. L’alto prelato verrà chiamato a spiegare ai giudici questa ed altre confusioni di stato e di luogo. Claps è il paradigma di una città che non parla, di una magistratura che ha sulle spalle negli ultimi trent’anni non una catena di successi ma 21 omicidi, alcuni anche molto strani, rimasti senza colpevoli. Tredici anni fa una poliziotta si suicida. La Digos la rinviene impiccata “a una cintura legata a una maniglia di una porta”. Domanda: maniglia della porta? Città fondata sul cemento per 67 mila abitanti Potenza è una città fondata sul cemento. Sessantasette mila abitanti in altura (819 metri sul livello del mare) e sepolti dentro un reticolo di palazzoni spropositati nelle misure, proiettati versi il nulla. Il cemento serve alla politica e anche agli ingegneri, al grande partito dei tecnici che gode di un riflesso magico: ogni pezzo di città collegato all’altra da viadotti. L’ultimo dei quali, in fase di tormentata ultimazione, è costato una tombola: 30 milioni di euro più cinque milioni di parcelle. Non per niente si chiama nodo complesso del Gallitello. E anche qui, come nella sala operatoria del San Carlo, si scopre l’inghippo, o quello che appare tale, grazie a una denuncia di un singolo. L’ingegnere Pippo Cancellieri, estraneo alla progettazione, rivela che una porzione di viadotto poggia su basi di argilla: “Sapevo che per un errore marchiano, dovuto a una clamorosa distrazione, era stato messa una quantità di ferro venti volte minore del necessario. Pensavano che dilegiassi, attendevano che mi arrestassero. Il sindaco fece bucare il viadotto e capì che la mia denuncia era fondata”. Lucania, ciascun potente è parente dell’altro Ecco, qui è il punto. Non esiste rete di controllo efficiente, organizzata, impermeabile alle pressioni: ciascun dirigente è parente dell’altro. Il giornalista ha la moglie alla Regione, il consigliere regionale è in affari con la Regione, un pm è stato per anni in comunione con la politica attraverso il consorte. Se ogni potere è pervaso all’altro ciascuno si fa i fatti propri. La Lucania è aggrappata alle denunce solitarie, come quella di Giuseppe Di Bello, tenente della polizia provinciale, che rivela come l’invaso del Pertusillo, acqua che serve ai 500mila lucani e ai pugliesi assetati, è divenuto una scia di idrocarburi, un contenitore di veleni. “Mi accusano di procurato allarme, poi di rivelazioni di segreti d’ufficio. Mi processano e mi condannano a tre mesi per il reato di associazione. Ho commesso il reato in concorso con il segretario dei radicali di Basilicata. Ma lui viene assolto. E io perchè sono stato condannato?”. Il poliziotto è trasferito al museo provinciale, addetto alla sicurezza, a grattarsi i pollici così impara. L’Eni, l’alga e le carpe morte L’acqua è perfetta, e le migliaia di carpe trovate morte sono il frutto di un’alga assassina. L’Eni, che qui estrae petrolio, non è imputabile e non sarà imputato. Tutto si chiude sotto il cielo di Potenza. Città infelice, registra un gruppo di psicologi che hanno calcolato l’indice del sorriso delle città italiane. Potenza è la città più infelice d’Italia. “È una terra oscura, senza peccato e senza redenzione – scriveva Carlo Levi – Dove il male non è morale ma è un dolore terreno che sta per sempre nelle cose”. I guai iniziano dal nome. Potenza o Cosenza? “È un cruccio perenne per noi dover sillabare: Po- ten-za. A volte, tristissimo, capita la domanda di rimando: e dove si trova?”, dice la sociologa Grazia Salvatore. Potenza è il multiplo di un ministero, vive di rendite statali, di pensioni, di rimesse da Bot. Non c’è casa che non abbia il suo impiegato, famiglia che non rappresenti la fedeltà all’idea che la storia passa ma i figli restano. Il governatore Marcello Pittella è fratello di Gianni, capogruppo all’Europarlamento. Per decenni democristiana e ora all’ombra del Pd Figli della politica e di un onorevole papà. La Basilicata per decenni è stata democristiana, adesso è del Pd ma sembra la stessa cosa. “Le movenze affettate di Emilio Colombo, pluriministro dc e anche presidente del Consiglio, le sue cautele si ritrovano (anche se sono personalità di diversa statura) nella espressione dorotea di Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera”, dice lo scrittore Andrea Di Consoli. Vero, il sapore democristiano, quell’antichità immobile, è consegnata alle cronache quotidiane. Il nuovo segretario del Pd eletto ieri è Antonio Luongo, già eletto segretario 21 anni fa. Potenza non premia il merito ma la parentela. E il mediocre più che un fesso è colui che poggia la mano alla corda e attende che altri la tirino. Il talentuoso è mobile per necessità, irriverente. Il mediocre invece conserva e sclerotizza. Non fa un passo e se può ostruisce. Potenza non cambia sé stessa perché è abituata a sostenersi nella cooptazione. Per un incidente elettorale nell’ultima tornata è stato eletto sindaco un esponente di Fratelli d’Italia, Dario De Luca. Doveva cambiare Potenza, ma dai primi passi sembra che Potenza lo abbia già convinto a farsi i fatti suoi.

Ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona… sono responsabile della morte di quella persona… dovrei andare ad autodenunciarmi, però verrei licenziato… il primario ha amicizie, coperture politiche, io no”. È l’inverno del 2013, due medici rievocano un intervento di cardiochirurgia andato male il 23 maggio di quell’anno nella sala operatoria dell’ospedale San Carlo di Potenza, 750 posti letti e centro di riferimento sanitario dell’intera Basilicata. L’uno ascolta, consola e registra. L’altro si dispera, si dispiace, si autoaccusa. “Ho un cruccio, non riesco a dormire…”, scrive Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano” del 2 settembre 2014. Le fasi concitate sono rievocate nel flashback, in questa analisi delle responsabilità stampate sul nastro, insieme agghiacciante e disperato: la rottura della vena cava della paziente che stava sottoponendosi alla sostituzione della valvola aortica, l’autore della rottura che rimane “inebetito, spaventato” e presumibilmente immobile. La scelta di porre riparo a quella disgraziata e negligente manovra con una successiva che si rivelerà, ma qui siamo già al cuore del conflitto, ancor più lesiva delle residue speranze di vita di Elisa, 71 anni. Entrata viva e uscita morta. I due parlano, l’uno spiega, rievoca, accusa. Viene deciso un clampaggio (azione di blocco dell’emorragia a mezzo di un morsetto chirurgico ndr), ma il clamp è strumento oltrechè inutile ancor più scellerato. Non risolve anzi accelera l’aggravarsi della condizione. Viene convocato d’urgenza il primario che, secondo questa confessione, opera per dare copertura a quell’atto di malasanità. Invece di risolvere la lacerazione, o forse ritenendo oramai irreversibile la scelta compiuta, decide di proseguire nell’operazione come se quell’incidente non fosse occorso e sostituire la valvola sapendo che sotto i ferri c’è una persona praticamente già morta. Questa manovra, che sa di cortina fumogena, servirà – se condo l’accusa del collega – a imputare a una delle tante complicanze post operatorie la causa del decesso. Ai familiari della donna dichiarata morta appena approda in terapia intensiva (trascorreranno in effetti poche decine di minuti prima che l’ex i t u s venga formalizzato e rubricato nella cartella clinica) non resta che accettare la rituale sconfitta della medicina, plausibile con la media della mortalità accettata in questi casi (intorno al 6 per cento). Muore la paziente, e succede ogni giorno che l’ospedale non riesca a tenere in vita tutti i suoi ospiti. Piangi e rassegnati. Ma sembra morire persino la verità. Certo, la Procura della Repubblica apre il fascicolo, l’autopsia si fa, ma tutto avanza lento, tutto appare immerso in una nebbia difficile da diradare. Poi, sulla scrivania dei redattori di Basilica ta 24.it , quotidiano online indipendente in una terra troppo piccola per non subìre le connessioni di famiglie e potentati, collegamenti eccentrici e irrituali nei ruoli e nelle funzioni di corpi dello Stato, giunge quel nastro. Che è più di una confessione, è la denuncia di un clima invelenito, di battaglie tra cardiochirurghi, inimicizie, corvi. Colui che confessa si compiace di “tenere per i coglioni” il primario: il silenzio in qualche modo vale e costa. Il nastro viene pubblicato. E qui una novità di rilievo. Il direttore generale Giampiero Maruggi dell’azienda sanitaria ammette che da anni la cardiochirurgia potentina respira un clima di continua “litigiosità”. “Ci sono conflitti, non posso negarlo. C’erano prima che giungessi io, e sono continuati dopo”. Sotto accusa è l’operato di Nicola Marraudino, il primario: “Rivendico la scelta, il suo curriculum è eccellente e nego che la politica si sia intrufolata, abbia condizionato, spinto, agevolato. Ho scelto sulla base della sua competenza e il suo arrivo è coinciso con un innalzamento del livello di efficienza di quel reparto. Questo è un dato statistico, conterà pure qualcosa”. Conterà, certo. Ma un altro fatto è sicuro. Fino a ieri si era tutti in attesa di una giustizia che non sembrava farsi largo. Aspettiamo Godot, e ciascuno al suo posto. Il nastro è almeno servito a scuotere l’ambiente. “Ho promosso un audit interno, tre cardiochirurghi di fama sono chiamati a valutare l’operosità, il clima, a indicare una strada, una soluzione. E non posso escludere che altri provvedimenti in queste ore possano essere presi in capo ai protagonisti di quella vicenda”. Il direttore generale adesso non esclude più nulla, “anche se attenderei di decretare la verità prima di conoscere l’esito dell’inchiesta giudiziaria. I veleni fanno apparire come certo quel che poi si potrà mostrare infondato. Bisogna usare prudenza, in gioco c’è l’onore di professionisti seri”. Seri ma litigiosi. E quelle negligenze? Il procuratore capo Luigi Gay, fama di magistrato integro, approdato da poco alla guida degli uffici giudiziari: “L’inchie sta non ha languito, ha avuto il suo corso e avrà il suo esito. Gli accertamenti saranno ampi e profondi. Invito solo a non accettare le verità apparenti e attendere un altro po’”. L’attesa è un atto dovuto, ma il nastro denuncia le gesta del disonore. E oggi un paziente lucano con quale spirito accetterà il ricovero o l’operazione? “Comprendo l’obiezione”, dice il manager. Il presidente della giunta regionale Marcello Pittella gli chiederà una relazione urgente. Se quell’ospedale è divenuto un ring, sono in arrivo altre scazzottate da non perdere, e rivelazioni o veleni. Compendio disperante tra teoria e pratica della malasanità.

Chissà se almeno uno, tra i tanti protagonisti dell’ultima storia italiana di (presunta) malasanità, ricorda che di mezzo c’è una donna morta e ne ricorda il nome, scrive Fulvio Bufi su “Il Corriere della Sera”. Perché, anche se gli sviluppi di questa vicenda porteranno da tutt’altra parte, a uno scenario di veleni e gelosie professionali, è da quella donna che bisogna partire per raccontare che cosa sta accadendo a Potenza, città che la cronaca degli ultimi anni riferisce capace di colpevoli silenzi e occultamenti, ma non una capitale della sanità disastrata. Bisogna partire dalla signora Elisa, 71 anni e una valvola cardiaca da sostituire, operata il 28 maggio 2013 nel reparto di cardiochirurgia dell’ospedale San Carlo, e morta immediatamente dopo l’intervento, dopo un brevissimo passaggio in terapia intensiva. Complicazioni post-operatorie, fu la spiegazione data ai familiari. Ma nel febbraio 2014 la vicenda diventa oggetto di una indagine giudiziaria, quando in Procura arriva un esposto in cui un anonimo fornisce una ricostruzione dell’intervento talmente ricca di dettagli inquietanti da indurre il pm Anna Gloria Piccinini ad aprire un fascicolo per omicidio colposo e falso. Il management del San Carlo invece si limita a chiedere alla Società Italiana di Cardiochirurgia un audit sul reparto (positivo) ma non avvia una inchiesta interna che viaggi parallelamente a quella della magistratura. Lo fa oggi, sull’onda del clamore mediatico dovuto alla diffusione di un audio in cui si sente uno dei cardiochirurghi presenti in sala operatoria dire a un collega: «Io ho un cruccio, ho lasciato ammazzare deliberatamente una persona. Se avessi coraggio dovrei andare ad autodenunciarmi». A parlare è Michele Cavone, che, presumibilmente, non sa che il suo interlocutore lo sta registrando. Ricostruita alla luce di quest’ultimo sviluppo, la vicenda sarebbe andata così: durante le prime fasi dell’intervento, una manovra errata avrebbe provocato la rottura della vena cava della paziente. A questo punto il primario Nicola Marraudino, dopo aver inutilmente tentato di fermare l’emorragia applicando un clamp (un morsetto chirurgico), avrebbe deciso di andare avanti con la sostituzione della valvola pur essendo evidente che la donna non ce l’avrebbe fatta. Nel dialogo registrato dal collega, Cavone ricostruisce il ragionamento che secondo lui avrebbe fatto il primario: «Gli faccio l’intervento e poi diciamo che è morta per una complicanza». Ma per una cosa così «se ne va in galera... Io lo tengo per i coglioni e lui lo sa, e per questo mi odia». Dietro l’apparente rimorso c’è quindi un evidente rancore tra medici. Al quale non è estraneo quello che registra il colloquio e poi lo consegna non alla Procura ma al sito web basilicata24tv.com che ovviamente lo diffonde. Ripresa dal Fatto , la notizia deflagra e a questo punto, mentre il ministro della Sanità Lorenzin manda gli ispettori al San Carlo, il direttore generale Giampiero Maruggi dispone un’inchiesta interna. Individua i due medici che parlano nella registrazione e li sospende: l’interlocutore di Cavone è Faustino Saponara, pure lui della cardiochirurgia ma non dell’equipe che operò la signora Elisa. Sospesi, ma solo dall’attività chirurgica, anche il primario, altri due cardiochirurghi, l’anestesista e l’infermiere di sala operatoria.

I camici neri dell’ospedale di Potenza e l’omertà di chi doveva denunciare, scrive Mario Garofalo su “Il Corriere della Sera”. Come nel peggiore degli incubi, nella storia di cattiva sanità dell’ospedale San Carlo di Potenza non sembra salvarsi nessuno dei protagonisti, almeno allo stato attuale delle conoscenze e in attesa che la Procura faccia chiarezza sulla vicenda sollevata dal Fatto Quotidiano . Non si salva la voce narrante, il chirurgo che racconta di aver lasciato ammazzare «deliberatamente» la paziente, Elisa, una donna di 71 anni. Come don Abbondio non ha il coraggio, dovrebbe andare ad autodenunciarsi e non lo fa perché, spiega, «passo i guai, mi licenziano». Eppoi ha il suo tornaconto, «il primario lo tengo per i c...». Non si salva chi lo ha intercettato, perché a quanto pare è un chirurgo nemico del dirigente del reparto e non ha nemmeno la forza di firmare l’esposto, lo lascia anonimo. Non si salva il primario, che, stando alla registrazione e alle prime risultanze dell’inchiesta, viene chiamato per riparare all’errore della rottura della vena cava ma sembra più preoccupato dalla necessità di cancellare le tracce che da quella, sacrosanta, di evitare la morte della paziente. Non si salvano gli altri due chirurghi presenti, perché nessuno si sogna di sollevare il caso davanti agli inquirenti. E non si salva il direttore generale dell’ospedale, che compie come primo atto la sospensione di uno solo dei protagonisti, la voce narrante, il chirurgo che ha raccontato i fatti davanti a un registratore. E qual è il messaggio oggettivo di un provvedimento del genere, al di là delle intenzioni di chi lo emette? Viene punito chi ha parlato, chi ha rotto l’omertà. Solo in un secondo momento il manager sospenderà chi lo ha intercettato e infine gli altri professionisti del caso, ma questi ultimi solo dall’attività operatoria. Comunque la si giri, quella di Potenza è una storia che tinge di nero i camici della nostra sanità. In attesa che l’inchiesta ne chiarisca i contorni, dobbiamo sforzarci di ricordare i tanti medici preparati, coraggiosi e perbene che tutti noi abbiamo incontrato, al Sud come al Nord, e ritrovare, così, un po’ di fiducia.

Il silenzio dei colpevoli e la vittoria del coraggio, scrive Michele Finizio su “Basilicata 24”. La mediocrità avanza inesorabile in un territorio, la Basilicata, o meglio il suo capoluogo, già devastato da vecchi e nuovi malanni sociali. Tutti sanno e nessuno parla. E quando qualcuno parla c’è sempre il mediocre di turno pronto all’insulto, al pettegolezzo, alla diffamazione. Neanche la realtà ha più il diritto di esprimersi. L’evidenza viene sopraffatta dall’apparenza. La verità trasformata in chiacchiericcio. Le insinuazioni occupano il posto delle opinioni. La menzogna elevata a regina delle argomentazioni. Sulla vicenda dell’ospedale san Carlo di Potenza si è consumata in questi giorni una delle pagine più nere della storia sociale della Basilicata. La stampa locale si è svegliata, per modo di dire, dopo che l’opinione pubblica sapeva già tutto e aveva espresso indignazione per un fatto gravissimo. Grazie al rilancio della notizia sui media nazionali. Tre giorni di silenzio pesano. E adesso? Adesso la stampa silente urla. Cerca la talpa anziché stare sul fatto. Cerca il buco della serratura anziché raccontare la verità. Prova a denigrare la nostra testata giornalistica, a delegittimarla con ridicole illazioni. Bella figura. Chiunque abbia registrato quell’agghiacciante confessione è sicuramente persona per bene alla quale bisognerebbe fare un monumento. Noi abbiamo avuto il coraggio di pubblicare quello che altri hanno voluto nascondere. La verità è che esiste un pezzo di società lucana vincolata all’egoismo familistico, felice di appartenere al ceto dei mediocri. Un giorno qualcuno avrebbe detto ceto medio. Migliaia di persone che indossano felicemente i finimenti del mulo. E i dirigenti del Partito Democratico? In questi giorni sembrano muti e sordi. Questa vicenda dovrebbe convincere i cittadini che denunciare è utile. Parlare è un modo per combattere seriamente il malaffare. Il silenzio, al contrario, può uccidere. Il coraggio e la dignità vincono sempre.

BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI.

"Poteri invisibili. Viaggio in Basilicata tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte". Il libro di Don Marcello Cozzi. Politica e malaffare, istituzioni e potere, massoneria e mafia, delitti irrisolti e persone scomparse: sono le trame criminali che emergono dalla Basilicata per delinearsi in queste pagine, cariche di un significato che però oltrepassa i confini regionali. Si tratta di storie che hanno destato l'attenzione dei media: parliamo di "Toghe Lucane", che ha chiamato in causa magistrati e forze dell'ordine, o della tangentopoli petrolifera "Total Gate", che ha coinvolto politici e imprenditori, ma anche della branca locale di "Calciopoli". Oppure di vicende note come l'omicidio di Elisa Claps - con le coperture che ne hanno ritardato lo svelamento - e dei "fidanzati di Policoro". Accanto a queste inchieste finite nella cronaca nazionale, questo libro ci racconta che negli ultimi anni le persone svanite nel nulla in Basilicata sono tante. E segue un filo che lega fatti e nomi, che diventano qui frammenti sparsi di un'unica narrazione. Storie di oggi che richiamano storie di ieri, accomunate dalla mancanza di verità. Perché anche dove è chiaro il volto dei sicari, sono sconosciuti i nomi dei mandanti, e quelli di chi ha depistato rimangono solo un sospetto. E così l'autore, nel ridare vita a indagini archiviate troppo in fretta, ci rivela che quella che sembrava un'isola felice è intrisa della stessa quotidianità che fa dell'Italia uno dei paesi più corrotti dell'occidente.

Da Toghe lucane allo scandalo del Totalgate passando per la calciopoli e i basilischi. E’ il nuovo libro di Don Marcello Cozzi su delitti e impunità in Basilicata, scrive Leo Amato su “Il Quotidiano della Basilicata”. Abbandonare «quel sorriso disincantato e un po’ supponente che si riserva al dietrologo che si è lasciato trasportate dalla sua stessa fantasia». E sostituirlo con «una smorfia preoccupata» per la Basilicata. E’ di Carlo Lucarelli la chiave di lettura autentica dell’ultimo libro di don Marcello Cozzi, il sacerdote potentino animatore del Cestrim, della fondazione antiusura Interesse Uomo e vicepresidente nazionale di Libera, nomi e numeri contro le mafie. Si intitola “Poteri invisibili: Viaggio in Basilicata tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte (Editore Melampo, 17 euro)”, e a firmare la prefazione è stato proprio l’autore di Blu Notte e di tanti gialli che hanno appassionato centinaia di migliaia di lettori. Poteri invisibili è dell’ideale continuazione di Quando la mafia non esiste, uscito nel 2008 in una Basilicata diversa, in cui il furore di inchieste come Toghe lucane lasciava intravedere il crollo di un sistema di potere politico-giudiziario. Da allora molto è cambiato: Toghe lucane si è risolta con l’archiviazione della maggior parte delle accuse e l’assoluzione per le restanti. Alcuni degli inquirenti sono finiti al posto degli imputati, come pure i giornalisti che più si erano esposti raccontando il “sistema” ipotizzato e le sue misfatte. Alcuni dei misteri che avvolgevano le coscienze di tanti lucani onesti si sono risolti, in tutto o in parte. Come l’omicidio dell’avvocato Francesco Lanera a Melfi, o la “scomparsa” di Elisa Claps. Mentre altri “casi” sono balzati agli onori delle cronache: dalle corruttele all’ombra delle trivelle della Valle del Sauro, al complotto per delegittimare il pm Henry John Woodcock. Passando per la calcio-connection tra sport e malavita all’ombra dello stadio di Potenza, e i processi sui rapporti tra politica e basilischi, che hanno visto la prima condanna per concorso esterno in associazione mafiosa di un amministratore lucano. Ecco perché occorreva riprendere il filo di quel discorso aggiornando la rassegna di notizie dal fronte del contrasto alla malavita. Senza fare distinzioni tra crimine organizzato e colletti bianchi. Con spirito enciclopedico, per non dire di guida tra le “imprese” dei nemici della legalità e le vicende dove i confini tra bianco e nero sono irriconoscibili e per questo sfuggenti, se non addirittura inquietanti. Don Cozzi non rinnega mai la sua scelta di campo, che continua a costargli non poco in termini di critiche e querele per diffamazione. Ripercorre anche i passaggi più controversi delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Rino Cappiello, che sono stati smentiti nei fatti, ma continuano ad alimentare sospetti fintanto che i processi non avranno accertato come sono andate veramente le cose. A cominciare dagli autori materiali, dai mandanti e dal movente del duplice omicidio Gianfredi, il 27 aprile del 1997. Don Cozzi si domanda se si possa parlare di un caso davvero chiuso dopo le dichiarazioni di due pentiti come il melfitano Alessandro D’Amato e il boss potentino Antonio Cossidente. Il primo ha raccontato di aver sparato mentre il secondo di aver organizzato l’agguato per «dare un segnale» della nascita della quinta mafia. Un segnale che facesse clamore a Potenza, come in Calabria dove i padrini di San Luca avrebbero dovuto concedere il loro benestare alla nascita di una “famiglia” tutta lucana. A febbraio la procura di Salerno dopo 4 anni alla ricerca di riscontri alle loro dichiarazioni ha spiccato dei mandati di arresto per i vertici del vecchio “clan” dei basilischi, incluso il boss Gino Cosentino che nel 2007 si era pentito ma non aveva mai ammesso di aver dato l’ordine, e continua a dirsi innocente mentre da più di un anno gli è stato revocato il programma di protezione con tutti i benefici annessi. Anche il Tribunale del Riesame ha sposato la tesi degli inquirenti, accogliendo anche l’appello contro l’unica ordinanza chiesta dal pm ma respinta dal gip. Eppure i dubbi di Don Cozzi restano e a suo avviso per la procura di Salerno «ci sarà ancora tanto da lavorare». Così tra la seconda edizione delle “Toghe lucane”, sugli autori dell’anonimo che prendeva di mira Woodcock, e l’epilogo della prima condotta dal pm Luigi De Magistris, ritornano nomi di magistrati come Vincenzo Tufano, Giuseppe Chieco, Iside Granese, Gaetano Bonomi, Felicia Genovese e il marito Michele Cannizzaro. Ritornano imprenditori, pochi in realtà, come i Vitale e Giovanni Castellano, assieme al policorese Franco Ferrara, coinvolto nello scandalo soprannominato Totalgate sugli appalti pilotati per le estrazioni di petrolio a Corleto Perticara e dintorni. Ritornano i politici come Filippo Bubbico e Salvatore Margiotta, assieme ad Agatino Mancusi, Luigi Scaglione e Rocco Lepore, coinvolti nelle inchieste sui voti dei clan. Ritornano le «tracce dei grembiuli», che sarebbero le ombre di massoni più o meno in sonno e dei loro affari. E ancora avvocati, poliziotti ed ex 007 coinvolti in intrighi e tentativi di “azzoppare” il lavoro dei buoni. Don Cozzi rinuncia ai toni da anatema, ma a chi parla di complottismi e dietrologie senza senso attribuendole a giornalisti e magistrati, anche se soltanto in maniera indiretta, replica mostrando nuovi elementi, nuovi spunti, indizi che vanno nella stessa direzione. Ed è come se li sfidasse a confrontarsi su questi. E non mancano le vittime ancora senza giustizia: come Vincenzo De Mare e Maria Antonietta Flora. Il vicepresidente di Libera Basilicata affida ai “Poteri invisibili” nomi e trame mai svelate prima, che sono state a lungo sul tavolo degli inquirenti, ma non hanno trovato i riscontri necessari per finire in un aula davanti al Tribunale. «La storia di sempre». Abbastanza per far rabbrividire anche un habituè delle atmosfere più noir come Carlo Lucarelli, riuscendo a risvegliare la sua coscienza civile.

Qualcuno pensa: forse è arrivato il momento di affermare tutta la verità, nient’altro che la verità; altri pensano che forse sia meglio attendere non si sa che cosa; altri ancora hanno paura, scrive Oreste Roberto Lanza su “Basilicata Notizie”. E se poi? Altri vorrebbero fare il passo ma non sanno gestire gli effetti consequenziali; molti altri sanno, ma, come dei codardi, girano l’angolo e si nascondano per non farsi individuare. Ognuno di noi sta per arrivare al bivio, parlare o non parlare; restare fermi o incamminarsi definitivamente nel fare chiarezza del nostro tempo, delle cose che succedono intorno a noi, dire la nostra in maniera chiara. Nelle ultime pagine di un bellissimo libro, “Poteri Invisibili, viaggio in Basilicata, tra affari, mafie, omicidi e verità sepolte”, edito da Melampo, di don Marcello Cozzi, Vice Presidente nazionale Libera, lucano, sacerdote, impegnato da decenni nell’educazione alla legalità e nel contrasto alle mafie si legge: “…. Si limita semplicemente a raccontare perché chi non sa, sappia, perché i distratti aprano gli occhi e perché i superficiali vadano oltre la crosta delle apparenze …. a chi prova a mettere nero su bianco per aiutare chi è senza memoria o quanti dimenticano con troppa facilità.” Penso che l’autore voglia, in fin dei conti, dire chi narra, chi ricorda e scrive deve cercare sempre la verità. L’autore mi è apparso un prete vero che fa il suo dovere scrivendo di una verità amara ma da brivido, una verità che disegna la Basilicata come un luogo dove da decenni sembrano insediatisi e consolidatisi poteri invisibili che hanno deturpato e messo in ginocchio la storia e la cultura di questa bellissima regione. Sono storie misteriose che hanno da prima degli anni settanta sino e oltre il 2010 contaminato e indebolito il tessuto sociale della Lucania, e in alcuni casi sembra averla portata al silenzio e all’oblio smisurato. Con atti giudiziari alla mano, i morti non sono scomparsi e svaniti nel nulla. Come Maria Antonietta Flora, di Lagonegro, che scompare il 10 novembre 1984 senza far più ritorno a casa e senza aver trovato un briciolo di verità; o come Domenico Di Lascio ucciso l’11 gennaio 1989 che finisce con il proscioglimento l’11 novembre 2008 di tre indagati; Maria Antonietta Ottavia  De Luise sparita il 12 maggio 1975 a Montemurro e mai più ritrovata; dove sono, si chiede l’autore, Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro o Nicola Bevilacqua, di Lauria scomparso la sera del 17 maggio 2006; che fine ha fatto Antonio Potenza scomparso il 17 dicembre 1969 a Rionero In Vulture; Mario Milone, Tiziano Fusilli, Giuseppe Forastieri, Anna Maria Mecca di Avigliano, Petronilla Vernetti di Melfi. I nomi e cognomi indicati dall’autore lasciano intendere la misura del pericolo e di quanto sia grosso il dilemma dell’invisibilità dei poteri oscuri. Ma di queste persone svanite, l’autore ne fa un canovaccio, cornice per vedere meglio dentro un quadro composto di circostanze non chiare, persecuzioni, giustizia sospesa e dolosamente omissiva frutto probabilmente della commistione con la politica e i poteri invisibili o forse massonici. Il libro fonda le sue radici su alcuni pilastri fondamentali: la morte non chiara dei così chiamati fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa avvenuta il 23 marzo 1988, Toghe Lucane e Toghe lucane Bis, la cupola del petrolio, il fallimento del Potenza Calcio e il caso famoso di Elisa Claps. Sono casi, circostanze, avvenimenti da forti brividi quasi come se stessimo vedendo un film di genere thriller. La logica non riesce a dare una spiegazione ben definita, ma leggendo sotto le righe, guardando oltre la nostra onesta e leale visuale, si può forse vedere il virus che da decenni inquina la nostra società, la nostra Lucania. Era la notte tra il 23 e 24 marzo 1988, poco dopo l’una i carabinieri di Policoro trovano i corpi senza vita di due giovani nel bagno dell’appartamento della famiglia Andreotta, in via Puglia 75. Si tratta di Luca Orioli e Marirosa Andreotta. In verità, precisa l’autore, era stata la mamma di lei la prima a ritrovare i cadaveri. Circostanza, questa, che nel corso delle indagini, l’autore evidenzierà al lettore, di come la mamma si accorgerà che i cadaveri erano stati rimossi dalla loro iniziale posizione. È il 16 ottobre 2013 quando il gip Rosa Bia decide che tutto sia archiviato. Si chiede l’autore …. E i corpi spostati?  E le contraddizioni dei testimoni? Le perizie false? Silenzio assoluto. La frase De Magistris che dice “ho perso ma non mi sono perso” all’indomani della sentenza del Csm che condanna il giudice napoletano (ora Sindaco di Napoli) a lasciare le indagini su Toghe Lucane e la procura di Catanzaro per fare ritorno nella sua città. In “nome del popolo italiano, la sezione disciplinare del Csm dichiara il dottor Luigi De Magistris responsabile delle incolpazioni e gli infligge la sanzione della censura. Dispone il trasferimento ad altra sede e altre sezioni.” Cosi l’autore riporta il contenuto del dispositivo letto dall’allora vicepresidente Nicola Mancino che attualmente deve rispondere in qualche aula di giustizia di essere stato presumibilmente un partecipante all’accordo sta Stato e mafia. Ma cosa avrà portato, evidenzia Cozzi, il procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione, Vito D’Ambrosio a dire di De Magistris “non è il modello di magistrato a cui s’ispira la nostra Costituzione?” Forse l’aver, De Magistris, presumibilmente, come evidenzia lo stesso autore, chiamato in causa magistrati e forze dell’ordine, politici e massoni? L’aver scoperchiato una cupola di persone e personaggi, giudici compiacenti e avvocati pronti a nascondere la verità nell’interesse del gruppo? Da “Poseidone “ a “Why Not” a Toghe Lucane ecco chi è stato De Magistris. Provate a leggere da pag 28. Tutto inizia con la denuncia di un certo Nicola Piccenna, presidente del consorzio Anthill (società per azioni operante nel settore della telefonia e delle telecomunicazioni) e tutto finisce il 19 marzo 2011 quando il gip del Tribunale di Catanzaro Maria Rosa Di Girolamo dispone l’archiviazione di Toghe Lucane perché, come riporta l’autore, il provvedimento dice “l’impianto accusatorio è lacunoso e le prove insufficienti”, e dice ancora  il magistrato “qualunque approfondimento d’indagine ..vista la mole di elementi probatori già acquisiti non porterebbe da nessun altra parte.” Ma non finisce qui, pochi mesi altri due magistrati chiedono allo stesso Gip che aveva archiviato Toghe lucane di riaprire il fascicolo almeno per alcuni, come il sostituto Bonomi e la dirigente della polizia Fasano e per l’ormai ex Procuratore generale di Potenza Tufano che aveva gridato alla sua assoluzione in toghe Lucane e che a giugno 2012 nel bis di Toghe Lucane è rinviato a giudizio. Poi l’enorme interesse sul petrolio lucano che tuttora vive alla luce del sole, e che l’autore nel suo capitolo lo definisce la cupola del petrolio. E’ l’affare legato alla realizzazione di un grande centro Oli che la Total aveva bandito il 31 marzo 2007 e che Francesco Ferrara, imprenditore di Policoro, voleva a tutti costi aggiudicarsi. Un centro oli da inserire in quella località cosi chiamata Tempa Rossa (tra Corleto Perticara e Gorgoglione) dove era stato individuato un grande giacimento di petrolio, dalla capacità, si legge nelle righe del libro, individuato dagli esperti di circa 130 milioni di barili di oli il giorno. Da qui si arriva alla busta “D” che deve essere cambiata a quella già presentata. 14 gennaio 2008 Ferrara vince l’appalto! Vi lascio il brivido di leggere le pagine finali di questa storia che ha dell’incredibile, ma sicuramente mette i brividi alla vostra e nostra onestà e paura, alla nostra coscienza di liberi lucani. Vi lascio sfogliare le pagine del fallimento del Potenza calcio, dell’allora presidente Postiglione con amicizie discutibili con boss locali, con agganci politici non chiari con affari e scommesse clandestine che porteranno il sodalizio calcistico potentino al fallimento e all’arresto di Postiglione il 23 novembre 2009 e il rinvio a giudizio nel dicembre 2012 per associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva, e non, come evidenzia l’autore, per mafia. Ho lasciato per ultimo, ma non per ultimo, il caso di Elisa Claps. L’autore sintetizza in ben 24 pagine una drammatica vicenda che ha addolorato i cuori onesti della nostra gente lucana. “Sai mamma ho saputo una cosa brutta, in questura c’è qualcuno che conosce la verità su Elisa; quella ragazza scomparsa da diversi anni qui a Potenza sa che è stata uccisa e sa pure, dove è sepolta.” A parlare è Anna Esposito da cinque anni commissario Capo della Digos di Potenza. L’autore dice che era tra il 2000 e il 2001 quando prende il telefono e si confida con la mamma Olimpia Magliano. Anna Esposito è trovata morta il 12 marzo 2001 impiccata. Suicida. I genitori al momento della richiesta di Archiviazione del Giudice De Luca, dichiarano, come riporta Marcello Cozzi, che conoscendo la figlia mai avrebbe fatto una cosa del genere. Elisa Claps mori assassinata il 12 settembre 1993 probabilmente, come pone l’accento Cozzi, tra le 11,30 e le 13,10. E il suo corpo misteriosamente occultato nella chiesa della Trinità di Potenza. Il corpo è ritrovato la mattina del 17 marzo 2010. Alla fine la saliva sulla maglia di Elisa (reperto 44) incastra Restivo senza appello. Questi i fatti. Il libro è un documento eccezionale dove le storie raccontate sono fatti veri che non hanno mai trovato la verità perché, come dice l’autore, “dove è chiaro il volto dei sicari, sono sconosciuti i nomi dei mandanti e di quelli che hanno depistato.” Il libro è un contenitore inesauribile di nomi eccellenti notabili e funzionari di alto livello professionale, avvocati e dirigenti di giustizia che si sono serviti, in molti casi, probabilmente, della politica sporca per arricchire se stessi e foraggiare il loro desiderio di potere. Una cosa l’autore, vuole dirci: non è questa la vera Lucania, essa, invece, è composta di persone oneste e leali che mettono a disposizione la loro professionalità e le loro competenze al servizio di una grande Lucania. Questi, però, sono a oggi una minoranza.

Alfonso Bisogno aveva 38 anni quando è scomparso misteriosamente insieme al suo assistente, Giuseppe Di Pietro. Noto imprenditore, Alfonso Bisogno era soprattutto conosciuto per essere a capo della BSA srl, Bestiame Selezionato Allevamento,  un'azienda fiorente nel settore dell'allevamento con sede a Giulianova in Abruzzo dove si era trasferito in seguito al matrimonio. Nella cittadina abruzzese lo aveva raggiunto suo fratello, allora diciottenne, per aiutarlo nella gestione del lavoro. La famiglia era originaria del beneventano. La BSA forniva capi di bestiame selezionato a molte aziende del centro sud d'Italia. A parte il passa parola tra gli allevatori, una buona fonte di pubblicità per l'azienda era costituita dai veterinari di zona che suggerivano agli allevatori interessati le aziende a cui rivolgersi. Gli allevatori ricevevano contributi dallo Stato per l'acquisto di capi selezionati. Un volume d'affari notevole, che, col senno del poi, poteva fare gola a molti. Sul finire degli anni 70 si rivolse alla BSA anche un'azienda della provincia di Potenza. Alfonso Bisogno aveva appuntamento con qualcuno legato a quell'azienda a Castel Lagopesole quel  29 giugno 1981. In quella data si teneva inoltre una grossa fiera del bestiame a cui l'uomo avrebbe dovuto partecipare. Alfonso Bisogno si era mosso da Giulianova di buon mattino con Giuseppe Di Pietro a bordo della sua Mercedes 3000 nuova di fabbrica. Non tornarono più a casa. Alfonso Bisogno non rivedrà più i suoi due figli di 3 e 5 anni e la sua giovane moglie. L'auto dell'uomo fu trovata completamente bruciata su una piazzola di sosta sulla Salerno-Reggio  Calabria, poco distante dallo svincolo per Potenza, 8 giorni più tardi.

Potenza tra delitti e consorterie. Misteri noir e lotte di potere, scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia. Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini. Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate otto anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia. Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale? ) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John. E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e attuale sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, l'attuale presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera alle elezioni del prossimo maggio, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc appena "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di ricontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magitrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e attuale sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".

Non sono poche le persone innocenti scomparse in Basilicata. Probabilmente sono state uccise e i loro cadaveri occultati. Fa riflettere il dato che buona parte di loro erano donne: non ci riferiamo soltanto a Elisa Claps, i cui resti alla fine sono stati "fortunatamente" ritrovati, ma il nostro pensiero va anche a Maria Antonietta Flora, uccisa a Lagonegro nell'84 e alla piccola Ottavia De Luise, uccisa a Montemurro nel '75. Un continuo femminicidio a cui non possiamo assistere impotenti, anche perché la nostra regione non merita una macchia simile. È per questo motivo che Libera Basilicata e l'Associazione Telefono Donna chiedono fortemente agli organi competenti di approfondire e scavare ulteriormente nell'inchiesta relativa alla scomparsa di Ottavia De Luise. Il recente libro dedicato alla piccola Ottavia, scritto dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, ci sembra dia degli spunti investigativi di non poco conto sui quali pensiamo si possa ulteriormente lavorare per arrivare alla verità. Perché davvero nulla, nemmeno gli aspetti più banali, venga trascurato, e perché alla fine si possa davvero dire che tutte le strade sono state percorse. Lo dobbiamo alla piccola Ottavia, lo dobbiamo alla comunità di Montemurro e lo dobbiamo alla famiglia della bambina perché anch'essa possa avere la possibilità di portare un fiore sui suoi poveri resti.

Il boss ucciso e i misteri del caso Claps giallo nella città dei 21 delitti irrisolti, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Potenza. Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall' alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza che in un' altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del governo e per altre ventuno ministro della Repubblica è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell' altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent' anni, come in un noir senza fine con un cadavere dietro l' altro e con indagini immancabilmente destinate all' archivio. Là in cima, chiusa e isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L' ultimo "cold case" ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 - il quindicesimo anniversario dell'agguato è fra qualche giorno - insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro fra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose nella città dove niente è mai quello che sembra qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c' entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l'omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell' individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito», spiega Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia e al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d'accusa pilotati. Intorno all' omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s'incontrano gli eredi dei "Basilischi" (l'organizzazione criminale della Basilicata legata alla 'ndrangheta) con personaggi del sottobosco della politica, avvocati marchiati dal famigerato "concorso esterno", imprenditori da mucchio selvaggio. E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell' Appennino? «Non l'abbiamo mai capito, certo è che qualsiasi cosa accada qui diventa subito mistero», risponde Fabio Amendolara, il cronista de La Gazzetta del Mezzogiorno che da dodici anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. È capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l' omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta che era a capo della Digos di Potenza e che un giorno di marzo di undici anni fa "è stata rinvenuta impiccata" con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini "parallele" e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Cannizzaro, un ras della Sanità lucana addirittura indicato da uno di quei quattro pentiti come mandante dell' omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm e il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i mandanti presunti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinucccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. È l' incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, quia Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla. Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e - come si legge nelle carte giudiziarie - «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio del 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l' aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.

Repubblica scrive della città dei 21 delitti irrisolti, il sindaco Santarsiero risponde su “Il Giornale Lucano”. Potenza. "una visione di città che non meritiamo". Non si è fatta attendere la risposta pubblica del sindaco Santarsiero a quanto scritto ieri da Repubblica relativamente alla cità dei misteri, dei 21 delitti irrisolti (che ci sono ma riguardano tutta la regione). Un quadro molto scuro di un posto che sicuramente di certa cronaca non può farsi vanto ma che forse, come afferma lo stesso primo cittadino, è stato descritto attraverso “una visione di città che non meritiamo, lontana dalle vere sensibilità di una comunità che, come tutte, vive i tanti problemi e le tante contraddizioni del nostro tempo ma che mai è venuta meno sui valori fondanti dei principi di legalità e di condanna di ogni reato. Tutt’altro che omertosi e chiusi a coprire omicidi  abbiamo sempre espresso condanna senza appello nei riguardi di qualsiasi colpevole come abbiamo sempre e solo chiesto alla Magistratura la verità, anche la più scomoda, e la giustizia, la più esemplare. Ecco perché oggi siamo indignati e non accettiamo giudizi frettolosi e scorciatoie mediatiche di ogni tipo che alimentano solo odi, divisioni, immagini distorte. Consideriamo essenziale il ruolo dei mass media nelle vicende delittuose di ogni tipo e nei processi di crescita delle sensibilità civili, soprattutto nel nostro Mezzogiorno; ecco perché rivendichiamo giudizi e letture equilibrate e giuste. Servono inchieste vere e non già scoop ad orologeria o, peggio ancora, a richiesta.  Su ogni evento citato da Repubblica, ivi compresi quelli estranei alla comunità potentina, la nostra posizione senza tentennamenti e senza protagonismi è stata quella della ferma condanna del reato e della richiesta alla Magistratura di conoscere la verità. Chiediamo anzi che anche laddove vengono espressi dubbi sull’azione della stessa Magistratura, vi sia chiarezza, perché noi vogliamo verità e certezza di Istituzioni e di diritto. Il tema del femminicidio è stato trattato a Potenza, quasi in solitudine, come in nessuna parte d’Italia, così come la condanna di ogni atto di violenza a minori o al bene pubblico. Invitiamo a Potenza, ospite del Sindaco, il giornalista di Repubblica che ha redatto l’articolo, Attilio Bolzoni per conoscerci meglio,  parlare con tutti per avere ogni cognizione di causa, e per comprendere che quell’altitudine e quella collocazione geografica sono per noi motivi di orgoglio, come motivo di orgoglio è la nostra storia, millenaria, centrata sulla lotta per la libertà e democrazia, purtroppo poco conosciuta in un Paese dalle storie ufficiali e non reali. Umilmente vorremmo far conoscere ciò al nostro Paese. La città che ha saputo risorgere dopo l’ennesimo terremoto con la sua forza e la sua dignità non si lascerà intimidire da quanti, per motivi che non appartengono alla costruzione del nostro futuro e del bene comune, anche essi tutti da chiarire, puntualmente avvalorano la tesi di una Città e di una Basilicata in noir ad ogni costo. Nel contempo abbiamo piena consapevolezza di dover continuare un percorso di crescita civile e del capitale sociale e di chiara condanna di ogni forma di reato e di abuso che possa interessare qualsiasi contesto, dalla scuola alla pubblica amministrazione.  Potenza  ha bisogno sì di riscatto ma di riscatto dalla marginalità, dalla mancanza di un disegno strategico per il Mezzogiorno, da una storia del Paese troppo squilibrata, dalla mancanza di occupazione e prospettive per i suoi giovani.”

Scanzano. Vincenzo De Mare, autotrasportatore, sarebbe stato ucciso per aver rifiutato un carico di rifiuti. Omicidio a sfondo radioattivo. Indagini della procura antimafia a 13 anni dal delitto, scrive Il Quotidiano della Basilicata il  02/11/06. Un autotrasportatore viene ucciso con due colpi di fucile da caccia, forse una lupara. Un ispettore di polizia indaga sul delitto, ma quando la sua pista lo porta verso persone "importanti" viene trasferito in Calabria. Un carico di bidoni, contenenti rifiuti chimici, viene rinvenuto nei magazzini abbandonati di un'azienda agroalimentare. Tredici anni di misteri finiscono sulla scrivania di un magistrato antimafia proprio quando un ex boss della 'ndrangheta butta giù un memoriale che parla di rifiuti, spie e omicidi. Anno 1993, Vincenzo De Mare fa l'autotrasportatore conto terzi. Lavora anche con la "Latte Rugiada", azienda agroalimentare che ha i depositi in località Terzo Cavone (la stessa località dove il governo Berlusconi molti anni dopo avrebbe voluto impiantare il sito unico di stoccaggio per i rifiuti nucleari ndr.). Il 26 luglio, un killer lo aspetta nel suo podere di campagna. Spara due colpi e lo uccide. Anno 1994, l'ispettore Francesco Ciminelli - in forza al Commissariato di Scanzano prima di conquistare uno strano trasferimento in Calabria - mette il naso tra le bolle d'accompagnamento e i fogli di viaggio di Vincenzo De Mare. Tra questi ce ne sono alcuni di Terzo Cavone. Anno 2004, i carabinieri della compagnia di Policoro trovano tra i ruderi dell'azienda di Terzo Cavone 15 bidoni di plastica con materiale di risulta proveniente da industrie chimiche. Il caso viene ufficialmente riaperto. Felicia Genovese è un magistrato che non lascia trapelare indiscrezioni. In parallelo conduce l'inchiesta sulla presunta fuga di materiale nucleare dal centro di ricerche Enea (Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente) della Trisaia, a pochi chilometri da Rotondella. Ipotesi di reato: nel centro c'è stata una produzione illecita - non registrata in contabilità - di materiale radioattivo. Poi è arrivato il pentito, Francesco Fonti da Bovalino (Rc). Interrogato qualche anno prima, negli stessi uffici della Direzione distrettuale antimafia aveva dichiarato: «Sono collaboratore di giustizia dal 1994. Prima di tale scelta ero organico al clan mafioso dei Romeo di San Luca. Durante tutto l'arco della mia esperienza criminale, pur avendo dimorato a Melfi, non sono mai venuto in contatto con esponenti di organizzazioni criminali con base operativa in Basilicata». Poi, però, nel memoriale sostiene di essere entrato in contatto con Domenico Musitano, detto 'u fascista, in soggiorno obbligato a Nova Siri. Originario di Platì (Rc), viene indicato dal pentito come l'organizzatore del primo viaggio di rifiuti verso la Basilicata. Prima di portare a compimento il suo incarico viene ucciso in un agguato davanti al palazzo di giustizia di Reggio Calabria, dove si era recato per un'udienza. E' in questo scenario che potrebbe inserirsi l'omicidio di Vincenzo De Mare? Gli investigatori - per ora - sospettano che abbia rifiutato il trasporto di un carico di rifiuti. Uno sgarro che potrebbe aver pagato a caro prezzo. I carabinieri di Policoro - delegati per l'indagine - avrebbero ascoltato nuovamente la moglie. Ma ci sarebbero - particolare non confermato ancora da alcuna fonte ufficiale - anche altre persone sentite a sommarie informazioni testimoniali. E che la malavita lucana si occupasse di rifiuti lo sostengono anche i servizi segreti. «Secondo acquisizioni informative - si legge in una relazione del Sisde - le aggregazioni lucane hanno fatto registrare processi di consolidamento e di emulazione delle organizzazioni di stampo mafioso, con le quali mantengono importanti collegamenti. Sono emersi all'attenzione alcuni gruppi che sembrano aver compiuto un salto di qualità, pure attraverso il controllo di società operanti nella gestione del ciclo dei rifiuti». Sono gli anni delle inchieste importanti. A Matera, il sostituto procuratore Francesca Macchia scopre un traffico di rifiuti speciali stoccati in vari centri della Lombardia e destinati allo smaltimento finale in Basilicata. I rifiuti - sulla carta - venivano regolarmente avviati allo smaltimento in discariche autorizzate dalla Regione, ma la destinazione era solo apparente poiché i gestori - interrogati in fase d'indagine - negavano di averli ricevuti. Rientra tutto, poi, nella grande inchiesta di Nicola Maria Pace: rifiuti, spie e omicidi. Il magistrato in un'intervista aveva spiegato a un giornalista: «I servizi segreti sanno di cosa stiamo parlando io e lei in questo momento». Tutto sarebbe poi confluito nell'inchiesta della procura antimafia. Rifiuti, spie e omicidi.

Misteri lucani: Maria Antonietta Flora. Aveva 27 anni e insegnava in una scuola materna di Lagonegro, quando Maria Antonietta Flora scomparve, la sera del 10 novembre del 1984.  Era sposata con un dipendente dell’Enel e madre di due bambini piccoli. La donna era uscita di casa poco prima delle 19 con la sua automobile, un’Autobianchi A 112 di colore blu. Da quel momento in poi se ne persero le tracce. La donna avrebbe detto che usciva per andare a fare un’iniezione. Il giorno dopo l’automobile venne ritrovata in una piazzola di sosta dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra gli svincoli Sud e Nord di Lagonegro. Nell’automobile c’erano macchie di sangue, ma della donna nessuna traccia. Nonostante il cadavere non sia stato mai ritrovato, da subito maturò la convinzione che la donna fosse stata uccisa. I sospetti portarono al fermo di un giovane commerciante di carni di Lagonegro che divenne il principale indagato perché era invaghito della donna e avrebbe insistito per avere degli incontri amorosi con lei. Le indagini appurarono che il giovane l’aveva incontrata proprio quella sera nei pressi dello svincolo di Lagonegro Sud dell’autostrada. A confermarlo anche un suo amico. Sulla base di questi indizi, il giovane macellaio venne arrestato. Si ipotizzava che la donna avrebbe respinto le sue avances e per questo sarebbe stata uccisa. Dopo aver scontato due anni di carcere l’uomo venne dichiarato innocente dalla Corte d’Assise di Potenza. La sentenza fu confermata anche in secondo grado. In realtà si indagò anche su altri fronti che portavano ad un intreccio tra il passionale e interessi economici perché Maria Antonietta Flora avrebbe avuto una relazione con Domenico Di Lascio, noto imprenditore della zona, ucciso anche lui cinque anni dopo la scomparsa della maestra. Sembra che Di Lascio stesse per intestare alcuni beni a Maria Antonietta. Tutto poi, però, è rimasto senza spiegazione.

Misteri lucani, ancora irrisolto il caso della maestra Flora, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Chi conosce la verità su mia sorella me la deve venire a dire. Quello che mi racconterà rimarrà tra me e questa persona. Non succederà nulla». Sembrano le parole di Filomena Iemma, la mamma di Elisa Claps. Ma questa volta chi parla è Rossana, sorella di Maria Antonietta Flora, la giovane maestra di Lagonegro scomparsa nel nulla 25 anni fa. Rossana dice di non credere nella giustizia perché sono passati venticinque anni senza che sia successo nulla. Ora che si pensa di far luce sui tanti misteri irrisolti della Basilicata, Rossana spera si possa far luce anche su quello di sua sorella. Maria Antonietta Flora scompare la sera del 10 novembre del 1984. All’epoca aveva 27 anni e insegnava in una scuola materna di Lagonegro. Sposata con un dipendente dell’Enel e madre di due bambini piccoli, la donna esce di casa poco prima delle 19 con la sua automobile: un’Autobianchi A 112 di colore blu. Da quel momento in poi se ne perdono le tracce. La donna avrebbe detto che usciva per andare a fare un’iniezione. Il giorno dopo l’automobile viene ritrovata in una piazzola di sosta dell’autostrada Salerno – Reggio Calabria, tra gli svincoli Sud e Nord di Lagonegro. Nell’automobile ci sono macchie di sangue, ma della donna nessuna traccia. Nonostante il cadavere non sia stato mai ritrovato, da subito la convinzione è che la donna sia stata uccisa. I sospetti portano al fermo di un giovane commerciante di carni di Lagonegro che diventa il principale indagato perché era invaghito della donna e avrebbe insistito per avere degli incontri amorosi con lei. Le indagini appurano che il giovane l’aveva incontrata proprio quella sera nei pressi dello svincolo di Lagonegro Sud dell’autostrada. A confermarlo anche un suo amico. Sulla base di questi indizi, il giovane macellaio viene arrestato. Si ipotizza che la donna avrebbe respinto le sue avances e per questo sarebbe stata uccisa. Ma quando ormai l’uomo ha scontato due anni di carcere viene dichiarato innocente dalla Corte d’Assise di Potenza. La sentenza viene confermata anche in secondo grado. In realtà si indagò anche su altri fronti che portavano ad un intreccio tra il passionale e interessi economici perché Maria Antonietta Flora avrebbe avuto una relazione con Domenico Di Lascio, noto imprenditore della zona, ucciso anche lui cinque anni dopo la scomparsa della maestra. Sembra che Di Lascio stesse per intestare alcuni beni a Maria Antonietta. Tutto poi, però, è rimasto senza spiegazione. “Ma io non mi sono rassegnata – dice Rossana -. Sono convinta che all’epoca le indagini sono state fatte in maniera molto approssimativa. Io non mi rivolgerei mai alla legge non metterei mai il caso in mano alla legge. Per questo sono delusa dalla legge e non mi rivolgerei mai alla giustizia. Per questa ragione dico che se qualcuno ha visto o sentito qualcosa qualcuno, spero che, in un momento di umanità, possa venire da me a raccontarmi la verità perché se mia sorella è morta ha diritto ad una degna sepoltura”. In Rossana oggi è presente la stessa rabbia di 25 anni fa, se non di più, ed è aumentata anche la voglia di sapere, nonostante del caso di sua sorella si sia parlato poco rispetto ad altri. «In 25 anni non si è mai parlato di mia sorella e questo non è certo dipeso solo dal volere di noi familiari. Potete capire il nostro trauma. Se ne dicevano tante di cose cattive su di lei, ma di buono mai niente. Certo, ci sono stati periodi in cui con la mia famiglia abbiamo avuto paura, perchè sicuramente dietro questa vicenda vi è qualcosa di brutto. Abbiamo cercato di proteggere i figli di Maria Antonietta, all’epoca molto piccoli. Ma ci siamo sentiti abbandonati da tutti, oltre che dalla giustizia anche dai nostri paesani. Maria Antonietta non è stata mai ricordata come persona o donna. L’otto marzo scorso grazie al professor Melchionda e a don Marcello Cozzi mia sorella è stata ricorda pubblicamente per la prima volta dopo venticinque anni. Tornando alla legge, all’epoca abbiamo dato tutte le informazioni possibili per arrivare alla verità, ma ci siamo resi conto che venivano messi in campo degli episodi che deviavano il percorso da noi indicato. Questo ci ha fatto molto male e ci ha isolati ancora di più, ed in noi è venuta meno la fiducia nella legge. Ma non mi arrendo. Credo nella giustizia divina e, quindi, sono convinta che prima poi la verità salterà fuori come è successo per Elisa Claps, e cioè non per merito della legge».

Lascia intravedere verità oscure Rossana Flora nella lettera data alla Gazzetta del Mezzogiorno per ricordare sua sorella, Maria Antonietta, scomparsa nel nulla 27 anni fa a Lagonegro. Non è la prima volta da quando la vicenda è tornata alla ribalta, anche sull’onda mediatica del caso Claps. Infatti, di recente, don Marcello Cozzi, proprio durante la manifestazione svoltasi il 10 novembre scorso a Lagonegro per ricordare la giovane maestra, si è detto convinto che il corpo di Maria Antonietta, sebbene non vi siano prove, si trovi proprio a Lagonegro. A suo dire, converrebbe andare a scavare nella località «Cazzivella», dove la donna sarebbe stata vista per l’ultima volta prima che di lei si perdesse ogni traccia. Ecco la lettera.

Ciao sorellina, sono trascorsi tantissimi anni ma il ricordo di te è nitido. I tuoi bei lineamenti, quegli occhi grandi, espressivi. Una persona intelligente, colta, di una dolcezza straordinaria, non per niente insegnavi ai bambini piccoli. Questo nessuno lo sa, non si sono mai chiesti chi eri. Una mamma giovanissima, che si dedicava ai suoi figli con amore e dedizione. Poi un giorno... Con la nascita si ha diritto alla vita, a te l'hanno tolta a soli 27 anni. Ero ritornata il giorno stesso da Salerno, dove per motivi di salute ero stata ricoverata un bel periodo. Sentii bussare alla porta violentemente, nostra sorella con poche e precise parole mi comunicò la tua scomparsa. Da quel preciso istante l'inizio del calvario. Disperazione, rabbia, impotenza, un dolore lancinante. Perchè? Cosa ti hanno fatto? Dove ti hanno portata o buttata come un animale? Ricerche vane e inutili. Sottoposti a continui interrogatori come se fossimo stati noi gli indagati. Non c'è stato un minimo di rispetto. Notizie buttate lì infangandoti con vera cattiveria, senza tener conto nemmeno della sofferenza dei tuoi bimbi, che da quel giorno non hanno più pronunciato la dolce parolina «mamma». Quanta solitudine. Ricordo persone, che puntando il dito per indicare dicevano: «ecco, quella è la sorella della scomparsa», non ci chiamavano neanche più per nome. La poca delicatezza nell'esprimere la propria immaginazione «l'hanno bruciata viva» o «è stata messa in un pilastro di cemento» ecc... Spaventoso. Il tempo passava ma di te nessuna traccia. Indagini depistate, procuratori pronti a lottare ma allontanati dalla mattina alla sera, tracce che portavano alla verità, sparite. Perchè? Non volevano trovarti. Iniziarono a morire le prime speranze quando furono trovate tracce di sangue nella tua macchina. Tutti i giorni le mie domande erano le stesse «perchè? quanto male ti hanno fatto quelle bestie che si sono accanite su di te, giovane donna? quanto hai sofferto? quanta paura e terrore». La morte è liberatoria, il non sapere è una condanna a morte che non arriva mai. Il dolore più grande è che hanno fatto di tutto per toglierti la dignità infangandoti senza dare importanza a quello che realmente era accaduto. Pensa chi ti ha giudicato, un «avvocato» di Lagonegro che, al processo a Potenza, senza tener conto della presenza di tuo marito e dei tuoi familiari ti ha descritto «una donna alla portata di tutti». Mi viene da ridere! Oggi dov'è questa persona che ti ha giudicato? Avevo solo 18 anni, da sola non sarei stata in grado di smuovere una montagna. Ascolta questo grazie a Don Marcello Cozzi ed il professor Melchionda, due persone a me care, ho cercato di ricordarti, di sensibilizzare la gente di Lagonegro, in occasione dell' 8 marzo «festa della donna» con una manifestazione intitolata «una mimosa per Mariantonietta». Pensa la mia gioia dopo 25 anni potevo finalmente salire su di un palco e dire a tutti ciò che avevo dentro e finalmente parlare di te come persona, come donna, come madre. C'era la mamma della piccola Elisa, altri familiari di persone scomparse, persone di Potenza, Nemoli, Lauria. E i lagonegresi e i politici del paese? A vedere una sfilata di moda. Pochi i tuoi paesani a partecipare ma quei pochi mi hanno trasmesso tanta solidarietà. Questo è il tuo paese che ha dimenticato troppo presto una sua figlia. A testa alta continuerò a parlare di te, dolce sorellina. Ricordo le nostre lunghe chiacchierate,le sigarette fumate alla finestra. Il destino ha voluto che non mi trovassi li con te, forse sarebbe andata diversamente. L'ultima immagine che ho di te è di quando sulle scale di casa di mamma, mentre partivo per l'ospedale di Salerno, mi hai detto tra le lacrime «vai tranquilla, andrà tutto bene, ti chiamerò tutti i giorni». Quanto ho amato quella sorella che tanto si preoccupava per me. Chi avrebbe immaginato che al mio rientro... Adesso sono io a dirti con le lacrime agli occhi «un giorno sapremo la verità» avrai una dignitosa sepoltura e finalmente ti porterò quella mimosa . Tu vivrai sempre in me. Ti amo. Ciao sorellina, a presto. Rossana

Clamoroso: si riapre il caso della maestrina scomparsa, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il colpo di scena è clamoroso e potrebbe riscrivere per intero l’ultimo capitolo di uno dei tanti misteri lucani. I carabinieri di Lagonegro sono in possesso di elementi per far riaprire, dopo trent’anni, il caso di Mariantonietta Flora, la maestra di Lagonegro, scomparsa nel nulla la sera del 10 novembre del 1984. La notizia è stata confermata ieri mattina negli ambienti giudiziari. Il procuratore Vittorio Russo a breve si metterà al lavoro per valutare se le novità raccolte dai carabinieri sono tali perché quel fascicolo chiuso trent’anni fa senza una verità oggi possa essere riaperto. Tutto è coperto, comprensibilmente, dal segreto più assoluto. Nessun commento, quindi. Bisogna approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo e che si concluse con l’assoluzione dell’unico imputato. La svolta clamorosa, però, è sul tavolo. E in un attimo i fatti di quel 10 novembre di trent’anni fa tornano sotto i riflettori. Non ci sono ancora indagati ma è presumibile che presto ce ne possano saranno in base alle novità che potranno emergere dalle indagini. Che più di qualcosa non fosse andato proprio come avevano ricostruito le indagini ufficiali dell’epoca lo si è sempre detto e soprattutto scritto. Interviste e inchieste giornalistiche , nel tempo, hanno messo in fila circostanze, fatti e dettagli in contraddizione tra di loro, se non letteralmente privi di senso. Ed è proprio partendo da quei dettagli che le indagini dei carabinieri sono ripartite. Ieri mattina i militari hanno informato degli elementi raccolti il procuratore di Lagonegro che ora dovrà valutare se far partire la nuova inchiesta. Il lavoro della procura non sarà facile. Come detto occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. La nuova indagine riparte anche da un inchiesta condotta dalla Gazzetta qualche anno fa su alcuni «buchi» nelle indagini svolte all’epoca. Lacune sottolineate, più volte, anche dall’associazione «Libera». Tra queste, il sangue nell’auto che non fu mai chiarito con certezza a chi appartenesse. Il perito dell’epoca concluse parlando solo di «elevata probabilità». Poteva trattarsi del gruppo «zero», ossia quello della Flora. A ciò si aggiungono le impronte non prelevate. Ci sono poi le versioni contrastanti dei vari testimoni e indagati che prima dicono, poi ritrattano, poi ridicono.

«Sto guardando le carte e poi deciderò se chiedere al gip di riaprire il fascicolo», dice il procuratore capo di Lagonegro Vittorio Russo, scrive Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Le carte a cui fa riferimento il magistrato sono quelle del caso della scomparsa di Maria Antonietta Flora, la maestrina di Lagonegro. Si riaccendono, quindi, i riflettori della magistratura sulla vicenda della maestrina sparita nel nulla un quarto di secolo fa. Il capo della Procura di Lagonegro dice che deve guardare le carte, ma in pratica la nuova indagine è già iniziata e si stanno muovendo anche i carabinieri per capire se ci sono gli estremi perché quel fascicolo chiuso senza una verità possa essere riaperto. Il tutto sulla scia delle notizie pubblicate una settimana fa dalla Gazzetta, in cui si faceva riferimento, in particolare, ad alcuni «buchi » nelle indagini svolte all’epoca. Lacune sottolineate anche da don Marcello Cozzi, referente di Libera in Basilicata. Tra queste, il sangue nell’auto che non fu mai chiarito con certezza a chi appartenesse. Il perito dell’epoca concluse parlando solo di «elevata probabilità». Poteva trattarsi del gruppo «zero», ossia quello della Flora. A ciò si aggiungono le impronte non prelevate. Ci sono poi le versioni contrastanti dei vari testimoni e indagati che prima dicono, poi ritrattano, poi ridicono. Sono questi gli elementi contenuti negli articoli pubblicati una settimana fa che hanno spinto il capo della Procura di Lagonegro, Vittorio Russo, a cominciare un’attenta rilettura dei fascicoli del caso Flora per capire se c’è ancora la possibilità, dopo 26 anni, di venire a capo di uno dei tanti misteri lucani. Nonostante il corpo della donna non sia stato mai ritrovato, la convinzione degli investigatori, da subito, è che la donna sia stata uccisa. I sospetti portano all’arresto del commerciante di carni Biagio Riccio, di Lagonegro, con il quale la Flora da tempo si sentiva per telefono. I due si sarebbero incontrati proprio la sera in cui la donna è scomparsa (sabato 10 novembre 1984), anche se lui sostiene di averla incontrata il giorno prima. La donna avrebbe respinto le avances di Riccio che in un impeto passionale l’avrebbe uccisa. Quando l’uomo ha ormai scontato due anni di carcere viene dichiarato innocente. Dopo la sua assoluzione tutto è rimasto senza una spiegazione e il caso a poco a poco si è chiuso fino all’archiviazione. Ma ora non si esclude che possa essere riaperto. Gli investigatori sperano che salti fuori anche qualche elemento nuovo che possa attribuire nuovo smalto alle piste investigative seguite nel 1984. Se Maria Antonietta è stata uccisa, chi poteva volere la morte di una giovane maestra elementare sposata con un impiegato dell’Enel? In realtà la vita di Maria Antonietta non era così tranquilla come poteva sembrare. Maria Antonietta, oltre a sentirsi con Riccio, era anche l’amante del noto imprenditore Domenico Di Lascio, ucciso anche lui a distanza di cinque anni. A Maria Antonietta, l’uomo stava intestando alcuni beni perché i due avevano deciso di andare a vivere insieme. Ma non è da escludere che la donna possa aver visto o sentito qualcosa che non doveva e per questo sia stata fatta sparire. La scomparsa della donna è stata spesso accostata all’assassinio di Domenico Di Lascio. Anche qui ci sono dei alti oscuri. La sera in cui viene ucciso, l’11 gennaio del 1989, Di Lascio si trova nel suo mobilificio al Lago Sirino per controllare i documenti aziendali con gli incassi della giornata. Gli esecutori del delitto non avrebbero forzato alcuna porta per entrare. Avevano le chiavi? Inoltre anche il calibro delle pistole utilizzate (una 6. 35 e una 7. 65) farebbe pensare non proprio all’opera di professionisti del crimine. Ma questo potrebbe essere anche un tentativo di depistaggio.

C'è un nesso tra l'omicidio di Di Lascio e la scomparsa di Maria Antonietta Flora? Si chiede Pino Perciante su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. C’entra qualcosa il caso di Maria Antonietta Flora con l’omicidio di Domenico Di Lascio, avvenuto a Nemoli, cinque anni dopo la scomparsa della giovane maestra? Difficile dirlo, anche perché le indagini non sono approdate a nulla in tutti questi anni, sia in un caso che nell’altro. Fatto sta che la sera dell’11 gennaio 1989 Domenico Di Lascio si trova nell’ufficio vendite del suo mobilificio dove è solito trattenersi per controllare i documenti aziendali con gli incassi della giornata. L’uomo sta parlando a telefono con una donna con cui da tempo aveva una relazione sentimentale, quando all’improvviso due persone entrano e fanno fuoco. I tre colpi di pistola che gli vengono sparati contro appartengono a due armi diverse: una calibro 6. 35 e una calibro 7. 65. Dall’altra parte del telefono si sente solo un forte rumore. E subito scatta l’allarme. La donna con cui Di Lascio stava parlando a telefono, chiama al bar dell’albergo di proprietà di Di Lascio a avverte: “Salite sopra. E’ successo qualcosa a don Mimì”. Partono i soccorsi. Lo spettacolo è agghiacciante. Domenico Di lascio è riverso a terra in una pozza di sangue. Prima di perdere i sensi pronuncia qualche parola e, a gesti, forse lascia capire che sono state due persone a sparargli. La corsa in ospedale poi il coma e infine in poco tempo la morte: il 5 febbraio, dopo essere stato ricoverato nell’ospedale San Carlo di Potenza. A Lagonegro gli investigatori si mettono al lavoro la stessa notte dell’agguato. La pista che per prima viene seguita riporta la mente indietro nel tempo di cinque anni, alla scomparsa di Maria Antonietta Flora perché nel corso delle indagini gli investigatori appurano che Domenico Di Lascio aveva una relazione con la giovane maestra, scomparsa il 10 novembre del 1984. Di Lascio però non fu mai coinvolto nell’inchiesta sulla scomparsa della Flora. Cosa accade però la notte dell’11 gennaio del 1989? Gli investigatori procedono per tentativi, ma non si giunge a nessuna conclusione. Nel 2003 sembra arrivare la svolta nel giallo del Lago Sirino con l’arresto di tre pregiudicati campani accusati di essere i responsabili dell’omicidio dell’imprenditore nemolese. Gli investigatori erano giunti ai tre salernitani sulla base delle rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Ma nel mese di novembre del 2008 il giallo del Lago Sirino è di nuovo senza soluzione: il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Potenza proscioglie i tre pregiudicati campani. Tutto daccapo. L’omicidio Di Lascio ancora oggi resta senza colpevoli. Uno dei tanti misteri lucani.

Manca solo un tassello - quello sul quale è scritto il nome del mandante (che gli investigatori credono avere a portata di mano) - per considerare chiuso il caso dell'omicidio di Domenico Di Lascio, ucciso la sera dell'11 gennaio 1989 nell' ufficio vendite del suo mobilificio, a Nemoli (Potenza), cinque anni dopo la scomparsa di Maria Antonietta Flora, con la quale l'imprenditore aveva avuto una relazione sentimentale extraconiugale, scrive “Informazione Campania”. I carabinieri del comando provinciale di Potenza hanno arrestato nel Salernitano tre uomini, considerati gli esecutori del delitto: Antonio Nobile, di 63 anni, di Giffoni Valle Piana, che è agli arresti domiciliari e ingaggiò i due sicari: Giovanni Ferraioli (54), di Siano, e Felice Fortunato (50), di San Marzano sul Sarno. Furono proprio Ferraioli e Fortunato - secondo l'accusa - ad entrare la sera dell'11 gennaio dell'89 nel mobilificio di Di Lascio e a sparargli contro alcuni colpi con pistole calibro 6,35 e 7,65. Quest'ultima arma si inceppò e solo dalla prima partirono due proiettili: uno colpì l'imprenditore al braccio sinistro, l'altro - quello mortale - alla testa. Di Lascio morì il 5 febbraio nell'ospedale di Potenza, senza riprendere conoscenza. Le indagini non portarono a nulla: sospetti, ma niente di concreto. Di Lascio fu ferito mentre parlava al telefono con una donna con la quale aveva avviato una relazione extraconiugale: fu lei a sentire dei rantoli e a chiedere aiuto. L'imprenditore non riuscì a dire nulla, forse fece soltanto capire ai suoi soccorritori, con un gesto, che erano stati in due a sparargli. L'omicidio dell'imprenditore si intrecciò subito con un altro ''giallo'', tuttora irrisolto: la scomparsa di Maria Antonietta Flora. La sera del 10 novembre 1984 (cinque anni prima del delitto Di Lascio) la donna, insegnante elementare, sposata e madre di tre figli, esce di casa, a Lagonegro (Potenza), per andare dal padre. Sparisce nel nulla: la sua auto viene ritrovata ferma su una piazzola di sosta dell'autostrada Salerno-Reggio Calabria. All' interno, alcune macchie del sangue della donna. Nient' altro. Flora aveva una relazione con Domenico Di Lascio e fu inevitabile - quando l'imprenditore fu ucciso - mettere accanto le due vicende e cercare punti di contatto. Su entrambe, pero, il tempo passato ha portato il silenzio, tanto più che l'uomo accusato di aver ucciso Maria Antonietta Flora, un giovane ragioniere che la corteggiava, fu assolto dopo due anni di detenzione. La svolta arriva nel 2001. Un collaboratore di giustizia parla del delitto Di Lascio con un magistrato della Procura della Repubblica di Salerno: un anno fa, ripete le stesse cose e, anzi, le approfondisce e le spiega con il pubblico ministero della Procura della Repubblica di Potenza, Claudia De Luca. Il pentito racconta che era stato ingaggiato per uccidere Domenico Di Lascio: l'uomo intasca 25 milioni di lire ma quando è tutto pronto per sparare all'imprenditore viene arrestato. Mentre è in carcere, Di Lascio viene ucciso. Rimesso in libertà, il collaboratore di giustizia apprende i particolari del delitto e chi lo aveva eseguito (per circa 30 milioni). Sul movente, De Luca e il maggiore Nazzareno Zolli, comandante del reparto operativo del comando provinciale di Potenza dei Carabinieri, hanno detto ai giornalisti di non poter aggiungere nulla: di sicuro, Di Lascio è stato ucciso per impossessarsi del suo vasto patrimonio. Ma le indagini sono orientate ora nella famiglia dell'imprenditore: la gelosia (scatenata dalle diverse relazioni extraconiugali di Di Lascio) può avere avuto un ruolo nella vicenda: ''Abbiamo buoni elementi'', si è limitata a dire De Luca. Ma le indagini tendono a ripercorrere anche la scena del delitto e i personaggi che si mossero attorno a Di Lascio quella sera: per i killer fu troppo facile arrivare all'ufficio vendite, sparare all'imprenditore e sparire nel nulla. Forse, qualcuno li aiutò.

Quando Di Lascio sospettò della moglie, continua Pino Perciante. Domenico Di Lascio sospettò della moglie per la scomparsa di Maria Antonietta Flora. E’ quanto emerge dalla sentenza di secondo grado che scagiona Biagio Riccio. Nei giorni successivi alla scomparsa della maestra, l’uomo, secondo il suo stesso racconto, avrebbe tormentato la moglie ritenendola responsabile dell’accaduto. Emerge anche che la moglie di Di Lascio avversava la relazione extraconiugale del marito in ogni modo, giungendo anche a importunare per telefono la maestrina e, allo stesso tempo, cercando nel marito della giovane maestra un alleato nell’azione di disturbo. Ma Di Lascio le aveva ribadito più volte la propria irremovibile decisione di andare a vivere con Maria Antonietta. La moglie dell’imprenditore, sempre secondo quanto emerge dalla sentenza della Corte d’Assise d’Apello, conferma le parole del marito sostenendo di aver fatto di tutto per ostacolare la relazione extraconiugale del coniuge, salvo poi rassegnarsi successivamente. E dal quel momento non aveva telefonato più alla Flora, mentre i contatti con il marito della maestra sarebbero cessati circa 6-7 mesi prima di quel sabato 10 novembre 1984. Si tratta però solo di sospetti che emersero all’epoca. Perché la moglie di Di Lascio non è stata mai coinvolta nell’inchiesta sulla scomparsa della maestra. E gli accertamenti sul suo conto, effettuati dagli inquirenti, non sono approdati a nulla. Il 10 novembre del 1984 Maria Antonietta Flora, che allora aveva 27 anni, sposata, due figli, sparisce nel nulla. Intorno alle 19 di quel giorno esce di casa diretta all’abitazione dei suoi genitori per farsi praticare un’iniezione dalla cognata. Ma in realtà a casa dei genitori non arriverà mai. Alle 17. 30 di quello stesso giorno a casa della Flora arriva una telefonata misteriosa raccolta da uno dei due figli della donna al quale una voce dall’altro lato della cornetta dice: «Sono papà, passami mamma». L’auto della donna, una A 112, viene rinvenuta alle 13.30 dell’11 novembre del 1984 ferma in una piazzola di sosta della corsia nord dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, in località “Carconi”. All’interno ci sono tracce di sangue sullo sportello lato guida, sul blocco di accensione dell’auto, sul bordo superiore dello sportello lato guida all’interno e all’esterno, sul paraurti posteriore sinistro. Stranamente nessuna traccia di sangue viene rinvenuta sull’asfalto circostante. Due agenti di custodia in transito sull’autostrada notano l’auto «non più tardi delle 20.40». Alle 13. 05 due agenti che transitavano in servizio di pattuglia si fermano su segnalazione del marito e del padre di Maria Antonietta giunti nel frattempo sulla piazzola di località “Carconi”. Il marito della maestra alle 3. 20 della notte aveva già denunciato la scomparsa della moglie. Il pm di Lagonegro, dopo il sequestro della A 112 , dispone la perizia sulle macchie di sangue. Nel frattempo arrivano anche alcune telefonate di natura estorsiva al marito della maestra. Altre due telefonate in cui ignoti affermano di avere una donna nelle loro mani arrivano ad una radio privata il 12 novembre. Ma l’ipotesi di un rapimento viene scartata. Così come sembra improbabile una fuga. Dopo alcuni mesi gli investigatori appurano l’esistenza di una relazione tra la Flora e Riccio. Il 3 febbraio del 1986 per la prima volta i carabinieri ventilano l’ipotesi di un coinvolgimento di Riccio nell’omicidio. È l’ultima persona a vedere la giovane maestra viva in località Cazzivella. Vengono disposte intercettazioni telefoniche sulle sue utenze e su quelle di alcuni suoi amici. Comincia a questo punto il valzer delle cose dette, ritrattate e poi ancora confermate che porterà sotto inchiesta anche un amico di Riccio, Guerino Buldo per favoreggiamento personale. Anche lui sarà assolto. Per i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Potenza la scomparsa di Maria Antonietta Flora e l’omicidio di Domenico Di Lascio, colpito da arma da fuoco l’11 gennaio del 1989, non sono collegati. I difensori della parti nel processo che si svolse a carico di Riccio e Buldo avevano chiesto di unire i due fascicoli. Ma nelle motivazioni della sentenza pronunciata il 22 novembre del 1991, la Corte osserva, in via preliminare, che «non sussistono palesi e concreti elementi di collegamento» tra le due vicende.

Le confidenze del pentito, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Quell’omicidio dovevo commetterlo io per cinquanta milioni di lire». Mario Ursolino, ex boss del clan Tempesta di Angri, svela ai magistrati della Procura antimafia di Salerno che una donna aveva commissionato l’omicidio di Domenico Di Lascio, l’imprenditore del Lago Sirino ucciso a colpi di pistola nel suo ufficio 21 anni fa. Le dichiarazioni di Ursolino, mai pubblicate prima, sono contenute in un verbale che la Gazzetta ha potuto consultare. Il magistrato che lo interroga è Luigi D’Alessio, uno dei pm del pool che indaga sull’omicidio di Elisa Claps. «Ci tengono molto a questo omicidio di Lagonegro», dice Ursolino. Il pm gli chiede: «Ma lo avete commesso voi?». Lui risponde: «Io ci sono andato... sono andato a valutare... lo dovevo commettere io... la fortuna è che poi sono stato arrestato e non ho potuto». Ma chi contattò Ursolino per commissionargli l’omicidio? Racconta il pentito: «Mi chiamò una persona di mia fiducia e mi chiese se volevo fare un lavoretto a Lagonegro per cinquanta milioni di lire. Mi dice che c’era questa persona che aveva un mobilificio... che era un... un femminaiuolo». Ma chi voleva la morte di Mimì Di Lascio? Secondo Ursolino «una donna... c’era una donna che se lo voleva togliere di torno». Il movente? «Gelosia», dice il pentito. Ma anche per soldi: «Questo aveva macchine, aveva tutto... un mobilificio tanto grande... questo era miliardario». Ursolino partecipa al sopralluogo. Studia i movimenti di Mimì. Ma prima di commettere il delitto viene arrestato. Quelli che aveva indicato come suoi complici sono stati processati e assolti. La donna di cui parlava, però, venuto meno Ursolino, potrebbe aver ingaggiato altri killer. È tra le amanti di Mimì il mandante?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

DI QUALE MAFIA AVER PAURA?

Reato di mafia prescritto grazie alla latitanza del boss, scrive Michele Finizio su “Basilicata 24”. Ma che giustizia è questa? Il capo mafia di Trabia, Domenico Rancadore, è libero. E un giovane lucano rischia la vita. Il boss venne catturato nell’agosto 2013, dopo 19 anni di latitanza, grazie alla collaborazione di un giovane cittadino lucano. La prima sezione della Corte di Appello di Palermo, presieduta da Gianfranco Garofalo, ha disposto la scarcerazione del mafioso, accogliendo la richiesta dei legali dell’ex latitante. I difensori avevano chiesto la liberazione di Rancadore - detenuto in Inghilterra - sostenendo che la pena fosse prescritta. Condannato per associazione mafiosa a 7 anni di reclusione, il boss fu raggiunto da un mandato di arresto europeo emesso dalla Procura Generale di Palermo. Nelle more di un combattuto procedimento di estradizione, che ancora pende davanti alla Corte di Giustizia inglese, è, come hanno sostenuto i legali, maturato il termine di prescrizione. Ci siamo occupati della vicenda raccontando la via crucis del giovane collaboratore, lasciato senza protezione in balia delle minacce di morte che hanno raggiunto lui e la sua famiglia. Abbiamo denunciato le negligenze e le omissioni della Questura di Potenza in quel percorso ad ostacoli che il giovane collaboratore ha dovuto inseguire per chiedere giustizia e tutela. E adesso? Il mafioso è libero. Il ragazzo coraggioso è in pericolo, le istituzioni non hanno ancora deciso se concedere o meno una forma di tutela adeguata alla situazione. E mi chiedo: può un reato di mafia finire in prescrizione, nonostante la latitanza del criminale? Che giustizia è questa? Commetto un reato grave, mi condannano, ottengo appoggi importanti che mi garantiscono la latitanza, mi nascondo dietro generalità false con un passaporto autentico, aspetto i tempi della prescrizione ed è fatta. Sarebbe il caso di non considerare, ai fini della prescrizione, il tempo trascorso in latitanza. O no? In questa vicenda molte cose non quadrano, a partire dalle coperture importanti di cui il mafioso ha beneficiato in questi lunghi anni. Approfondiremo.

Giovane lucano fa arrestare pericoloso latitante. Tutti i retroscena della vicenda. Quando le istituzioni mettono a rischio la vita di un cittadino onesto, continua Michele Finizio. Un bravo ragazzo che si fa strada da solo, è lucano. Lo chiamiamo Alberto, per ragioni di sicurezza. Anche se ormai, per quanto ci risulta, le sue generalità sono scoperte. “Grazie alle negligenze e alle superficialità di alcuni giornalisti e delle istituzioni che mi avrebbero dovuto proteggere.” Lui è un esempio di onestà e senso civico. Un giovane cittadino che ha il coraggio di denunciare il suocero mafioso, mettendo in serio pericolo la propria vita e quella dei suoi cari. Ci telefona, chiede di incontrarci, non vuole dire il nome. “Sono al bar ..., ho un giubbotto rosso, raggiungetemi. Ho tanta rabbia, e molte carte che scottano.” E’ il 2006, a Barcellona Alberto conosce Daniela Skinner, si frequentano. Si amano. Vanno a vivere insieme. Per sette anni sono una coppia felice. Nel marzo 2013 i due si recano a Londra per una visita di cortesia ai genitori di lei. E’ in questa circostanza che Alberto fa un’inquietante scoperta. La sua ragazza ha un passaporto autentico, ma con nome falso. Allo stesso modo il padre di lei, si presenta con il nome di Marco Skinner, passaporto autentico, nome falso. La madre di lei è Anna Maria Macaluso Culcasi, figlia del defunto Bernardo, ex Console italiano a Londra. Anche lei ha un passaporto Skinner. Ma tutti residenti a Trabia, provincia di Palermo. Gli Skinner fanno una vita molto agiata e frequentano la “Londra bene”. Marco Skinner insiste per un trasferimento di Alberto e Daniela a Londra, 'minacciando' Alberto con un linguaggio che al ragazzo sembra molto strano. Marco parla siciliano stretto e usa gesti minacciosi. Alberto cerca di capire, rovista tra le carte della residenza degli Skinner, trova delle tracce. Si insospettisce. Confida i suoi dubbi a un amico maresciallo dei Carabinieri, il quale scopre le generalità vere degli Skinner. Il carabiniere consiglia ad Alberto di fare immediatamente denuncia. Il vero cognome di Daniela è Rancadore, il padre è Domenico Rancadore, detto “u profissuri”, nato a Palermo il 15 marzo del 1949.  Domenico è inserito nella “famiglia” mafiosa di Trabia (Palermo), in qualità di consigliere e poi di capo mandamento di Caccamo e Trabia. E’ figlio di Giuseppe Rancadore, ex capo della “famiglia” di Trabia, ergastolano, ora deceduto. “Il professore” nel 1995 è destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Palermo, per associazione di tipo mafioso e per altri reati. Nell’ottobre del 2000, l’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura Generale di Palermo emette l’ordine di esecuzione per la carcerazione per associazione di tipo mafioso aggravato. Deve scontare sette anni di reclusione. Intanto, Domenico Rancadore è scomparso. Irreperibile dal 14 dicembre 1994. Latitante da venti anni. E’ nella lista dei latitanti più pericolosi. Ricercato in ambito Schengen dal 29 luglio 1998. “Daniela perché non mi hai detto la verità?” Non volevo spaventarti, Alberto.” I due si lasciano. Il ragazzo fa immediatamente rientro in Italia. Confida al maresciallo della Questura di Potenza, Antonio Girardi, di sapere dove risiede il latitante Rancadore Domenico. Girardi informa immediatamente la sua dirigente, Rosa Manzo, la quale convoca lo stesso giorno il ragazzo in Questura. Alberto racconta tutto: identità del latitante, luogo di residenza, false generalità, provenienza del passaporto. Consegna, a riprova, tutti i documenti in suo possesso. Il ragazzo raccomanda di mantenere il segreto sulla fonte. E’ a rischio la sua vita. Intanto il latitante insospettito dal rientro di Alberto, si allontana dalla residenza londinese nota al ragazzo. Nei giorni successivi Alberto è convocato in Questura a Potenza. Gli chiedono di collaborare. I funzionari di polizia vogliono che il ragazzo, anche se a distanza di mesi, riprenda i contatti con Daniela, con lo scopo di assicurarsi che il latitante si trovi ancora nello stesso domicilio. Alberto accetta e ricontatta la sua ex più volte sia attraverso conversazioni telefoniche sia per posta elettronica. Alcune telefonate si svolgono alla presenza dei funzionari di Polizia. Le e-mail sono immediatamente girate al maresciallo Girardi. Attraverso queste conversazioni Alberto rassicura la ragazza circa la sua intenzione di chiarire la situazione col padre Domenico. Il latitante, nell’attesa di incontrare il ragazzo, rientra nella località di residenza dove il 7 agosto 2013 viene catturato.  Il 17 marzo 2014 “il professore” è rilasciato su cauzione. Il 5 aprile 2014 è nuovamente sottoposto a custodia cautelare in carcere. Dopo quarantacinque giorni dall’arresto del latitante, Alberto riceve minacce di morte. Telefonate inquietanti da utenze in uso nel Regno Unito, in particolare a Uxbridge (ovest di Londra) località di residenza della famiglia Rancadore. Minacce arrivano anche da utenze telefoniche toscane, in particolare da Pontedera, dove vive il nipote del boss mafioso. Intanto viene revocata la scorta ad Alberto. E le minacce non si fermano. L’8 maggio 2014 il ragazzo riceve a casa sua una lettera da Palermo che contiene chiare minacce di morte. Una frase per tutte: “Morirai fango”. Il 21 giugno 2014 la madre di Alberto riceve una strana telefonata la cui provenienza è identificata nel Comune di Geraci Siculo, provincia di Palermo. Molte le chiamate strane provenienti dalla Sicilia. Ma perché minacciano il ragazzo? Come fanno a sapere che è stato lui a svelare il nascondiglio del latitante? Lo capiremo tra poco, quando tratteremo degli “sgambetti” della Questura e delle altre istituzioni. Nel frattempo l’Italia chiede l’estradizione di Rancadore. Ma gli inglesi non ne vogliono sapere. Nel Regno Unito non esiste il reato di associazione mafiosa. Finalmente il 20 febbraio 2015 viene accolta la richiesta, ma il latitante fa ricorso alla Corte Suprema inglese. Il 17 marzo 2014 La Westminster Magistrates' Court di Londra decise di non procedere all'estradizione in Italia di Domenico Rancadore. Il 16 luglio 2013 Alberto fa la denuncia in Questura a Potenza. Stranamente non gli viene rilasciato un verbale di denuncia, ma un memoriale scritto materialmente dal funzionario di polizia. In quella sede il ragazzo pretende che la sua identità rimanga segreta e segreta deve rimanere la sua località di provenienza. Riceve rassicurazioni in tal senso. Ma nei giorni successivi l’arresto del latitante, i giornali titolano: “La Squadra Mobile di Potenza fa arrestare il boss Rancadore”. Dunque, la fonte delle informazioni utilizzate per la cattura del latitante è Potenza. Bella copertura! E lo lasciano anche senza protezione. Il 12 agosto 2013 Alberto firma un accordo di protezione, ma il 7 marzo 2014 quelle misure di tutela sono revocate. I termini dell’accordo vengono modificati all’insaputa del ragazzo. Alberto viene esposto a rischi notevoli. Così scrive il Questore Panico: “…a seguito di riunione tecnica di coordinamento delle Forze di Polizia è stata disposta nei suoi confronti la rimodulazione della misura di protezione di “Tutela su auto non specializzata in “Vigilanza Dinamica Dedicata a mezzo degli equipaggi mobili dell’Arma dei carabinieri fino al 30 settembre 2014 presso la sua abitazione”. In questo periodo di vigilanza dinamica dedicata, Alberto deve recarsi a Palermo, precisamente il 22 luglio 2014, dinanzi al Procuratore Aggiunto Vittorio Teresi. In questa circostanza il ragazzo chiede di essere accompagnato da una scorta. La richiesta è negata e Alberto è costretto a recarsi in Sicilia da solo! C’è dell’altro. Il 26 settembre 2014, il Comitato per la Sicurezza e l’Ordine Pubblico della Provincia di Potenza si riunisce per deliberare una ulteriore modifica delle misure ordinarie di protezione, prevedendo la sola “vigilanza generica radio collegata fino al 31 marzo 2015.” E qui un altro “sgambetto”: Alberto viene informato di questa nuova modifica il 9 gennaio 2015, su sua espressa richiesta circa l’eventuale proroga o termine delle misure di protezione precedentemente assunte il 7 marzo 2014. In sostanza il ragazzo per tre mesi è convinto di essere sottoposto ad un tipo di tutela, al contrario le misure sono cambiate a sua insaputa! Facciamo un passo indietro. Il programma di protezione del 12 agosto 2013 prevedeva al punto 7) lettera a) che “per gli spostamenti fuori provincia…l’accompagnamento è previsto sino alla località di destinazione dove il servizio verrà assicurato dalla Forza di polizia del luogo…” Ebbene, il 22 febbraio 2014 Alberto deve recarsi a Rimini per motivi di salute e fa richiesta di applicazione di quella clausola. Ottiene un rifiuto. La Questura corre ai ripari rettificando quel punto dell’accordo. L’accordo, tra l’altro, aveva cogenza ministeriale e quindi la Questura non avrebbe avuto alcun titolo per rettificarlo. Perché ad Alberto viene revocato il programma di protezione sottoscritto il 12 agosto 2013? Semplice. Il Servizio Centrale di Protezione di Roma non è mai stato informato sulla verità dei fatti dalla Questura di Potenza. Quindi, per la Commissione per le speciali misure di protezione Alberto non è testimone di giustizia, né ha collaborato attivamente alla cattura di Rancadore. Alberto è una persona che, secondo la Questura di Potenza, ha fornito una semplice informazione. Dunque, la documentazione che riguarda Alberto e il caso Rancadore, non è mai arrivata alla Commissione Centrale, oppure qualcuno l’ha tenuta nel cassetto? A conferma delle “omissioni” della Questura potentina una missiva della Procura competente di Palermo, datata 4 luglio 2014,  a firma del Procuratore Aggiunto Vittorio Teresi, nella quale si precisa che “…agli atti di questo Ufficio non risulta che (cognome del ragazzo) abbia mai reso dichiarazioni di alcun genere (…) si precisa inoltre che per la cattura del latitante Rancadore Domenico, non ci si è avvalsi di alcun contributo collaborativo ma si è trattato di un’operazione di Polizia con la collaborazione dell’Interpol”. Ma come! A Palermo non risulta neanche il nome di Alberto, non sanno della collaborazione fornita dal ragazzo. In seguito alla scoperta della fonte delle notizie che hanno consentito la cattura di Rancadore, ad Alberto è stato proibito il ritorno in Spagna, dove lavorava e viveva. Un danno economico importante. L’esposizione a gravi rischi, la paura di morire ucciso sotto i colpi di un sicario, lo fanno cadere in uno stato di depressione. Ed è costretto a curarsi con i soldi che non ha più. Il ragazzo si chiede come mai, per quale assurda ragione, gli viene negato il diritto ad un’adeguata protezione, essendo egli a tutti gli effetti un testimone di giustizia ai sensi dell’articolo 12 della legge 45/2001? Eppure ha fornito un contributo fondamentale per la cattura di un pericoloso latitante. Qualcuno, informalmente, gli spiega che la sua collaborazione non ha contribuito a scoprire alcun reato. Ammesso che la cattura di un latitante non si configuri come scoperta di reato, vogliamo parlare dei passaporti con false generalità? Alberto denuncia le “omissioni” della Questura, le superficialità ed eventuali negligenze della Prefettura. Lo fa in tutte le salse. Alla Procura di Potenza e a quella di Salerno. Scrive al Viminale e al Quirinale. Al Viminale, il vice ministro Bubbico fa sapere che è “stata allertata la Procura competente", Palermo. La Procura competente fa sapere che nulla sa. Su insistenti richieste di Alberto partono le convocazioni in Prefettura. Alberto espone il suo caso, in molti incontri. L’ultimo il 26 febbraio 2015. Incontro avvenuto grazie all’intervento diretto del Quirinale. Ad oggi nulla accade. Sembra, tuttavia, che la Procura di Salerno abbia aperto un fascicolo di indagine su eventuali omissioni e negligenze della Questura di Potenza. Alberto è solo, ma, confessa: “Ho sempre sentito vicini, anche umanamente, i carabinieri della Stazione del Comune dove risiedo”. Alberto chiede solo protezione. Ormai si sa che gli inglesi non hanno alcuna intenzione di estradare il latitante. Nel frattempo è giusto riflettere su alcune anomalie di tutta la storia. Chi ha fornito alla famiglia Rancadore passaporti autentici con nomi falsi? Certamente le autorità britanniche. Il suocero del latitante è stato per lungo tempo Console italiano a Londra. E’ questa una circostanza che lascia immaginare coperture di una certa importanza ai livelli istituzionali non solo inglesi, ma anche italiani? Il 24 gennaio 2012, il quotidiano la Repubblica di Palermo, titola: “Latitante a Londra a spese dello Stato. Il boss Rancadore con la pensione da prof”. Nell’articolo, a firma di Salvo Palazzolo, si legge: Da qualche settimana, i carabinieri del Gruppo Monreale hanno svelato il giallo: Rancadore è a Londra, da lì continua i suoi affari di mafia e intanto si gode la pensione dell’Inpdap. Sì, perché il numero due della lista dei ricercati di Cosa nostra, che oggi ha 62 anni, è stato un insegnante di educazione fisica nella sua vita da insospettabile. In realtà, quella era un’attività di copertura, così hanno raccontato i pentiti, ma la pensione dell’Inpdap è invece vera e arriva puntuale ogni mese su un conto corrente di una banca italiana, intestato al latitante. Che il latitante si nascondesse a Londra era quindi noto. Aveva persino un conto corrente intestato in Italia. Era così difficile rintracciarlo? Vuoi vedere che Alberto, con le sue informazioni, ha rotto le uova nel paniere a qualcuno che non aveva alcuna intenzione di catturare il mafioso? Intanto l'unica certezza è che gli inglesi non vogliono estradarlo.

Freni e vincoli alla libertà di stampa: l'anomalo caso del quotidiano online "Basilicata 24". In una regione poverissima e zeppa di problemi si moltiplicano i casi di stalking intimidatorio nei confronti dei cronisti attivi nel giornalismo di inchiesta. E a livello nazionale quasi nessuno ne parla, scrive Pietro De Sarlo su “Economia Italiana”. Il ruolo della stampa è da sempre fondamentale nella gestione dello Stato moderno. Lo è nelle democrazie evolute dove la libertà della stampa è un valore condiviso da tutta la popolazione e svolge la funzione fondamentale per i cittadini di esprimere un consenso informato nelle scelte di voto, lo è anche nelle dittature dove il governo del consenso tramite i media è ancora più importante di quello svolto dalle varie forze di polizia e lo è anche nelle democrazie formali come la nostra. Dico che la nostra è una democrazia formale poiché la funzione della stampa non viene svolta con la necessaria indipendenza e autorevolezza, tant'è che nelle classifiche sulla libertà di stampa non figuriamo bene. Infatti sul Sole 24 Ore di qualche tempo fa abbiamo letto che "l'Italia ha perso quattro posizioni nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa. Dopo Botswana e Niger ci si piazza al 57° posto su 179 Paesi, peggio rispetto al report dello scorso anno". Le conseguenze non paiono evidenti a tutti. Vorrei solo sottolineare che da vent'anni a questa parte si assiste a una omologazione culturale soprattutto per quanto attiene al governo dell'economia così come. Proprio a causa di questa omologazione culturale, Grillo ha qualche ragione nel parlare di PD-L. E il fatto che la nuova legge elettorale sembri fatta di proposito per impedire la nascita e la presenza di nuove formazioni risulta, a mio modo di vedere, poco evidenziato. Persino nell'era di Bernabei alla Rai il giornalismo di inchiesta era più sviluppato ed autonomo di oggi. Queste sono cose note ai gruppi di potere palesi e occulti e non avrei scritto queste ovvietà se non ci fosse un fatto che sta sfuggendo o che non viene preso nella giusta considerazione dagli organi di informazione nazionali. Dal 2 novembre dello scorso anno l'intera redazione giornalistica di Basilicata 24 (piccolo quotidiano online) viene costantemente minacciata in un preoccupante crescendo. Dalle evidenze documentali emerge una azione di stalking intimidatorio dove i giornalisti vengono controllati quotidianamente anche nei loro trasferimenti all'interno della regione e dove si è arrivati al punto che un grave incidente stradale occorso a uno dei cronisti era stato preannunciato con un messaggio intimidatorio (preveggenza iettatrice o che altro?). Credo quindi che questa vicenda dovrebbe interessare maggiormente gli organi di stampa nazionali per almeno sei questioni. La prima. All'interno delle regioni meridionali la Basilicata è sempre stata esente da fenomeni di criminalità organizzata. Questi fatti rappresentano pertanto un primo elemento strutturato di attenzione della criminalità organizzata nei confronti della regione più povera d'Italia. La seconda. I giornalisti di Basilicata 24 svolgono un attento e documentato giornalismo di inchiesta che sempre più sta mettendo in luce i legami tra il business dei rifiuti illegali, gli affari, la politica ecc. A titolo di esempio, la gestione di Tecnoparco, della Fenice, lo sversamento di rifiuti tossici campani nell'area del Vulture, l'inquinamento da idrocarburi del lago del Pertusillo e della Val Basento e via dicendo. La terza. La regione Basilicata è al centro di grossi interessi nazionali legati alla presenza nel suo sottosuolo di grossi giacimenti petroliferi. Occorre dire con amarezza che l'Eni, industria di Stato, è stata recentemente indagata dalla procura antimafia per la gestione di rifiuti tossici nel centro oli di Viggiano e che sono sempre maggiori le evidenze di inquinamento di falde acquifere e di intere aree a causa del modo con cui si estrae petrolio in Basilicata. Non giova alla credibilità dell'Eni la recente condanna di Scaroni e gli altri coinvolgimenti nazionali e internazionali dell'Eni emersi sulla stampa nazionale ed internazionale in vicende dai contorni oscuri. La quarta. Per qualche strana e non ben compresa alchimia, le inchieste di Basilicata 24 vengono sistematicamente rilanciate da individui e gruppi in tutte le web communities lucane, costituendo di fatto il quotidiano più letto dalla popolazione maggiormente alfabetizzata. Questo spinge anche gli altri quotidiani a rilanciare alcune delle loro inchieste. Inoltre Basilicata 24 sta diventando il punto di riferimento di tutte le forze vive e di maggiore senso civico della regione alternative all'attuale sistema. La quinta. Non si riesce a capire come mai in cinque mesi gli organi inquirenti ancora non siano riusciti ad individuare gli autori materiali, la manovalanza e non i mandanti di secondo e terzo livello, delle tante minacce. I fatti parlano di croci sulle auto e nei pressi delle abitazioni, fogli su parabrezza delle auto ecc. I giornalisti paiono costantemente seguiti e intercettati. Non dovrebbe essere difficile. La sesta e ultima. Dalle inchieste emerge sempre più evidente il ruolo del PD lucano, che ha ininterrottamente guidato il governo regionale dalla sua costituzione a oggi, nel degrado etico e morale della regione. Al PD-L lucano, qui è veramente il caso di dirlo, si è da sempre opposta una acquiescente opposizione fatta da Forza Italia o PdL o quel che sia. Le vicende elettorali che hanno portato alla recente elezione del neo-governatore Pittella hanno aumentato, per la stessa disinvoltura tattica, opportunistica, etica e morale del citato neo-governatore, il disgusto nei confronti della politica da parte dei lucani. Ricordo solo che Pittella è stato eletto con il voto di poco più del 25% degli aventi diritto. Né aiuta il fatto che Pittella sia un renziano e che anche gli altri capofila di Renzi in regione non godano di ottima fama. Mai come oggi la lotta all'interno del PD lucano è al calor bianco, non per questioni nobili ma solo per il riposizionamento di vari gruppi di potere, con molti inquisiti dalla magistratura a vario titolo, tant'è che il congresso per l'elezione del nuovo segretario regionale viene costantemente rinviato. Il PD lucano era stato preso a modello da Bersani! Per tutti questi motivi la vicenda dei giornalisti di Basilicata 24 non può rimanere una vicenda locale. Anche perché nella recente manifestazione potentina di sostegno ai giornalisti si è registrata una adesione, a mio modo di vedere limitata, della stampa locale, molto influenzabile dal potere pubblico viste le condizioni in cui versa l'editoria, e la completa assenza dei politici lucani. Ricordo la vicenda analoga che riguardava un solo giornalista del Quotidiano della Calabria in cui per molto meno l'intera stampa nazionale si era mobilitata. E in questo caso?

Mafia, le parole intimidiscono i clan: da Saviano al caso di Basilicata24, scrive Elisa D'Ospina su “Il Fatto Quotidiano”. Sono di questi giorni le dichiarazioni di Iovine, ‘o ninno, boss dei Casalesi che parlando al processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione dichiara che a causa dei riflettori puntati addosso,dei troppi media, era difficile sistemare il processo Spartacus. «Ho una opinione negativa di Roberto Saviano – spiega Iovine – non gli voglio bene, ma per me finisce qua. Invece, se Bidognetti esprime pubblicamente un giudizio negativo su Saviano o su chicchessia, questo si traduce nel fatto che per qualcuno si tratta di una indicazione molto precisa. Voglio essere chiaro: l’avvocato Santonastaso ha sbagliato a sfogarsi con Bidognetti contro Saviano e Gomorra perché lui è senza scrupoli e reagisce con atti violenti». Per la prima volta un boss spiega dal di dentro come un clan camorristico frena le sue operazioni a causa del “potere della parola”. Che le parole diano fastidio alle mafie si sa da anni: molti gli omicidi, le minacce, troppe vite sotto scorta e tanti ancora i giornalisti che a causa delle loro denunce vengono presi di mira. E’ il caso di Giusy Cavallo, direttore di Basilicata 24, e dei suoi collaboratori. Decine le lettere e le minacce ricevute da novembre al mese scorso. Croci disegnate sulle macchine, scritte sui muri “I tuoi articoli sono un insulto alla decenza, morirai”, fino ad arrivare a lettere in cui viene descritto esattamente come finirà la sua vita. Parole che si sovrappongono ad altre parole. Da una parte la denuncia dei giornalisti, dall’altra le minacce di ignoti. La redazione di Basilicata 24 in questi mesi non si è fermata, ha continuato le sue inchieste sull’inquinamento ambientale, gli sprechi della pubblica amministrazione lucana e le infiltrazioni ‘ndranghetiste e camorristiche in Basilicata. A qualcuno tutto ciò non piace ed ecco che i giornalisti vengono presi di mira, e così anche i propri cari, fino ad arrivare a nominare figli e nipoti con la raccomandazione di “stare attenti” in una lettera del 27 novembre scorso. Una vita non semplice stanno vivendo i colleghi di Basilicata 24 i quali, lo scorso marzo, coinvolti in una serata in cui avrebbero intervistato Corrado Passera si sono visti recapitare sul tergicristallo della macchina di  Michele Finizio una mappa con l’esatto percorso che avrebbero dovuto fare e con una croce al centro di esso. Denunce su denunce alle autorità che ad oggi, purtroppo, non sono servite a molto. Andrea Spartaco, giornalista che si occupa di inquinamento ambientale ha ricevuto una lettera con su scritto esattamente cosa gli sarebbe successo: “Spartacus andrai fuoristrada” e così è successo qualche giorno dopo. La macchina non ha risposto ai comandi e in pieno giorno è avvenuto l’incidente. Pochi giorni dopo in redazione è arrivata un’ulteriore lettera con su scritto :”w Spartacus w Basento” ; infatti, il giornalista è andato fuoristrada in una zona dove scorre il fiume Basento. La testata indipendente continua con la sua linea editoriale e non facendosi intimidire dalle minacce continuano le denunce. Giusy Cavallo e Michele Finizio hanno scritto anche un libro: “Sia fatta ingiustizia“ che narra dei fatti accaduti realmente utilizzando dei nomi di fantasia per i protagonisti. La storia narra di un ingegnere che ha pestato i piedi ad autorità forti e potenti, tra cui magistrati e giudici e vede la sua vita sgretolarsi. I nomi dei protagonisti reali sono stati inviati dagli autori alle autorità e procure competenti. Solidarietà quindi per i colleghi che vivono questa situazione infernale. Come dice lo scrittore Roberto Saviano nei suoi social in queste ore in merito alle dichiarazioni di Iovine: “La parola trasforma la realtà, decidere di dedicare tempo per capire questi meccanismi è già un inizio per contrastarli. La parola è già azione quando porta conoscenza.”

Non fermiamo le parole. Non smettiamo di ricercare la realtà. Libertà d'informazione a pieno regime: blitz nella redazione di Basilicata24. Non è la prima volta che accade in Basilicata, dove la libertà di informazione va avanti a pieno regime: la prima redazione ad essere perquisita fu quella de Il Resto, nei giorni scorsi è toccato a Basilicata24, scrive Karakteria. Qualsiasi motivo possa esserci all'origine della perquisizione, che ci auguriamo non abbia finalità intimidatorie e persecutorie nei confronti di chi (caso raro in regione) svolge libera informazione, quello di perquisire la redazione di un organo di informazione ci sembra in ogni caso un caso grave, una scena che si può immaginare in un regime sovietico o fascista, ma che ci risulta difficile rivivere in Basilicata a distanza di pochi anni e rivolta di nuovo a soggetti scomodi ai patronati consolidati. Ci risulta difficile immaginare che i giornalisti del quotidiano online possano essere implicati in spaccio di stupefacenti o di armi o di plutonio, abbiano potuto nascondere un cadavere in una chiesa per 20 anni senza che "nessuno" se ne accorgesse, escludiamo altresì che i giornalisti possano essere sospettati di tangenti petrolifere, coinvolti in un traffico di rifiuti o in un giro miserabile di scontrini e francobolli, bachi da seta o megavillaggi, pale eoliche o pannelli fotovoltaici; ci pare improbabile sospettare che abbiano sversato veleni nelle acque potabili, abbiano causato crolli di ponti e vittime o magari siano artefici di un giro di raccomandazioni e concorsi truccati o siano loro che incendiano mezzi e terre nel metapontino, boschi e pinete nel Pollino...Allora perchè, in una regione afflitta da crimini, speculazioni, corruzioni, usurpazioni, ingiustizie di ogni sorta, perquisire la redazione di un giornale? Per la seconda volta perquisire un altro giornale di inchiesta in Basilicata, dove notoriamente non è che ne siano esistiti mai più di due o tre. Questa è una domanda che dovrebbe far sobbalzare l'ordine dei giornalisti, tutti i lucani e tutti gli italiani. Una domanda, non un sospetto di nessuno genere e rivolto a nessuno, perchè noi non conosciamo i fatti. Ci spaventano però gli effetti, ci mettono in allarme i modi, ci impongono a reagire i contesti. Aspettando la risposta e che qualche sedere sobbalzi, noi per il momento proponiamo l'articolo di Giusi Cavallo, di Basilicata24: "Non volevamo rendere pubblica l’azione “violenta” che uomini della Questura di Potenza hanno condotto a danno della nostra Redazione il 4 luglio. In questi giorni, però, abbiamo cercato di capire, abbiamo indagato, e finalmente abbiamo capito. Ce lo aspettavamo, siamo in Basilicata. Eccoci dunque a raccontarvi quanto è accaduto. Almeno dieci poliziotti, quella mattina, presidiano la Redazione e ci impediscono di lavorare. Montano apparecchi che sembrano essere rilevatori di intercettazioni ambientali. Non aspettano neanche l’avvocato. La stessa mattina altri poliziotti perquisiscono l’abitazione del collega Finizio e sequestrano carte e computer. Che cos’erano quegli apparecchi? Ebbene siamo curiosi di ascoltare quelle eventuali registrazioni. E se sono rilevatori di intercettazioni ambientali, chi e da quando ha intercettato giornalisti e confidenti nella nostra Redazione? E perché? Perché sono stata allontanata dalla Redazione e tenuta sotto stretta osservazione dai poliziotti? Se qualcuno ha indagato o sta indagando sulle minacce che abbiamo subito in questi mesi, ci faccia sapere come mai inseguirebbe noi e non i veri delinquenti. Ci faccia sapere il pm Piccininni perché è lei, proprio lei, ad occuparsi del nostro caso? Si, proprio lei che nel libro “Sia fatta ingiustizia”, scritto da me e dal collega Finizio, viene accusata di negligenze, superficialità e anomalie nella vicenda giudiziaria raccontata nel volume. E ci facciano sapere i poliziotti che sono piombati in redazione, come mai tanto interesse e ironia su quel libro di cui hanno chiesto anche copia? Qualcuno di loro è citato in quelle pagine, ma di certo non per essere encomiato! Probabilmente, e me lo auguro, per causa di quel libro è aperto un procedimento del Csm nei confronti della Piccininni. Ad ogni modo onestà intellettuale avrebbe imposto una astensione da parte del pm nell’assumere il fascicolo relativo alla nostra vicenda. Proprio lei.  Si sappia che abbiamo fatto le nostre indagini, che abbiamo ipotizzato cose gravi, e gli ultimi accadimenti sembrano confermarlo. Racconteremo tutto al momento opportuno. Nel pomeriggio del 4 luglio la sottoscritta è stata convocata dinanzi al pm Piccininni. Al mio avvocato non è stato consentito di assistere al colloquio con il magistrato che, prima di avviare la fonoregistrazione, mi ha rivolto un monito, a mio giudizio, psicologicamente intimidatorio. Che cosa mi ha detto il pm? “Lei non è indagata, ma se non dice la verità sarà indagata”. Quale verità, quella che avrebbe voluto sentire? Non mi intimoriscono certi metodi inquirenti. Gli ambienti nebulosi e ambigui di questa città e di questa regione, i protagonisti del malaffare,  sia io che il mio giornale li abbiamo sempre denunciati e continueremo a farlo. Qualcuno dovrà rispondere ai cittadini e alla Giustizia. Prima o poi.

Per quanto detto è doveroso dare spazio anche alla Curia di Potenza, attaccata dalla stampa di sinistra sul caso Claps. La Curia rompe il silenzio. Una lettera ai parroci di Potenza. Dall’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsiconuovo un invito a prendere coscienza sugli ultimi eventi che hanno investito in particolar modo l’arcivescovo Agostino Superbo, senza puntare il dito contro nessuno, scrive Alessia Giammaria su “Il Quotidiano web”. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Comincia con la citazione tratta dal Vangelo di Giovanni, la lettera che l’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Potenza-Muro Lucano-Marsiconuovo, ha spedito nella giornata di ieri al presbiterio locale. Al centro di questo documento - più che un dossier è una rassegna stampa di articoli usciti sui quotidiani regionali e nazionali con qualche commento - la nota vicenda Claps. Non è un atto di accusa contro nessuno. Questo è giusto ribadirlo ma «ci è sembrato  - è scritto nella lettera - che fosse giunto il “tempo favorevole” quantomeno per riflettere su quanto sta succedendo nella nostra diocesi». Un invito a prendere coscienza sugli ultimi eventi che hanno investito in particolar modo l’arcivescovo Agostino Superbo, senza puntare il dito contro nessuno. «Lungi da questo ufficio giudicare il lavoro giornalistico e della magistratura - è scritto  nella lettera - è doveroso portare alla vostra conoscenza tutta una serie di fatti certi, dimostrati e scritti sui media che, speriamo, possano dipanare dubbi, incertezze e perplessità che la tragedia della morte della povera Elisa Claps ha portato prima di tutto nella sua famiglia (a cui deve andare la nostra preghiera) e poi in tutta la Chiesa potentina con il suo carico di accuse e polemiche». Perchè adesso e non prima? L’arcivescovo - riprende la nota - da una parte «non è voluto mai scendere in polemica con nessuno. Su questo ha voluto mantenere un profilo basso incontrando chiunque avesse chiesto di parlare riferendo tutto ciò di cui era a conoscenza» dall’altra “doveva essere sentito dalla magistratura nell’ambito del processo». La rassegna stampa inizia con un articolo uscito proprio su “Il Quotidiano” il 17 giugno scorso, giorno della sua testimonianza nell’ambito del processo alla donne delle pulizie, in cui è scritto ciò che  Superbo ha sempre sostenuto e cioè che è venuto a conoscenza del ritrovamento di un cadavere all’interno della Chiesa della Santissima Trinità la mattina del 17 marzo 2010 (la certezza che si trattasse di Elisa l’ha saputa nel pomeriggio dello stesso giorno come ha avuto modo di spiegare durante il suo esame testimoniale) e che ha saputo da don Wagno che era salito nel sottotetto solamente due giorni dopo e cioè il 19 marzo. Circostanze non tenute nascoste, ma segnalate immediatamente agli investigatori già il 20 marzo 2010. La cosiddetta inchiesta bis che vuole far luce sul ritrovamento, parte infatti, proprio dalla segnalazione dell’arcivescovo che ha prima invitato don Wagno ad andare a raccontare tutto alla polizia per poi recarsi lui stesso in questura e nel medesimo giorno  a dire ciò di cui era a conoscenza. Il primo giornale a pubblicare il verbale di Superbo del 20 marzo integralmente è stato “Il Quotidiano”. Questo documento, riportato nella rassegna stampa dell’Ufficio comunicazioni sociali, è datato il 15 settembre 2011. Quasi tre anni fa. Come a dire che le parole dell’arcivescovo sono sempre state sotto gli occhi di tutti. La rassegna stampa si sofferma anche su alcuni sopralluoghi che gli inquirenti fecero all’interno della Trinità nel 2001 (ne parla un articolo di Repubblica del 28 marzo 2010) e del 9 novembre 2007 (sono riportati due articoli uno della “Gazzetta” e uno de “Il Quotidiano”). Non è un jaccuse nei confronti di chi investigò allora e non andò a ispezionare anche il sottotetto, piuttosto è la testimonianza che nessuno, tantomeno il parroco di allora don Mimì Sabia, ha mai vietato agli inquirenti di ispezionare la chiesa. Il documento dell’Ufficio comunicazioni sociali si sofferma anche su quelle parole  dette da Superbo che sono entrate nell’occhio del ciclone suscitando una scia di polemiche. Dal caso “cranio e ucraino”, all’incontro che ha tenuto con i sacerdoti a Satriano il giorno del  rinvenimento del corpo. Anche su questi fatti ritenuti da una parte dell’opinione pubblica “imbarazzanti”, l’Ufficio chiarisce la posizione dell’arcivescovo. Sul primo episodio si tratta di un dialogo avuto con don Don Wagno il giorno dopo il ritrovamento e cioè il 18 marzo (circostanza messa nero su bianco nel verbale del 20 marzo), su Satriano (nell’ambito della sua testimonianza è stato messo in dubbio che ci sia stato un incontro nel paese del Melandro visto che i tabulati delle celle telefoniche di Superbo in possesso del pm agganciavano solo Potenza e Tito n.d.r.) la questione è stata chiarita il 17 giugno, nell’ambito del processo, dall’avvocato delle donne delle pulizie - che invece era in possesso anche dei tabulati integrali - la quale porta a conoscenza della corte che il cellulare dell’arcivescovo ha agganciato anche la cella di Satriano. Altra questione affrontata nel documento, è la denuncia presentata da parte della famiglia nei confronti di Superbo. Non una notizia nuova. Anzi è piuttosto datata ma sarebbe ancora pendente. Ne parlò nell’agosto del 2012 il settimanale “Panorama”. I Claps accusavano l’arcivescovo - è scritto nell’articolo - di false dichiarazioni al pm, occultamento di cadavere chiedendo per questo anche un risarcimento danni. Risarcimento danni richiesto dai legali una prima volta nell’ambito del processo Restivo ma rigettato da gup, una seconda volta tramite una lettera del marzo 2012 in cui si invitava Superbo a “risolvere bonariamente la vertenza” per il “danno ingiusto risarcibile” “prodotto alla famiglia Claps”. La richiesta ritenuta  dall’ufficio legale dell’arcidiocesi «frutto di un evidente travisamento degli atti» è stata rimandata al mittente. Il documento si conclude con ciò che ha dichiarato Gildo Claps nell’ambito della sua testimonianza sempre del 17 giugno e cioè che: «La Chiesa - sono le parole usate durante l’udienza e riportate dai media - ha seppellito mia sorella sotto le menzogne» e su quello che ha sempre detto l’arcivescovo fin dal suo primo verbale datato 20 marzo 2010. Quella che per l’Ufficio comunicazioni sociali, riprendendo le parole dell’Arcivescovo sempre del 17 giugno 2014 scorso è «la sola e unica verità».

DALLA CORRUZIONE SESSUALE AL COMUNE, AI PROCESSI INGIUSTI, FINO AL CASO DI ELISA CLAPS.

Favori negli appalti a Melfi, ai domiciliari il sindaco Valvano. Ecco dove hanno portato le indagini della Dda, scrive “Il Quotidiano della Basilicata”. L'accusa è quella di aver messo in piedi «un sistema di malaffare all’interno del Comune di Melfi, con l'obiettivo - hanno spiegato gli inquirenti in conferenza stampa - di ottenere l’assegnazione di appalti e lavori pubblici in favore di imprese amiche o segnalate da amici o da politici del posto». L'accusa è quella di aver messo in piedi «un sistema di malaffare all’interno del Comune di Melfi, con l'obiettivo - hanno spiegato gli inquirenti in conferenza stampa - di ottenere l’assegnazione di appalti e lavori pubblici in favore di imprese amiche o segnalate da amici o da politici del posto». A beneficiarne, secondo gli investigatori, soprattutto alcune imprese riconducibili alla famiglia Caprarella. Il sindaco di Melfi, Livio Valvano, è tra le persone colpite da misure cautelari. Per Valvano sono stati disposti gli arresti domiciliari, mentre per D'Amelio, funzionario responsabile dell’area Infrastrutture e Mobilità del medesimo ente, è stato deciso l'arresto in carcere. L'inchiesta è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza ed è stata portata avanti dalla Polizia di Stato. «L’ordinanza - hanno aggiunto in conferenza il procuratore Luigi Gay e il pm Francesco Basentini - rappresenta l’epilogo di una vasta, complessa e articolata attività d’indagine condotta dal personale della Polizia di Stato di Potenza, snodatasi su molteplici fronti (attività di captazione sia telefoniche che ambientali, attività di acquisizione documentale, assunzione di sommarie informazioni), che ha consentito di acquisire una lunga e concreta serie di elementi oggettivi in ordine ad ipotesi di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, induzione indebita a dare o promettere beni ed utilità ed intestazione fittizia di beni ed altre utilità». Le indagini - hanno aggiunto gli investigatori - hanno scoperchiato un sistema che portava l'amministrazione «all'adozione di bandi ad hoc e illeciti affidamenti diretti, o ancora l’approvazione di perizie di varianti per lavori pubblici in corso d’opera in favore di imprese riconducibili alla famiglia degli imprenditori». Uno dei casi citati dagli inquirenti è legato a ribassi eccessivi in sede di gara. Come accaduto, per esempio, nel caso degli appalti per 36 alloggi e per la scuola “Nitti”: i lavori sono stati aggiudicati con ribassi anomali del 37,138% e del 38,650%, «che hanno portato nelle casse delle imprese e società facenti capo agli indagati oltre 6.000.000 di euro». Con la famiglia Caprarella e con le società e le imprese edili riconducibili alla stessa – quali ad esempio la “I.C.E.M. srl” di Melfi – il funzionario comunale, hanno detto ancora gli investigatori -  aveva avuto concreti e documentati rapporti economici già dal 2011, quando con le sorelle hanno venduto alla società un appezzamento di terreno edificabile sito in Melfi, per la somma di 75.000 euro.  «La compravendita del terreno veniva stipulata da parte del funzionario comunale indagato e delle sue sorelle dopo che lo stesso aveva già assunto l’incarico di direttore dei lavori per la realizzazione dei “36 alloggi” di edilizia popolare, la cui esecuzione era già in corso da parte della società “Caprarella Emilio s.r.l.». La prima reazione “politica” alla misura cautelare che ha interessato il primo cittadino del Comune di Melfi arriva dall’alto esponente socialista Bobo Craxi che su Twitter scrive “Forza Livio Valvano. Amministratore onesto e capace che ha risollevato Melfi”.

Corruzione sessuale al Comune di Potenza. Assessori nel mirino, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Corruzione» in cambio di favori sessuali. Le ragazze, molto giovani, tra i 20 e i 25 anni, venivano «offerte» dagli imprenditori. E finivano nelle camere da letto di due assessori del Comune di Potenza. «Non sono escort», spiegano gli investigatori che hanno scoperto un sistema per pilotare gli appalti. Intrecci tra imprenditori, politici e funzionari comunali con l’obiettivo di favorire un’impresa «amica» in cambio di soldi, viaggi e notti in albergo con escort. Ma anche con ragazze in cerca di un posto di lavoro. È il secondo capitolo dell’inchiesta «Vento del Sud». «Presto ci saranno sviluppi», aveva annunciato il procuratore facente funzioni Laura Triassi. E gli investigatori si sono messi a setacciare le relazioni dei due assessori e degli imprenditori che li contattavano. La Procura di Potenza, diretta da Laura Triassi, ha messo le mani su un sistema finalizzato a convogliare lavori pubblici verso un numero ristretto di aziende, potendo contare anche sulla complicità di funzionari e amministratori locali. Il raggio d’azione dell’operazione coinvolge Potenza, Pietragalla, Avigliano e Brienza. Su richiesta del pubblico ministero antimafia Francesco Basentini, il gip del tribunale potentino, Rosa La Rocca, una settimana fa tre provvedimenti di custodia cautelare ai domiciliari. Si tratta del consigliere comunale di Potenza, Rocco Fiore (Pd), di 38 anni – candidato «renziano» alle primarie del Pd per la scelta del segretario nazionale e dei candidati al Parlamento – indagato, però, nella carica di responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di Avigliano; Giuseppe Brindisi, 53 anni, dirigente del Comune di Potenza e segretario regionale della Basilicata dei Verdi; l’imprenditore Bartolo Santoro, 36 anni, amministratore dell’omonima azienda edile. È stato disposto, invece, il divieto di dimora nei Comuni di residenza per il consigliere e assessore comunale di Avigliano, Emilio Colangelo, per l’assessore comunale di Pietragalla, Canio Romaniello e per l’architetto del Comune di Brienza, Michele Giuseppe Palladino, mentre l'imprenditore Donato Colangelo, del capoluogo lucano, dovrà rispettare l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Sono stati inviati anche tredici avvisi di conclusione delle indagini per imprenditori, amministratori locali e funzionari tra i quali i sindaci di Pietragalla, Rocco Iacovera, e Brienza, Pasquale Scelzo, e l’assessore comunale del Pd di Avigliano Donato Sabia. Sono accusati, a vario titolo, di aver creato un meccanismo grazie al quale controllare le varie fasi delle gare d’appalto in provincia, decidendo a priori chi doveva aggiudicarsi i lavori. Come al Comune di Potenza: dove la «merce» di scambio per gli appalti erano giovani ragazze.

L'inchiesta sugli appalti truccati da un "cartello occulto" si allarga, scrive invece “Basilicata 24”. Dopo gli arresti disposti dal gip del tribunale di Potenza, scattati all'alba del 21 febbraio scorso, ecco che si apre un altro filone: quello della corruzione sessuale. Secondo gli inquirenti, infatti, imprenditori interessati ad accaparrarsi alcuni lavori pubblici, offrivano giovani ragazze a due assessori del comune capoluogo della Basilicata. Le ragazze usate come merce di scambio dagli imprenditori non sarebbero state vere e proprie escort ma giovani in cerca di lavoro finite però in un giro al limite della prostituzione. L'inchiesta sugli appalti truccati lo scorso 21 febbraio aveva portato all'arresto di tre persone e all'esecuzione di altre tre misure cautelari tra divieti di dimora e obbligo di firma. Ai domiciliari erano finiti Rocco Fiore, responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Avigliano e consigliere comunale del Pd a Potenza; Giuseppe Brindisi dirigente al Comune di Potenza e segretario regionale dei Verdi; l'imprenditore Bartolo Santoro. Per l'assessore del Comune d Avigliano, Emilio Colangelo, per il suo omologo al Comune di Pietragalla, Canio Romaniello il gip ha disposto il divieto di dimora nelle rispettive cittadine di residenza. Tra gli altri indagati, che in tutto sono 21, ci sono anche il sindaco d Brienza e un altro assessore comunale di Avigliano.

Già. E la giustizia come risponde?

Giustizia lumaca a Potenza, processi dal gennaio 2014 rinviati sino al 2021, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Gli avvocati sono troppi». Il distretto conta quasi 2.500 avvocati. E la Corte d’appello di Potenza è in affanno. I giudici «hanno avuto modo di rilevare che almeno il 15 o 20 per cento delle nuove iscrizioni riguarda vertenze che non hanno ragione di esistere». È questa la causa dei rinvii al 2021 dei procedimenti civili in appello. Almeno secondo il presidente della sezione civile Ettore Nesti. Il giudice invita i colleghi a un dibattito «caratterizzato dai toni pacati». Gli interventi non sono mancati. Il presidente della Camera penale di Basilicata Savino Murro ha scritto al presidente del Tribunale per segnalare che da quando c’è stato l’accorpamento con Melfi e Sala Consilina i problemi legati alle udienze sono cresciuti. E l’altro giorno uno dei consiglieri dell’ordine degli avvocati, Carmela Gioscia, ha inviato ai colleghi una lunga lettera. «Non ha avuto alcun senso dichiarare di aderire alla proclamata astensione per poi rimanere inerti il giorno in cui tanti Colleghi, in ogni parte di Italia, organizzavano presidi, forme alternative e coinvolgenti di proteste, e, soprattutto, affrontavano i problemi dell’Avvocatura e della giustizia stessa, con adesioni di rilievo della magistratura più attenta, la quale, mettendo da parte le divergenze legate alle rispettive funzioni, ha condiviso le giuste proteste». Secondo l’avvocato Gioscia «vedere che il legislatore ha previsto, per esempio, che per dar torto in appello basti un’udienza, mentre per dar ragione si può aspettare anche un paio di lustri, partendo dal presupposto che in entrambi i casi il giudice dovrebbe studiare il processo, scopre l’intento di scoraggiare il ricorso alla giustizia, violando palesemente il diritto di difesa e operando incostituzionali, palesi disparità di trattamento. E scoraggiare il ricorso alla giustizia è una forma di negazione della giustizia stessa ed è cosa inconcepibile per uno Stato che si proclama civile, democratico, moderno e, soprattutto, di diritto. Arrivare, poi, a immaginare un pagamento aggiuntivo per scoprire le ragioni di una decisione, è poi aberrante, oltre che anticostituzionale. Pensare ad una forma di responsabilità solidale dell’avvocato con il cliente per lite temeraria è inaccettabile, ma non per garantire una irresponsabilità dell’avvocato, bensì per evitare una lesione della sua dignità professionale e perché ciò lo farebbe diventare parte in un giudizio in cui parte non è, minimizzando e riducendo il suo ruolo di difensore. In Basilicata, poi, i problemi aumentano, perché a quelli di tutti, si aggiungono i problemi di una giustizia lenta in maniera inaccettabile, con una parte dei magistrati ufficialmente schierati contro l’avvocatura, che ritengono troppo numerosa, di scarsa qualità e capace solo di alimentare un inutile contenzioso. Questo giudizio, contenuto in una nota ufficiale spedita a tutti gli ordini di Basilicata, merita una risposta precisa perché ingiusto, inopportuno e soprattutto perché mina alle basi quel concetto di terzietà assoluta, senza contare che è un giudizio che presuppone, finanche, una sorta di infallibilità che, non può essere di chi, per legge, emette provvedimenti comunque riformabili, e spesso riformati». Sono gli avvocati a intralciare la giustizia? «Questo giudizio - sostiene l’avvocato - è intollerabile, gratuito e rispondente a deplorevole demagogia, malcelato tentativo di addossare la maggiore responsabilità del cattivo funzionamento della giustizia e dell’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari principalmente agli avvocati, senza tenere in alcuna considerazione il servizio da loro reso quotidianamente per assicurare a tutti una effettiva difesa e le risorse economiche che costantemente l’avvocatura immette per tentare di ovviare alle gravi carenze di mezzi, strumenti e perfino materiali d’uso comune, i cui oneri dovrebbero essere assicurati dai pesanti costi richiesti per l’accesso alla giustizia. Con totale svilimento della funzione difensiva, determinato e reso ancor più sensibile, quanto intollerabile, dalla pratica giudiziaria quotidiana, nella quale all’avvocato si chiede di assumere un ruolo di supplenza rispetto alle carenze organizzative degli uffici».

E poi il caso Claps.

Potenza, caso Claps: riaperto il caso della poliziotta "suicida". La donna fu trovata morta impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio il 12 marzo 2001, scrive TGcom24. Quello di Anna Esposito è un suicidio dai molti lati oscuri: la donna, 35 anni, dirigente della Digos della Questura di Potenza, fu trovata impiccata il 12 marzo 2001 alla maniglia della porta del bagno nel suo alloggio nella caserma Zaccagnino. Solo la perseveranza dei familiari ha permesso che a distanza di dodici anni il caso sia stato riaperto. Ora l'ipotesi di reato è quella di omicidio volontario. Quella di Anna da subito era stato catalogato come un suicidio anomalo, a partire dalle modalità. La donna, come racconta il quotidiano "La Stampa", sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri e l'ansa di scorrimento del cinturone invece che nella parte posteriore del collo era sul lato destro. A destare perplessità anche alcuni elementi scoperti durante le indagini effettuate subito dopo la morte della poliziotta: le pagine mancanti dalla sua agenda, l'abito da sera che era stato trovato sul letto, come se la donna si stesse preparando per uscire, e, soprattutto il fatto che l'abitazione e l'ufficio di Anna fossero stati "perquisiti" da qualcuno prima dell'arrivo della polizia. Un altro inquietante sospetto, anche se al momento escluso dalla procura, sarebbe venuto dall'ipotesi di un collegamento con il caso Claps: Gildo Claps, fratello di Elisa, scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, ha raccontato infatti di una telefonata ricevuta proprio da Anna Esposito per fissare un appuntamento. L'incontro sarebbe dovuto avvenire il giorno stesso della morte della poliziotta. Secondo la madre di Anna, la figlia le avrebbe rivelato che qualcuno nella Questura di Potenza sapeva dove fosse sepolta Elisa.

Elisa Claps: riaperte le indagini sulla morte di Anna Esposito: è stato un omicidio? Si chiede Daniele Particelli. A distanza di quasi 13 anni la Procura di Potenza ha deciso di riprendere in mano i fascicoli sulla morte di Anna Esposito, la dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata morta all’età di 35 anni il 12 marzo 2001 in quello che fin dai primi istanti era sembrato un caso anomalo di suicidio. La famiglia della donna ha chiesto per anni la riapertura del caso, sostenendo che Anna Esposito fosse stata uccisa e anche grazie all’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara, ora agli atti della Procura, il caso si può considerare riaperto. L’ipotesi di reato è omicidio volontario. Il corpo senza vita della donna, madre di due figlie, fu rinvenuto legato alla porta del bagno dell’alloggio nella caserma Zaccagnino e qui cominciano i particolari oscuri. Scrive oggi La Stampa: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Tanti altri elementi fanno pensare che non si sia trattato di un suicidio. Anna, ne sono certi i suoi familiari, non aveva motivi per togliersi la vita. Nell’abitazione, sul letto, gli inquirenti hanno rinvenuto un abito da sera, segno che la donna si stava preparando per uscire. E, ancora, il fatto che l’alloggio fosse stato “perquisito” prima dell’arrivo degli inquirenti. Mancano all’appello, inoltre, alcune pagine del diario in cui Anna Esposito era solita annotare la propria vita e i propri spostamenti. Di quelle pagine, ad oggi, nessuna traccia. A questo si aggiungono le minacce che la donna riceveva costantemente ormai da tempo e, non ultimo, il collegamento col caso di Elisa Claps, la giovane uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere nel marzo 2010. Esposito, lo ha rivelato sua madre qualche tempo dopo, era convinta che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. Un altro particolare inquietate, proprio collegato a Elisa Claps. Quel tragico 12 marzo 2001, Esposito avrebbe dovuto incontrare Gildo Claps, fratello della giovane uccisa, ma poche ore prima di quell’appuntamento venne trovata cadavere. Gli elementi per sospettare un omicidio mascherato da suicidio ci sono, ora spetta agli inquirenti il compito di chiarire i punti oscuri e, nel caso in cui dovesse venir accertato l’omicidio, identificare il responsabile.

Caso Claps, sospetti sul suicidio della poliziotta. Potenza, si indaga sulla morte di Anna Esposito. Quel giorno doveva incontrare il fratello di Elisa, scrive Antonio Salvati su “La Stampa”. Quando ne scoprirono il corpo, accanto c’era una penna ma nessun biglietto. Nella sala da pranzo, su un tavolo, un vestito da sera, nero, e un paio di scarpe eleganti. Il letto era in ordine e la luce del comodino illuminava due cellulari e due biglietti ferroviari. È la mattina del 12 marzo del 2001. Anna Esposito, 35 anni, dal 1998 dirigente della Digos della questura di Potenza, viene ritrovata senza vita nel suo alloggio all’interno della caserma Zaccagnino. Ha passato la domenica con le due figlie a Cava dei Tirreni, nel Salernitano, cantando a squarciagola canzoni di Gigi D’Alessio. Poi, stando alla versione ufficiale, torna a Potenza e con il cinturone della sua divisa si impicca alla maniglia della porta del bagno. Suicidio, furono le conclusioni delle indagini che durarono qualche mese. Ora, a distanza di dodici anni, il suo caso è stato riaperto, grazie alla tenacia dei familiari e a un’inchiesta giornalistica di Fabio Amendolara (raccolta nel libro «Il segreto di Anna») messa agli atti della Procura di Potenza. L’ipotesi di reato è omicidio volontario e gli investigatori (il procuratore facente funzioni Laura Triassi ora ha in mano il fascicolo in seguito al recente trasferimento del pm Sergio Marotta che ha ottenuto la riapertura del caso) hanno riletto le carte di un’inchiesta dai tanti lati oscuri. A partire dalle modalità di un suicidio che anche i medici legali indicarono come atipico: Anna sembrava seduta a terra, ma il corpo era sospeso di pochi centimetri, l’ansa di scorrimento del cinturone (lungo poco meno di un metro) era sul lato destro invece che nella parte posteriore del collo. Anche nella perizia chiesta dal pm Marotta, e depositata a dicembre scorso, gli esperti che hanno visionato le foto scattate nell’alloggio di servizio e durante l’autopsia hanno palesato le loro perplessità. Lo stesso pubblico ministero che allora curò le indagini (il pm Claudia De Luca) scrisse nelle tre pagine di motivazioni alla chiusura del caso che «occorre però rappresentare che dei passaggi non chiari nella vicenda fattuale comunque restano». Come, ad esempio, i biglietti del treno e le rubriche dei due telefoni cellulari. E quelle pagine dell’agenda (Anna teneva un diario quotidiano dove annotava in maniera minuziosa tutta la sua giornata) strappate in tutta fretta e mai ritrovate. E l’abito da sera? E i messaggi di minacce che la poliziotta riceva continuamente? Senza contare, poi, che «l’abitazione era stata già rovistata da una serie di persone presenti che aveva proceduto anche a raccogliere alcuni elementi di prova - scrisse il pm De Luca - Così come era già stato rovistato, a parere di chi scrive, l’ufficio della dottoressa Esposito in Questura». Ma c’è dell’altro: Gildo Claps, fratello di Elisa, la ragazza scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, riferì di una telefonata in cui Anna Esposito chiedeva un appuntamento. Incontro mai avvenuto perché fissato il giorno stesso in cui fu trovata senza vita. Un anno dopo la scoperta del cadavere di Elisa Claps, la madre di Anna, rivelò a Gildo che la figlia le avrebbe confidato che nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove la ragazzina era stata sepolta. I sospetti sui collegamenti tra i due episodi sono stati esclusi la scorsa estate dalla procura di Salerno che ha rispedito gli atti in Basilicata per la competenza territoriale. 

Si apre il 4 febbraio 2014 un nuovo capitolo del caso Claps. Un tassello importante che potrebbe contribuire a fare chiarezza almeno su alcuni dei tanti interrogativi che aspettano una risposta da oltre vent’anni. Prende il via questa mattina in tribunale a Potenza, il processo nei confronti di Annalisa Lo Vito e Margherita Santarsiero, le donne delle pulizie della Chiesa della Santissima Trinità accusate di false dichiarazioni al pubblico ministero per aver mentito sul ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto, avvenuto ufficialmente il 17 marzo del 2010. Un processo frutto dell’inchiesta bis della procura di Salerno sull’omicidio della sedicenne potentina, relativa proprio alle circostanze che portarono alcuni operai a ritrovare i resti di Elisa Claps in un angolo buio e sporco del sottotetto della Chiesa dove la giovane era stata vista per l’ultima volta. Un processo iniziato nei mesi scorsi a Salerno davanti al giudice Antonio Cantillo, ma poi trasferito nel capoluogo lucano per competenza territoriale. Ad occuparsene sarà un giudice onorario (Got) e non un magistrato. Un ulteriore “anomalia” portata anche all’attenzione del presidente del Tribunale di Potenza, perchè da questo processo, soprattutto grazie ad una lunga lista di testimoni, la famiglia Claps si augura di sciogliere i dubbi che ancora restano sul ritrovamento del cadavere di Elisa. La scelta è stata però confermata e questa mattina il processo dovrebbe prendere regolarmente il via. L’attenzione si concentrerà proprio sulla lista dei testimoni, nella quale dovrebbero trovare spazio anche il vescovo Agostino Superbo e il Questore di Potenza, Romolo Panico.

Caso Claps, parla Danilo Restivo. L'unico indagato per la morte della studentessa di Potenza si difende: "Credevo fosse viva". «Sono rimasto colpito, perché ho sempre ritenuto che Elisa fosse viva da qualche parte». A parlare è Danilo Restivo, l'unico indagato per la morte della giovane studentessa di Potenza scomparsa e uccisa nel 1992. L'uomo, che si è sempre professato innocente, ricorda la ragazza e ripercorre vecchi momenti davanti alle telecamere di "Quarto grado", in onda domenica 16 maggio su Retequattro. Restivo descrive Elisa come «una buona d'animo, gentile e sensibile».  E si difende: «Ho detto tutto quello che sapevo e che ho fatto quella domenica pur non essendo stato creduto per qualche imprecisione dettata dallo stato d'animo di quando venivo interrogato per la prima volta in vita mia in questura dai poliziotti e anche quando ho fatto la dichiarazione alla tv». Sul trattamento che gli hanno riservato i media si dice «disgustato dal modo di fare informazione e giornalismo di certi individui della televisione ed anche della carta stampata che, pur di fare audience e vendere copie di giornali, nemmeno controllano o se le inventano le fonti della notizia».

Londra non vuole criminali, e si riaccende il caso Claps, come scrive Pierangelo Maurizio su Libero: Se l’Italia è la culla del diritto, la Gran Bretagna è certamente la patria dei diritti. Eppure, senza che questo susciti scandali, petizioni e titoloni, non ci hanno pensato un attimo. Gli inglesi vogliono rimandarci Danilo Restivo, l’ex ragazzo di Potenza, ora uomo di 42 anni, che sta scontando una condanna definitiva ad un minimo di 40 anni in una prigione di massima sicurezza del Regno Unito, per uno degli omicidi più atroci, l’omicidio di Heather Barnett, e condannato in Italia a 30 anni per l’uccisione di Elisa Claps, trovata nel sottotetto della chiesa della Santa Trinità a Potenza 17 anni dopo che era sparita. Le autorità britanniche hanno avviato la procedura di, letteralmente, “deportazione”, equivalente alla nostra espulsione dal territorio nazionale. Hanno avuto le prime notizie ancora incomplete i difensori italiani, il professor Alfredo Bargi e l’avvocato Marzia Scarpelli. «Siamo in contatto con la collega che in Inghilterra segue il caso. Siamo in attesa di ricevere la documentazione e la traduzione degli atti. Di certo è una procedura abbastanza insolita» dichiara Alfredo Bargi, il legale che insieme a Marzia Scarpelli ha difeso Restivo nel processo d’appello a Salerno per l’omicidio di Elisa. Ma è una vicenda, comunque si concluda, destinata a far discutere. E pure parecchio. La “deportazione” è un provvedimento di natura amministrativa ed è avviata dal Home Office, il ministero dell’Interno. L’udienza preliminare si è già tenuta di fronte al Tribunale dell’immigrazione un paio di settimane fa. La prossima udienza – quella decisiva – è prevista per aprile 2014; poi la sentenza di primo grado. Nel sistema giudiziario anglo-sassone i ricorsi non sono automaticamente accolti; nel giro di alcuni mesi la procedura dovrebbe concludersi e per Danilo Restivo il rischio è piuttosto elevato di essere rispedito in Italia, sulla base di recenti norme britanniche, secondo le quali la patria dell’habeas corpus non considera illegittimo rimpatriare i criminali. Senza complimenti. E senza la permanenza (fino a 18 messi) nei nostri Cie. Ed è la riflessione di carattere generale. Nel caso specifico a difendere Restivo e ad opporsi alla “deportazione” è l’avvocato Gabriella Bettiga. Quella che si vuole applicare al detenuto italiano se non è eccezionale, nel senso che non è fuori dalle regole, è una misura – a detta di tutti gli esperti – certamente non usuale. Dal 2007 il Regno Unito ha dato un deciso giro di vite. Dopo furiose polemiche sul fatto che delinquenti stranieri usciti dal carcere continuassero a godere dell’accoglienza inglese, è stato stabilito che la “deportazione” scatti automaticamente, a pena scontata, per coloro che provengono dai Paesi europei. Per i cittadini europei invece la procedura non è affatto automatica. Può essere avviata dall’Home Office, generalmente finita la pena, in caso di gravi reati e per motivi di sicurezza nazionale, ordine pubblico o salute pubblica. E qui emergono le due anomalie. Restivo è ben lontano dall’aver espiato la condanna, prima all’ergastolo “senza più possibilità di uscire” poi ridotta ad un minimo di 40 anni. L’altra obiezione sollevata dai difensori è la seguente: «Ci chiediamo: quale pericolo rappresenta Restivo se è richiuso in un carcere di massima sicurezza?». Il delitto di Heather Barnett per la sua ferocia tuttora resta una ferita per la tranquilla cittadina di Bournemouth, nel Sud dell’Inghilterra. Alla vittima furono tagliati i seni, adagiati accanto alla testa, l’assassino fece in modo che il suo corpo martoriato nel bagno fosse ritrovato dai figli al ritorno da scuola. «Tu sei un assassino freddo e calcolatore, tu hai macellato la loro madre» disse il giudice a Danilo Restivo. La condanna particolarmente dura aveva un doppio scopo: dimostrare che lo Stato esercita in modo esemplare l’azione penale e risarcire delle sofferenze subite i familiari della vittima. Ora invece le autorità britanniche hanno una certa urgenza di farlo tornare in Italia. Una delle tante stranezze nella lunga storia del “caso Restivo”. Che inevitabilmente riaccenderà in Italia le polemiche. Visto che i due processi, con il rito abbreviato cioè a porte chiuse, che lo hanno condannato a Salerno a 30 anni, hanno aperto più dubbi di quanti ne abbiano risolti. Uno per tutti: quando fu realmente ritrovato il cadavere di Elisa nella chiesa? Chi sapeva e ha taciuto?

In occasione del 21° anniversario dell'omicidio di Valerio Gentile, al Laboratorio Urbano di Fasano si ricorderà la storia di un'altra giovane vita spezzata nel fiore dei suoi anni: quella di Elisa Claps, sedicenne lucana scomparsa nel 1993 e ritrovata cadavere solo nel 2010. L'appuntamento, in programma per venerdì 14 marzo 2014, alle ore 18.30, sarà dedicato alla presentazione del volume "Per Elisa. Il caso Claps: 18 anni di depistaggi, silenzi e omissioni", scritto da Gildo Claps, fratello della ragazza, e  da Federica Sciarelli, giornalista e conduttrice del programma televisivo Chi l'ha visto. Il volume, edito da Rizzoli, analizza nel dettaglio il brutale 'caso Claps', ripercorrendo la vicenda dall'inizio e portando in luce anche le verità nascoste nei lunghi anni di ricerca e di giustizia. Il fratello di Elisa, nonchè coautore del volume, sarà intervistato da Chiara Spagnolo, giornalista de La Repubblica.

Gildo Claps candidato a sua insaputa. Avanza su Fb il nome del fratello di Elisa. Giulio Laurenzi, vignettista potentino, ha lanciato sul social network la candidatura del fratello di Elisa Claps a sindaco di Potenza, scrive "Il Quotidiano della Basilicata". La proposta sta raccogliendo parecchi consensi. L'8 febbraio 2014 verrà reso noto un primo elenco di sostenitori. UNA candidatura «a sua insaputa», per offrire un candidato sindaco alternativo ai nomi che solitamente circolano. Un appello pubblico «per chiedere a Gildo Claps di candidarsi sindaco della città di Potenza. Per chi, come me, si sentirebbe rappresentato dalla sua forza, intelligenza e tenacia.  Prendo il coraggio a due mani e ci provo, a sua insaputa. Giulio Laurenzi». Così Giulio Laurenzi, vignettista potentino ormai proiettato al nazionale, prova a offrire la sua alternativa. Tra le varie candidature che si vanno palesando in questi giorni, quindi, questa potrebbe essere una di quelle in grado di vivacizzare la campagna elettorale, perchè Claps è considerato un rappresentante forte della società fuori dai partiti. Una proposta che per ora porta solo la firma di Laurenzi, ma che su Facebook - è stata creata la pagina “Gildo Claps sindaco” - sta già raccogliendo diversi consensi. In effetti già cinque anni fa la candidatura di Gildo Claps venne avanzata. Lui stesso, però, dopo poco tempo ritirò la candidatura dopo che qualcuno l’aveva accusato di strumentalizzare la vicenda di sua sorella Elisa. Ma stavolta le cose potrebbero andare diversamente. E benchè non si sappia ancora cosa Gildo Claps pensi di questa candidatura, sono in molti a ritenere su Fb he questa potrebbe essere la proposta migliore. Per il momento si raccolgono le firme per l’appello: un primo elenco sarà reso pubblico il prossimo 8 febbraio.

Un gruppo di cittadini di Potenza ha proposto la candidatura a sindaco, nelle amministrative che si svolgeranno in primavera, di Gildo Claps, il fratello di Elisa, la ragazza uccisa nel 1993, il cui corpo è stato ritrovato nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità nel 2010, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La proposta è nata dal fumettista Giulio Laurenzi, ed è stata illustrata stamani a Potenza, nel corso di un incontro. L'idea, ha spiegato Laurenzi, è nata in un pomeriggio domenicale «nel mio negozio di fumetti, durante un’iniziativa, in un momento di pausa: ho acceso il pc e ho lanciato l’appello in rete, su Facebook. Il mio timore era di restare solo ma i contatti sono stati tantissimi». Sono già un centinaio, in pochi giorni, le firme ricevute: la pagina Facebook ha raccolto 800 adesioni e ventimila contatti. «Domani proporremo a Gildo - ha concluso – la nostra iniziativa e poi lo lasceremo decidere, ma tutto si svolgerà in trasparenza, perchè abbiamo diritto a un sindaco onesto, e soprattutto sarà un segnale per la città».

“Pronto sono Papa Francesco”. Una voce rassicurante, calorosa e paterna. Una sensazione che mamma Filomena non provava da molti anni e che l’ha fatta sorridere dopo tanto tempo, scrive Mara Risola  su  “La nuova del Sud”. Come un raggio di sole che fa capolino tra nuvoloni neri durante la tempesta. La notizia della telefonata che Papa Francesco ha fatto nei giorni scorsi a Filomena Iemma, madre della giovane studentessa potentina, Elisa Claps, scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 il cui cadavere è stato ritrovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della Chiesa della Trinità di Potenza, ha trovato conferma nelle parole della stessa signora Iemma. Intervistata da Paolo Fattori, giornalista del noto programma televisivo “Chi L’ha visto”, mamma Filomena ha raccontato ai microfoni di Rai 3 la sua personale esperienza. L’intervista, andata in onda lo scorso mercoledì, ha permesso alla madre di Elisa di esternare il suo riconoscimento nei confronti di un gesto che mai si sarebbe aspettata. Papa Francesco ha fatto quello che la Chiesa Cattolica doveva fare da tempo. Aiutare la famiglia Claps non solo a trovare la verità, ma a riconciliarsi con un’Istituzione verso la quale per circostanze legate alla morte di Elisa e al suo ritrovamento, la famiglia Claps non riusciva più ad avere fiducia. E lo ha fatto in un momento molto delicato, il 20 gennaio alle ore 19, Papa Bergoglio ha composto il numero di cellulare di Filomena, due giorni prima la morte di Antonio Claps, padre di Elisa. Un uomo che ha sofferto in silenzio per la perdita di una figlia e soprattutto per l’assenza di verità. E senza quella verità ha raggiunto Elisa in cielo lo scorso 22 gennaio.

Adottiamo questa città, iniziando dai suoi parchi. Non è solo colpa degli altri: i rifiuti li lasciano i cittadini, scrive Antonella Giacummo su “Il Quotidiano della Basilicata”. Se noi cittadini provassimo a prenderci cura della città? Siamo così abituati a dare la colpa agli altri che abbiamo perso la capacità di prenderci, da cittadini, le nostre responsabilità. E così, vedendo la sporcizia delle nostre strade o dei nostri parchi, senti dire: “Che schifo questo Comune, paghiamo solo tasse per avere rifiuti da tutte le parti”. Breve passeggiata all’interno del Parco di Macchia Romana dedicato a Elisa Claps. E’ un luogo davvero bello, come in città ce ne sono pochi. C’è verde, alberi, tanto spazio per passeggiare, correre. Però poi ti colpisce l’incuria. Perchè tutto quel verde è sporcato da ogni genere di rifiuto. Ci sono bottiglie, buste di patatine, cartoni della pizza, piatti e bicchieri. Insomma, evidentemente quelli che il parco lo frequentano, pranzano e cenano in quel luogo. Ma siccome devono aver insegnato loro che ciò che è pubblico non è “roba nostra”, dopo aver banchettato buttano lì a terra quanto non serve. Non solo: siccome devono trovare particolarmente divertente la distruzione del parco, ti capita di trovare anche le lattine dentro le fontane che da poco sono state sistemate, dopo diversi atti vandalici. Allora una considerazione: è davvero sempre colpa del Comune se è tutto rotto o sporco? Io credo di no. E ribadisco che se il fazzoletto sporco lo butto a terra invece che nel cestino sono io l’incivile, non il Comune. E se fra qualche mese quel parco, come altri in città, sarà in condizioni ancora peggiori, se le fontane non funzioneranno o le altalene saranno spezzate, la colpa sarà anche nostra che non abbiamo saputo vigilare su un bene pubblico. Essere cittadini significa avere rispetto e cura per quello che è di tutti. E non è un modo di dire: un parco è un bene che erediteranno i prossimi cittadini se saremo in grado di insegnare loro la cura per ciò che non ci appartiene in maniera individuale. La “cosa pubblica” è un privilegio che dovremmo essere in grado di custodire e proteggere. Se non siamo in grado di farlo allora non siamo cittadini. E non abbiamo neppure il diritto di sbraitare contro amministratori e politici vari. E faccio allora una proposta: adottiamola questa città. Ne siamo parte, viviamola ma proteggendola. E proviamo, da cittadini, a riprenderci quello come altri spazi. Non aspettiamo che arrivi il Comune - che forse non arriverà - armiamoci di sacchi e guanti e riprendiamoci la nostra città e i suoi spazi. Se non saremo in grado di farlo rischiamo di restare i più infelici d’Italia per sempre.

POTENZA INQUINATA? PEGGIO DI TARANTO E MARGHERA.

Sider, quello che si poteva fare e quello che non è stato fatto. Da Bucaletto, al sequestro del giudice Materi alla delibera per la delocalizzazione, scrive Alessia Giammaria su “Il Quotidiano della Basilicata”. Se improvvisamente si è scoperto che la SiderPotenza sprigiona diossine che superano di due volte quello che è il livello minimo di allarme, per assurdo bisogna dire grazie alla Regione Basilicata che lo scorso febbraio, dopo circa sei anni di istruttoria, ha concesso all’azienda, oggi di proprietà del gruppo Pittini, l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) dopo aver ottenuto anche il via libera dal Comune e dalle autorità sanitarie. Proprio grazie all’Aia, per legge, infatti,  si è provveduto - lo prescrive la legge -  a installare tre centraline di rilevamento: una a Bucaletto, nelle immediate vicinanze dello stabilimento, un’altra a rione Betlemme sul tetto dell’edificio dell’Asp e una terza in un punto più lontano: a Rossellino. Centraline che hanno cominciato a catturare le polveri presenti nell’aria. Polveri che poi sono state inviate all’Arpa Puglia, in virtù di un protocollo sottoscritto con l’Arpa Basilicata, che da poco si è dotata di un laboratorio di analisi per verificare la presenza di diossine nell’aria. E così Potenza ha dovuto prendere atto - i numeri sono messi nero su bianco - che si trova a dover fare i conti con un mostro che, leggendo i dati di inquinamento di impianti come Fenice piuttosto che il siderurgico di Porto Marghera, fa impallidire anche l’Ilva di Taranto.  E così oggi ci troviamo di fronte a un problema - di salute pubblica in primis  - che si sarebbe potuto evitare se solo la classe politica avesse adottato misure sensate. E le occasioni, negli anni, non sono mancate. Innanzitutto va detto che se oggi la Sider si trova nel bel mezzo della città la colpa non è dell’impianto. Quando la siderurgia approdò nel capoluogo - parliamo della fine degli anni Sessanta - viale del Basento era periferia. Oltre la casa circondariale, infatti, non c’era nulla o quasi. Sicuro non c’erano tutte le abitazioni e le palazzine che vediamo oggi, compreso l’edificio che oggi ospita l’Asp dove, per ironia della sorte, è stata sistemata una delle tre centraline e dove si effettuano le vaccinazioni ai bambini. Il 23 novembre del 1980 c’è il terremoto. C’era la necessità di sistemare i prefabbricati per ospitare quanti avevano visto le loro abitazioni distrutte dal sisma. C’è chi propone, nel corso di un vertice alla presenza dell’allora ministro alla Protezione civile, Giuseppe Zamberletti, di sistemare i prefabbricati a Piani del Mattino. Passò, invece, la “mozione” Bucaletto. Prima mossa sbagliata di una lunga serie. Prima la ricostruzione e poi, intorno al 1989 - all’epoca il sindaco era  Gaetano Fierro -  approvazione della variante al Piano regolatore della città. Nel novembre del 1989 la magistratura prova a occuparsi della questione Sider che nel frattempo era stata acquistata dal gruppo Lucchini. Il giudice  Pasquale Materi ordina il sequestro dello stabilimento. All’allora direttore fu contestato il reato di disastro doloso continuato. Il magistrato gli contestò di non aver impedito che, a causa dell’inadeguatezza di alcuni impianti antinquinamento, si determinassero, all’interno e all’esterno dello stabilimento, condizioni di pericolo per la pubblica incolumità. L’inchiesta finì con l’archiviazione e dopo poco il giudice Materi venne anche trasferito. Intorno alla Sider continuarono a spuntare come funghi palazzine su palazzine che trasformarono la periferia in una zona abitata. Zona che con gli anni è diventata parte integrante della città e dove non si contano più le nuove abitazioni costruite. Per non dire di Bucaletto che, cessata l’emergenza post terremoto, non è stata mai abbattuta. Anzi, oggi, grazie al “Piano città” si è pensato bene di costruire due palazzoni per fronteggiare l’emergenza abitativa per le fasce più deboli. Nei primi anni Novanta in Regione, presidente Tonio Boccia, si comincia a ragionare sulla delocalizzazione dell’impianto. Alcuni propongono la Valle di Vitalba - proposta bocciata dal gruppo consiliare del Pci - poi viene approvata una delibera - oggi ancora valida - in base alla quale, d’accordo anche il consorzio Asi - lo stabilimento avrebbe potuto trovare spazio nella zona industriale di Tito scalo. Poi qualcuno caccia dal cilindro il progetto dell’Interporto. Progetto che, come è noto, è finito su un binario morto. E così l’impianto siderurgico  oggi di proprietà della Pittini - che a onore del vero non si è mai detta contraria a una delocalizzazione - continua a inquinare. E dire che il Comune non solo avrebbe potuto, insieme all’Asi, dare seguito alla delibera della Regione, ma poteva anche, come accaduto per Genova e Porto Marghera, chiedere e ottenere finanziamenti ad hoc per la delocalizzazione dello stabilimento.

“La Ferriera, la Syndial e i monitoraggi Arpab top secret”, scrive Maurizio Bolognetti, Direzione Radicali Italiani e Consigliere Associazione Coscioni. L’Arpa Basilicata non si smentisce mai. E così alcuni dati inerenti i monitoraggi ambientali effettuati dall’Agenzia continuano ad essere top secret, faccenda riservata a pochi iniziati. Cercare sul sito dell’Arpab i dati inerenti il monitoraggio delle diossine emesse dagli impianti della Ferriera di Potenza o i dati inerenti le analisi chimico-fisiche effettuate nell’area diaframmata della Syndial di Ferrandina è come partecipare a una caccia al tesoro truccata. Truccata perché in realtà il tesoro non c’è: Raffaele Vita lo ha seppellito probabilmente in una qualche isola del Mediterraneo. Peggio mi sento se poi penso che da martedì 17 dicembre attendo una risposta alla richiesta di accesso agli atti, inoltrata a mezzo Pec agli uffici dell’Arpab e al Dipartimento Ambiente della Regione. Dopo 23 giorni nemmeno un pallido riscontro. Siamo alle solite, appunto. Il diritto alla conoscenza, al poter conoscere per deliberare continua ad essere sequestrato e il Presidente Pittella, il nuovo che è “avanzato”, si è guardato bene dall’intervenire su uno status quo che stancamente si ripete da lustri. Tocca rassegnarsi, ogni volta che un cittadino rivendica il sacrosanto diritto a poter sapere è necessario ingaggiare una lotta senza quartiere con i detentori di informazioni che in teoria dovrebbero essere di pubblico dominio.

È una situazione devastante, scrive Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Al punto da spingere Massimo Zucchetti, uno dei maggiori esperti italiani in tema di inquinamento, a sentenziare che neppure per siti come Taranto o Porto Marghera si raggiungono valori di diossina e Pcb riscontrati in uno dei punti di monitoraggio sistemati a Bucaletto, nel giardino privato della famiglia Mancaniello. La Ferriera di Potenza come l’Ilva. Più dell’Ilva, dunque. Si aspettano i risultati del terzo «step» di rilievi che l’Arpab riceverà dai laboratori di Taranto, nella speranza che i dati siano meno impattanti rispetto ai precedenti resoconti grazie ad una speciale cappa sistemata sulla fabbrica siderurgica. Ma, secondo il comitato «Aria pulita» di Potenza, è tutto inutile. Anche perché proprio i precedenti rilievi hanno dimostrato che l’inquinamento procede nonostante gli impianti spenti, segno evidente che le polveri derivanti dalla lavorazione avvolgono la struttura e sono pronte a liberarsi nell’aria al primo alito di vento. Basta un dato per spiegare questa teoria: a rione Betlemme i livelli di benzoapirene, uno degli inquinanti più cancerogeni, nel primo monitoraggio hanno toccato quota 15,78 nano grammo per metro cubo d’aria, mentre nel secondo, a fabbrica in stand by, è schizzato a 27,12. Insomma, a questo punto è davvero inutile aspettare il responso della terza campagna di misurazione, sperando negli effetti «benefici» della cappa della Ferriera. L’unica soluzione possibile, secondo gli ambientalisti, è la delocalizzazione dell’azienda, non ci sono altre strade. Lo ha ribadito ieri mattina Luciana Coletta del comitato «Aria pulita» che ha presentato un documento in cui Zucchetti analizza gli ultimi dati dell’Arpab sull’impatto della fabbrica, tirando fuori quell’inquietante paragone con Taranto e Porto Marghera. «In base ai dati e a quanto ci dice l’esperto - ha sottolineato Coletta - in Italia non ci sono altri siti così inquinati. D’altra parte dal monitoraggio è evidente come le diossine riscontrate risultino fino a dieci volte superiori rispetto alla soglia massima stabilita dall’Unione europea». Durante l’incontro, organizzato nella sede della libreria Ubik di Potenza - a cui sono intervenuti, tra gli altri, il tenente Giuseppe Di Bello, Dino De Angelis del comitato 13 ottobre e rappresentanti di altre associazioni cittadine dei quartieri che gravitano attorno all’orbita della Ferriera - è stata messa in guardia tutta la città. E non solo. Le nano particelle di diossine e altri veleni «viaggiano» a chilometri di distanza, un po’ come accade per la sabbia del deserto africano che, spinta da Eolo, arriva fin alle nostre latitudini. Nessuno, insomma, si senta protetto dall’inqui - namento prodotto dalla Ferriera che continua, tra l’altro, a fagocitare e bruciare rifiuti non solo ferrosi, ma plastiche, verniciature e scocche. Materiali che sprigionano fumi in una città avvelenata da oltre trent’anni.

SiderPotenza: tutti con il fiato sospeso in attesa dei risultati della terza tornata di misurazioni sugli inquinanti prodotti dalla ferriera, la prima dall’entrata in funzione della nuova cappa, scrive Giovanna Laguardia su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Intanto il sindaco di Potenza Santarsiero chiede la collaborazione al Dipartimento Medicina Federico II di Napoli. Ma questa non è la prima volta che l’impianto potentino finisce nell’occhio del ciclone per questioni legate all’inquinamento: alla fine degli anni ‘90, infatti, l’allora giudice istruttore Pasquale Materi, oggi consigliere di Corte d’Appello, avviò un’indagine sulla presenza di inquinanti nei fumi dell’azienda e ne dispose il sequestro. La Gazzetta lo ha raggiunto telefonicamente ed ha rievocato con lui gli sviluppi di quell’inchiesta. «A quell’epoca - dice Materi - non feci altro che il mio dovere. Fino in fondo. Fu un’indagine complessa e delicata e la condussi avvalendomi della consulenza di due docenti dell’Università di Napoli. I risultati dei loro studi rivelarono pesanti anomalie nel ciclo di lavorazione dell’industria, con gravi irregolarità. In particolare al momento in cui veniva aperto il crogiuolo i fumi finivano nell’atmosfera senza essere captati dall’impianto di smaltimento, con la conseguenza che i metalli pesanti si disperdevano in atmosfera tal quali. Non solo. Ci fu anche un rapporto della Polizia stradale sui pericoli per la circolazione derivanti dai fumi che si disperdevano sul raccordo autostradale nei pressi della ferriera». Ma l’inchiesta poi si arenò. «La cosa - spiega ancora Materi - si bloccò su una questione di procedura penale. In quegli anni, infatti, ci trovavamo nel periodo a cavallo tra il vecchio e il nuovo codice di procedura penale. Il Tribunale del riesame dopo il sequestro ritenne che al caso dovesse essere applicata la norma procedurale del nuovo codice e non quella del vecchio codice come invece avevo ritenuto io». Ora, quasi vent’anni dopo, si ritorna a parlare di SiderPotenza e di inquinamento. E l’amministrazione comunale, che vuole, vederci chiaro, si è rivolta all’Università di Napoli, come fece Materi all’epoca. «La salute pubblica ha un valore che travalica qualsiasi procedura e richiede prontezza nell’assumere decisioni a tutela della stessa, per questo l’Amministrazione Comunale di Potenza intende far valutare i dati disponibili, sotto il profilo sanitario, con tempestività da soggetto altamente competente». Così il sindaco Santarsiero in una nota indirizzata al Capo del Dipartimento Sanità Pubblica della Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università Federico II di Napoli Maria Triassi con la quale si propone allo stesso Dipartimento una convenzione finalizzata ad una valutazione dei risultati disponibili e di quelli che lo saranno nell’immediato futuro relativi alla Siderpotenza con l’indicazione di eventuali misure ed iniziative in campo sanitario da adottare per evitare ricadute sullo stato di salute dei cittadini. Sarà questa l’occasione anche per attuare uno studio epidemiologico circa le condizioni di salute della popolazione. La dottoressa Triassi è stata consulente nella vicenda che ha riguardato l’Ilva di Taranto. Alla nota in questione è stata allegata la intera documentazione fornita dall’Ar pab. Alla fine del prossimo mese di gennaio, intanto, saranno disponibili i dati della terza misurazione sulle emissioni dell’impianto siderurgico, che l’Arpab sta conducendo grazie ad una convenzione con l’omologa agenzia pugliese. Saranno i primi dati raccolti dopo l’entrata in funzione della nuova cappa e dei nuovi filtri. «Si tratta di dati estremamente importanti - spiega il direttore generale dell’Arpab Raffaele Vita. Ad oggi disponiamo di due misurazioni, una con l’impianto in attività ed una a impianto fermo. La terza misurazione, tutt’ora in corso, è la prima che viene effettuata da quando è entrato in funzione il nuovo sistema di abbattimento dell’inquinamento e quindi sarà una sorta di prova del nove dell’efficacia della nuova cappa e dei nuovi filtri. Le misurazioni saranno effettuate con continuità fino al giungo del 2014, per avere un’attendibilità scientifica della misurazione. A quel punto, se i microinquinanti saranno calati in maniera significativa vorrà dire che le modifiche effettuate all’impianto avranno funzionato e saranno state utili e potremo stare più tranquilli. Se, invece, non si dovessero riscontrare sostanziali modifiche o addirittura si dovessero verificare peggioramenti, allora bisognerà prendere decisioni anche drastiche, come fermare l’impianto per fare nuovi lavori di contenimento dell’inquinamento».

Assessore, lei difende l'Ambiente o le diossine della Ferriera? Si chiede Eugenio Bonanata su “Basilicata 24”. Aldo Berlinguer visita l'azienda ma dimentica i cittadini a rischio veleni. L'assessore all'Ambiente della Regione Basilicata ha visitato la Ferriera di Potenza. Ma in barba alle diossine e al benzo(a)pirene liberato in atmosfera dall'impianto siderurgico, ha ritenuto opportuno ascoltare il privato “presunto” inquinatore, ignorando cittadini e quartieri ammorbati da quei veleni. La prima mossa dell'Assessore regionale all'Ambiente della Basilicata, Aldo Berlinguer, rende bene il senso del suo mandato. Proprio mentre sta scoppiando lo scandalo delle diossine e dell'inquinamento cagionato in 40 anni dal siderurgico di Potenza, il neo assessore dal curriculum di ferro, ha ritenuto opportuno far visita in azienda. Ha incontrato i vertici della Ferriera “per prendere visone dei processi produttivi e del loro impatto sull'ambiente”. Già, come se l'impatto sull'ambiente si vede dentro la Ferriera, non fuori. Come se i disperati potentini dei quartieri Bucaletto e Betlemme che da decenni denunciano fumi scuri e polmoni intasati siano di secondaria importanza. Come se il loro diritto alla salute sia subalterno agli interessi economici del Gruppo Pittini. Inizia bene l'assessore all'Ambiente. Chiede la corda a casa dell'impiccato. Chiede al privato che brucia carcasse d'auto producendo diossina, se magari possa essere inquinante quel tipo di attività. Male. Malissimo, assessore. Si faccia un giro a Bucaletto e a rione Betlemme. Chieda un po' alla signora che stende i panni bianchi e li ritira neri. Chieda un po' a chi si è ammalato e morto di cancro. E si tolga quell'elmetto aziendale. Siamo ad un punto di svolta, assessore. La magistratura sta indagando su quei veleni sprigionati nell'aria. E si è svegliata, dopo un torpore durato decenni, pure l'Agenzia regionale all'Ambiente. Insomma assessore, invece di fare l'aziendalista, si preoccupi dell'Ambiente guardandolo dal di fuori. Non dalla fabbrica che brucia ferro e plastica incamerando profitti. Lì dentro le diranno che è 'tuttaposto'. Che è solo una congiura. Che sono sotto tiro come lo è il 'Gruppo Riva' a Taranto. Male la prima, signor Berlinguer! Guardi in faccia l'aria che respiriamo. E' o non è assessore regionale all'Ambiente?

All'indomani della notizia secondo cui il sito industriale della Siderpotenza avrebbe prodotto gravi danni ambientali e sulla salute è necessario interrogarsi sulle responsabilità di chi ha permesso tutto questo, scrive Gianni Rosa, Fratelli D’Italia Potenza. Quando in questi anni chiedevo spiegazioni De Filippo e Santarsiero tacevano. Non ho infatti ricevuto mai risposta alla mia interrogazione del 2011 sulla Ferriera di Potenza. Ho chiesto dati e smentite, o conferme, sul presunto inquinamento rilasciato dal sito industriale ma chi doveva rispondere ha taciuto. Ho chiesto conto di dati, pubblicati sul sito dell'Arpab, che già allora, non erano affatto tranquillizzanti. Non una risposta. Alla successiva richiesta di conoscere dati sulle emissioni inquinanti della Siderpotenza, avanzata nel 2012, mi furono forniti solo i dati del 2004, accompagnati da una tranquillizzante spiegazione che l'impianto, sempre nel 2012, aveva ricevuto l'Autorizzazione integrata ambientale. Quindi tutto a posto. Ma niente era a posto, considerato l'allarme lanciato dalla stessa Arpab nei giorni scorsi. In questi anni, dunque, sulla Siderpotenza è andato in scena il solito cliché fondato su omertà e omissioni. Nulla di nuovo ma questa volta le responsabilità devono venir fuori e i colpevoli devono pagare. Le omissioni di questi anni hanno messo in pericolo cittadini e lavoratori dell'impianto e la stesse certezza del lavoro. Qualcuno dovrà dare loro delle risposte. E sia chiaro non ci accontenteremo dei “si farà” e dei “si vedrà”. E' criminale rinviare a domani decisioni e azioni che devono essere messe in campo con urgenza. Così come è stata criminale la condotta di chi in questi anni ha taciuto. Questa volta andiamo fino in fondo e se necessario siamo pronti a denunciare alla magistratura chi ha giocato con la salute dei cittadini.

Come si vive nei quartieri intorno alla Sider. Tanti i malati, ma i rischi per la salute vengono anche dai tetti in amianto, scrive Anna Martino su “Il Quotidiano della Basilicata”. Arenite, asma cronica, allergie. E’ la “cartella clinica” del residente tipo di Bucaletto. Non mancano casi di tumore, proprio alle vie respiratorie, o di malattie gravi che provocano insufficienza respiratoria. Di persone letteralmente intubate, allettate e con tanto di bomboletta d’ossigeno dietro, nelle abitazioni della Cittadella se ne incontrano abbastanza. E’ evidente che qualcosa non va. I cittadini lo denunciano da anni ormai, chiedendo più volte uno screening alla Regione Basilicata. E ogni volta arrivano promesse che poi non vengono mantenute. Cosa sia a determinare una situazione simile nessuno lo sa con precisione. Di studi, in merito, non ne sono mai stati fatti. Né è facile quantificare i casi. Anche perché a Bucaletto, “terra di nessuno” come la definiscono i suoi stessi abitanti,  la gente continua ad andare e venire. L’abusivismo – denunciano – persiste e di vecchi terremotati ne sarebbero rimasti davvero in pochi, sebbene si continui a  dire che non ce ne sono proprio più. Trenta, venti o dieci anni a Bucaletto possono essere ugualmente letali. E ovviamente la causa non è solo nei fumi della Sider. La coltre scura, certo, fa paura. Ma inquietano allo stesso modo i tetti in amianto sotto il quale gente ha dormito per giorni e giorni. Le polveri che fuoriuscivano dai prefabbricati fino a un anno fa abbattuti e lasciati a marcire a cielo aperto. Fino a quando, poi, l’ennesima denuncia tramite la stampa, non ha costretto l’amministrazione ad agire in fretta. Ora come ora di materiale di risulta e nuvole d’amianto in giro non se ne trovano. Ciò non significa che i cittadini si sentano tranquilli. C’è ancora chi aspetta di essere trasferito dal proprio prefabbricato ritenuto “anti igienico” dall’Asp, con tanto di certificato. Eppure si tratta di una persona con gravi problemi respiratori, dovuti a sostanze che si trovano nel legno. Da Bucaletto a Betlemme, a Rione Lucania. Queste le zone messe sotto osservazione dall’ultima campagna di monitoraggio dell’Arpab. Pare che ci sia un dialogo tra queste zone della città tramite i comitati di quartiere per cercare di capirne di più e, nel caso, intervenire in qualche modo. Al momento la situazione di allarme più evidente resta quella di Bucaletto dove, tra l’altro, nuovi palazzi sono sorti proprio di fronte alla Sider.

"La Sider ci avvelena e nessuno interviene". Drammatico appello dei cittadini di Bucaletto e dintorni: "Perchè"? si chiede su “Il Quotidiano della Basilicata”. Nel pomeriggio di domenica 5 agosto nubi di fumo nero e intenso e odore acre nell'area della Siderurgica Lucchini. Giunge in redazione il grido d'allarme dei cittadini costretti, con questo caldo, a chiudere porte e finestre per non respirare quell'aria insopportabile. «Salve, sono Tonino dal quartiere di Bucaletto, scrivo questa mia mail con la speranza che ci possa essere una risoluzione definitiva al problema che vi espongo. Sono anni oramai che viviamo subendo i soprusi della siderurgica Lucchini. E' tanto tempo che siamo costretti a respirare i fumi che da detto indotto fuoriescono rendendo l'aria irrespirabile. In questi giorni di caldo estenuante, ci costringono a chiudere porte e finestre per evitare che questi veleni entrino tra le mura domestiche, mura si fa per dire, io vivo come tante famiglie in un prefabbricato di legno che in questi periodi si trasforma in un eccellente forno a microonde. Rivolgo questa mia domanda alla magistratura, secondo voi è giusto vivere in queste condizioni? Il governo italiano sta prendendo seri provvedimenti per l'Ilva di Taranto che ha letteralmente avvelenato il popolo tarantino, cosa impedisce che vengano presi provvedimenti anche nei riguardi della Lucchini? Ci sono poteri nascosti che noi povera gente non conosciamo affinchè queste brave persone fanno il bello e il cattivo tempo a loro piacimento? Questa è l'ennesima vergogna che ricopre il nostro già malandato territorio. Cosa fanno i nostri amministratori? Il nostro sindaco, i presidenti rispettivamente della regione e della provincia, cosa fanno i magistrati che dovrebbero difendere i cittadini? Voi cari signori abitate certamente in belle e confortevoli abitazioni, noi qui viviamo nell'inferno. Personalmente vi invito a trascorrere un fine settimana con me, non fosse altro per vedere cosa fareste quando il fumo di questa fabbrica maledetta impedisce di respirare. Mi dispiace per gli operai che al suo interno lavorano, ma chi si dispiace di noi? Abbiamo e stiamo sopportando di tutto, sopportiamo il caldo che ci attanaglia, gli scarafaggi che ci circondano, sopportiamo il fatto di vivere ancora in queste casupole mentre molti che avevano diritti minori si sono trasferiti in case popolari da tempo. Stiamo mandando giù da anni che i nostri ragazzi non hanno uno spazio per tirare due calci ad un pallone, vi era un piccolo spazio sotto casa mia dove tempo fa davano sfogo alle loro energie giocando tra loro, ora hanno chiuso tutto. Sopportiamo da anni il fatto che a Bucaletto non esistono servizi, da anni mandiamo giù rospi nel vedere nostri concittadini più bisognosi di noi essere stati sbattuti fuori dal riparo di un tetto (in molti casi fatto ancora d'amianto), qui in questa bella e dannata cittadella. Non basterebbero pagine e pagine per esprimere tutte le cose che da decenni stiamo sopportando, ma vi prego, mettete fine a questo tormento, non si riesce a vivere con questo caldo immane e con questo fumo velenoso che ci uccide lentamente. Invito tutti coloro che leggeranno quest'articolo ad unirci insieme e a dare battaglia. Siamo esseri umani non delle bestie, in questo mondo nel quale se si maltratta un animale (cosa di per sè vergognosa a priori), si possono passare giustamente dei guai, noi di Bucaletto valiamo forse meno di tanti cani e gatti che abbondano in questo quartiere? Ho una grande stima per lo staff di Basilicata24 e spero tanto che questo messaggio possa oltrepassare i confini della nostra regione e possa giungere a quei signori che sono al potere e al governo ai quali chiedo di rimboccarsi le maniche e di prendere i provvedimenti necessari. Anche se non credo sia assolutamente necessario, visto che già in passato altri hanno raccolto reperti fotografici, v'invio alcune immagini immortalate qualche minuto prima di scrivere la presente. Tonino Montagnuolo -Bucaletto Potenza».

I MISTERI LUCANI.

Dalla «Seggia del diavolo» di Albano di Lucania alla figlia di Dracula ad Acerenza, dalla strana morte dei barbieri del re, a Lagopesole, al triangolo maledetto Colobraro, Gorgoglione e Craco, scrive Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ecco la Basilicata della superstizione, di luoghi ritenuti «magici», di reperti storici che la gente associa al paranormale, intrecciando spunti di cristianesimo a credenze pagane. Sono tanti gli esempi di inspiegabili fenomeni, soprattutto di natura, per così dire, morfologica, che magari sfuggono all’occhio distratto del lucano. Non a due giovani «investigatori» del mistero, Giusy Tolve e Roberto Lacava, autori di un libro-dossier dal titolo «Guida ai luoghi misteriosi della Basilicata - Leggende lucane e storie di fantasmi» (Arduino Sacco editore). Gli scrittori hanno rispolverato la memoria popolare alla ricerca di storie e miti che affondano le radici nella notte dei tempi: «La guida - dice Roberto - è nata dalla fusione di due passioni: quella di Giusy per la letteratura mistery e la mia per il viaggio e la fotografia. Giusy, in particolare, mi ha fatto notare che nessuno prima aveva mai approfondito questo aspetto della nostra regione, quindi abbiamo sentito quasi come necessario il fatto di colmare questo vuoto. Viaggiando e, soprattutto, parlando con la gente (prima fonte delle storie che abbiamo raccontato) ci siamo accorti che esiste un sottile filo conduttore che lega i luoghi della nostra guida. Nello stesso tempo abbiamo anche capito quanto poco i lucani conoscano davvero la loro terra e quanto molte storie rischino di andare perdute». Quattro gli itinerari proposti nel volume, «tesori» e misteri da scoprire in ogni angolo della Basilicata: occhi puntati su Potenza città, l’hinterland, le Dolomiti lucane, e tanti paesi del Materano.

POTENZA - Prima tappa nella chiesa di santa Maria del Sepolcro che incrocia la storia di fra’ Domenico da Sava, trascinato da una forza oscura in un pozzo accanto al luogo di preghiera. Alla scena avrebbe assistito un altro frate, fra’ Rug - gero che raccontò: «Aveva grandi artigli, enormi denti e Dio mi punisca se dico una menzogna. I suoi occhi erano braci infuocate ». Un’altra tappa potentina riguarda la torre Guevara, ciò che resta dell’antico castello. Qui raccontano che durante le notti più buie si odono urla di una giovane donna. Le grida sembrano provenire dalla finestra più alta della torre e si legano ad una triste vicenda, quella di Marirosa, discendente dell’intendente Francesco Benso Duca della Verdura. Fu vittima della gelosia di un uomo che la gettò giù dalla finestra dopo aver colpito alla testa l’amante.

LAGOPESOLE - La strana morte dei barbieri del re. Il libro si sofferma anche su Federico I e la sua malattia congenita che gli deformò le orecchie, rendendole simili a quelle di un asino. Per questo motivo egli era solito nascondere questo difetto portando sempre i capelli lunghi. Di tanto in tanto veniva chiamato a corte un barbiere per dargli una sistemata, ma per evitare che il segreto fosse rivelato, chiunque metteva mano ai capelli del re veniva indirizzato in un lungo corridoio al termine del quale scompariva inspiegabilmente. Solo un giovane barbiere si salvò e fu graziato da Federico I che ammirò la sua capacità di sottrarsi alla morte. Non riuscì a mantenere a lungo il segreto e, dopo aver scavato una fossa, gridò con tutto il fiato che aveva in gola: «Federico Barbarossa tène l’orecchie d’asina». Da quel giorno ogni volta che spira il vento in direzione del castello è possibile udire un suono fatto di tante voci, che tutte insieme sembrano dire «Federico Barbarossa tène l’orecchie d’asina».

PIETRAPERTOSA - La storia risale a metà tra il Medioevo e il Rinascimento. Nel tentativo di riportare in vita l’amata moglie, un nobile chiese aiuto ad una strega del posto e fu costretto a stringere un patto con Lucifero che gli concesse la capacità di far parlare i morti in cambio della sua anima. Riuscì a parlare con la moglie che però lo ammonì pregandolo di fare ammenda per il suo peccato. Il nobile avrebbe dovuto gettare lontano da sé sette pietre rinnegando per altre tante volte il diavolo con cui aveva stretto il patto. Si racconta che nelle notti di plenilunio una figura alta e scura si aggira tra queste strade fermandosi a gettare lontano da sé una pietra.

LE BERMUDA LUCANE - Inquietanti leggende racchiudono i misteri di tre paesi del Materano, Colobraro, «il paese innominabile », Gorgoglione, chiamato anche «paese degli iettatori» e Craco, «il paese fantasma». Pare che la leggenda di Colobraro nasca da un aneddoto raccontato durante la prima guerra mondiale quando il podestà, alla fine di una pubblica dichiarazione, disse: «Se non sto dicendo la verità, che possa cadere questo lampadario». E in effetti il lampadario sarebbe caduto davvero addosso a diverse persone. A ciò si aggiunge - scrivono nel libro Giusy e Roberto - che la sinistra fama del paese deriva dalla credenza, soprattutto degli abitanti dei paesi vicini, che a Colobraro alcune donne praticassero la magia. A Gorgoglione spunta la storia del parroco del paese, don Gaetano, ai tempi della seconda guerra mondiale. Non credeva alle fatture e mandò via in malo modo una donna che gli confessò di aver lanciato proprio una fattura contro alcuni abitanti del posto. La signora, demoralizzata dalle ingiurie del sacerdote, gli fece una iettatura: «Nun ‘anna passà iurn senza ca t’aia send buon» (non deve passare un solo giorno senza che tu non ti senta male). E da allora don Gaetano fu tormentato dai dolori. Infine, dalle vecchie rovine di Craco, la città fantasma, è possibile udire rumori ferramentosi e voci sussurrate che riempiono la valle. Solo scampoli di misteri in un libro che ne racconta tanti altri. Cento pagine per svelare la Basilicata magica e nascosta.

TOGHE LUCANE, BIS, TER, QUATER, QUINQUIES……………

Scusi Dr. Vincenzo Autera, lei è massone? Scusi Dr. Paolo Petrolo, lei è massone? Così, tanto per capire! Chiede Nicola Piccenna su “Toghe Lucane”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. “La ‘ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari”, la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de “l'ingranaggio” a disposizione della  'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?

Toghe lucane bis, ter, quater, quinquies, sexies, septies, octies, novies, decies ...qaudragies, scrive Nicola Piccenna su “L’Indipendente Lucano”. “Strame della giustizia”, tuonò il PG Tufano:oggi è imputato a Catanzaro. Più di quaranta procedimenti penali a Catanzaro a carico di magistrati lucani: Vincenzo Tufano, Gaetano Bonomi, Modestino Roca, Giuseppe Galante, Giuseppe Chieco, Annunziata Cazzetta, Angelo Onorati, Rosanna Defraia...I giornali l'hanno battezzata "Toghe Lucane bis" e non è dato sapere come l'abbiano chiamata i magistrati di Catanzaro, ammesso che abbia un nome proprio oltre al consueto numero procedimentale. Si sa, invece, che gli indagati sono alcuni personaggi apicali della magistratura lucana e che per i vertici della Procura Generale potentina pende una richiesta di rinvio a giudizio. Le reazioni decise del Dr. Bonomi, Sost. Proc. Gen. a Potenza (oggi in quiescenza), pare di comprendere che le ipotesi di reato per cui è indagato, insieme con sua Eccellenza Vincenzo Tufano (ex Proc. Gen. Anche lui pensionato) ed altri sospettati di correità sono il termometro della gravità dei reati per cui la Procura di Catanzaro vuole processarli. E la pacificazione lucana di cui vagheggiava qualche voce illuminata va a farsi benedire. Sembra sia stata una iattura, tanti guai e situazioni imbarazzanti, se non addirittura indecorose, sono seguite ai proclami nostalgici per una Lucania Felix su cui si accanivano oscuri e maldicenti giustizialisti. Invece era tutto vero, tragicamente vero. Magistrati coinvolti in gravissime ipotesi di reato, politici che ignorano il bene comune arrivando a tollerare (loro dicono ignorare, ma si è scoperto che sapevano. Eccome! A partire da tal Santochirico Vincenzo, assessore all'ambiente che parla molto chiaro quando è al telefono con i suoi compagni di partito) pesanti emergenze ambientali. Amministratori del denaro regionale che provocano ammanchi e disastri fallimentari (fra tutti citiamo il Consorzio Agrario amministrato dal signor Giuseppe Di Taranto, imputato a Catanzaro insieme ad altri 15). E cosa dire della sanità in cui, fra tanti altri, il Dr. Vito Nicola Gaudiano, ex Direttore Generale della ASM di Matera, è stato imputato per una sequela di gravissimi reati, accertati e documentati dai carabinieri di Matera e poi puntualmente assolto da un tribunale che ignora i fatti ed inventa le esimenti? Basterebbe leggere negli atti d'indagine che ha ottenuto la propria nomina a Direttore Generale attraverso attraverso false dichiarazioni e altrettanto false certificazioni: pratiche che il governatore Vito De Filippo ben conosceva avendone avuta notizia nientemeno che dall'Ufficio Legale della Regione Basilicata. Si potrebbe continuare con i disastri amministrativi e penali in agricoltura: Arbea, Agrobios; nell'industria: bando Valbasento, bando Treviso, Felandina, Cerere- Tandoi-Barilla; nella gestione dell'affaire petrolio: ancora oggi nessuno controlla quanto petrolio si estrae. E nessuno accerta come sia stato possibile cedere per soli 10mila euro una società di prospezioni e coltivazioni petrolifere che vale miliardi (di euro, di euro!). Ma tutto questo sfascio tollerato e favorito ha un denominatore comune: Toghe Lucane, che sia bis, ter, quater poco conta. Occorre chiarire quale ruolo hanno avuto i magistrati indagati in procedimenti che da quasi un decennio ne hanno documentato comportamenti, amicizie, frequentazioni ed attività non propriamente nobili e nemmeno edificanti. Per esempio, varrebbe la pena di conoscere che fine hanno fatto gli "oltre cento faldoni" del Proc. Pen. 10559 di Salerno (indagati Vincenzo Tufano, Annunziata Cazzetta Sost. Proc. a Matera; Angelo Onorati - giudice a Matera; Giuseppe Chieco - già Proc. Capo a Matera; Nicola Fucarino - Capo squadra mobile Matera; Farina Valaori - Sost. Proc. A Matera). Un PM di Salerno scriveva il 25/9/2008: "attualmente oltre 100 faldoni di documentazione sono provvisoriamente custoditi in un furgone presso il Comando Provinciale dei Carabinieri". Quel PM venne trasferito "a razzo" e gli subentrò il Sost. Proc. Rocco Alfano che trasferì tutto a Catanzaro. Tutto tranne quegli "oltre cento faldoni". Adesso in quel procedimento si vedono quattro faldoni numerati da 1 a 4. Viene da chiedersi dove sono finiti gli oltre 96 faldoni che mancano, dal contenuto (fortunatamente) noto almeno in parte. Si tratta dei tabulati telefonici degli indagati: "chi chiamava chi", nel pieno dell'inchiesta "Toghe Lucane".  

Filippo de Lubac. Quel giorno, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, Sua Eccellenza il Dr. Vincenzo Tufano si stracciò le vesti. "Hanno fatto strame della giustizia", tuonò, Si riferiva all'inchiesta "Toghe Lucane" in cui era indagato per gravissimi reati, aveva subito una ignominiosa perquisizione e che era stata archiviata. Da quella stessa inchiesta, esaminata meglio e riaperta a Catanzaro, emergono comportamenti di cui, a prescindere dagli esiti giudiziari, c'è da tenere conto per comprendere quale era la considerazione delle istituzioni di queste Eccellenze. C'è anche da dire che tutti gli organi di controllo e di governo della magistratura erano perfettamente informati di questi comportamenti e nulla hanno posto in essere per farli cessare attendendo pazientemente che Tufano e Bonomi andassero in pensione. Questa è una vergogna!

Tufano Vincenzo: ...perché, quale Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Potenza, titolare del potere di sorveglianza sui magistrati, sussistendo le specifiche cause di astensione obbligatoria essendo egli legato da stretti vincoli di amicizia e da abituali rapporti di frequentazione alla dott.ssa Felicia Genovese ed al marito dr. Michele Cannizzaro, nonché avendo presentato il figlio Achille domanda di partecipazione a due concorsi per la copertura di posti di collaboratore amministrativo professionale e assistente amministrativo presso l'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, di cui il Cannizzaro era Direttore Generale - ed in violazione del citato art, 16 RDL 511146, all'epoca dei fatti vigente - che escludeva la possibilità che il potere di sorveglianza del Procuratore Generale potesse concernere comportamenti discrezionali da parte dell'Autorità Giudiziaria - e, infine, in violazione dell 'art. 53 c.p.p. - che garantisce la piena autonomia del Sostituto Procuratore nell'udienza preliminare - segnalava ai titolari dell'azione disciplinare l'omesso deposito, da parte del Sostituto Procuratore dr. Vincenzo Montemurro...

Bonomi Gaetano: "...perché, al fine di commettere una pluralità indeterminata di delitti di corruzione, abuso di ufficio nonchè di diffamazione e calunnia in danno di magistrati in servizio presso gli Uffici Giudiziari del Distretto di Corte d'appello di Potenza - tra i quali il dott. Henry John Woodcock, il dotto Vincenzo Montemurro, la dott.ssa Annagloria Piccininni, la dott.ssa Laura Triassi, il dotto Basentini Francesco, il dotto Montemurro Vincenzo, tutti magistrati in servizio o già in servizio presso la procura della Repubblica di Potenza, il dott. Alberto Iannuzzi, già giudice per le indagini preliminari a Potenza. il dotto Amerigo Palma, giudice del tribunale di Melfi - e di esponenti politici operanti nella Regione Basilicata, nonché ancora di rivelazione di segreto di ufficio, finalizzata ali 'acquisizione, da parte del dott. Bonorni, di dati cognitivi - segnatamente notizie concernenti attività investigative in corso di svolgimento da parte della procura..della Repubblica ovvero della polizia giudiziaria - o di ufficiali di polizia giudiziaria - tra i quali l'isp. Pasquale Di Tolla, in servizio presso la Squadra Mobile di Potenza - per poter commettere gli altri reati rientranti nel programma criminoso... si associavano stabilmente in una struttura organizzativa nella quale ricoprivano i seguenti ruoli: Bonomi Gaetano, quale magistrato della Procura Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Potenza, quale capo e promotore dell'associazione... Caludio Galante

Il posto da capo della Procura, al quale aspirava l’ex sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, e qualche incarico professionale da fare arrivare ai suoi amici. In cambio - secondo i magistrati della Procura di Catanzaro che ritengono di aver scoperto una società segreta che si riuniva al terzo piano del palazzo di giustizia di Potenza, sede della Procura generale - avrebbero dovuto delegittimare alcuni magistrati della Procura: Henry John Woodcock, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni, Laura Triassi e il gip Alberto Iannuzzi. Perché? Curavano alcune indagini, sostiene il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli, che davano fastidio agli ambienti politici, scrive Fabio Amendolara. Gli imputati di «toghe lucane bis» sono stati rinviati a giudizio. Dovranno presentarsi davanti ai giudici del Tribunale di Catanzaro il 27 gennaio 2014 con il seguito per difendersi, a vario titolo, dalle accuse di associazione a delinquere, violazione della legge Anselmi (quella che vieta la costituzione di società segrete), corruzione, rivelazione di segreti d’ufficio. Unico prosciolto, per prescrizione del reato che gli veniva contestato, è l’ex procuratore generale di Potenza, oggi in pensione, Vincenzo Tufano. Gli imputati rimanenti rinviati a giudizio sono i sostituti procuratori generali di Potenza Gaetano Bonomi (ora in pensione) e Modestino Roca; il pm di Napoli Claudia De Luca; il maresciallo della Guardia di finanza Angelo Morello; l’ex agente del Sisde Nicola Cervone; il maresciallo dei carabinieri Antonio Cristiano e l’appuntato Tino Roma, l’imprenditore Ugo Barchiesi, l’autista della Procura generale Marco D’Andrea, l’ispettore della polizia di Stato Leonardo Campagna. Tra le parti civili, oltre a Woodcock, figurano i magistrati Alberto Iannuzzi, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e Giuseppe Galante. L'inchiesta, coordinata dalla Procura di Catanzaro competente a indagare su fatti che riguardano i magistrati del Distretto di Potenza, è iniziata dopo la presentazione di alcune denunce anonime con calunnie all’ex pm di Potenza Woodcock, adesso in servizio a Napoli, che riportavano, tra l’altro, i tabulati delle telefonate del magistrato e quelle della giornalista Federica Sciarelli. L’intento, secondo l’accusa, era quello di accreditare l’ipotesi, risultata non vera, che il magistrato fornisse notizie riservate alla conduttrice della trasmissione di Rai Tre "Chi l’ha visto?" e al conduttore di Annozero Michele Santoro.

Secondo la Procura di Catanzaro, che ha messo la propria ipotesi accusatoria nero su bianco nell'avviso di conclusione indagini emesso due anni fa, scrive “Il Messaggero”, a Potenza era attiva un'associazione segreta composta da Magistrati in servizio a Potenza o che vi hanno prestato servizio in passato, appartenenti a forze dell'ordine e un ex agente del Sisde che, grazie all'acquisizione di notizie riservate su inchieste in corso, intendeva «evitare, indirizzare o bloccare lo svolgimento delle indagini nei confronti di soggetti appartenenti all'avvocatura, all'imprenditoria ed alla politica lucana, nonchè ad altri apparati istituzionali tra i quali l'Arma dei carabinieri». Le indagini erano iniziate dopo alcune denunce anonime nelle quali si calunniava l'allora pm di Potenza Woodcock, ora a Napoli. Lettere che per l'accusa sono state inviate da Cervone con l'organizzazione di Bonomi. Nell'esposto anonimo contro Woodcock ed altri magistrati di Potenza erano anche contenuti i tabulati telefonici del pm e quelli della giornalista Federica Sciarelli per accreditare l'ipotesi, risultata non vera, che lo stesso Woodcock fornisse notizie riservate alla conduttrice della trasmissione di Rai 3 'Chi l'ha visto?' ed al conduttore di Annozero, Michele Santoro. L'obiettivo dell'organizzazione, sempre secondo l'accusa, era quello di fornire l'opportunità alla Procura generale di avviare verifiche disciplinari nei confronti di Woodcock e di «evitare, indirizzare o bloccare lo svolgimento delle indagini».

Toghe lucane, dieci a giudizio: “Così la P4 spiava i magistrati”. L’inchiesta smaschera faide e lotte intestine alla magistratura. A processo anche alti magistrati e funzionari di polizia: dovranno rispondere di associazione segreta, scrive a suo modo Guido Ruotolo su “La Stampa”. Vanno tutti a processo. Stiamo parlando di un bel gruppo di «alti magistrati» e di funzionari di polizia giudiziaria che tramavano contro altri magistrati, vittime di una associazione massonica, la P4, guidata da un ex sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Potenza, Gaetano Bonomi. Vittima eccellente di questa lobbie massonica il pm anglonapoletano Henry John Woodcock - oggi con il collega Vincenzo Piscitelli titolare delle inchieste su Berlusconi e Lavitola - e per diversi anni sostituto procuratore a Potenza. Ma con lui, bersaglio del gruppo di magistrati del disonore che vede coinvolti oltre Bonomi anche l’allora procuratore generale della repubblica di Potenza, Vincenzo Tufano, che non sarà processato perché i reati sono stati prescritti, il pm Claudia De Luca, l’alto magistrato Modestino Roca. L’inchiesta finita per competenza al procuratore aggiunto di Catanzaro, Giuseppe Borrelli (in partenza per Napoli) ha documentato il «complotto» contro Woodcock, un altro pm di Potenza, Vincenzo Montemurro, oggi a Salerno, il giudice delle indagini preliminare Alberto Iannuzzi e altri magistrati e ispettori di Polizia. Quello che ha documentato il procuratore di Catanzaro Borrelli è uno spaccato drammatico delle faide, delle lotte intestine, interne alla magistratura. Il sostituto procuratore generale di Potenza Bonomi è stato il mandante di un complotto che si è sviluppato attraverso l’invio di esposti anonimi, di false dichiarazioni, di pressioni per l’apertura di indagini. Woodcock e il gip Iannuzzi sono stati ingiustamente accusati di aver rivelato notizie coperte dal segreto investigativo ai giornalisti Michele Santoro e Federica Sciarelli. E l’associazione segreta, che dovrà rispondere di violazione della legge Anselmi sulle sette segrete, ha utilizzato funzionari di polizia giudiziaria (carabinieri e finanzieri) per ottenere tabulati telefonici che documentassero gli intrecci telefonici tra magistrati e giornalisti.

Che sia un’altra inchiesta flop?

Azienda chiede i danni: sequestrata per due anni durante l'inchiesta flop, scrive Carmine Spadafora  su “Il Giornale”. La toga se l'è scrollata di dosso ormai dal 2009 ma le imprese da ex pm continuano a far parlare di sé Luigi de Magistris. Un'altra vittima di «Giggino 'a manetta», il Gruppo Marinagri, coinvolta nella inchiesta delle «Toghe lucane», si è rivolta alla Corte di Strasburgo per vedersi riconosciuto un risarcimento circa un ingiusto sequestro (un villaggio turistico, conti correnti) durato 2 anni. Danni per molti milioni che hanno rischiato di mandare in fallimento l'operazione, un villaggio turistico, Marinagri di Policoro (Matera) che dà lavoro a 120 persone. Il 13 luglio scorso il legale della Marinagri, Francesco Mele, aveva presentato alla Corte di Strasburgo una istanza interlocutoria per consentire l'apertura di una procedura contro il governo italiano. A seguito di tale lettera è stato avviato un procedimento e, secondo prassi, è stato inviato un formulario a Strasburgo, nel quale sono spiegate le ragioni della rivendicazione. «Sostanzialmente addebitiamo al sistema normativo italiano, il mancato riconoscimento di qualsiasi forma di indennizzo per chi subisca misure cautelari patrimoniali, nonostante all'esito del giudizio venga riconosciuta la totale innocenza degli imputati», spiega al Giornale l'avvocato Mele. Nel caso in cui la Marinagri dovesse vedere riconosciuti i suoi diritti, lo Stato dovrà risarcire l'azienda di Policoro. Un esborso eventuale di svariati milioni, forse, decine di milioni, che, ovviamente, grazie a Giggino ricadrà sui cittadini. L'intera vicenda delle «Toghe lucane» è durata 11 anni, 33 persone sono state indagate, tra queste, un sindaco, professionisti, imprenditori, coinvolti anche due magistrati. Nove i capi d'imputazione a carico del principale imputato, Marco Vitale, proprietario del villaggio turistico. Accuse poi demolite prima dal gip del tribunale di Catanzaro e successivamente dai giudici della Corte di Appello, con l'assoluzione di tutti gli imputati mentre, «vi fu una declaratoria di inammissibilità della Corte di Cassazione, perché il ricorso fu, tra l'altro presentato fuori termini», spiega al Giornale l'avvocato Riccardo Laviola. «Ciò fu fatto rilevare alla Procura generale, che decise di rinunciare al ricorso», dice il penalista. De Magistris nel frattempo è stato trasferito d'ufficio e dalle funzioni di pm dal Csm. Sbarcò nella sua Napoli con il ruolo di gip. Ma poco dopo, nel 2009, si sfilò la toga per correre ad abbracciare il suo ex amico Antonio Di Pietro. Appena sei giorni fa la cronaca giudiziaria si era già dovuta occupare di de Magistris, per un'altra sua indagine terminata in Cassazione con l'assoluzione piena di tutti gli imputati. L'inchiesta «Why not», avviata quando Giggino era un pm in forza alla Procura di Catanzaro. «Why not», «Toghe lucane», storia di due indagini smontate dagli ex colleghi di de Magistris, fino al terzo grado di giudizio, con la piena assoluzione di tutti gli imputati, oltre 130 nell'ambito delle due inchieste. Ecco perché l'ex pm, da «Giggino 'a manetta», titolo che gli è valsa una grande popolarità e il trionfale lancio nel mondo della politica, è diventato nel giro di una mezza dozzina di anni, «Giggino 'o flop». E Napoli, che generosamente lo ha eletto pure sindaco, convinta di fare la scelta migliore, è finita nella sue mani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Why Not, i danni collaterali: vite distrutte e 5 milioni spesi, ma intanto lui è diventato sindaco, scrive Peppe Rinaldi (dal quotidiano "Libero" del 4 ottobre 2013). Why Not è solo la più famosa tra le indagini che resero gloria ed onori all’oggi sindaco di Napoli. Le altre due, Toghe Lucane e Poseidone, vivacchiano sotto mentite spoglie tra clonazioni ardite e infiniti faldoni. Grazie ad essa, ma soprattutto grazie al fatto gli fu tolta di mano dai superiori, Luigi De Magistris riuscì a capitalizzare una certa fama da schiena dritta nemica dei poteri forti, facendo il grande salto dalla toga alla poltrona. Quella politica: prima a Strasburgo come deputato europeo Idv e poi a Napoli come primo cittadino. In mezzo c’è tutto l’universo descritto da Filippo Facci. Solo chi non conosce questo pezzo di storia ed ignora che a batter le mani all’ex pm furono praticamente tutti (a partire da Santoro, Travaglio e la stragrande maggioranza dei media locali e nazionali) non riesce a capacitarsi come sia stato possibile diventare sindaco della terza città italiana. E governarla nei modi che conosciamo. Why Not è, tra mille altre cose, l’esempio scolastico di come funziona parte della giustizia: almeno la metà delle altre indagini, quelle famose e blasonate che giornaloni e tg raccontano, finirà come questa (rovinando quelle buone). Cioè nel nulla, ma non prima di aver devastato vite, patrimoni, famiglie, imprese, comunità intere o addirittura dando spallate esiziali ai governi, come nel caso di Prodi. Dicono che sia costata 9-10 milioni di euro: in realtà sono all’incirca 5 e, visti i risultati, assolutamente troppi. A proposito di soldi: è stato trovato un centesimo del «fiume di danaro pubblico rubato dalla malapolitica»? Neppure uno. Un giorno, tra squilli di trombe e giornalisti in sollucchero, fu annunciata la scoperta del conto cifrato su cui confluivano i soldi rubati da Saladino: «Il nome in codice è Bellachioma» si disse, salvo scoprire che il «codice» altro non era che il cognome della moglie dell’imprenditore lametino. Intanto la sua vita è stata devastata, la sua e quella della sua famiglia. Come spesso accade. Soldi, spese generali, avvocati, periti, tecnici, consulenti, insomma un circuito infernale che i tanti De Magistris annidati nelle procure fanno sperimentare a troppi. Come nel caso delle decine di vittime «eccellenti» derivate solo da Why Not (per le altre non basterebbe un intero giornale), tra cui i colleghi di De Magistris, i salernitani Nuzzi e Verasani o l’ex procuratore capo Apicella. Costoro per sposarne le incredibili tesi furono forse irretiti dall’appeal mediatico-giudiziario della contingenza e diedero così vita al più surreale scontro tra uffici giudiziari che la storia ricordi, quello tra Salerno e Catanzaro. «Una rissa che rende tutti colpevoli» sentenziò giustamente la Cassazione nel 2009. Per non dire dell’imprenditrice Enza Bruno Bossio, oggi deputato Pd, per anni indicata come «lebbrosa» dalla società e dalla politica grazie a Why Not, salvo poi uscirne completamente pulita. A che prezzo?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

ELISA CLAPS: RESTIVO COLPEVOLE? FORSE!

L’hanno cercata per ben 17 anni, fino a quando i suoi resti furono trovati il 17 marzo del 2010, nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lì dove - la Corte d’assise d’appello lo ha confermato - Elisa fu uccisa da Danilo Restivo. Ed è proprio il luogo del delitto che lo incastra. In cento pagine i giudici della Corte d’assise d’appello di Salerno spiegano perché hanno deciso di confermare la condanna a 30 anni di carcere per l’omicidio di Elisa Claps, la studentessa di Potenza scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993. I giudici hanno respinto in modo fermo la tesi del difensore di Restivo - l’avvocato Alfredo Bargi - che sosteneva di «cogliere nelle pagine della sentenza di primo grado (emessa dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Salerno Elisabetta Boccassini a seguito di rito abbreviato, ndr) una propensione valutativa di tipo colpevolista fatalmente influenzata dal clima mediatico-giudiziario in cui si è sviluppata la vicenda procedimentale prima e processuale poi, per un lunghissimo arco di tempo (circa 18 anni)». Questa pressione mediatica «avrebbe portato inevitabilmente a dirigere le indagini solo su Restivo, trascurando percorsi alternativi che orientavano verso personaggi di maggiore spessore». Il difensore ha contestato anche la prova scientifica: quella traccia di Dna di Restivo trovata sulla maglia che indossava Elisa il giorno della scomparsa. Spiegano i giudici: «La decisione di un caso giudiziario complesso non è mai affidato a un solo elemento di prova, il quale, pur dotato di una eclatante valenza dimostrativa, sia tale, da solo, di orientare in maniera decisiva chi giudica verso la condanna o l’assoluzione». E il Dna trovato sulla maglia «pur non avendo una valenza dimostrativa assoluta - spiegano i giudici - certamente può acquistare molta importanza se posto in relazione a tutti gli altri segmenti del compendio probatorio». Restivo insomma è stato condannato «non per una prova regina», scrivono i giudici, ma «per una serie di indizi dotati della stessa valenza». Per i giudici di Salerno la circostanza che inchioda l’imputato «è il luogo del ritrovamento del cadavere»: il sottotetto della chiesa della Trinità. Proprio il posto in cui vittima e imputato si erano visti il giorno della scomparsa. «È questa evenienza fattuale - sostengono i giudici - adeguatamente collegata in maniera causale, spaziale e temporale agli spostamenti del carnefice e della vittima sino alle 11,30 di quel 12 settembre del 1993 che attinge fortemente la posizione di Restivo, laddove, fino a quel momento, una serie di gravi indizi emersi dalle indagini conducevano a lui ma, obiettivamente, non erano tali da far ritenere raggiunta la prova della sua colpevolezza». È rispetto a questo dato storico che - valutano i giudici - «la prova genetica rappresenta un grave indizio di “chiusura”, un forte elemento di “rafforzamento” del convincimento di responsabilità». Paradossalmente, sostengono le toghe salernitane, «se i resti di Elisa fossero stati rinvenuti in un altro stabile la posizione di Restivo sarebbe stata più difendibile». E ancora: «Altri indizi - si legge nella sentenza - Restivo li ha disseminati anche nell’immediato post delictum. L’imputato infatti non ha saputo giustificare in maniera credibile un taglio che aveva alla mano sinistra». Anna Esposito: riaperto il caso sul suicidio della poliziotta "che sapeva tutto su Elisa Claps". Il fratello della Claps aveva rivelato: "Sapeva dov'era sepolto il corpo".

Anna Esposito fu trovata impiccata alla maniglia della porta il 12 marzo 2001. Commissario capo, dirigente della Digos della questura di Potenza, madre di due bambine, ci furono diverse indiscrezioni secondo le quali l'agente sapeva dove era sepolta Elisa Claps. Altro caso che tenne l'Italia col fiato sospeso: il corpo della ragazza fu trovato 16 anni dopo la scomparsa e dell'omicidio venne infine accusato Danilo Restivo. Sul caso di Anna, al pm Sergio Marotta furono concessi 6 mesi per le indagini, in base all'ipotesi di omicidio volontario. Alla fine l'archiviazione: si è trattato di suicidio. A poco valse il fatto che imbrigliarsi alla maniglia di una porta è uno strano modo per suicidarsi, che i piedi toccavano a terra, che la fibbia della cintura si trovava sulla parte anteriore del collo e non dietro, come sarebbe stato normale. E inascoltate furono anche le dichiarazioni del fratello della Claps a Chi l'ha visto, quelle in cui raccontava che Anna avrebbe confidato alla mamma dov'era il cadavere di Elisa Claps, solo pochi giorni prima di morire. Le indagini si fermarono, perché nulla era emerso dalle relazioni amorose di Elisa con un giornalista, dalla vita familiare della ragazza e dalle ultime ore di vita prima che venisse trovata nel suo appartamento nella caserma Zaccagnino. Ma ora le indagini si riaprono. Dopo che un'inchiesta aveva stabilito l'inesistenza di collegamenti con il caso Claps, sono emersi nuovi elementi. La nuova indagine riparte da un'inchiesta svolta dalla Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito e sulle carte depositate a Salerno, riguardanti il caso Claps e la condanna di Restivo a trent'anni di carcere.

COME E’ MORTA ANNA ESPOSITO?

«Il segreto di Anna» era legato ad Elisa Claps, scrive Ver.Med. su “Il Tempo”. C’è una penna, accanto a un corpo esanime, immobile perché il soffio di vita non c'è più. Lei è «fredda. Pallida. Il suo volto è sereno, ma il corpo è già rigido». Non c’è però un foglio su cui scrivere. C’è inoltre un diario dove la vittima era solita appuntare, puntuale, tutto ciò che le accadeva, ogni giorno. Mancano delle pagine. Quattro. Stracciate con violenza e magari in velocità, anche. A lanciare l’allarme del dubbio, alcuni pezzettini di carta ancora attaccati agli anelli di metallo. È la mancanza a creare sospetti. E non solo. C’è il cappellano della Questura, don Pierluigi Vignola, a lui Anna aveva confessato un tentativo non riuscito di suicidio. Ma «il 14 marzo Anna è stesa sul tavolo dell’obitorio». Il modus operandi della vittima può essere lo stesso? La signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa a Potenza il 12 settembre del 1993. L'assassino? Danilo Restivo. C’è la chiesa della Santissima Trinità poi, dove i fedeli si recano per ricongiungere l’anima a Dio. È proprio lì, nel sottotetto, che il 17 marzo del 2010 è stato ritrovato il corpo della giovane. «Il segreto di Anna» ( EdiMavi, pag. 80 euro 13,00) di Fabio Amendolara è un libro inchiesta su un suicidio sospetto: la misteriosa morte di Anna Esposito e gli intrecci con la scomparsa di Elisa Claps. Nell’appartamento di servizio all’ultimo piano della caserma Zaccagnino di Potenza in via Lazio, il 12 marzo del 2001 viene ritrovato il corpo del commissario della Digos. Strangolata da qualcuno che conosceva e poi appesa per il collo con una cinta, alla maniglia della porta del bagno, per simulare un suicidio. «Il corpo è sospeso di pochi centimetri. Il cappio le gira attorno al collo, ma non è serrato e le segna a malapena la pelle». La dottoressa Romeo, Di Santo, Cella e l’ispettore Paradiso, quattro poliziotti esperti, ritrovano il suo corpo, ma non si accorgono del «rigor mortis», strano. I sospetti vanno allontanati dalla Questura. Nella sua prefazione Gildo Claps, fratello di Elisa, racconta la telefonata ricevuta da Anna Esposito il giorno prima della sua morte. «Quello che so con certezza è che tante coincidenze insieme portano inevitabilmente a considerare plausibili anche le supposizioni più ardite». Abbiamo un obbligo morale, portare alla luce la verità. Anna e Elisa, due donne, avevano un sogno nel loro futuro, la vita.

Il segreto di Anna, la poliziotta del caso Claps. Fu trovata impiccata. Caso archiviato: suicidio. Ora si torna a indagare: per omicidio, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. Il caso Claps è un cubo di Rubik insoluto. Quando ti illudi che i quadretti siano ormai tutti della stessa tinta, ecco spuntare un colore fuori posto. E allora sei costretto a ricominciare. Per mesi, per anni. Senza certezze, se non quella che Danilo Restivo è in carcere e lì resterà a lungo. Restivo dopo aver ucciso Elisa Claps «espatriò» in Inghilterra dove massacrò un'altra poveretta. Domanda angosciante: almeno questo secondo delitto poteva essere evitato? Ed è qui che si innesca un giallo nel giallo. Nel 2001 (cioè 9 anni prima del ritrovamento del cadavere della studentessa potentina nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza) il corpo del commissario di Polizia, Anna Esposito, viene trovato «impiccato» alla maniglia di una porta del suo appartamento. Benché gli stessi inquirenti parlino subito di «suicidio anomalo», il caso viene archiviato, evidenziando come possibile movente del «gesto estremo» una non meglio precisata «crisi sentimentale». Ma dietro quella morte c'è forse ben altro di un amore contrastato, di una situazione familiare complessa (ma non certo drammaticamente disperata): dietro quella morte c'è, forse, un collegamento con Elisa Claps che, all'epoca della morte della di Anna Esposito, era scomparsa già scomparsa nel nulla da otto anni. Della studentessa potentina si perdono le infatti le tracce la domenica mattina del 12 settembre 1993, mentre il cadavere delle poliziotta viene ritrovato il 12 marzo 2001. Otto anni durante i quali i sospetti su Danilo Restivo sono tanti, ma non suffiecienti ad arrestarlo; il cerchio su Restivo si stringerà infatti solo successivamente al ritrovamento del cadavere di Elisa avvenuto «ufficialmente» il 17 marzo 2010. Il commissario Esposito, pochi giorni prima della sua morte, telefonò al fratello di Elisa, dicendogli di avere «novità» sulla vicenda della ragazza. Un incontro che non avvenne mai, Anna non ne ebbe il tempo... È questo l'elemento chiave attorno al quale ruota il documentato libro inchiesta, «Il segreto di Anna» (EdiMavi), del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Fabio Amendolara. Pagine e pagine di presunte «discrepanze nei rapporti giudiziari della polizia e falle investigative». Sullo sfondo le «coincidenze» che collegherebbero la morte del commissario all'omicidio della giovane Elisa. Usatissima nel libro è la parola «depistaggio». La stessa che ha contraddistinto - non senza ragione - l'intera odissea della famiglia Claps che la sua battaglia l'ha sempre combattuta (e vinta) con tenacia e dignità. Ma nel caso Claps sono ancora tante le cose che ancora restano in penombra. Ma non è mai troppo tardi per far entrare la luce. Per questo va salutata con favore la decisione della magistratura lucana di riaprire il fascicolo sulla morte del commissario Anna Esposito. Suo padre ha sempre urlato: «Mia figlia non si sarebbe mai tolta la vita...». E allora non resta che un'altra ipotesi: omicidio, la nuova pista su cui la Procura della Repubblica di Potenza ha deciso di indagare. Qual era il «segreto» che Anna voleva svelare al fratello di Elisa? Chi aveva interesse a chiudere la bocca della poliziotta?
Il cubo di Rubik continua ad avere un colore fuori posto.

Il suicidio di Anna Esposito, sapeva dov’era Elisa Claps: l’inchiesta di Fabio Amendolara, scrive Filomena D'Amico su"Stile Firenze”. Anna Esposito, un commissario di polizia di 35 anni viene trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno nel 2001 nel suo appartamento a Potenza, il caso venne archiviato da subito come  suicidio. Ma i dubbi dei familiari, le discrepanze nelle indagini, le prove mai esaminate e quella strana connessione con la vicenda di Elisa Claps hanno imposto la riapertura del caso dopo 12 anni. Nella sua inchiesta giornalistica, oggi diventata un libro, Fabio Amendolara rilegge tutti gli atti e le deposizioni, ricostruisce le sequenze di quella tragica mattina, appunta una per una le anomalie, gli indizi tralasciati e gli interrogativi mai risolti; finché la sua indagine non si imbatte in un’inquietante coincidenza che lega Anna al caso dell’adolescente scomparsa nel 1993 e  ritrovata cadavere il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della Chiesa di Santissima Trinità in quella stessa città, Potenza. E’ da qui che prende le mosse il suo libro il “Segreto di Anna” presentato alla Biblioteca dell’Orticoltura di Firenze. Benché dopo anni il colpevole dell’omicidio di Elisa Claps, Danilo Restivo, sia stato assicurato alla giustizia, ancora oggi sulla vicenda permangono fitti coni d’ombra e domande ancora in cerca di risposte. Nel 2009 proprio indagando sul caso Claps,  Amendolara cronista di nera della Gazzetta del Meggiorno, scova un’ informativa redatta da un sottoposto del commissario Esposito, nel documento il vice sovrintendente scriveva che da una fonte confidenziale aveva appreso che i resti del corpo di Elisa erano nella Chiesa della Trinità di Potenza. Siamo nel marzo del 2001, 19 giorni dopo la morte di Anna e 9 anni prima del ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa.

Chi è Anna Esposito? Anna è un commissario capo della Polizia, dirigente della Digos a Potenza con un matrimonio alle spalle e due figli che vivono col padre a Cava dei Tirreni in provincia di Salerno. E’ qui che Anna ha trascorso il week end,  l’ex marito riferirà che era serena. Il pomeriggio di domenica rientra a Potenza, sale su all’ultimo piano della caserma nell’appartamento a lei assegnato, ciondola per casa, fa una telefonata alla madre alle 19:40 poi sceglie un vestito nero, calze nere e scarpe eleganti quella sera c’è una festa e lei è stata invitata. La ritroveranno il lunedì mattina a Potenza con il cinturone della divisa legata al collo e appeso alla maniglia del bagno, il corpo semi seduto a terra con i glutei sollevati di pochi centimetri dal pavimento. La polizia di Potenza si orienta senza troppi dubbi sul suicidio, nemmeno la singolare definizione di impiccamento atipico scritta nero su bianco nella relazione dei medici legali da nuovo impulso alle indagini. Una turbolenta storia d’amore appena conclusa e poi quella voce, quella confidenza fatta in un confessionale, di un precedente tentativo d’omicidio sono elementi sufficienti per convincere gli inquirenti. Eppure in quella stanza dove Anna ha trovato la morte una domenica di fine inverno sono molte le cose che non tornano. Il letto non è disfatto e la luce della lampada è ancora accesa, dunque tutto deve essere accaduto dopo il tramonto. Fabio Amendolara nella sua inchiesta mette in fila le anomalie, le contraddizioni e le falle investigative: nell’ appartamento quella mattina c’è un via vai di agenti, ispettori, medici; nessuno di loro pensa ad isolare l’area per preservare le prove. A un certo punto, una collega di Anna tenta persino una manovra di rianimazione sul corpo del commissario manomettendo così la posizione originaria del corpo. Non ci sono foto di come fu effettivamente ritrovata Anna, quando la Polizia Scientifica entra nell’appartamento il corpo della poliziotta è già stato slegato. Accanto al letto tra gli oggetti personali della donna gli ispettori registrano la presenza di due biglietti ferroviari, perché due? Qualcuno aveva viaggiato insieme ad Anna quel pomeriggio? A fianco al corpo una penna ma nella stanza non fu ritrovato nessun biglietto; circostanza alquanto anomala per una come Anna che invece aveva l’abitudine di appuntarsi tutto in un’agenda da cui non si separava mai. Da quella agenda ad anelli sono state sottratte delle pagine, strappate con l’imperizia di chi non si preoccupa di sfilare poi i residui di carta. Non è mai stata fatta un esame grafico sull’agenda che potesse rivelare cosa vi fosse scritto nelle pagine che mancano. In caserma i colleghi della Esposito erano a conoscenza che il commissario riceveva di frequente degli strani biglietti minacciosi; Anna se li ritrovava sulla scrivania dell’ufficio, infilati sotto la porta o anche dentro la borsa. Eppure di questi strani episodi non c’è traccia nel fascicolo d’inchiesta né furono mai prelevate le impronte per compararle con quelle sulla scena del crimine.

Cosa c’entra Anna Esposito con il caso di Elisa Claps?

La città è la stessa, Potenza;  il primo vero anello di congiunzione tra i due casi è la figura di un sacerdote, Don Pierluigi Vignola il cappellano della Questura.  Il quale sembra sapere particolari riservati della vita della Esposito e dettagli importanti dell’inchiesta che riguarda la sua morte. Don Vignola racconta, Don Vignola omette, spesso a seconda dell’interlocutore. Racconta agli inquirenti di aver raccolto in confessione una confidenza agghiacciante da parte di Anna: quel suicidio con quelle stesse modalità lei lo aveva già tentato un mese prima. Ma Don Vignola  è anche colui che nel 1993  il giorno dopo la scomparsa di Elisa celebrò messa nella Chiesa della Santissima Trinità in sostituzione di Don Mimì Sabia, partito per Fiuggi.  Circostanza che il prelato ha sempre smentito. Ma il sentiero che da Anna conduce dritto in quella chiesetta di Potenza e al terribile omicidio della Claps è costellato di indizi e coincidenze. Gildo Claps, fratello di Elisa, possiede una scuola d’Inglese, un giorno del 2001 riceve una telefonata: è Anna Esposito che vuole avere delle informazioni su un corso che vorrebbe seguire; non vuole parlarne per telefono. “Le dispiace se passo a trovarla?” chiede Anna. L’appuntamento è per il lunedì pomeriggio dopo il lavoro. La domenica sera Anna muore. Dopo la morte di Anna la signora Olimpia Magliano, mamma di Anna, rivela a Gildo Claps  una confidenza fattale dalla figlia: nella Questura di Potenza qualcuno sapeva dove era stata sepolta Elisa Claps. La ragazza scomparsa e uccisa da Danilo Restivo a Potenza il 12 settembre del 1993. L’inchiesta sulla morte di Anna Esposito è stata riaperta e anche grazie al lavoro di Fabio Amendolara emergono oggi nuovi dettagli su questo giallo; una telefonata sarebbe arrivata al 118 prima dell’irruzione dei poliziotti nella appartamento del loro dirigente, forse potrebbe essere questa la chiave del mistero.

Potenza, nuovo giallo su poliziotta morta: «Aveva costole rotte», scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Difficile stabilire con certezza se le ecchimosi trovate siano precedenti alla morte». Ma è necessario un approfondimento su alcune costole fratturate. Verrà effettuato nei laboratori dell’Università di Chieti. Il professor Francesco Introna, medico legale che si occupa della seconda autopsia sul corpo di Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto nella caserma Zaccagnino di via Lazio a Potenza il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite - lo ha detto in modo chiaro. È questo il risultato dell’esame effettuato l’altro giorno all’Università di Bari con i consulenti tecnici della Procura, della famiglia Esposito e dell’indagato (il giornalista Luigi Di Lauro, ex compagno della poliziotta che si dichiara innocente). È sulle fratture, quindi, che si concentra l’attenzione dell’equipe del professor Introna. Bisogna accertare con precisione scientifica se quelle fratture costali siano state prodotte da una colluttazione. «Bisogna controllarle bene queste fratture e bisogna contestualizzarle - ha detto uno dei consulenti della famiglia Esposito - ma le fratture costali prodotte da un impiccamento da bassa altezza sono un elemento dubbio». «Oggi è incauto se non irresponsabile giungere ad affrettate conclusioni», chiosa uno dei periti dell’indagato (accompagnato dall’avvocato Leonardo Pinto). Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. Il commissario fu trovato con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. La riesumazione della salma è stata disposta dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro. Anna è stata trovata impiccata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio con una cintura stretta attorno al collo. L’ipotesi è che si sia trattato di una messinscena. Anna potrebbe essere stata soffocata e poi appesa alla maniglia della porta con una cintura per simulare il suicidio. È giunto a queste conclusioni anche il consulente tecnico della Procura - Giampaolo Papaccio, professore di istologia ed embriologia medica della Seconda università degli studi di Napoli - che ha analizzato le fotografie della prima autopsia. La presenza di macchie ipostatiche in punti anomali del corpo farebbe supporre che Anna sia stata appesa dopo la sua morte. La letteratura medica prevede che le ipostasi - delle macchie violacee che si formano sui cadaveri - nei casi di impiccamento vadano a fissarsi sulle mani e sui piedi. Nel caso di Anna - stando alle fotografie della prima autopsia - le macchie ipostatiche si sono formate anche in altre aree. È uno dei tanti aspetti scientifici da approfondire.

Potenza, morte di Esposito scoperta macchia sul viso, continua Fabio Amendolara. Una macchia rotonda giallastra con un punto rosso molto evidente nella parte superiore, tra l’arco del sopracciglio e l’attaccatura dei capelli: proprio sulla tempia sinistra. A guardarla nell’unica foto in cui compare - che la Gazzetta può pubblicare in esclusiva - sembra una contusione. È come se Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato morto il 12 marzo del 2001 in circostanze mai chiarite (il caso era stato chiuso in fretta come suicidio e riaperto un anno fa, dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta, con l’ipotesi di omicidio volontario) - fosse stata colpita proprio in quel punto. Quel particolare non è stato descritto in nessun documento dell’inchiesta. Non compare nelle informative degli investigatori e neppure negli atti del sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica, nonostante sia ben visibile in una delle foto di primo piano scattate mentre il corpo senza vita della poliziotta era poggiato sul tavolo d’acciaio dell’obitorio. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta come suicidio. Anna fu trovata legata alla maniglia della porta del bagno del suo alloggio, nella caserma della polizia di Stato di via Lazio a Potenza, con una cintura stretta attorno al collo. Con molta probabilità, quindi, l’attenzione degli investigatori si concentrò sul collo della vittima. Gran parte delle informazioni riportate nei documenti investigativi, infatti, riguarda il segno lasciato dalla fibbia della cintura sulla pelle della donna. E furono ben descritte le dimensioni del «solco latente» disegnato dal cuoio sulla gola. «Impiccamento atipico incompleto» lo definirono i medici-legali che effettuarono l’autopsia. Atipico perché la fibbia della cintura non si posizionò - come prevede la letteratura medica - sulla nuca della vittima ma sul lato del collo. E incompleto perché mancò quella sospensione necessaria a permettere lo strozzamento. Tutti gli accertamenti investigativi e scientifici si concentrarono su questi aspetti. Quella piccola contusione all’epoca forse apparve ininfluente. Oggi, però, superata l’ipotesi del suicidio - grazie anche a una consulenza medico-legale disposta dopo la riapertura dell’inchiesta coordinata dai magistrati della Procura di Potenza Francesco Basentini e Valentina Santoro - potrebbe trasformarsi in un dettaglio importante. Ancora oggi potrebbe essere utile accertare se quel livido stampato sulla tempia della poliziotta le sia stato provocato prima o dopo la morte. Ma cosa potrebbe aver prodotto quel segno sulla pelle? Un pugno sferrato da una mano con infilato un anello al dito? Oppure Anna è stata colpita con un oggetto? Al momento si tratta di ipotesi che la nuova inchiesta, però, non potrà ignorare.

Giallo Esposito, spunta un’impronta mai comparata, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Proprio sotto la piastra metallica che fissa la maniglia alla porta del bagno c’era un’impronta digitale che all’epoca fu «isolata» dagli investigatori della polizia scientifica. A quella maniglia 13 anni fa è stata trovata legata con una cintura stretta al collo Anna Esposito, il commissario della polizia di Stato morto in circostanze mai chiarite nella caserma della polizia di via Lazio a Potenza. Quell’impronta digitale all’epoca fu ignorata perché la Procura procedeva per l’ipotesi di suicidio. Un anno fa il caso è stato riaperto - dopo un’inchiesta giornalistica della Gazzetta e la richiesta di riapertura avanzata dai familiari - e ora la Procura ipotizza l’omicidio volontario. Mentre il professor Francesco Introna - che ha ricevuto incarico dai magistrati Francesco Basentini e Valentina Santoro di far luce sulle cause della morte della poliziotta - torna l’interesse su quell’impronta digitale mai comparata. Sulla porta del bagno all’epoca è stata cosparsa polvere di alluminio per «esaltare» le possibili tracce. «Un frammento di impronta - scrivono gli investigatori della polizia scientifica nel verbale di sopralluogo - asportato con adesivo nero dalla superficie esterna dell’imposta del bagno di servizio, in prossimità del bordo destro e sotto la piastra di fissaggio della maniglia di apertura» è tra gli atti finiti in archivio. «Il frammento - si legge nel rapporto giudiziario - è stato prelevato due volte al fine di poterne migliorare le qualità morfologiche e di nitidezza». Già all’epoca, quindi, la qualità dell’impronta era stata migliorata. Oggi le nuove tecniche di laboratorio con molta probabilità potranno permettere ulteriori miglioramenti. Il caso all’epoca fu chiuso in fretta ritenendo provato il suicidio. La poliziotta fu trovata con la cintura stretta attorno al collo e legata alla maniglia della porta del bagno. «Suicidio atipico incompleto», fu definito dai medici-legali. «Atipico» perché la fibbia della cintura fu trovata al lato del collo della poliziotta e la letteratura medica prevede che nella gran parte dei casi la fibbia debba posizionarsi sulla nuca. E «incompleto» perché era mancata la sospensione necessaria a permettere lo strozzamento (il corpo di Anna toccava con i piedi il pavimento e parzialmente anche con i glutei). Ora il professor Introna - che la scorsa settimana ha eseguito la nuova autopsia - sta cercando di accertare con precisione scientifica se Anna è stata appesa alla maniglia della porta quando era già morta.

Potenza, giallo Claps. Ex questore «frainteso» sugli innocenti depistaggi, continua Fabio Amendolara. I chiarimenti dell’ex questore di Potenza Romolo Panìco sugli «innocenti depistaggi», la conferenza stampa «congiunta» convocata «solo dal vescovo» e poi annullata, le sue due relazioni di servizio sul ritrovamento di Elisa Claps (la studentessa scomparsa e uccisa il 12 settembre del 1993, i cui resti sono stati ritrovati «ufficialmente» il 17 marzo del 2010). E le novità sugli operai, emerse durante il processo a Potenza e non durante l’inchiesta della Procura di Salerno, confermate parzialmente in aula dall’imprenditore Antonio Lacerenza. I due testimoni hanno risposto alle domande del pubblico ministero Laura Triassi e a quelle degli avvocati Giuliana Scarpetta (legale della famiglia Claps) e Maria Bamundo (che difende le signore delle pulizie, Margherita Santarsiero e Annalisa Lo Vito, accusate di aver detto il falso al pm di Salerno Rosa Volpe). «Le ulteriori contraddizioni emerse durante l’udienza di ieri confermano che il ritrovamento è stato solo una messinscena», commenta Gildo Claps, fratello di Elisa al termine dell’udienza. La frase «innocenti depistaggi» - pronunciata dal questore Panìco immediatamente dopo il ritrovamento - «fu detta male e io esposi un concetto in maniera banale, ovvero che una parte delle indagini, subito dopo la scomparsa della ragazza, fu anche depistata da elementi frutto della fantasia». Lo ha ripetuto: «Ho esposto un mio concetto in modo errato, banale, e mi sono pentito di averlo spiegato in questa maniera. Intendevo dire – ha precisato Panico – che subito dopo la scomparsa di Elisa non ci furono solo reali depistaggi, come quelli di Danilo Restivo. Furono forniti agli investigatori anche elementi frutto di fantasia che determinarono errori nelle indagini, ma non erano depistaggi voluti». E i depistaggi, innocenti e meno innocenti, sono continuati dopo il ritrovamento. La famiglia Claps ne è convinta. Nel corso di una precedente udienza è emerso che c’era un quarto operaio la mattina del ritrovamento (nell’inchiesta della Procura di Salerno questo importante particolare non era stato accertato). Ieri mattina si è appreso che ora è un dipendente della ditta Lacerenza (l’impresa incaricata dalla Diocesi di effettuare i lavori nel sottotetto). Ma al contrario di quanto emerso precedentemente il testimone sostiene che non è stato il quarto uomo a trovare i resti di Elisa. La ricostruzione dell’imprenditore - che lascia molti punti interrogativi - è questa: da un paio di sopralluoghi emerse la necessità di risistemare il terrazzo della chiesa, allagato per l’ostruzione di una grondaia, ma non il sottotetto. L’umidità in chiesa «non era in corrispondenza con l’angolo nel sottotetto» in cui è stata trovata Elisa. «Vidi che la porta del sottotetto - ha sostenuto Lacerenza - era aperta e chiesi di chiuderla e pulire la grondaia antistante e per questo mi sono rivolto a un’altra ditta specializzata in queste cose, ma fu l’operaio a scegliere di ispezionare anche l’abbaino, e mi chiamò terrorizzato spiegandomi di aver trovato uno scheletro». Sulla presenza del quarto operaio l’imprenditore ha spiegato di averlo saputo solo dalle recenti cronache giornalistiche, chiedendo poi spiegazioni: «Fu chiamato – ha concluso – solo per recuperare alcuni attrezzi ma mi hanno spiegato che non è salito sul sottotetto, e lui stesso me lo ha confermato quando di recente l’ho incontrato, suggerendogli anche di recarsi in Questura per precisare i dettagli di questa vicenda». L’imprenditore ha detto che il quarto uomo è arrivato sul posto quando i resti di Elisa erano già stati ritrovati. L’altro operaio - è la versione di Lacerenza - avrebbe perso tempo a cercare i grattini per il parcheggio. Ma se l’umidità non era in corrispondenza con l’angolo del sottotetto in cui era nascosta Elisa perché fu necessaria quell’ispezione? Perché se i dipendenti appartenevano a un’altra ditta chiamarono Lacerenza e non il loro datore di lavoro? La chiesa della Trinità ha un parcheggio riservato, perché il quarto operaio perse tempo a cercare dei grattini per il parcheggio? Sono gli ulteriori interrogativi a cui il processo dovrà cercare di rispondere.

Omicidio Claps. Don Noel: mai salito nel sottotetto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Don Akamba Noel, sacerdote di origine congolese, ha retto la Chiesa della Santissima Trinità di Potenza tra ottobre 2007 e luglio 2008, in sostituzione di don Mimì Sabia, malato in quei mesi (e morto a marzo del 2008), ma «non è mai salito nel sottotetto dell’edificio» dove nel 2010 fu trovato il cadavere di Elisa Claps. È uno degli elementi emersi nel corso del processo per falsa testimonianza a due donne che si occupavano delle pulizie nella chiesa, che si sta svolgendo a Potenza. Don Noel è stato nominato «cooperatore parrocchiale» dal vescovo di Potenza, monsignor Agostino Superbo, il 4 ottobre 2007: a febbraio dell’anno successivo ha ricevuto poi l’incarico di «amministratore parrocchiale». Rispondendo alle domande dell’avvocato della famiglia Claps, Giuliana Scarpetta, don Noel ha spiegato che «in quei mesi andavo solo a celebrare la messa la mattina e il pomeriggio» senza «occuparmi di altro» e senza «mai aver dato istruzioni o compiti a nessuno, nemmeno alle donne delle pulizie», dicendo di non ricordarsi delle due donne imputate nel processo. Il sacerdote ha quindi raccontato di aver visto del materiale di risulta nel cortile «ma non mi sono mai chiesto l’origine di quel materiale», evidenziando quindi di non sapere «che una parte fu usata per rompere la vetrina di un negozio nei pressi della Trinità». «Ho solo chiesto – ha aggiunto – ad alcuni ragazzi che venivano in chiesa di ripulire il giardino perchè era sporco, e questo fu fatto, ma non davo mai compiti a nessuno, e in molti avevano le chiavi dell’edificio». La storia di Elisa «l'ho appresa dalla stampa», ma «non ne ho parlato mai con nessuno», nemmeno con don Mimì Sabia, precisando «solo di sapere che l’accesso nel sottotetto non era permesso, perchè era sotto sequestro, e mi hanno spiegato che era a causa delle indagini»; quando il cadavere fu ritrovato, nel 2010, il sacerdote era in Congo e fu informato da un «amico sacerdote, don Rodrigo», che adesso vive in Sardegna «spiegandomi che avevano trovato una ragazza morta nella Trinità», ma anche in questo caso «non ne ho mai parlato con nessuno successivamente». Al termine dell’udienza la madre di Elisa, Filomena Iemma, ha fermato don Noel e gli ha detto ironicamente «grazie per tutte le fandonie che hai detto oggi».

Una lettera è rimasta nell’appartamento del parroco, al secondo piano della chiesa della Trinità di Potenza, per 17 anni. Come Elisa. Continua Fabio Amendolara. Anche lei è rimasta per 17 anni chiusa in quella chiesa, ma nel sottotetto. Il giorno del ritrovamento dei resti di Elisa è stata trovata anche la lettera. Come se i due ritrovamenti fossero in qualche modo legati l’uno all’altro dal destino. Su un foglio beige manoscritto, indirizzato alla famiglia Claps, c’erano poche parole impresse con grafia d’altri tempi e inchiostro nero. Frasi di circostanza e un particolare che lasciava intendere che Elisa era andata via. Che si era allontanata di sua volontà. E invece era proprio lì. In quella chiesa. Nel sottotetto. poco più sopra dell’appartamento in cui è stata conservata quella lettera rivolta alla famiglia Claps, ma mai spedita. In basso, sulla destra, una sigla: «D. S.». Gli investigatori hanno sospettato subito di lui. Del parroco. E lo hanno scritto: «Verosimilmente è una lettera di don Domenico Sabìa, conosciuto da tutti come don Mimì». La grafia - sono le valutazioni fatte dagli investigatori durante la repertazione del documento - è la stessa di quella impressa sull’agenda personale del parroco e sulle ricevute dei pagamenti per le piccole spese che il sacerdote conservava in Canonica. La segnalazione della Squadra mobile di Potenza - all’epoca diretta dal vicequestore aggiunto Barbara Strappato - è arrivata poco dopo in Procura a Salerno. Ma, a quanto pare, non è finita tra gli atti dell’in - chiesta. Né tra quelli del processo. «Noi non sappiamo nulla di quella lettera», conferma Gildo Claps, fratello di Elisa. E aggiunge: «Non ne siamo mai stati informati». Era un particolare irrilevante? La data: «19 settembre 1993». Elisa era stata uccisa da una settimana. In quel momento però in città a Potenza tutti sapevano che era solo scomparsa. Tutti tranne Danilo Restivo che, per la giustizia, è l’assassino. E, forse, tranne chi l’ha aiutato a restare nell’ombra per 17 anni. Gli uomini che hanno fornito «le coperture» denunciate da anni dalla famiglia Claps e che ormai non sta cercando più nessuno. Gli investigatori hanno provato a capire se quella lettera, diventata un reperto giudiziario, fosse in qualche modo collegata alla morte di Elisa. E hanno ricostruito gli spostamenti di don Mimì che proprio il pomeriggio di quel 12 settembre era partito per Fiuggi. Il viaggio per le terme era prenotato da tempo. Ma don Mimì era dovuto tornare di corsa a Potenza il 16 per la convocazione in Questura. Disse velocemente di non conoscere Elisa, di conoscere appena Danilo e di non essersi accorto di nulla quella domenica mattina (confermò gli stessi particolari successivamente durante il processo per la falsa testimonianza di Restivo). Don Mimì sarebbe poi ripartito il 17 per completare le terme e avrebbe fatto rientro a Potenza il 24. Quando scrisse la lettera indirizzata ai Claps, quindi, era a Fiuggi. Il sacerdote potrebbe anche averla scritta successivamente, retro-datandola al 19 settembre. E anche se l’ipotesi del depistaggio è la prima che è venuta in mente a chi ha potuto leggere il documento, è difficile credere che in realtà quella lettera fosse rivolta a chi l’avrebbe trovata successivamente. Ma perché impegnarsi a scrivere una lettera per poi non spedirla? E perché conservarla per tutto quel tempo? Sono domande a cui - dopo 21 anni - sarà difficile rispondere.

Luigi Di Lauro, giornalista Rai, indagato per omicidio di Anna Esposito, scrive “Blitz Quotidiano”. C’è un indagato nell’inchiesta sulla morte di Anna Esposito, la commissaria di polizia di Potenza che indagava sulla scomparsa di Elisa Claps e che è stata trovata impiccata con una cintura alla maniglia della porta di casa il 12 marzo del 2001. L’uomo è Luigi Di Lauro, 48 anni, giornalista Rai di Potenza, riferisce Francesco Viviano su Repubblica. Di Lauro è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di “omicidio volontario”. L’ipotesi degli inquirenti è che Anna Esposito sia stata uccisa per “motivi passionali”. Di Lauro prima di sposarsi aveva avuto una lunga e tormentata relazione con Esposito, separata e madre di due bambini. Ricorda Viviano che “Di Lauro, alcuni giorni dopo il “suicidio”, era stato sentito come “persona informata dei fatti” fornendo un alibi “non molto convincente”. Secondo le perizie dei medici legali la donna era morta tra le 21 e le 22 del 12 marzo del 2001 e il giornalista aveva sostenuto di avere incontrato il commissario lasciandola a casa intorno alle 20″. L’iscrizione nel registro degli indagati di Di Lauro è una vera e propria svolta che arriva in una inchiesta in cui non sono mancati, scrive Viviano, “buchi e reticenze anche da parte di alcuni colleghi del commissario Esposito: quelli che senza un motivo plausibile, quel giorno di 13 anni fa andarono nella casa di servizio della Questura di Potenza dove abitava la donna “perché aveva ritardato di qualche ora in ufficio”, inquinando così la scena del delitto senza avvertire il magistrato”. Agli atti dell’inchiesta c’è anche un dettagliato rapporto dell’ex capo della Mobile di Potenza che evidenzia “omissioni nella precedente indagine che fu incredibilmente archiviata come “suicidio”. Ma un suicidio impossibile: il cappio al collo con una cintura di cuoio fissata sulla maniglia di una fragile porta dell’appartamento, a un metro e tre centimetri di altezza, con il bacino della vittima che sfiorava il pavimento. Quando i colleghi di Anna entrarono in casa sfondando la porta, fecero molti errori, e il magistrato di turno trovò tutto sottosopra: cassetti rovistati, anche in ufficio e soprattutto l’agenda personale di Anna con le pagine strappate”.

Il giallo dell’autocensura si abbatte sulla trasmissione “Chi l’ha visto?” in merito al caso di Anna Esposito, la dirigente della Digos di Potenza, trovata morta in casa nel marzo del 2001. Da subito si pensò al suicidio, scrive Luca Cirimbilla su "L'Ultima Ribattuta". Ora, dopo 13 anni, la procura di Potenza ha aperto un fascicolo per omicidio e, secondo “Chi l’ha visto?” una persona risulta iscritta nel registro degli indagati. Senza specificare chi. A fare il nome e cognome, ci ha pensato ieri il giornalista de la Repubblica, Francesco Viviano. Il sospettato è Luigi Di Lauro, giornalista Rai, volto noto del Tg3 della Basilicata che ha avuto una relazione con Anna Esposito. Davvero una strana mancanza per una trasmissione come “Chi l’ha visto?” che da sempre si contraddistingue per dare notizie esclusive ed in anteprima, molto spesso anche decisive per le indagini. La trasmissione sin dal suo debutto ha contribuito allo sviluppo di molti casi, spesso sostituendosi alle autorità competenti. Anna Esposito venne trovata in casa impiccata con una cinta stretta al collo annodata alla maniglia della porta del bagno. Tutto ha fatto pensare, in questi anni, appunto, al suicidio, ma ci sono ancora troppi dubbi. A ricostruire la dinamica del ritrovamento del cadavere è stata proprio l’ultima puntata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli.  Eppure stavolta sembra che “Chi l’ha visto?” abbia preferito mantenere un certo riserbo nelle indagini. La donna trovata morta in casa sua, all’interno del palazzo-caserma a Potenza, aveva avuto 2 figlie dal matrimonio. Poi arrivò la separazione dal marito e la frequentazione con un uomo. Per la sua morte la Procura di Potenza aprì un fascicolo per istigazione al suicidio. Dieci mesi dopo il decesso il pm Claudia de Luca chiese l’archiviazione del caso, nonostante avesse evidenziato alcuni passaggi poco chiari. Tra le incongruenze, riportate dal padre della vittima intervistato da “Chi l’ha visto?”, ci sarebbe un chewing-gum risultato ingoiato dalla vittima attraverso l’autopsia effettuata sul corpo. Questo farebbe presupporre a uno strangolamento improvviso, prendendo la donna alle spalle, da qualcuno che la vittima conosceva molto bene. A chiamare in causa Di Lauro ci sarebbero alcuni sms scambiati con Anna Esposito due giorni prima della morte. “Sai che ti amo anch’io” le scrisse. Il giornalista Rai, ora sposato, cominciò a frequentare la Esposito quando aveva già una relazione. Proprio il padre della Esposito ha sottolineato come non sia stato effettuato il rilevamento di Dna sulla cinta o l’analisi delle unghie della vittima, in caso di tentativo di difesa. Ad escludere il suicidio ci sarebbe anche la frattura della cricoide, una cartilagine che molto difficilmente si può rompere in un soggetto esile come quello di Anna Esposito e attraverso la dinamica di un suicidio come quello in cui la donna è stata ritrovata, ovvero impiccata da una bassa altezza come la maniglia di una porta. Alcuni colleghi, inoltre, hanno raccontato come la Esposito, nel periodo in cui frequentava Di Lauro, avesse mostrato numerosi segni di violenza sul corpo. L’ex marito e alcuni amici, invece, hanno ricordato che la vittima raccontò loro dei maltrattamenti subiti dall’allora fidanzato e che lui pretendeva prestazioni sessuali molto particolari. Perché la trasmissione della Sciarelli ha chiuso la ricostruzione senza dire il nome dell’iscritto nel registro degli indagati? Un caso di apparente suicidio si è dunque riaperto, ma un alone di mistero si sta riversando sulla strana censura che, questa volta, si è autoimposta la trasmissione “Chi l’ha visto?”.

Come è morta Anna Esposito, commissario capo, dirigente della Digos della Questura di Potenza trovata, il 12 marzo 2001, esanime nel suo appartamento di servizio nella caserma Zaccagnino del capoluogo lucano? Suicidio, sentenziò l’archiviazione dell’inchiesta. Dodici anni dopo le indagini, però, sono ripartite. Il gip del tribunale lucano Michela Tiziana Petrocelli ha dato al pubblico ministero, Sergio Marotta, sei mesi per indagare. Ipotesi: omicidio volontario.

Anna Esposito, nata a Cava de’ Tirreni (Salerno), 35 anni, separata, due bambine, era alla guida della «squadra politica» della questura potentina dal 1998. Prima donna ad assumere quell’incarico. Venne trovata con la gola imbrigliata in un cinturone assicurato a una maniglia di una porta. Uno strano modo per suicidarsi. La stessa autopsia, che confermò nello strangolamento la causa della morte, non potè non far rilevare l’atipicità di quel suicidio: perché i piedi della donna toccavano il pavimento, perché l’ansa di scorrimento della cinta (che misurava solo 93 centimetri) era posta anteriormente sul lato destro, mentre più normalmente avrebbe dovuto disporsi nella parte posteriore del collo. Vicino al cadavere fu trovata una penna, ma nessun foglio. Né biglietti con una qualche traccia che potesse spiegare il suicidio. Le indagini della procura di Potenza misero a soqquadro la vita professionale e personale di Anna Esposito. In particolare furono passate al setaccio le ore antecedenti al momento presunto della morte.

Furono vagliate diverse posizioni, in particolare di un giornalista con cui Anna aveva avuto una storia d’amore. Ma nulla portò a una direzione diversa da quella del suicidio. E così l’inchiesta fu archiviata. Restarono molte domande senza risposte e molti dubbi. E ad alimentare il giallo si aggiunse una dichiarazione fatta da Gildo Claps, il fratello di Elisa, uccisa a Potenza il 12 settembre 1993 da Danilo Restivo, alla trasmissione «Chi l’ha visto?». «La mamma di Anna Esposito - disse in tv Gildo Claps - mi ha detto che la figlia alcuni giorni prima di morire le aveva confidato che in Questura qualcuno sapeva dove fosse sepolta Elisa». Una dichiarazione che fece partire un’inchiesta della Procura di Salerno, dove c’erano le indagini sul caso Claps. Inchiesta che tuttavia ha stabilito l’inesistenza di collegamenti con il caso Claps. La nuova indagine riparte dalle carte rientrate da Salerno e da un’inchiesta giornalistica della Gazzetta del Mezzogiorno su particolari mai sviluppati dopo la morte di Anna Esposito. Sono in tanti sulla scena del crimine quel lunedì mattina di 12 anni fa, scrive Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sono testimoni preziosi di un’inchiesta difficile: quella sulla morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito. L’altro giorno la Procura di Potenza ha ottenuto dall’ufficio gip - come svelato ieri dalla Gazzetta - il «via libera» per la nuova inchiesta. Ora la Procura ha sei mesi di tempo per risolvere il giallo. I primi ad arrivare nell’alloggio del commissario quella mattina sono tre ispettori della Digos e il dirigente dell’Ufficio del personale della Questura di Potenza. Ognuno di loro scriverà una relazione di servizio al capo della Squadra mobile. A coordinare le operazioni di sopralluogo all’epoca c’è una collega di Anna, anche lei è commissario: Teresa Romeo. Scrive: «Preciso che al momento del ritrovamento il corpo era in posizione quasi supina, con le spalle lato anteriore e le mani appoggiate alla porta del bagno, mentre le gambe erano in direzione del corridoio, inoltre la cinghia di cuoio era legata con un solo nodo alla maniglia della porta». Anche gli ispettori Gianfranco Di Santo e Antonio Cella descrivono ciò che hanno visto nell’alloggio del commissario Esposito: «Le spalle erano addossate alla porta del bagno con le gambe distese in direzione del corridoio e stretto al collo abbiamo notato una cintura per pantaloni in cuoio legata alla maniglia della porta del bagno». Nelle due relazioni di servizio le spalle di Anna sono appoggiate alla porta del bagno e le gambe sono distese in direzione del corridoio. Se così fosse la borchia di ferro della cintura si sarebbe posizionata dietro alla nuca della vittima. Ma nella relazione medica l’impiccamento viene descritto come «atipico» proprio perché il segno della borchia non è alla nuca, ma «posta anteriormente sul lato destro». I tre poliziotti hanno visto male? O sbagliano i medici? Il pubblico ministero della Procura di Potenza, Claudia De Luca, che all’epoca archiviò il caso come «suicidio», si accorse della contraddizione e convocò nel suo ufficio il commissario, i due ispettori che hanno firmato la relazione di servizio e un terzo ispettore che era presente al momento del ritrovamento ma che, però, non sottoscrisse l’informativa. Davanti al magistrato la versione dei poliziotti-testimoni cambia. E cambia anche la posizione in cui è stata trovata Anna. Ecco la nuova versione del commissario: «Anna aveva una cintura stratta al collo con un lato annodato intorno alla maniglia della porta del bagno e la spalla sinistra e la testa poggiate sulla porta. Sono rimasta colpita dai pugni chiusi e dall’espressione del volto che mi sembravano determinati». Le spalle non sono più appoggiate alla porta. Nella descrizione spariscono le gambe «in direzione del corridoio» e compaiono due nuovi particolari: i pugni chiusi e l’espressione del volto «determinata». Cambia anche la descrizione dell’ispettore Cella: «Ho notato la Esposito per terra nelle vicinanze della porta del bagno, con una cintura al collo legata da un lato alla maniglia della porta, con la spalla sinistra poggiata sulla porta, la testa leggermente chinata all’indietro». La testimonianza dell’ispettore Di Santo, su questo punto, è identica a quella del collega: cintura legata da un lato al collo e da un lato alla maniglia della porta del bagno, la testa leggermente chinata all’indietro. Di Santo aggiunge il particolare delle gambe: stese per terra. L’ispettore Mario Paradiso, invece, pur avendo scassinato la porta dell’alloggio e nonostante fosse entrato per primo, sostiene di non aver visto il corpo del commissario: «Non ho visto materialmente la posizione in cui è stata trovata la vittima prima che fosse slegata dalla cintura». Sono passati solo quattro giorni dal sopralluogo e resoconti e relazioni sembrano non combaciare completamente con lo stato dei luoghi. La posizione del volto in linea con la maniglia della porta avrebbe favorito lo scivolamento della cintura. Inoltre, la borchia di ferro della cintura, come dimostrano le fotografie della Scientifica e la relazione medica, si è posizionata sul lato destro del collo. Se tutto fosse andato come descritto al magistrato dai poliziotti-testimoni, la borchia - chiudendosi la cintura a mo‘ di cappio - si sarebbe posizionata sulla guancia sinistra e non sulla destra o, al limite, al centro della gola. Sbrogliare questo intoppo potrebbe far ripartire l’inchiesta.

E poi lo scandalo dei rimborsi. Per 40 dei 42 tra ex assessori, consiglieri regionali in carica e non, imprenditori e professionisti indagati per i rimborsi «scroccati» alla Regione Basilicata la Procura di Potenza ha depositato al gip la richiesta di rinvio a giudizio. Esclusi due consiglieri regionali che erano presenti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari: Enrico Mazzeo Cicchetti ed Erminio Restaino. A loro due si aggiungono Prospero De Franchi e Gaetano Fierro, le cui posizioni erano già state stralciate dal procedimento principale e archiviate. Oltre ai pranzi, agli spuntini, ai viaggi, alle caramelle, alle sigarette, ai soggiorni in camere d’albergo matrimoniali con «persone non autorizzate» e al parquet di casa ci sono le cene politiche in giorni in cui contestualmente si documentano spese effettuate a centinaia di chilometri di distanza. Ci sono richieste di rimborso per cancelleria e per le gomme dell’auto. Ci sono i viaggi con la famiglia o con l’amica spacciati per «missioni» nei ministeri romani. Spese domestiche, regali, ricariche telefoniche. «Peculato», lo chiama il procuratore della Repubblica di Potenza Laura Triassi. È l’inchiesta sulla rimborsopoli che ha messo in ginocchio il consiglio regionale.

LO SCANDALO DEI RIMBORSI PUBBLICI FACILI.

La politica, si sa, è fatta di ipocrisia. Il bue chiama cornuto l'asino. Nell'essere degli incapaci ad amministrare ed a rubare soldi pubblici, però, son tutti uguali. Scandali in Italia, ne sorgono senza limiti di tempo o di territorio. Procura che vai, però, usanza che trovi. In Basilicata scattano le manette. Due assessori in carica e un consigliere in carica della Basilicata sono agli arresti domiciliari nell'ambito di un'inchiesta sull'uso illecito di rimborsi previsti per le loro attività, scrive “La Repubblica”. Gli assessori sono Vincenzo Viti (Pd, lavoro e formazione) e Rosa Mastrosimone (esterno in quota Idv, agricoltura), il consigliere regionale ai domiciliari è Nicola Pagliuca, capogruppo del Pdl. Le accuse, che coinvolgono in totale 11 persone, sono di peculato e false attestazioni nel biennio 2010-2011, a cavallo delle due legislature. Ma nell'ambito dell'inchiesta sui rimborsi illeciti, coordinata dal Procuratore capo della Repubblica di Potenza Laura Triassi, sono stati notificati anche altri provvedimenti cautelari. In particolare, otto divieti di dimora ai consiglieri regionali in carica Antonio Autilio (Idv), Paolo Castelluccio (Pdl), Agatino Mancusi (Udc), Mariano Pici (Pdl), Alessandro Singetta (Gruppo Misto), Mario Venezia (Pdl), Rocco Vita (Psi) e all'ex consigliere Vincenzo Ruggiero (Udc). Ad eccezione di quest'ultimo, per i sette consiglieri in carica il divieto di dimora consiste nell'impossibilità di soggiornare nella città di Potenza. Per Ruggiero, il divieto si riferisce al paese di Valsinni, in provincia di Matera, dove l'ex consigliere regionale ricopre un incarico politico. La somma dei rimborsi percepiti illecitamente ammonta complessivamente a circa 170 mila euro, rende noto la Procura. Sono stati decisi sequestri a carico degli indagati per una somma equivalente, in particolare sono stati posti sotto sequestro conti correnti per un valore totale di circa 100mila euro. In dettaglio, le somme sequestrate agli assessori e ai consiglieri regionali lucani indagati variano tra i 5mila e i 18 mila euro. E' "uno scenario di diffusa illegalità", spiega il procuratore Triassi, quello che emerge dall'inchiesta sui rimborsi illeciti percepiti da assessori e consiglieri della Regione Basilicata, preannunciando "certamente" altri indagati e "possibili evoluzioni" di un'inchiesta partita dal sequestro di un'ingente documentazione presso gli uffici regionali nello scorso ottobre. Una volta analizzato il materiale, l'attenzione degli inquirenti si è soffermata su situazioni evidentemente meritevoli di verifiche e approfondimenti. Sotto la lente di ingrandimento della Procura, i rimborsi per pranzi e cene, voce di costo che il Consiglio riconosce per il vitto, ma molto, molto elevati. E dalle verifiche si è accertato anche che quasi tutte le ricevute erano state emesse dagli stessi ristoranti. L'assessore Vincenzo Viti avrebbe speso, nel 2011, 25133 euro per la ristorazione, 68 euro per ogni giorno dell'anno, festività e vacanze comprese. Sempre due anni fa, alla voce "materiali di consumo", lo stesso Viti presentò una richiesta di rimborso da 7.288 euro, identica cifra contabilizzata nel 2010. Ma tra i rimborsi è finito ben altro: la sostituzione degli pneumatici, spese per viaggi e vacanze, accompagnati da parenti (più o meno stretti), persino il rimborso delle spese sostenute per la cresima di un nipote. Dalle indagini e dagli elementi acquisiti sono emersi anche casi di alterazione di scontrini e ricevute: a piccole somme veniva anteposto un altro numero per moltiplicare di molte volte l'importo totale. In generale gli indagati si sono fatti rimborsare spese di ristorazione, anche non direttamente proprie, viaggi anche non fatti, consulenze non vere, lavori nelle loro case. Vi sono anche episodi di doppia presentazione delle ricevute a distanza di tempo. La Basilicata non è scenario inedito di indagini sui costi della politica. Il 10 aprile scorso è arrivato a sentenza di primo grado il processo su altri quattro esponenti del Consiglio regionale, due in carica (Franco Mattia del Pdl e Franco Mollica dell'Udc) e due ex (Prospero De Franchi e Giacomo Nardiello) che sono stati condannati a un anno e 8 mesi di reclusione, con pena sospesa, per falso e truffa. Accusati, attraverso un'inchiesta avviata dal pm Henry John Woodcock, di aver percepito rimborsi chilometrici forfettari non dovuti per la trasferta dal comune di residenza a Potenza, sede del Consiglio regionale. I fatti riguardano la passata legislatura. I politici condannati hanno annunciato che ricorreranno in appello.

Uno scandalo mediatico, oltre che giudiziario. Basta che non finisca ancora una volta con un proscioglimento, così come racconta Fabio Amendolara su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Prosciolto dopo 7 anni. «L’incubo cominciò con titoli dei giornali». «Ero un indagato tra altri 70, ma uscì fuori solo il mio nome, quello del presidente della Regione e dell’ex ministro Clemente Mastella». Qualche giorno fa, Achille Campochiaro, fisioterapista e proprietario di un centro estetico a Potenza è stato prosciolto. La formula: «Il fatto non sussiste», spiega il suo difensore, l’avvocato Francesca Sassano. Il procedimento - coordinato dal pm Henry John Woodcock inizialmente era stato proposto come uno dei tanti scandali del settore della sanità - è approdato all’udienza preliminare dopo ben sette anni. Una notizia uscita troppo in fretta, nella fase iniziale dell’inchiesta, non gli diede la possibilità di difendersi e finì nel tritacarne: «In quel momento sapevo solo che la Procura mi accusava di truffa ai danni della Regione ma negli articoli di giornale, perché è così che ho appreso dell’indagine, era tutto troppo fumoso. Non sapevo cosa replicare a quell’avviso di garanzia a mezzo stampa». Risultato: «Da fisioterapista sono stato per diverso tempo in stand-by, non venivo pagato, e il mio centro estetico perdeva prenotazioni giorno dopo giorno».

L’inchiesta della Procura però c’era davvero. «Il primo atto ufficiale è arrivato un paio d’anni dopo gli articoli di giornale. Mi sono difeso nel processo perché a quel punto le accuse erano chiare e il risultato è che un giudice ha stabilito la mia completa estraneità. Il dramma è stato nella fase iniziale. Non sapevo da cosa difendermi».

Di cosa era accusato? «Truffa aggravata ai danni della Regione Basilicata e del Servizio sanitario nazionale».

Da fisioterapista o da imprenditore? «Sul giornale uscì a titoli cubitali che il mio centro estetico truffava il Servizio sanitario fornendo a politici massaggi spacciati da trattamenti di fisioterapia. Nell’indagine però di quell’aspetto non c’era traccia. In prima pagina accanto alla mia foto c’era quella del ministro Mastella. Mi hanno indagato insieme a tutti gli operatori di due centri di fisioterapia potentini. Sotto esame c’erano le fatture. E io non c’entravo nulla. Né con i politici, né con le fatture. Ma dopo la pubblicazione delle notizie al centro di fisioterapia ho dovuto rinunciare a diversi onorari e il danno anche lì è stato notevole».

Campochiaro imprenditore, insomma, non era nella mente degli investigatori. «Ricordo di un tizio che venne al centro estetico con delle ricette mediche chiedendo prestazioni di fisioterapia. Gli dissi che da noi non era possibile e gli indicai i vari centri a cui avrebbe potuto rivolgersi».

Il precedente di Michele Siletti, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. C’è un precedente. Sempre nel settore della fisioterapia. Un imprenditore di Potenza, Michele Silletti, finì in un’inchiesta giudiziaria nel 2001. Aveva un centro di fisiokinesiterapia ben avviato e convenzionato con l’Asl. Nonostante le assoluzioni con formula piena non è stato mai reintegrato. Vittima di due indagini da parte della Procura, sfociate entrambe in sentenze di assoluzione, Silletti non è più «rientrato» nel rapporto contrattuale con la Asp, sebbene fosse in possesso di tutte le autorizzazioni previste. Insomma fatto fuori dal mercato della fisioterapia sulla scia di indagini rivelatesi infondate e marginalizzato dal mercato. La vicenda giudiziaria che travolse Silletti si sviluppò attorno al teorema accusatorio che parlava di un «sistema di gestione privatistica della sanità». Furono arrestate 19 persone con accuse pesanti: associazione a delinquere finalizzata alla truffa, ai danni del Sistema sanitario nazionale, concorso in truffa aggravata e continuata e falsità ideologica per ufficiali dell’ anagrafe e medici. Era suggestivo il nome dell’operazione, «Ippocrate». Secondo la Procura di Potenza l’inchiesta portò alla scoperta di «un sistema, a dir poco spregiudicato e peraltro sedimentato nel tempo, di gestione illecita di un settore di massimo interesse pubblico, attraverso la creazione di un vero e proprio sodalizio criminoso». Accusa che è stata sgretolata dalla sentenza di assoluzione. Ma Silletti continua a pagare in termini di lavoro e marginalizzazione.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA.

“La colpa di Ottavia. La bambina che nessuno ha cercato”. Di Sarah Scazzi tanto si è parlato. Finalmente un libro dedicato alla scomparsa di Ottavia De Luise. Scomparsa a 12 anni, in un libro la ricostruzione dei fatti. Ottavia De Luise svanì nel nulla a Montemurro nel 1975. Accadde il 12 maggio 1975, Ottavia uscì da scuola e non tornò mai a casa. In un paese piccolo, dove tutti si conoscono. Sembra un nuovo caso Claps. Per 35 anni di lei non si è saputo più nulla, fino a che il ritrovamento di Elisa Claps non ha fatto tornare alla luce quest’altra storia, meno famosa, così dimenticata. Ora, la novità. In un pozzo non lontano dal paese sono stati trovati quelli che la polizia scientifica ha definito “reperti”. Il pozzo cisterna è proprio nella zona dove alcune lettere anonime, in passato, avevano suggerito di cercare Ottavia. Ed ecco la storia. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l’ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17.00, non vedendo la figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese.

Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All’epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c’era solo un carabiniere. In aiuto e supporto alle indagini, dopo ben più di venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani: come prevedibile non emerse nulla. Le prime 48 ore sono le più importanti. Solitamente, trascorsi due giorni, le probabilità di trovare un minore in vita diminuiscono in maniera vertiginosa. La famiglia, all’epoca dei fatti, segnalò a quell’unico carabiniere, un possibile sospettato: un uomo che viveva da solo, e che già in passato aveva approcciato con Ottavia, invitandola in casa. Ma l’abitazione di questa persona non venne mai perquisita. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all’archiviazione del caso. Poi ci chiediamo perchè scompaiono così tanti ragazzi? La risposta secondo me sta nel mancato esercizio da parte della magistratura di svolgere il proprio compito in tempi brevi.

Ottavia De Luise scompare da Montemurro il 12 maggio del 1975.

Era una bambina di 12 anni. Le indagini della prima ora furono condotte male e senza interesse. Qualcuno in paese ebbe il coraggio di definire la 12enne una di "facili costumi". Uno stupido pregiudizio che fece archiviare la scomparsa della ragazzina in men che non si dica. Un libro scritto a quattro mani da Fabio Amendolara, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno ed Emanuela Ferrara, anch'ella giornalista, ricostruisce la vicenda nei minimi dettagli alla luce anche delle nuove indagini aperte nel 2010 dalla procura di Potenza. Indagini che però, ad oggi non hanno dato alcuna risposta ai familiari della piccola. "La colpa di Ottavia" è il titolo del libro di Amendolara e Ferrara. Ottavia De Luise ha 12 anni ed è l'ultima di otto fratelli. Scompare nel nulla il 12 maggio del 1975 in un piccolo borgo della Basilicata, Montemurro. A oltre 35 anni dalla scomparsa, questo libro, nella forma di una breve inchiesta giornalistica, presenta una serie di documenti (riportati in modo integrale), testimonianze e prove che mettono in luce tutto ciò che si poteva fare e non è stato fatto. Su questa vicenda, che ha segnato anche sul piano simbolico la Basilicata, purtroppo non ci sono ancora verità. Questo libro, presentato dalla conduttrice di "Chi l'ha visto?" Federica Sciarelli, non si limita a ricostruire la cronaca di quella scomparsa. Ma è una indagine contraria alle numerose versioni ufficiali e ufficiose, spesso diverse tra loro, se non addirittura opposte e contrastanti, presentate fino a oggi. Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi? La tragica storia di Ottavia, scomparsa nel nulla a Montemurro nel 1975, potrebbe sembrare lontana: sono passati troppi anni e il suo mondo, paese dell’entroterra lucano, arretrato, isolato, fissato per sempre nel tempo, ci appare distante, sbiadito come la vecchia foto che la ritrae, unica traccia rimasta di quella vita spezzata. Eppure il libro di Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, con sobrietà ed efficacia, ci permette di riattraversare quella vicenda, facendoci avvertire tutta l’attualità del dolore e degli interrogativi che impietosamente ci pone. Perché nessuno ha mai cercato Ottavia De Luise? Questo si chiede Stefano Nazzi.

Quando Ottavia De Luise sparì, il 12 maggio1975, l’Italia era molto diversa da quella di oggi. Il referendum sul divorzio c’era stato da un anno, di legge sull’aborto non si parlava nemmeno. C’era Paolo VI, allora, e quell’anno era Anno Santo. Ottavia aveva 12 anni, scomparve a Montemurro, in Basilicata, un vecchio villaggio proprio in mezzo alla regione. Ci vivono oggi meno di 1.500 persone.

Ottavia uscì da scuola, venne vista lungo quella che chiamano strada per Armento, un paese vicino. Poi più nulla. La cercarono poco e male. Il fatto è che Ottavia, nell’Italia di allora, in quel vecchio villaggio, era vista come una poco di buono. Una che stava con i grandi, gli adulti. Oggi quegli adulti verrebbero arrestati per pedofilia, per abusi. Allora si chiudeva un occhio: era Ottavia la “mela marcia”. Dicevano che si facesse dare 100 lire per farsi toccare. Era bella, dice chi se la ricorda, bionda, e alta per la sua età. Poi, improvvisamente, 35 anni dopo, qualcuno è tornato a cercare. È stata la scoperta del corpo di Elisa Claps, poco lontano, a Potenza, a spingere il fratello di Ottavia, Settimio, a chiedere che si riaprissero le indagini. Negli anni erano anche arrivate un paio di lettere anonime: “Cercate in quella tenuta”, era scritto. Non doveva essere difficile capirci qualcosa se in pochi giorni di ricerche sono stati trovati alcuni reperti, in una cisterna proprio nella zona dove Ottavia venne vista l’ultima volta. E qualcuno ha anche iniziato a ricordare qualcosa. Perché in un paese di 1.500 abitanti è come stare seduti in un cinema grande, alla fine le facce rimangono impresse. Così a Montemurro, figuriamoci, si conoscono tutti. E volete che qualcuno non sapesse chi erano quei grandi che passavano il tempo con Ottavia? No, qualcuno sapeva. Tanti, probabilmente. Così ci si è ricordati di un uomo, lo chiamavano il “viggianese”: lui pagava un cono gelato a Ottavia per toccarla; quando fu interrogato, dopo la scomparsa della ragazzina, era pieno di graffi ma la cosa finì lì. In paese da tempo pensavano che fosse morto. Non lo è: vive a Torino, ha 87 anni, è malato. Magari lui non c’entra nulla, chissà: erano tanti gli adulti di Ottavia, uno di loro era il proprietario del terreno dove si trova la cisterna dei reperti. Intanto Settimio, il fratello della ragazzina, ha denunciato il comandante della stazione dei carabinieri di allora. Dice che non indagò affatto, che lasciò correre. Perché Ottavia era una poco di buono. Luisa, la mamma della ragazzina, oggi non vive più a Montemurro, sta al nord, anche lei a Torino. L’unica cosa che vuole, che ha sempre voluto, è seppellire sua figlia. Trovarla e seppellirla. Lei l’ha sempre pensato che Ottavia era morta. Speriamo che ci riesca, che possa farle quel funerale che sempre sognato. Le mamme di solito sognano un matrimonio per la figlia, Luisa De Luise è stata costretta a sognare un funerale. E speriamo che con Ottavia si seppellisca quell’Italietta falsa e codarda che in 35 anni non l’ha mai voluta cercare. Nulla ha però a che vedere con la vicenda il successivo arresto del fratello di Ottavia, Settimio. I Carabinieri di Marsicovetere hanno arrestato a Villa d’Agri Settimio De Luise, di 52 anni, accusato di stalking e di atti persecutori nei confronti della ex moglie, scrive “Il Giornale Lucano”. Da tempo l’uomo molestava l’ex compagna, e per questo a suo carico era stato emesso un più volte disatteso divieto di avvicinamento. La donna, a causa dell’atteggiamento dell’ex marito, delle minacce e delle ingiurie, ha subìto un perdurante stato ansioso e ha temuto per la sua incolumità, al punto da cambiare le sue abitudini di vita.

De Luise, che dopo l’ennesima violazione dell’ordine restrittivo è ora ai domiciliari, è fratello di Ottavia, la bambina di Montemurro comparsa il 12 maggio 1975, a 12 anni e senza lasciare traccia, ma non vi è alcun legame tra la vicenda che pochi giorni fa ha compiuto 37 anni di mancate risposte e l’accusa di stalking.

Altro libro che racconta i misteri lucani è “Sia fatta ingiustizia-La storia vera di Giuseppe, scritto da Giusi Cavallo, giornalista professionista, direttore della testata giornalistica “Basilicata24” e Michele Finizio che di quella testata è il direttore editoriale. In questo libro scoprirete una storia incredibile. Vera. Non ancora finita. Lui è Giuseppe Satta, giovane ingegnere sposato, con due bambini. Una vita familiare felice, senza problemi particolari. Il lavoro, la casa, la pizza, le vacanze, il pranzo dai suoceri e dai genitori, le feste, la passeggiata in via Pretoria. Un giorno, anzi una sera, all’improvviso tutto si rompe, senza un apparente motivo. La vita di Giuseppe si capovolge, inspiegabilmente. L’uomo entra nel tunnel della disperazione, ma non perde la forza per reagire. Subirà umiliazioni, violenze psicologiche, ingiustizie, ma non mollerà. A farne le spese sarà soprattutto suo figlio, due anni e mezzo, adesso nove. Ma è Giuseppe che vogliono colpire, piegare, annientare.

Perché? E, innanzitutto, chi? Giuseppe ha pestato piedi importanti, ha messo in pericolo interessi inconfessabili, ha osato chiedere giustizia, ha violato l’Olimpo? Qualcosa non quadra, anzi nulla.

Sotto l’apparente vicenda di una separazione coniugale si nasconderebbe un intrigo inimmaginabile, dal ricamo quasi perfetto, ordito nel bosco dei poteri grandi e piccoli. Hanno distrutto una famiglia, hanno rovinato due bambini, forse irrimediabilmente. Hanno tenuto al palo un uomo, costringendolo a difendersi da accuse infamanti, incarcerato nel paradosso dei processi giudiziari, sgretolato dall’angoscia di perdere il suo bambino per sempre. Intanto la sua famiglia l’hanno fatta a brandelli. Chi è il colpevole? Quale il movente? C’è un libro, scrive Michele Finizio. Racconta una storia vera, paradossale, ma incarnata nella realtà. Per me che l’ho scritto insieme con Giusi Cavallo, è uno scompiglio leggerlo. Perché? A volte è difficile credere alla verità. Vorresti una bella menzogna rassicurante, una stronzata ansiolitica per continuare a guardare il mondo con gli occhi dell’ingenuo. O forse con gli occhi dell’imbecille. Spesso ti chiedi perché devi essere tu a raccontare certe storie, a denunciare prepotenze, violenze, abusi. Già, perché tu? Perché noi? Cara Giusi, forse ci denunceranno. Sai, le solite intimidazioni. Quei poteri di carta pesta indurita dallo sputo della falsa indignazione, potrebbero farcela pagare. Ma come potevamo negare il nostro aiuto a Giuseppe? Lui ha cercato noi, non a caso. E questo deve essere ragione di orgoglio. Intanto lui ha già pagato e sta ancora pagando il prezzo dell’assurdo. O forse paga il prezzo del coraggio. Intanto Giuseppe è sull’orlo del bivio. Lui che crede nella giustizia è stato azzannato dall’ingiustizia. Lui che crede nelle istituzioni è stato dilaniato dai palazzi del Potere. Lui che crede nell’amore è stato tradito dall’odio cinico e improvviso. Poi ha creduto in noi, nel nostro alito narrativo, nel nostro autentico respiro giornalistico. Ed ecco il libro. L’ultima speranza di Giuseppe e del suo bambino. Se questa vicenda invaderà la cronaca e sfonderà la coscienza delle donne e degli uomini, forse salveremo un bambino e suo padre. In fondo è una storia d'amore. Leggetelo, questo libro. Disponibile a breve: “Sia fatta ingiustizia-La storia vera di Giuseppe”. La vicenda si svolge a Potenza. Una vita familiare felice, senza problemi particolari. Il lavoro, la casa, la pizza, le vacanze, il pranzo dai suoceri e dai genitori, le feste, la passeggiata in via Pretoria. Un giorno, anzi una sera, all’improvviso tutto si rompe, senza un apparente motivo. La vita di Giuseppe si capovolge, inspiegabilmente. L’uomo entra nel tunnel della disperazione, ma non perde la forza per reagire. Subirà umiliazioni, violenze psicologiche, ingiustizie, ma non mollerà. A farne le spese sarà soprattutto suo figlio, due anni e mezzo, adesso nove. Ma è Giuseppe che vogliono colpire, piegare, annientare. Perché? E, innanzitutto, chi? Giuseppe ha pestato piedi importanti, ha messo in pericolo interessi inconfessabili, ha osato chiedere giustizia, ha violato l’Olimpo? Qualcosa non quadra, anzi nulla. Sotto l’apparente vicenda di una separazione coniugale, si nasconderebbe un intrigo inimmaginabile, dal ricamo quasi perfetto, ordito nel bosco dei poteri grandi e piccoli. Hanno distrutto una famiglia, hanno rovinato due bambini, forse irrimediabilmente. Hanno tenuto al palo un uomo, costringendolo a difendersi da accuse infamanti, incarcerato nel paradosso dei processi giudiziari, sgretolato dall’angoscia di perdere il suo bambino per sempre. Intanto la sua famiglia l’hanno fatta a brandelli. Chi è il colpevole? Quale il movente?

La domanda a Giusy Cavallo sorge spontanea: che ne pensa della giustizia in Italia? «La famosa frase "avere fiducia nella magistratura" non è universalmente valida. – risponde sul suo giornale web - Non se vivi in Basilicata e magari denunci che un lago è inquinato. E' da un po' di tempo che mi occupo di storie giudiziarie, a mio avviso, al limite del paradossale. Indagati, senza reato, o reati senza indagati. Procedure applicate a piacimento. Codici e leggi usate ad personam. O peggio ancora assassini lasciati liberi d'uccidere una seconda, terza volta. In Basilicata, più che altrove, potrebbe capitare che se commetti un reato la passi liscia, se stai dalla parte della giustizia ti fanno vedere i sorci verdi. E' il caso di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, e di Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale. Domani, mercoledì 6 giugno, entrambi sono attesi dinanzi al gup di Potenza che, rinvii permettendo, dovrà decidere se mandarli a processo o no. Rei di aver rivelato, analisi alla mano, la presenza di inquinamento nel Lago del Pertusillo. Se i due finiranno alla sbarra si dovranno difendere per aver denunciato che l'invaso valdagrino è inquinato. Paradossale se si tiene conto del fatto che, intanto che le indagini hanno fatto il loro corso, nel lago si sono verificate diverse e consistenti morìe di pesci, sono emerse (da un'inchiesta di Basilicata24) presunte pressioni della Regione Basilicata sull'Istituto superiore di Sanità che stava svolgendo analisi dell'invaso affinchè l'istituto romano "soprassedesse". A tutto ciò va aggiunta l'ammissione dell'Arpab che il lago oltre ad essere eutrofizzato presenta tracce di idrocarburi. Ma intanto Bolognetti e Di Bello domani vanno in tribunale. Nonostante tutto. E allora mi chiedo, ancora una volta, perchè dovrei avere fiducia in una magistratura che invece di indagare sull'inquinamento del Pertusillo, indaga due persone che denunciano l'inquinamento di un invaso la cui acqua serve per uso umano oltre che la Basilicata anche la Puglia? Io in questa magistratura, non posso avere fiducia. Non posso, se mi viene il dubbio che certi magistrati o non si leggono le carte, o non hanno mai letto, in vita loro, un libro di Diritto. E soprattutto non posso avere fiducia in una magistratura/giustizia che perseguita chi ha denunciato fatti certificati e provati. Per concludere, e perchè non mi si tacci d'essere eversiva o peggio ancora berlusconiana: di magistrati che fanno bene il loro lavoro per fortuna è piena l'Italia.

Così come è piena la storia di magistrati che c'hanno rimesso la vita per amore della verità e della giustizia. Ma questa è un'altra storia. Dopo che Giuseppe Di Bello, tenente della polizia Provinciale di Potenza mi ha informato che il prefetto di Potenza gli ha revocato la qualifica di agente di pubblica sicurezza, ho provato attimi di smarrimento. – continua Giusi Cavallo - Si, perchè conosco Peppe, il tenente, che "ne ha fatte di tutti i colori". Eh già. La divisa che indossa l'ha riempita d'onore e di significato. Senza guardare in faccia a nessuno. E questo probabilmente non è piaciuto granchè.

Ma andiamo con ordine. Prima di tutto ricordiamo chi è Giuseppe Di Bello. Tenente della Polizia Provinciale di Potenza. E' un vero rompi balle. Se ne va in giro a far sequestrare discariche piene di rifiuti pericolosi e illeciti; denuncia truffe in agricoltura, aria inquinata da un termovalorizzatore. E' uno che anche quando non è in servizio non si fa i cavoli suoi. Tant'è che un bel giorno gli viene in mente, mentre non è in servizio, e come componente di un'associazione ambientalista, di andare a fare delle analisi alle acque del Pertusillo.

Il lago artificiale della Val d'Agri, in cui si specchia il grande Centro Oli di Viggiano. Siamo nel gennaio 2010. Di Bello, in compagnia di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, (che ha commissionato e pagato le analisi), apprende che le acque del Pertusillo sono inquinate. Sulla base della convenzione di Arhus quei dati vengono diffusi. Finiscono anche sulla stampa. Interviene la magistratura. Si, ma per indagare Di Bello e Bolognetti. Per la procura di Potenza i due hanno rivelato segreti d’ufficio. E cioè il “decadimento delle acque dell’invaso del Pertusillo". Insomma hanno fatto male ad informare i lucani e soprattutto i pugliesi che quell'acqua la bevono. Di Bello viene prima sospeso dal suo incarico e poi spostato ad altre mansioni. Viene mandato in servizio al museo provinciale di Potenza. Dove tutt'ora lavora. Il 6 giugno 2012, arriva la condanna per aver rivelato il cattivo stato delle acque del Pertusillo. Violazione di segreto d'ufficio. Per il tenente di Bello due mesi e venti giorni di reclusione sanciscono pubblicamente la sua colpa. Nonostante tutto Peppe, non si ferma nè si abbatte. Continua a rompere le scatole. Se ne va, in compagnia di un geologo nell'area dell'ex Liquichimica di Tito Scalo, dove insiste una vasca di fosfogessi, scarti di lavorazioni di concimi chimici e di fanghi industriali di cui non s'è mai capita la provenienza. Sono anni che il tenente Di Bello si occupa di quel cimitero industriale in cui è rimasto solo veleno. Prima se ne occupa da ufficiale della polizia provinciale, poi lo fa come libero cittadino membro dell'associazione Ehpa, che si occupa appunto di ambiente. Anche in questo caso la denuncia del cittadino Di Bello ha un effetto deflagrante. Almeno sui cittadini di quella zona.

Nell'area è presente radioattività. Fermo, Di Bello non sa stare. E veniamo alla revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza notificata a Di Bello, giovedì 13 dicembre 2012. Ecco i passi più raccapriccianti: "Considerato il reiterato comportamento tenuto dal Di Bello che pur sottoposto al vaglio della magistratura"...Soffermiamoci sulla locuzione "reiterato comportamento". Ebbene, cosa avrebbe reiterato Di Bello? Da quasi tre anni è in servizio al Museo provinciale. Ah ma forse quel reiterato si riferisce al fatto che il cittadino Di Bello se ne va in giro a fare analisi, a denunciare inquinamento, radioattività e veleni vari? E leggete poi quest'altro passaggio della revoca: " ...la responsabilità di agente di p.s. della polizia provinciale richiede il possesso, in chi ne è investito, di requisiti di prestigio, generale stima in pubblico, trasparente condotta, anche allo scopo di mantenere inalterata la fiducia che i cittadini devono nutrire nei suoi confronti..." Ecco a questo proposito giova ricordare a sua eccellenza il prefetto Nunziante che lo stesso Di Bello è colui il quale ha denunciato il decadimento delle acque del Pertusillo; colui che ha denunciato presenza di radioattività a Tito Scalo, sempre per informare la gente. E' colui il quale nel 2005 trasmise la notizia di reato riguardante la presenza di fanghi tossici nell'area industriale di Tito Scalo all'ex pm di Potenza Woodcock. Ecco mi fermo qui per non rischiare di fare l'agiografia di una persona che mi ripete quasi come un mantra "io non ho fatto altro che il mio dovere di funzionario di polizia e di cittadino". Ecco chi è l'uomo che secondo il Prefetto di Potenza non è più degno di stima dei cittadini, perchè dalla condotta poco trasparente. Caro Prefetto, se lei vive nel mondo, deve sapere che il tenente Di Bello gode di enorme fiducia da parte dei cittadini. E dovrebbe anche sapere che sono le istituzioni a non godere ormai più della fiducia dei cittadini. Noi, giornalisti di questa testata, revochiamo la qualifica di rappresentanti delle istituzioni a tutti coloro che hanno contribuito a revocare la qualifica di agente di pubblica sicurezza a Giuseppe Di Bello.» E sulla libertà di stampa e le ritorsioni su chi racconta la verità il direttore di “Basilicata 24” dice: «“Relazioni troppo strette e poco trasparenti tra l’autorità politica e i giornalisti sono un pericolo per la società pluralista". E’ quanto ha dichiarato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, in occasione della Giornata mondiale per la Libertà di Stampa. La libertà di stampa non è un diritto che si esercita a gettoni. Questo lo dico io. E' un diritto che è tra i fondamentali di uno Stato democratico e civile. Ma è purtroppo un diritto calpestato, ancora oggi, in alcune aree del mondo. Sono ancora troppi i giornalisti uccisi o minacciati a causa del loro lavoro. Ci sono poi casi meno eclatanti, ma pur sempre gravi, di limitazione della libertà di espressione e di critica. La minaccia di "adire alle vie legali". Il modus operandi è sempre lo stesso. Ti telefonano, ti scrivono, ti diffidano. Metodo tipico di persone non abituate alla critica e che di fronte ad un giornalista che si permette di criticare, si fanno prendere dal "ci vediamo in tribunale". Ebbene con tutti i "ci vediamo in tribunale" sentiti negli ultimi tempi prevedo che la mia agenda nei prossimi mesi sarà fittissima. Vi racconto solo l'ultimo "ci vediamo nelle sedi competenti". Appena ieri. Un amministratore che non ha gradito quello che abbiamo scritto sul suo operato mi ha annunciato al telefono, di aver segnalato il caso all'ufficio legale del suo Comune.

Passano meno di dieci minuti e alla telefonata del sindaco, che poi vi racconto, segue quella di un avvocato, il quale, convinto che il solo titolo legale mi farà mettere sull'attenti, "esige" di parlare con il giornalista che ha scritto quel pezzo. E "vuole" sapere chi è.

"Perchè- tiene a sottolineare- quando chiama agli altri giornali parla con chi vuole". Dico che può dire a me, che sono il direttore, ma niente. Esige di parlare col fustigatore che intanto non è in redazione. Anche la telefonata con l'avvocato non si conclude bene. Seconda minaccia, nel giro di pochi minuti, di portarmi in tribunale e addirittura di farmi radiare dall'albo dei giornalisti. Lei, l'avvocato, conosce il presidente dell'ordine della Basilicata - mi dice - lo informerà di questo mio "illecito giornalistico" che senza dubbio verrà punito! Chissà perchè neanche questa minaccia mi spaventa. Ah l'oggetto del contendere qual era? Un pezzo scritto sulle lacrime di coccodrillo di un sindaco che non saprei se definire maschilista o maleducato. Il nostro infatti esordisce al telefono con un esagerato "dottoressa" per poi passare, quando gli dico che può parlare con me, ad un tono del tipo "si va bene squinzietta togliti dalle palle e passami il giornalista che ha scritto l'articolo". Inutile il mio tentativo di ricordare, anche al sindaco, che essendo io il direttore di Basilicata24 può dire a me. Mi liquida dicendomi che, stando così le cose lui non può parlare con un giornale non serio. E mi sbatte il telefono in faccia. Maleducato o banalmente maschilista? (stai a vedere che mi denuncia anche per questo! Me lo dirà il solito maresciallo dei carabinieri che ormai da qualche mese mi chiama per l'identificazione in caserma). Di sicuro c'è che il sindaco incazzato non è abituato alle critiche, ancor più se vengono da "sconosciuti giornalisti" poco interessati a far comunella (in gergo giornalistico si chiamano marchette) e così finisce che reagisce di pancia. Per tornare alle cose serie: noi di Basilicata24 festeggiamo la XIX Giornata per la libertà di stampa ricordando tutti quei colleghi che questa libertà l'hanno pagata a caro prezzo. Il resto, come diceva Totò, sono "bazzecole, quisquilie e pinzellacchere".»

LA LUCANIA DEI MISTERI.

Di ingiustizia a Potenza ne parla Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Condannato a due mesi per aver denunciato gli inquinanti negli invasi. Sospeso due mesi dal servizio per poi essere «parcheggiato» al museo restando comunque in carico alla polizia provinciale. E, dulcis in fundo, la condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione, trattato come un comune delinquente. La colpa del tenente della polizia provinciale Giuseppe Di Bello? Aver reso noto dati coperti da «segreto d’ufficio» sulla qualità delle acque del Pertusillo, Montecotugno e Camastra, da cui emergeva la presenza di metalli pesanti e inquinanti. Sulla scia di quel monitoraggio che, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto «sottobanco» dall’Arpab, Di Bello - con l’aiuto di un chimico e di Maurizio Bolognetti, leader dei Radicali lucani e tra i finanziatori del progetto - decise di effettuare in proprio dei prelievi dagli invasi per verificarne lo stato di salute. Un’operazione che, sempre a parere dell’accusa, il tenente avrebbe fatto durante il proprio servizio e con mezzi e risorse dell’ente. È un teorema che ha determinato la sua condanna, ma Di Bello non ci sta e parla di un complotto.

Punto primo: le analisi - dice - non le ha ricevute dall’Arpab, ma direttamente dalla direzione generale del dipartimento Ambiente della Regione.

Può dimostrarlo?

«Certo. Il giudice ha in mano la copia di quei dati da cui si evince che sono stati inviati il 5 gennaio 2010 alle 18.10 dal numero di telefono 0971.669065 che corrisponde all’utenza del dipartimento».

Ma l’accusa continua a dire che lei ha ricevuto quei documenti dall’Arpab. Perché?

«Perché così sostengono l’incriminazione di aver rivelato dati coperti da segreto d’ufficio. Una volta giunti alla Regione l’ente ha il dovere di renderli di pubblico dominio. Ad ogni modo, come dice la convenzione di Aarhus, qualsiasi notizia che riguarda la salute e l’ambiente non può essere nascosta alla cittadinanza».

Lei dice che il dipartimento, consegnandole i risultati di quel monitoraggio, le avrebbe chiesto di divulgarli. Ma c’era bisogno della sua intermediazione per farlo? La Regione poteva benissimo pubblicarli autonomamente...

«È vero. Ma sinceramente non so perché sia stato chiamato in causa proprio io. Dopo sei giorni dalla ricezione del fax è partita la denuncia nei miei confronti da quegli stessi uffici. Col senno di poi devo pensare ad una trappola».

Ricapitoliamo i fatti. Il 5 gennaio 2010 riceve i dati, il 6 compie un primo giro tra gli invasi e il 21 effettua i prelievi. Ha fatto tutto durante l’orario di servizio?

«Macché. Sono andato a fare i campionamenti a bordo della mia auto e autofinanziando l’iniziativa. Non ero in servizio».

L’accusa, però, continua a sostenere il contrario...

«Sul foglio di presenza, accanto alla data, c’è una «r» che sta per riposo e non per reperibilità come dice il giudice. Il mio cartellino orologio conferma quanto dico».

Insomma, sta dicendo che ingiustizia è fatta...

«Ingiustizia cominciata quando mi hanno sospeso dal servizio per due mesi. È stato un abuso di autorità nei miei confronti. E poi penso alla vicenda giudiziaria che riguarda Fenice. Sono coinvolti dirigenti della mia stessa amministrazione e della Regione ai quali non è stato fatto un provvedimento disciplinare, né sono stati sospesi. Chi divulga informazioni sull’inquinamento viene bastonato e perseguitato, chi «copre» e mette in cassaforte dati sulla presenza di sostanze pericolose per l’ambiente e la salute la passa franca. E, per di più, viene difeso in tribunale con i soldi pubblici».

Perché si sarebbero accaniti contro di lei?

«Sono il capro espiatorio di uno scontro politico sulla qualità delle acque, ma anche la vittima di un sistema che sull’ambiente preferisce il silenzio alla verità».

E’ risaputo che a Potenza non si naviga nell’oro e nel benessere, ma che aumentino sempre di più i poveri non è un fatto puramente statistico. Si percepisce. Basta guardare ai tanti cittadini che si rivolgono alla Caritas, alle parrocchie e alle altre «sentinelle» della solidarietà sparse nel capoluogo, come i sei gruppi Vincenziani. La vera novità di quest’ultimo periodo è che tra chi chiede una mano non ci sono più soltanto disoccupati, senza tetto, emarginati o extracomunitari, ma impiegati, operai, professionisti, avvocati, categorie che nell’immaginario collettivo sono al riparo da problemi economici: aumentano in maniera esponenziale le persone che si rivolgono alla diocesi di Potenza per avere un aiuto, per una bolletta che non si riesce a pagare. La situazione, insomma, sta diventando davvero incandescente e l’intero sistema della solidarietà, di fronte alle pressanti richieste, rischia di andare in tilt. Secondo l’Istat il 22,5% delle famiglie lucane arriva a fine mese con molta difficoltà. Il 29,1% delle famiglie, in particolare non riesce a sostenere spese impreviste, il 26,2% non ha soldi per vestiti, il 14,2% dichiara di non aver avuto soldi per le spese mediche, il 12,9% non riesce a riscaldare la casa adeguatamente, il 12,3% è stata in arretrato con le bollette, il 5,8% non ha avuto soldi per spese alimentari. 800 famiglie potentine vivono con un reddito (saltuario) che non tocca i 300 euro mensili, mentre sono ben 364 i nuclei familiari che non hanno alcun reddito. Le famiglie residenti nel capoluogo sono all’incirca 15.000. Quelle indigenti, dunque, risultano essere il 5,5% (percentuale sottostimata rispetto alla situazione reale), di cui ben l’11,5% abita nel quartiere di Bucaletto. All’interno degli 800 nuclei familiari che vivono tra stenti e disperazione, 111 lamentano problematiche abitative, circa il 13%. Il 15,5% (129 famiglie) ha problemi familiari (separazione, divorzio, allontanamento, conflittualità); il restante 55,9% ha un reddito inadeguato rispetto alle normali esigenze di vita (famiglie monoreddito, pensionati, vedovi, lavoro part-time, lavoro nero). L’1,4% ha avuto o ha problemi di detenzione e giustizia; il 3,5% problemi di dipendenza da droga o da alcol e il 2,2% ha all’interno della famiglia un disabile. Il grado d’istruzione è molto basso (licenza elementare, media inferiore, analfabetismo) nel 3,4% dei casi, e nel 5,3% delle famiglie vi sono persone affette da gravi patologie. Ma c’è un dato che rende il quadro ancora più allarmante: tra le persone che chiedono una mano alla Caritas o alle parrocchie aumenta paurosamente il numero di impiegati, operai, professionisti, avvocati, e non più solo disoccupati, senza tetto, emarginati o extracomunitari. Le motivazioni sono disparate ma crescenti. Michele Basanesi, presidente della Caritas di Potenza, ritiene che “la povertà, sul nostro territorio sta diventando una vera e propria emergenza, di cui si parla troppo poco e ancor di meno sono le iniziative volte alla diminuzione del fenomeno. Sta aumentando moltissimo il numero di persone che si rivolge a noi, una mole di richieste che non riusciamo a soddisfare in pieno, anche perché i prezzi sono aumentati, compreso quelli dei generi alimentari, e le risorse sono limitate. Ci dobbiamo rendere conto che affidarsi solo alle istituzioni è sbagliato. Gli enti hanno problemi di bilancio. Dobbiamo mobilitarci tutti: chi sta bene, non ha problemi economici dovrebbe farsi carico delle problematiche di quanti vivono con pochi spiccioli in tasca”.

La Basilicata è una terra anonima, che non desta interesse ai media nazional popolari. Non si sa quanto questo sia voluto dagli stessi lucani. Questo terra è coperta da una coltre di magia e di mistero, ma anche di trame oscure. Carmela Formicola ha dedicato un pezzo su “La Gazzetta del Mezzogiorno: 20 anni di intrecci nella Basilicata degli affari oscuri.

Misteri lucani. Ce n’erano di belli, un tempo. A cominciare dal fantasma della dolce Abufina che nelle notti di luna s’affacciava alla finestra del torrione superstite del castello di Grottole. O il fascinoso affresco nella chiesa di San Nicola a Pietragalla, chiesa medievale con dipinto un cactus, tipica pianta americana. Però in quell’epoca l’America non era ancora stata scoperta... Ecco, questi erano i misteri lucani: leggende, dicerie, magia. Quando il veleno comincia a spargersi? La data è approssimativa, anni Novanta, presumibilmente. Quando, in altri termini, cominciano a triangolare criminalità organizzata, poteri forti e pezzi delle istituzioni, è una pagina di storia ancora tutta da scrivere. Anni Novanta. Preceduti da un decennio fondamentale per la Basilicata: il 23 novembre 1980 il terremoto semina paura, lutti e distruzione. Un’intera popolazione in ginocchio, macerie, città transennate. E subito dopo un formidabile fiume di denaro che comincia a scorrere copioso, miliardi e miliardi di lire, fondi pubblici che in parte risollevano la comunità, in parte finiscono altrove e, soprattutto, diventano l’occasione formidabile per trasformare la terra dell’arretratezza contadina nel piccolo laboratorio dell’industria e dell’innovazione.

Nasce l’Università, poi nascerà la Fiat.

TERRA DI CONQUISTA - Ma la scintilla è scoccata. La Basilicata è diventata un territorio appetibile. Ci sono i soldi, le opportunità, qualche politico compiacente, qualche imprenditore senza scrupoli. In questo humus non può non attecchire anche il crimine organizzato. Inchieste giudiziarie sulle grandi distrazioni di fondi pubblici, sulla corruzione, sulle incompiute e le cattedrali nel deserto? Poche e inefficaci. Di quell’esperienza non rimane nulla, nessuna giustizia. Forse i germi di una magistratura sospetta nascono in questa stagione.

LE FAMOSE TOGHE LUCANE - Facciamo subito le doverose differenze: ci sono magistrati in prima linea, che scavano scavano e non concedono sconti. E ci sono altro tipo di toghe. C’è perfino un pubblico ministero, Luigi de Magistris, nella Procura di Catanzaro, che ipotizza l’esistenza di una «cupola ». L’inchiesta viene ribattezzata «toghe lucane». Secondo De Magistris un «comitato d'affari» composto da politici, magistrati, avvocati, imprenditori e funzionari avrebbe governato grosse operazioni economiche in Basilicata. La guardia di Finanza, nei primi mesi del 2007, perquisisce le abitazioni e gli uffici del sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds, già presidente della Regione Basilicata), del procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano, dell'avvocato Giuseppe Labriola e della dirigente della Squadra mobile di Potenza. Luisa Fasano. Abuso d'ufficio, corruzione in atti giudiziari e associazione per delinquere, truffa aggravata sono i reati contestati a vario titolo. L'inchiesta ipotizza «una logica trasversale negli schieramenti», il «collante degli affari», un gruppo di potere che, ciascuno al suo livello, contribuisce nella spartizione della torta. Ma l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, chiede al Csm il trasferimento cautelare d'urgenza di De Magistris, per irregolarità nella gestione del caso «Toghe lucane». E nel marzo 2011 l'intera inchiesta viene archiviata dal gup di Catanzaro che definisce l'impianto accusatorio «lacunoso» e tale da non presentare elementi «di per sé idonei» a esercitare l'azione penale.

DOSSIERAGGIO - Ma i veleni sono tutt’altro che finiti. Perché nella Procura potentina nel frattempo è al lavoro Henry John Woodcock, le cui inchieste mettono a rumore mezza Italia. Nel febbraio del 2009 un esposto anonimo, con tanto di tabulati relativi a telefonate fra Woodcock e la giornalista Federica Sciarelli, denuncia le rivelazioni che il pm napoletano avrebbe fornito in anteprima alla conduttrice di «Chi l’ha visto?» nonché al giornalista Michele Santoro, conduttore di «Annozero». La denuncia si rivela infondata.

Ma nel frattempo la Procura di Catanzaro apre il fascicolo ribattezzato «Toghe lucane bis». Cosa si sospetta, questa volta? Che sia la stessa Procura generale di Potenza ad aver ispirato l’esposto. Avvisi a comparire vengono notificati all’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano (ora in pensione), ai sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca e all’ex sostituto procuratore della Repubblica, Claudia De Luca, poi trasferita a Napoli con lo stesso Woodchok. Nell’inchiesta compare anche il nome di un ex agente del Sisde, Nicola Cervone. «Toghe lucane bis» teorizza che qualcuno abbia in effetti tentato di delegittimare sia Woodcock sia l’altro sostituto procuratore potentino, Vincenzo Montemurro, autori delle inchieste sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

I SERVIZI SEGRETI - L’inchiesta si è chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati. L’udienza preliminare si terrà il prossimo 15 giugno 2012. Se esista realmente un gruppo di potere che orienta le indagini e gestisce le informazioni in modo improprio, lo dirà la storia processuale. Ma torniamo a Nicola Cervone. Il nome dello 007 compare in altri oscuri capitoli delle vicende lucane degli ultimi vent’anni. Perché sono gli stessi servizi segreti a comparire come le ombre cinesi dietro al duplice omicidio di Giuseppe Gianfredi, vicino agli ambienti della criminalità) e di sua moglie Patrizia Santarsiero, uccisi a Potenza nel 1997 dinanzi agli occhi dei figli (uccisi perché? È ancora tutto da chiarire). E l’ombra dei servizi segreti s’affaccia, ancora, sulla vicenda torbida di Elisa Claps, la studentessa potentina scomparsa nel 1993 il cui cadavere è stato ritrovato nel sottotetto della Chiesa della Trinità nel marzo 2010. Dell’omicidio è stato ritenuto colpevole Danilo Restivo. L’ex Sisde aveva perfino tenuto un dossier sulla vicenda Claps, dossier poi svanito nel nulla. E un altro dossier dei servizi che ipotizzava l’esistenza di una «struttura parallela d’intelligence » si ritrova nella disponibilità sia di Cervone sia del sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, sì, ancora lui. Nel dossier si teorizza che giornalisti vicini ad agenti segreti, ex investigatori della Guardia di finanza, ufficiali dei carabinieri e magistrati della Procura potentina si sarebbero scambiati informazioni per colpire i loro nemici.

Bonomi viene perfino intercettato mentre parla dei suoi rapporti con gli uomini dell’Aisi (l’ex Sisde) con i quali stanno facendo «un servizio insieme».

LE COINCIDENZE - Ma c’è ancora un filo rosso o un’inquietante coincidenza. Nella prima inchiesta di De Magistris sulle toghe lucane finisce anche Felicia Genovese, il pm della vicenda Claps (che avrebbe orientato le indagini lontano da Danilo Restivo) e pm del duplice omicidio Gianfredi. Suo marito, il medico Michele Cannizzaro, viene nominato direttore generale del più grande ospedale della Basilicata, nomina politica, si sa. A nominarlo un gruppo di politici che sua moglie aveva sotto inchiesta e per i quali avrebbe poi chiesto l’archiviazione. Un teorema che era costato alla Genovese un’accusa di abuso d’ufficio, poi dissoltasi in un’assoluzione. Felicia Genovese è anche autrice di una clamorosa inchiesta sulla centrale di ricerca nucleare Trisaia di Rotondella, l’altro mistero della Basilicata felix. Si sospetta tra l’altro che i vertici della centrale abbiamo acquisito e trasferito in Iraq plutonio e altro materiale nucleare utilizzabile a scopo bellico, facendo nel frattempo sparire scorie radioattive che non dovevano essere trovate nella centrale dell’Enea. In realtà sulla Trisaia ci sono almeno trent’anni di inchieste giudiziarie. Agenti segreti, faccendieri, presunti emissari delle guerriglia sahariana e quelle 64 barre di uranio irraggiate custodite nell’ex Centro Enea. L’ennesimo mistero.

Da Potenza a Napoli: una storia di ordinaria stupidità tutta italiana. Magistrati "contro" che lasciano la sede giudiziaria di Potenza per ritrovarsi tutti a Napoli. Claudia De Luca, ex sostituto procuratore della Repubblica di Potenza e poi in servizio nella sede giudiziaria di Napoli, è stata condannata a un anno e sei mesi di reclusione per l'accusa di peculato, che gli era stata mossa nell'ambito dell'inchiesta conosciuta come "Toghe lucane". La sentenza – scrive l’Agi e tutta la stampa - è stata emessa dal giudice dell'udienza preliminare di Catanzaro, Antonio Rizzuti, al termine del giudizio abbreviato che è valso alla De Luca lo sconto di pena di un terzo, e nell'ambito del quale il pubblico ministero Gerardo Dominijanni aveva chiesto una condanna ad un anno e quattro mesi. La contestazione di peculato fu mossa all'imputata dall'allora sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris, titolare di "Toghe lucane", perché lei avrebbe utilizzato il telefono di servizio per scopi personali. La De Luca, in particolare, secondo le accuse - del 2009 la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vincenzo Capomolla che ha ereditato Toghe lucane dal collega de Magistris - avrebbe effettuato con il cellulare di servizio 65 telefonate, nel periodo tra maggio e ottobre del 2003, al numero telefonico 899 a pagamento per un servizio di cartomanzia. Nell'inchiesta sarebbero emerse anche diverse telefonate effettuate dal magistrato allora in servizio a Potenza, sempre con il telefono del turno, su numeri strettamente personali e, in particolare, oltre 16.000 contatti nel periodo tra il 20 aprile 2005 e il 22 aprile 2007 sul numero di cellulare del marito. A queste, si aggiungerebbero altre telefonate, effettuate sempre con il cellulare del turno, ad altre persone vicine all'imputata. La De Luca è attualmente tra le persone indagate nell'inchiesta denominata "Toghe lucane bis", e destinataria di uno degli avvisi a comparire emessi dalla Procura di Catanzaro che sta conducendo l'inchiesta, relativa a presunti gravi illeciti commessi tra gli altri da alcuni magistrati in servizio in Basilicata. Nell'inchiesta "Toghe lucane bis" sono ipotizzati, complessivamente, la violazione della legge sulle associazioni segrete, l'associazione a delinquere, la corruzione in atti giudiziari, l'abuso di ufficio. "Toghe lucane bis" ha preso le mosse da un presunto complotto finalizzato a calunniare l'allora sostituto procuratore di Potenza Henry John Woodcock (poi pm a Napoli) che, insieme al suo collega Vincenzo Montemurro, ora in servizio alla Procura di Salerno, indagavano sugli intrecci tra politici e criminalità lucana.

A tal proposito dalla stampa (Il Domani della Calabria) si viene a sapere che la Procura di Catanzaro ha notificato 13 avvisi di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di magistrati, carabinieri, poliziotti e di un ex agente segreto del Sisde, indagati nell’ambito dell’inchiesta "Toghe lucane bis". I magistrati calabresi - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - ipotizzano che negli uffici della Procura generale di Potenza si era costituita e operava una società segreta, in violazione della legge Anselmi, finalizzata a delegittimare il lavoro dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock (poi in servizio alla Procura di Napoli) e di altri magistrati del capoluogo lucano. I promotori della società segreta, secondo l’accusa, sono l’ex procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano e i sostituti procuratori generali Gaetano Bonomi e Modestino Roca. Con l’aiuto del colonnello dei carabinieri Pietro Gentili, e del vice questore aggiunto Luisa Fasano, reperivano notizie riservate sui magistrati della Procura che poi venivano usate per delegittimarli. Nell’inchiesta sono coinvolti anche l’ex sostituto procuratore Claudia De Luca (poi in servizio a Napoli), l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, poi divenuto cancelliere al tribunale di Melfi (Potenza), quattro ufficiali di polizia giudiziaria (Antonio Cristiano, Consolato Roma, Leonardo Campagna e Angelo Morello), l’imprenditore Ugo Barchiesi e l’autista della Procura generale di Potenza, Marco D’Andrea. Le indagini hanno avuto inizio dopo una lettera di calunnia ai danni di Woodcock e del suo braccio destro, l’ispettore di Polizia Pasquale Di Tolla. Ad organizzare il presunto complotto, secondo l’accusa, sarebbe stato Bonomi con la complicità degli altri magistrati della Procura generale di Potenza. Nel febbraio del 2009 fu preparato un esposto anonimo con i tabulati telefonici di Woodcock e quelli dei giornalisti Federica Sciarelli e di Michele Santoro. Il tutto era finalizzato, secondo la Procura di Catanzaro, ad avviare verifiche disciplinari nei confronti di Woodcock. Già in passato la Procura calabrese, con l’ex pm Luigi De Magistris (poi sindaco di Napoli), aveva indagato su un presunto comitato d’affari del quale avrebbero fatto parte magistrati, politici ed imprenditori. I trenta indagati di quell’inchiesta chiamata Toghe Lucane, sono stati prosciolti il 19 marzo scorso.

Insomma tutti a Napoli, appassionatamente.

Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori.

La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infame ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso. A ristabilire la sua verità Matteo Di Giorgio il 2 maggio 2012 ha incontra pubblicamente a Castellaneta i suoi cittadini. La sua difesa: «Vittima di un complotto». Il pm ha respinto le accuse. Fallite le mediazioni del sen. Putignano e del vescovo Fragnelli. Il resoconto parziale e politico di Michele Cristella sulle colonne de "Il Corriere del Giorno di Puglia e Lucania", dove non si fa menzione delle accuse alla procura di Potenza.

Risposta, confutazione, dignità. Oltre due ore di intervento nel cinema Valentino gremito, Matteo Di Giorgio, magistrato che ha subìto l’onta degli arresti domiciliari dichiara la sua innocenza dinanzi alla sua città. La moderatrice Sara Trovato gli pone subito la domanda più spinosa: perché parla oggi, in piena campagna elettorale? «So, dice Di Giorgio, che di queste cose bisogna parlare nelle aule dei tribunali. Ma io ogni giorno vengo attaccato nei comizi come il cancro della mia città e come il responsabile della stasi edilizia e dello sviluppo. Sento come mio diritto difendere e ristabilire la mia dignità dinanzi alla pubblica opinione. La mia coscienza è pulita, adamantina, cristallina. Parlo ora, dopo un manifesto gravemente pregiudizievole nei miei confronti e per gli attacchi nei comizi, fino ad essere un additato come “giudice deviato”». E continua: «Il prof. Rocco Loreto dice di non avermi mai nominato, ma i riferimenti a me sono numerosi: responsabile dello scioglimento della sua maggioranza nel 2001, sequestro del Prg, favorito un testimone a me avverso». E confuta le accuse. «Non posso aver sequestrato il Prg perché esso era stato annullato dalla stessa maggioranza per vizio di forma. Non posso aver minacciato Mimmo Trovisi perché si dimettesse per far cadere la maggioranza, perché egli non era l’undicesimo, ma si dimise dopo altri dodici, né sarebbe stato possibile minacciarlo perché la nipote, essendo minorenne, non poteva né essere indagata né arrestata. Quanto alla storia del testimone Coccioli è una vicenda lunga e complessa che si incentra su un favore di fargli avere dal comune 1500 euro da dare alla squadra che poi li avrebbe girati a lui, cosa che nessun “capo di cupola”, come sono stato definito, avrebbe mai potuto fare, essendo io, per altro ben in grado di elargire di tasca mia una somma così esigua». Di Giorgio, dopo aver sostenuto di non aver mai perseguitato Loreto, di aver accettato di indagare su di lui e di aver accettato da Sebastio e Petrucci di essere affiancato da colleghi e dagli stessi Procuratori, spiega la sua tesi di essere vittima di un complotto, di aver subito un processo kafkiano, cioè di essere passato da vittima a carnefice, ha mostrato come alcune ordinanze coperte da segreto istruttorio erano in possesso e a conoscenza di alcuni suoi denuncianti: «Il complotto contro di me è indiscutibile». Una storia, racconta Di Giorgio, «che comincia nella notte del bar Gorgo. E fu questo episodio che m’indusse a parlare con la stampa e dire che avrei chiesto la sua rimozione da dirigente scolastico». Un particolare: il senatore Putignano prima e il vescovo Fragnelli, prosegue, «dopo mi chiesero di partecipare al rasserenamento del clima; rinuncio a tutto, chiedo solo che Loreto dicesse in pubblico che ero onesto. Ma egli si rifiuta. E chiamo a testimone mons. Fragnelli». La conclusione: «Mai minacciato nessuno, mai fatto del male ad alcuno, almeno scientemente, mai danneggiato la mia città, rivendico il diritto alla mia dignità».

Anche Mimmo Mazza da “La Gazzetta del Mezzogiorno” rendiconta l’avvenimento. Anch'esso con stampo politico, omettendo ogni riferimento alle critiche sull'operato della magistratura potentina.

A un mese dall'inizio del processo che lo vedrà alla sbarra per concussione e corruzione in atti giudiziari e, soprattutto, a quattro giorni dalle elezioni comunali che rischiano di riportare alla guida del Comune il suo acerrimo nemico Rocco Loreto, l'ex pubblico ministero Matteo Di Giorgio riempie l'unico cinema cittadino per raccontare la sua verità, «tutta la verità», come annuncia negli inviti trasmessi via mail alla stampa, postati sul suo profilo Facebook e rivolti in maniera particolare ai suoi detrattori. «Armato» di computer portatile e faldoni, come se occupasse il suo ufficio del Palazzo di Giustizia di Taranto dal quale manca dall'11 novembre del 2010, giorno in cui fu sottoposto agli arresti domiciliari dai carabinieri del Reparto operativo di Potenza, Di Giorgio è un fiume in piena, desideroso di rompere gli argini che i suoi legali avevano faticosamente costruito in tutti questi mesi. Il dibattito, quasi un one man show, parte con sul grande schermo un manifesto dell'Italia dei Valori dal titolo emblematico «Dopo oltre dieci anni la giustizia prevale sul potere», fatto affiggere per le vie del paese all'indomani dello scorso 14 marzo, giorno in cui il gup Petrocelli di Potenza ha rinviato a giudizio il magistrato, sospeso cautelativamente dal Csm, il sindaco uscente Italo D'Alessandro, Antonio Vitale, già noto alle Forze dell'ordine, accusato di favoreggiamento, il comandante della Polizia municipale Francesco Perrone, Giovanni Coccioli e Agostino Pepe. «Non voglio fare il processo penale qui, ma riabilitare la mia persona pubblica, il mio essere magistrato, perché statene certi, la toga la indosserò ancora. Devo rispondere - attacca Di Giorgio, compiendo una vera e propria requisitoria e non a caso un paio di volte chiamando aula quella che è una sala cinematografica - a una valanga di accuse che ogni giorno mi travolge. La mia vicenda è finita nei comizi, nelle interviste, sui social network. Ho il diritto di difendere la mia dignità, e dunque ho deciso di sottopormi ad un processo pubblico. La mia coscienza è pulita, è adamantina. Non mi interessa la campagna elettorale, ma ho deciso di parlare oggi perché gli attacchi sono diventati insopportabili». L'ex pm mostra uno spezzone del comizio del 22 aprile del Pd, facendo ascoltare le critiche che gli rivolge il candidato al Consiglio comunale Antonello Montanaruli. E parte con una lunga teoria di atti, delibere, verbali di interrogatorio e stralci di brogliacci telefonici, con costanti riferimenti alla poca serenità dell'autorità di giudiziaria di Potenza, con la ricostruzione del tanto chiacchierato sequestro del Piano Regolatore generale, «un falso problema, il Piano regolatore - annota Di Giorgio - era stato già revocato», con il fissare nella lite stradale alla vigilia delle elezioni del 2007 con la famiglia Loreto, la causa del suo arresto (e non è obiettivamente così, nè per il fatto in sè, nè soprattutto per la pretesa attualità della vicenda, vecchia di 5 anni, rispetto agli altri capi di imputazione). Quella del magistrato, in predicato nel 2009 di essere il candidato alla presidenza della Provincia per il Pdl, è una ricostruzione faticosa da seguire, una discussione lunga due ore degna di una aula di giustizia più di una chiacchierata a duecento persone che nella quasi totalità nulla sanno di atti giudiziari e aule di giustizia. Legge i verbali dell'ex consigliere comunale del Pd Stefano Ignazzi, arrestato per l'operazione antidroga Valentino, condotta proprio da lui, per dimostrare la sua estraneità ad un rilievo che gli viene mosso dalla Procura di Potenza, quella di aver piegato la sua funzione giurisdizionale agli interessi personali. Uno degli episodi sul quale il magistrato, dicendo con chissà quanta convinzione di voler rasserenare il clima, si concentra riguarda la concussione che avrebbe compiuto ai danni di Domenico Trovisi, consigliere comunale nel 2001, a cui sarebbero state chieste le dimissioni, minacciando in caso contrario l'arresto della nipote e del fratello nell'ambito di una inchiesta antidroga, dimissioni poi effettivamente rassegnate da Trovisi. «Non solo io sono sempre stato amico di Trovisi, ma soprattutto le sue non erano dimissioni indispensabili per lo scioglimento del Consiglio comunale, la sua era la tredicesima firma, e la nipote all'epoca dei fatti era minorenne, quindi non potevo nemmeno indagare su di lei, figuriamoci se potevo arrestarla». Infine Di Giorgio tenta di sfatare quella che definisce una leggenda, la sua rivalità con Loreto. «Mi sono occupato solo due volte nella mia carriera di lui, una nel 1996, quando chiesi l'archiviazione di un procedimento che avevo ereditato da un altro magistrato, e una nel 2000, quando, essendo di turno, mi arrivò una denuncia contro Loreto. Decisi di astenermi quando il 4 giugno del 2001 seppi dell'arresto di Loreto. Ritenni in quel momento che non era più ammissibile che mi occupassi di lui. È da 11 anni che non mi occupo più di Loreto, come si fa a dire che sono l'artefice di una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti?».

«Avrò sbagliato mille volte nella mia carriera professionale - urla Di Giorgio - ma mai scientemente. Mai. Così come mai mi sono intromesso nelle vicende politiche di Castellaneta, mai stato il sindaco ombra, come d'altronde dimostrano le oltre 50mila intercettazioni telefoniche effettuate nei miei confronti».

Nessuno di questi giornalisti, però, ha osato riportare il pensiero del Di Giorgio sull’amministrazione della Giustizia. Amministrazione della Giustizia e responsabilità civile dei magistrati. La posizione di un addetto ai lavori.

La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infami ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso.

Bene Matteo Di Giorgio ha dichiarato: «Il procedimento che mi riguarda prende le mosse proprio da una denuncia di Italo Pontassuglia, 22 settembre 2007. In questa denuncia, signori, si dice di tutto sul mio conto. Non si parla delle sciocchezze che sono emerse nell’ordinanza, perché poi vedremo sono comunque delle sciocchezze, anche se fossero vere e non lo sono. Ora, io non ho molto tempo per spiegarvi l’enormità, però devo far notare che quello che dice Pontassuglia è smentito da tutti gli atti del processo.

Amministratore di fatto significa prendere le decisioni in luogo dell’amministratore formale, di colui il quale il Sindaco, o la Giunta, o il Consiglio Comunale, si sostituisse di fatto agli stessi. Ebbene. Signori sapete quante intercettazioni telefoniche ed ambientali hanno visto oggetto la persona del sottoscritto? Quasi cinquantamila. E io dico, meno male che ci sono le intercettazioni.

Dico meno male che ci sono le intercettazioni, perché dalle intercettazioni non è emerso nulla. Perché la procura di Potenza, consentitemi da questa vicenda è strabica. Perché da un lato ha messo sotto processo Rocco Loreto per la minaccia rivolta a mio figlio, dall’altra ha arrestato me perché ho detto “ha minacciato mio figlio”. Io sono stato arrestato perché mi si dice “non è vero, tu hai diffamato Loreto, dicendo che ha minacciato tuo figlio”. Questo è l’oggetto dell’arresto mio, signori. Questo è. Ed è la prova che ho detto che c’è una certa contiguità tra gli investigatori ed i miei denuncianti. Volete un’altra prova? La disponibilità dell’ordinanza in originale. Questa è una copia dell’originale. E’ una copia che qualcuno ha avuto al più tardi il 18 novembre 2010, cioè una settimana dal mio arresto, quando l’ordinanza era coperta dal segreto istruttorio. E sapete da dove proviene questa ordinanza?

Signori, sta scritto qua. E’ il signor Pontassuglia Italo: il mio denunciante. Questo è un avviso di accertamento tecnico irripetibile notificato il 15 novembre 2010 a Pontassuglia. Questo significa che Pontassuglia ha creato questo file, ha avuto l’ordinanza al più tardi il 18 di novembre 2010. Questo significa che una settimana dopo il mio arresto il mio accusatore aveva l’ordinanza. Chi gliel’ha data?

Io certo no. Signori, questo è agli atti del processo, poi tutto il resto è inutilmente, perché a Potenza le porte sono chiuse. Questa è la prova che Pontassuglia ha una corsia preferenziale con Potenza, perché non può che averla ricevuta da Potenza. Non sono sospetti, questa è una prova. Io ho denunciato Potenza. Ci sarà un motivo se io ho denunciato gli Uffici giudiziari di Potenza. Perché a Potenza non sono tutelato. Io ho detto alla dottoressa Triassi, ho detto, quando mi ha fatto una valutazione giuridica, ho detto lei mi fa paura, ho detto. Come cittadino io ho paura di lei. Sapete perché? Perché quando la Cassazione ha annullato il capo d’imputazione della vicenda Coccioli, ha detto la Cassazione “me la date sta prova che Di Giorgio sta d’accordo con l’amministrazione comunale?”. E s’è rifatta l’udienza. Viene la dottoressa Triassi e dice “ecco la prova dell’accordo”. La prova dell’accordo è questo. In una telefonata tra il dottor Di Giorgio e l’assessore allo Sport, si tratta di Alfredo Cellammare, che nei 6 mesi successivi al fatto, in cui io ed Alfredo Cellammare parliamo di tutt’altra cosa. Non parliamo del contributo, parliamo di tutt’altro. E dice la dottoressa Triassi “ecco, questa è la prova che Di Giorgio e Cellammarre si conoscono. Io gli ho detto “guardi che avrebbe potuto chiedermelo, glielo avrei detto io, perché ci conosciamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma se la prova del concorso in un reato, scusatemi devo fare un discorso tecnico, risiede nel mero rapporto di conoscenza, allora io sono complice di tutti i reati commessi dai castellanetani, perché li conosco un po’ tutti. Quindi io verrò chiamato a rispondere in qualsiasi reato possa commettere un castellanetano. Questa è un abnormità; un’aberrazione giuridica. E io alla dottoressa Triassi dissi “lei mi fa paura. Io ho paura di una che ragiona così. Come uomo”. Se parliamo dell’amministrazione della Giustizia dobbiamo uscirne, se ciascuno di noi recupera il proprio ruolo. Che cosa voglio dire: la nostra magistratura vive di correnti, di amicizie. Io non sono iscritto a nessuna corrente ed ho sbagliato, perché se fossi stato iscritto, non mi sarebbe successo niente. Ve lo dico!! No, forse bisognerebbe anche avere il coraggio in Italia, io lo dico contro tutta la categoria, di introdurre il principio della responsabilità civile del magistrato, perché io devo avere paura di sbagliare. Ci devo pensare cento volte prima di far qualcosa. Perché signori il magistrato ha il compito più alto: decide della libertà delle persone; ha in mano la vita delle persone. Tutti possono sbagliare, ma purchè ci sia la buona fede e purchè ci sia il rispetto di alcune regole. Spesso ciò non avviene. L’altro giorno a chi a detto, e rispondo a quest’avvocato, che il rinvio a giudizio, parlo dell’avvocato Giuseppe Clemente, faccio nome e cognome, Clemente, il quale impazza su Facebook contro di me dicendo delle cose invereconde, delle quali io mi vergognerei. Quest’avvocato ha detto che un rinvio a giudizio è praticamente una affermazione di responsabilità penale. Ecco vorrei ricordare all’avvocato Clemente che in Italia ancora esiste l’articolo ventisette della Costituzione e quindi la presunzione di innocenza, tecnicamente di non colpevolezza, e che questa presunzione vale fino al terzo grado di giustizia. Io ancora non sono stato giudicato e gli ricordo Raniero Busco. Ce l’ho qua.

L’altro giorno. E’ stato condannato in primo grado a ventotto anni di reclusione. E’ stato assolto dalla Corte d’Appello. Buon per lui che non sia stato sottoposto alla misura cautelare. Però io vi voglio leggere soltanto un passo di un’intervista di Raniero Busco, che la dice tutta. “Cosa ha imparato da questo processo? Che in queste aule non si trova niente di umano. Ognuno è proiettato a salvaguardare la propria idea, la propria posizione. Nessuno è disposto a fare un passo indietro in nome della verità. Questa sentenza però mi restituisce un po’ di fiducia nella Giustizia”. Ed è quello che dico io: perché a fronte di tutto ciò che è emerso dal processo potentino, dei tentativi di inquinamento, dei tentativi di agganciare i testimoni, non è successo niente. Perché ciascuno si innamora della propria posizione e la difende fino alla fine anche contro l’evidenza dei fatti. E questo un magistrato non lo deve fare mai. Il magistrato deve avere l’onestà di dire “ho sbagliato, faccio un passo indietro” e non deviare da alcune regole che sono indefettibili e che a Potenza sono state violate. Io lo dico qua perché l’ho già detto, l’ho già scritto e non posso tediarvi, perché è tardissimo, se no lo farei volentieri. E vi dimostrerei tutte le violazioni che sono avvenute nel mio caso. Tutte.»

Ogni commento è superfluo: basta non essere dalla parte sbagliata.

Potenza tra delitti e consorterie. Misteri noir e lotte di potere.

Questo tema ha destato l'attenzione di Alberto Statera ed Attilio Bolzoni che ne hanno scritto su "La Repubblica". Così come si sono occupati dei misteri di Potenza tanti altri giornalisti.

Già Potenza, capoluogo della regione Basilicata (Lucania).

Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia.

Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini.

Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia.

Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale? ) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John.

E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, il presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di riscontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magistrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".

Il caso di Elisa Claps non è l’unico e nemmeno il più recente. La storia di Potenza è costellata di delitti misteriosi e soprattutto irrisolti. Alcuni poi portano al delitto della sedicenne scomparsa nel 1993. Uno di questi ha come vittima Pinuccio Gianfredi, malavitoso e confidente dei servizi segreti ucciso con una fucilata in bocca il 29 aprile 1997. All’inizio si parlò di regolamento di conti ma qualcuno di recente ha collegato questo delitto con la vicenda Claps: pare che Pinuccio sapesse qualcosa. Un’altra morte misteriosa riguarda una poliziotta, anche lei coinvolta in qualche modo con Elisa Claps. Anna Esposito è stata ritrovata morta in casa nel marzo 2001: un suicidio strano e anche misterioso. Avvenuto mentre conduceva indagini solitarie e parallele sulla morte di Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. Parla chiaro Don Marcello Cozzi, sacerdote di Libera da sempre al fianco della famiglia Claps: “Sono convito che l’omicidio Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito”.

«Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire». Comincia così l'inchiesta che "La Repubblica" dedica al capoluogo a tutta pagina. Attilio Bolzoni, uno delle più influenti e prestigiose firme del giornalismo italiano, da anni alle prese con cronaca nera, storie di mafia, importanti casi giudiziari, ha deciso di raccontare «la città dei 21 delitti irrisolti».

Quello su cui concentra l'attenzione è il caso Gianfredi. Un delitto che descrive come «uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto». Parte dal delitto Gianfredi per innestare quelli di Elisa Claps, la scomparsa di Nicola Bevilacqua (Lauria), il giallo dei fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa. Ancora, l'assassinio di Tiziano Fusilli nel capoluogo e la scomparsa, 35 anni fa, della piccola Ottavia De Luise a Montemurro. Tra tutti questi delitti, a guardare bene - emerge nell'impietoso ritratto - un filo c'è: è Potenza questo filo, è la città «bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti». Potenza ne esce a pezzi.

Potenza, lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d’Italia, sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano ad un morto. In apparenza un delitto di mafia. In realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata tra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall’alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza – che in un'altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del Governo e per altre ventuno Ministro della Repubblica – è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell’altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent’anni, come un noir senza fine con un cadavere dietro l’altro e con indagini immancabilmente destinate all’archivio. Là in cima, chiusa ed isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L’ultimo “cold case” ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro tra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano, ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose, nella città dove niente è mai quello che sembra, qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c’entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l’omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa Claps ed alla morte del funzionario della Digos, Anna Esposito», spiega Don Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia ed al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d’accusa pilotati. Intorno all’omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s’incontrano gli eredi dei “Basilischi” (l’organizzazione criminale della Basilicata legata alla “ndrangheta) con personaggi del sottobosco criminale della politica, avvocati marchiati dal famigerato “concorso esterno”, imprenditori da mucchio selvaggio.

E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell’Appennino? «Non l’abbiamo mai capito», risponde Fabio Amendolara, il cronista de “La Gazzetta del Mezzogiorno” che da anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. E’ capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l’omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta della Digos di Potenza e che un giorno di Marzo del 2001 “è stata rinvenuta impiccata” con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini parallele e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Canizzaro, un ras della Sanità lucana, addirittura indicato da uno dei quattro pentiti come mandante dell’omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm ed il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i presunti mandanti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinuccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. E’ l’incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, qui a Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla.

Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e – come si legge nelle carte giudiziarie – «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga, ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l’aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.

Ottavia De Luise. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l'ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17, non vedendola figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All'epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c'era solo un carabiniere. Dopo venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani per agevolare le indagini: purtroppo non emerse nulla. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all'archiviazione del caso.

Dopo il caso di Elisa Claps, un nuovo «cold case» verificatosi sempre in Basilicata, sale alla ribalta delle cronache. Portando a nuovi, clamorosi, sviluppi. I vigili del fuoco, in collaborazione con gli agenti della polizia scientifica, hanno ritrovato il 4 maggio 2010 dei «reperti» all'interno di un pozzo-cisterna a Montemurro (Potenza), nell'ambito delle indagini sulla scomparsa di Ottavia De Luise, il 12 maggio 1975, quando la bambina aveva 12 anni: il ritrovamento è stato annunciato nel corso della trasmissione di Raitre di lunedì scorso «Chi l'ha visto?», che aveva «riaperto» il caso nelle puntate precedenti. Il pozzo-cisterna si trova all'esterno di una masseria ed è stato svuotato: all'interno oggetti e «reperti», forse resti umani, consegnati poi a un medico legale che dovrà analizzarli, come ha confermato all'Ansa la dirigente della squadra mobile di Potenza, Barbara Strappato. Le indagini sono cominciate con i rilievi planimetrici e la perlustrazione dei luoghi in cui Ottavia fu vista per l'ultima volta. Secondo la ricostruzione di «Chi l'ha visto?» il pozzo-cisterna, a pochi metri dal centro abitato, si trova in una delle zone indicate in alcune lettere anonime inviate alla famiglia De Luise, in cui si spiegava che la bambina «era stata violentata, uccisa, e poi nascosta». Le analisi successive condotte dal professor Franco Introna nell'Istituto di medicina legale di Bari avrebbero accertato che i reperti trovati sono resti animali. Dopo la scomparsa della De Luise, nel 1975, i primi rilievi furono effettuati dall'unico carabiniere in servizio all'epoca nel paese. Alcune settimane dopo furono inviati a Montemurro dei poliziotti con i cani. Il caso fu successivamente archiviato, per essere poi riportato alla ribalta da articoli di stampa e da «Chi l'ha visto?», nell'ambito dei servizi sull'omicidio di Elisa Claps. Nel corso degli ultimi anni ci sono state alcune lettere anonime che ipotizzano la pista del delitto ad opera di ignoti pedofili. Nel paese del resto c'è chi conosce la verità, dato che nelle lettere si afferma che la ragazza è stata violentata e uccisa. Nelle missive si dice anche che la bambina veniva abusata da anziani del paese in cambio di soldi. L'ultima persona a vedere viva la piccola Ottavia fu una signora che affermò di averla vista vicino alla parrocchia del Carmine, sulla strada per Armento, e che la piccola era diretta ad una masseria del luogo. Il caso è riaperto. Sulla scomparsa di Ottavia De Luise, 12 anni di Montemurro, avvenuta il 12 maggio del 1975, sono ripartiti gli accertamenti. E non solo sulla carta. A Montemurro c‘è stata la prima intensa giornata di lavoro su quel «mistero » che per 35 anni è rimasto nel silenzio, senza indagini e senza nemmeno gli onori della cronaca. Direttamente sui luoghi della scomparsa sono andati il pm Sergio Marotta che ha ripreso in mano quel fascicolo chiuso un anno dopo la scomparsa con dentro appena 55 pagine di accertamenti, il capo della Squadra Mobile, Barbara Strappato, e il commissario capo, Antonio Mennuti, questi ultimi reduci dai colloqui col fratello di Ottavia, Settimio De Luise. In pratica, sembra che sul caso De Luise si sia deciso di ripartire con il «metodo Claps» ossia analizzare tutto come se i fatti si fossero appena verificati. Così la folta squadra investigativa (c’erano altri sei uomini della Mobile e due della Scientifica) è arrivata di buon ora sulla «scena del delitto» per partire dalla ricognizione dei luoghi, poi si sono acquartierati nei locali del Comune di piazza Giacinto Albini dove hanno iniziato a sentire i racconti di alcuni dei testimoni dell’epoca, a partire dalle stesse persone i cui nomi compaiono negli atti di indagine datati 1975. Il magistrato e il capo della Mobile, in particolare, hanno voluto eseguire in prima persona un sopralluogo a poca distanza dagli uffici comunali, nei pressi di quella Chiesa del Carmine che da Montemurro porta verso Armento, e in particolare in un appezzamento di terreno nei pressi della chiesa. Un luogo ripreso e fotografato dagli uomini della scientifica, che sembra essere un luogo chiave del mistero di Ottavia. Lì, infatti, la ragazza è stata vista per l’ultima volta da Maria Cirigliano, una donna del paese che raccontò la cosa ai carabinieri. Pioveva e Maria le chiese dove andava. La ragazza rispose che doveva avvisare una famiglia residente in una vicina masseria che dall’abitazione che avevano in paese usciva acqua. La donna le consigliò di chiamarli gridando e avvisarli, per non bagnarsi a causa della pioggia, e la ragazza rispose che «era meglio andarci di persona». E si incamminò. Ma non è solo per questo che «la via del Carmine» è un luogo chiave della vicenda. «Ottavia - raccontò qualche giorno dopo la scomparsa sua madre - mi aveva confidato che il “viggianese” l’aveva invitata più volte ad “andare verso la strada del Carmine”».

E gli stessi carabinieri, all’epoca, conclusero che la ragazzina si era avviata su quella strada «perchè doveva incontrare qualcuno». Così l’attività di ricognizione fatta dagli investigatori ha ripercorso i momenti della scomparsa, avvalendosi anche della presenza di alcuni testimoni. Si è partiti dalla piccola casa della famiglia De Luise, in paese, da dove il 12 maggio 1975 Ottavia uscì alle 16.

Quel giorno niente dopo scuola, si poteva andare a giocare con gli amici in quella piazza Giacinto Albini che dista appena una settantina di metri da casa. Lì incontrò alcuni suoi coetanei, tra cui la cugina, Lucia Rotundo, che lasciò alle 16.30. «Ora io vado in campagna a trovare il “viggianese” - le avrebbe detto a quanto riportato in un verbale dell’epoca - non dire niente a papà e mamma». Così si diresse verso la strada del Carmine per non tornare più. E da lì, 35 anni dopo, ripartono le ricerche.

Luciano De Luise, fratello di Ottavia, la bambina scomparsa a Montemurro (Potenza) il 12 maggio 1975, quando aveva 12 anni, parlando durante la trasmissione di Raitre ‘Chi l’ha visto?’, ha espresso la speranza che la sorella sia “ancora viva”, anche se poco prima aveva criticato le affermazioni di una cugina sulle ultime ore conosciute della sorella, domandandosi “chi vuole ‘coprire’”.

Durante la trasmissione si è parlato anche di Giuseppe Alberti, soprannominato “il viggianese”, che aveva definito Ottavia De Luise “una scostumata” e che fu interrogato e fatto visitare dall’allora pm di Potenza, Antonino De Marco. Alberti, che abitava in una casa forse meta della bambina il giorno che quest’ultima scomparve e che il 29 agosto 1975 si trasferì a Torino, aveva detto di essere stato colpito da una crisi epilettica e di essersi così procurato delle lesioni in varie parti del corpo. Il pm lo incriminò per atti di libidine ma, anche per la mancata denuncia da parte della famiglia di De Luise, allora richiesta dalla legge, non si arrivò mai al processo. ‘Chi l’ha visto?’ ha proposto anche il caso di Alfonso Bisogno, un commerciante di bestiame scomparso a Castel Lagopesole di Avigliano (Potenza) nel 1981, insieme a un suo collaboratore, Giuseppe Di Pietro. La loro automobile fu trovata bruciata il giorno dopo, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, e subito rottamata.

L’uomo – ha raccontato il fratello, Salvatore – era andato a Lagopesole partendo da Giulianova (Teramo), dove aveva sede la sua azienda – per riscuotere 20 milioni per aver venduto capi di bestiame a una cooperativa. Alcuni dirigenti di quest’ultima raccontarono di avergli dato invece circa 75 milioni: due di loro furono arrestati per omicidio e occultamento di cadavere, ma poi, è stato detto durante la trasmissione televisiva, il processo non proseguì.

Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi?

Testimoni mai sentiti, qualche alibi mai controllato. Le falle dell’indagine giudiziaria sulla scomparsa di Ottavia De Luise, la ragazzina di Montemurro scomparsa nel 1975, sono state ricostruite nella sala del Cestrim a Potenza dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara durante la “prima” del libro inchiesta "La colpa di Ottavia" edito dalla Edimavi. I giornalisti, rispondendo alle domande di don Marcello Cozzi (moderatore dell’incontro), hanno spiegato perchè le indagini nei confronti del “viggianese” e di Andrea Rotundo, i due sospettati per la scomparsa della ragazzina, non hanno dato alcun esito. “Il viggianese, forse, alla fine avrebbe confessato anche gli abusi su Ottavia – hanno spiegato – ma ha un alibi all’ora della scomparsa di Ottavia”. E Rotundo? Secondo i giornalisti “è stato un abbaglio“.

Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono“, così era stata definita all’epoca nel rapporto giudiziario dei carabinieri, e quindi indegna di sforzi investigativi? “36 anni fa – hanno detto i giornalisti – è andata così. Il carabiniere che si occupò dell’indagine la definì una poco di buono. Ci sorprende che la magistratura molli ancora una volta adesso. E’ troppo facile dire “è stato il viggianese”.

E’ morto e non può difendersi. Noi riteniamo, e le indichiamo nel libro, che ci siano altre piste che non sono state mai approfondite. E ci sono testimoni che non sono stati convocati. Testimoni importanti. Come il ragazzo con l’automobile sportiva che osservava con insistenza Ottavia nella piazza del paese pochi istanti prima che sparisse. Perchè quell’uomo non è mai stato chiamato dagli investigatori?“.

L’avevamo detto: il caso della scomparsa di Ottavia De Luise sembra il copione di un brutto film. Ottavia sparì il 12 maggio 1975 a Montemurro, un centinaio di chilometri da Potenza. Montemurro è un paesino di 1.500 abitanti. Ora che si sono mesi a cercare sul serio il corpo di Ottavia, sulla scia del caso di Elisa Claps, non è stato difficile ritrovare alcuni reperti in un pozzo proprio nel luogo dove la ragazzina, che aveva 12 anni, fu vista per l’ultima volta. Si è scoperto poi che in paese, Ottavia attirava allora “voci e pettegolezzi” perché, si diceva, si intratteneva con adulti. E cioè, in pratica, tradotto oggi, alcuno adulti si approfittavano di lei, la molestavano. In particolare un uomo, Giuseppe Alberti, detto il “viggianese”, era stato visto speso vicino a Ottavia. Tanto che la mamma della ragazzina gli aveva intimato di non avvicinarsi più a sua figlia. Quando Ottavia scomparve il “viggianese” fu interrogato e vennero riscontrati sul suo corpo ecchimosi e lividi e in particolare un graffio sul braccio destro della lunghezza di un centimetro e mezzo. Non solo, 35 anni fa, la cugina di Ottavia, Lucia Rotundo, che ancora oggi vive in paese, testimoniò che il viggianese pagava Ottavia per farla spogliare e toccarla nelle parti intime. Oggi ritratta tutto e dice che a indurla a fare quelle dichiarazioni furono i carabinieri. Ma i colpi di scena non finiscono. Si pensava che Giuseppe Alberti fosse morto da tanti anni. Non è così: vive a Torino, ha 87 anni. La polizia segue la pista legata al suo nome, ma conduce scavi anche nella proprietà dei Rotundo, dove si trova il pozzo nel quale sono stati individuati i reperti. Intanto, Settimio De Luise, fratello di Ottavia, ha denunciato per favoreggiamento Giuseppe Nitto, allora comandante della stazione dei carabinieri di Montemurro (la polizia l’ha interrogato in un luogo segreto).

Secondo Settimio, Nitto fece di tutto per insabbiare una storia la cui soluzione era a portata di mano già 35 anni fa.

In Lucania si può venire uccisi, giovanissimi e restare occultati ed ignorati, per anni.

Come funziona la “giustizia” (g minuscola non a caso) a Potenza? Dire Potenza è come dire Italia. Bene lo spiega Walter Vecellio su Notizie Radicali ripreso da “Libero Quotidiano” e tema trattato anche da “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Sei anni di indagini per capire che la pistola era giocattolo.

Clamoroso caso di malagiustizia in provincia di Potenza: più di un lustro per capire che l'arma non avrebbe potuto nemmeno sparare.

Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola.

Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli?

Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare.

«Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto.

Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?».

«Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale».

Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Secondo i carabinieri possedevano un’arma ad avancarica prodotta prima del 1890. Una pistola non denunciata e, per questo motivo, clandestina. Un capo d’imputazione di due righe dattiloscritte proprio sotto i loro nomi e sotto il simbolo della Repubblica italiana riassume l’accusa: «Detenzione illegale di arma». Ma era un giocattolo. Loro lo hanno detto, ribadito e dimostrato. Nonostante ciò hanno subìto un lungo ed estenuante processo che si è concluso dopo sei anni con l’assoluzione. È una disavventura giudiziaria quella che racconta la sentenza di «non luogo a procedere» scritta dal giudice di Melfi Amerigo Palma. Gli imputati erano due ragazzi di Ruvo del Monte: Domenico e Sebastiano Suozzi, classe 1973, gemelli. Sul faldone che contiene i numerosi documenti (informative, note inviate dai carabinieri al pubblico ministero, notifiche) finiti tra gli atti dell’inchiesta un cancelliere ha annotato: «Processo Suozzi più uno». Da qualche settimana quel raccoglitore di fascicoli è finito nell’archivio della Procura di Melfi.

Conteneva anche la consulenza di un perito balistico che il difensore dei due ragazzi, l’avvocato Giustino Donofrio del foro di Melfi, è stato costretto a chiedere per evitare che la situazione diventasse ulteriormente rischiosa per i suoi assistiti. «Si vedeva a prima vista che era un giocattolo», conferma chi ha potuto vedere l’arma. Eppure nel 2006 ci fu un sequestro. E i due ragazzi rischiarono l’arresto. La riproduzione - che non è neanche di pregio - era ben esposta sul caminetto della loro abitazione di Ruvo del Monte. I carabinieri della locale stazione la scambiarono per un’arma vera e funzionante e gliela portarono via. Cominciò così per i due ragazzi il lungo calvario giudiziario. Prima l’avviso di garanzia. Poi la convocazione per l’interrogatorio. Poi l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. E nonostante l’interrogatorio e le memorie presentate la Procura chiese di rinviare a giudizio i due indagati. È stato allora che l’avvocato ha chiesto di sottoporre il giocattolo a perizia per stabilire la sua natura e la funzionalità.

Scrive il giudice nella sua sentenza: «Il perito, verificato il reperto a lui consegnato nel corso dell’udienza, ha concluso che non si tratta di un’arma ma di un mero simulacro inerte». Un giocattolo. Che i due ragazzi potranno esporre di nuovo sul camino. Dopo sei anni di processo.

UN COVO DI SERPENTI ?!?

Dopo 18 anni Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni per l'omicidio di Elisa Claps. I suoi legali annunciano che faranno appello, ma la mamma della giovane chiede ora a Restivo: "Dimmi chi ti ha coperto".

Danilo Restivo, che sta già scontando l'ergastolo in Inghilterra per l'omicidio della sarta Heather Barnet (trovata uccisa nel 2002 con modalità simili, si capirà in seguito, a quelle di Elisa Claps) è stato condannato a 30 anni, massimo della pena per un processo con rito abbreviato, per l'assassinio della giovane studentessa di 16 anni, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, il 17 marzo 2010. Danilo Restivo ha avuto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni dopo l'espiazione della pena, oltre all'obbligo di pagare 700mila euro di risarcimento provvisionale. Sollievo per i familiari di Elisa Claps, che finalmente, dopo tanti anni, ottengono "giustizia", come spiega la mamma della giovane Filomena, perché è da sempre che sono convinti della colpevolezza di Restivo. Anche per questo la mamma di Elisa Claps afferma che il magistrato "che ha condotto le prime indagini" si dovrebbe "fare un esame di coscienza". Danilo Restivo, infatti, era stato già condannato a poco più di due anni per falsa testimonianza riguardo al caso di Elisa Claps, ma circa 18 anni fa non si riuscì ad arrivare a questa verità accertata ora in ambito processuale. Per la famiglia Claps molti sono ancora i misteri che ruotano attorno alla morte di Elisa, a partire da quelli definiti come "complici morali". Mamma Filomena spiega infatti che ora non ci può essere "perdono", e si appella a Danilo Restivo: "Ora prendi carta e penna e scrivimi la verità, dimmi chi ti ha coperto". Perché la famiglia Claps è convita che qualcuno sapesse da tempo dell'omicidio della figlia, e di dove si trovasse il suo corpo. "E' la verità sulla Chiesa che voglio e che deve venire fuori a tutti i costi" precisa la mamma di Elisa Claps. La Diocesi di Potenza aveva anche chiesto di costituirsi parte civile nel processo, ma il loro legale, Antonello Cimadomo, ha spiegato che la richiesta è stata respinta "perché il giudice ha riscontrato una potenziale conflittualità con le nuove indagini in corso sul ritrovamento del cadavere". Sembra infatti che sia stato aperto un fascicolo "a latere" per capire se oltre a Danilo Restivo qualcun altro ha delle responsabilità in merito al delitto Claps. Il Mattino ricorda poi che ci sarebbero delle conferme riguardo un dossier scomparso sulla morte di Elisa Claps, dove un ex agente del Sisde, scrive il quotidiano che l'ha intervistato, afferma: "L'informativa sul delitto Claps c'era, la firmai io. E' dell'ottobre '97. C'era un prete che sapeva".

Dalla Gazzetta del mezzogiorno si scopre che sul delitto Elisa Claps spunta la massoneria.

Cercavano qualche elemento che potesse aiutarli a sbrogliare l’intricato giallo del ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza (avvenuto il 17 marzo del 2010, a 17 anni di distanza dal delitto), quando hanno scoperto che uno dei sacerdoti intercettati era in contatto con esponenti di una loggia massonica segreta. Dalle chiacchierate telefoniche di don Pierluigi Vignola gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Salerno non sono riusciti a comprendere «quali siano con precisione i suoi reali interessi». 

Gli investigatori della Dia di Salerno segnalano alla Procura - è quanto trapela dall’inchiesta bis del caso Claps, quella che sta cercando di accertare cosa c’è dietro al ritrovamento dei resti di Elisa e quale sia il reale coinvolgimento di appartenenti alla curia potentina - i contatti con un personaggio di Nola, in provincia di Napoli, «con precedenti per la violazione della legge Anselmi», quella che vieta la costituzione di società segrete. Ma anche con altri «appartenenti alla massoneria italiana» o comunque «legati ad ambienti massonici».

E, nonostante fino a quel momento non siano emersi «elementi attinenti alle indagini», per «acquisire ulteriori elementi» il caposezione della Dia di Salerno, Claudio De Salvo, da qualche giorno passato alla Squadra mobile, chiede ai magistrati di poter continuare a intercettare il telefono del sacerdote potentino. È il 13 aprile del 2010. Nell’informativa l’ex capo della Dia scrive anche che «da interrogazione della banca dati Sdi (un sistema informatico a cui possono accedere le forze di polizia, ndr) si rileva a carico dell’interlocutore del sacerdote una segnalazione della Squadra mobile di Benevento, all’interno della quale viene deferito anche don Vignola. Non si conosce però l’esito che hanno avuto queste indagini». Ma quando i pm Rosa Volpe e Luigi D’Alessio inoltrano al gip la richiesta di proroga qualcosa s’inceppa. Il giudice Attilio Franco Orio rileva che l’atto inviato dalla Procura è arrivato in ritardo e le attività di captazione vengono disattivate. Per gli investigatori era «evidente - si legge in un documento dell’inchiesta bis sull’omicidio Claps - quanto sia rilevante e indispensabile per la corretta e completa ricostruzione dei fatti, che non sono solo quelli relativi al giorno dell’omicidio ma anche quelli inquietanti relativi al decorso di ben 17 anni durante i quali il cadavere della ragazza si è decomposto nel sottotetto, captare ogni possibile comunicazione che possa interessare sia gli appartenenti al clero coinvolti nel ritrovamento, sia altri collegati, come don Vignola, viceparroco allorché era in vita don Mimì Sabia». Ma ormai era troppo tardi.

Ma a Potenza sembra esserci un covo di serpenti. Le inchieste di Fabio Amendolara sul "La Gazzetta del Mezzogiorno” lo confermano.

Era sorto un contenzioso tra l’Arma dei carabinieri e la Procura di Potenza. Molti ufficiali erano finiti in inchieste giudiziarie che dal comando regionale giudicavano «troppo lunghe». Il generale Emanuele Garelli, ex comandante regionale, preparò un esposto. E il ministero della Giustizia incaricò la Procura generale di effettuare un’indagine conoscitiva. Il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, indicato dai magistrati di Catanzaro che hanno coordinato l’inchiesta bis sulle toghe lucane - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - come il promotore di una società segreta che cercava di delegittimare il lavoro della Procura di Potenza, avrebbe «usato» quell’indagine amministrativa per «cagionare - si legge in uno dei capi d’imputazione contenuti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nei giorni scorsi ai 13 indagati - un danno ingiusto all’ex capo della Procura Giuseppe Galante».

Come? «Ha suggerito - si legge negli atti dell’inchiesta di Catanzaro - che il colonnello Nicola Improta gli richiedesse la copia di alcuni atti, facendo riferimento alla documentazione redatta dal procuratore Galante, in modo da consentire ai carabinieri di predisporre delle consapevoli ed efficaci controdeduzioni e di non “essere al buio”».

Ma Bonomi avrebbe «garantito» anche «di fornire al colonnello Improta copia della documentazione a lui giunta dal ministero della Giustizia e attinente alla relazione inviata al ministero da Galante, affinché i carabinieri potessero conoscere gli addebiti loro mossi dal procuratore di Potenza».

E ancora: «Ha garantito - scrivono i magistrati calabresi - al colonnello Improta che avrebbe ricevuto i verbali con le dichiarazioni rese da due ufficiali dei carabinieri che smentivano l’esposto del generale Emanuele Garelli».

Per «sistemare» l’indagine amministrativa, infine, Bonomi avrebbe «suggerito» al colonnello Improta «di irrobustire l’impianto accusatorio a fronte di quanto riferito dai due sottufficiali».

Secondo i magistrati di Catanzaro «suggerì» anche «le prove da preparare a sostegno delle loro accuse nei confronti di magistrati della Procura di Potenza e concordò con il comandante interregionale dei carabinieri le modalità di svolgimento degli accertamenti delegati alla Procura generale».

Il tutto per colpire l’ex capo della Procura Galante che, secondo i magistrati di Catanzaro, dopo poco si sarebbe lasciato decadere dall’incarico non presentandosi in ufficio (proprio a causa dei procedimenti disciplinari partiti con le segnalazioni della Procura generale). A quella poltrona pare mirasse proprio Bonomi.

E ancora dalla Gazzetta del Mezzogiorno si scopre che avevano «mappato» gli uffici investigativi della Questura di Potenza e spiato l’ex questore Vincenzo Mauro. «Attività di dossieraggio», la definiscono gli investigatori in un documento dell’inchiesta bis sulle toghe lucane che la Gazzetta ha potuto consultare. 

C’era un «disegno prestabilito - secondo gli investigatori - contro il sostituto commissario Antonio Mennuti e l’ispettore Pasquale Di Tolla». Il primo era in servizio alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile. Il secondo era il braccio destro del pm Henry John Woodcock e vittima anche dell’esposto anonimo firmato dal «dottor Sicofante». Secondo i magistrati di Catanzaro - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - anche nel dossier sugli assetti della Questura c’è la mano di Nicheo Cervone, l’ex 007 del Sisde che avrebbe passato l’esposto calunnioso ai danni di Woodcock a Leonardo Campagna, un poliziotto di Foggia che, poi, l’avrebbe materialmente spedito. Secondo gli investigatori è «emerso un disegno criminoso verosimilmente finalizzato a delegittimare e depotenziare il lavoro della polizia giudiziaria» delegata da Woodcock per indagini molto delicate.

La poliziotta al telefono  - Il vicequestore aggiunto Luisa Fasano, all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza, si lamenta al telefono del fatto che il sostituto commissario Mennuti sia stato, «dopo il suo iniziale allontanamento», completamente «riabilitato» proprio dal questore Mauro che, a suo dire, «prima l’aveva fatto fuori e poi tirandosi indietro l’aveva fatto rientrare nei giochi». Questo comportamento, secondo Luisa Fasano, «aveva molto contrariato il procuratore generale». Spionaggio - Nel dossier sequestrato a casa dell’ex 007 vengono descritte proprio queste dinamiche. «La Questura di Potenza - si legge nel documento - nei primi mesi dell’incarico del questore aveva subìto pochi ma importanti avvicendamenti. Il principale di questi aveva interessato il passaggio di Mennuti (considerato uomo vicino al pm Vincenzo Montemurro, ndr) da responsabile dell’ufficio anticrimine ad addetto all’ufficio di gabinetto del questore». Poi, in linea con i commenti telefonici della poliziotta - ma molto probabilmente si tratta solo di una coincidenza - chi ha scritto il dossier commenta: «Da alcuni mesi Mennuti è stato ricollocato in un ufficio operativo come responsabile di una sezione della Digos. Grazie a questo incarico si occupa di tutte le tematiche relative al mondo politico e di fenomeni delinquenziali destabilizzanti connessi ad associazioni o gruppi quali, ad esempio, la massoneria». 

È questo che preoccupava la società segreta che, secondo i magistrati di Catanzaro, era guidata dal sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi e alla quale aveva preso parte, sempre secondo l’accusa, anche Luisa Fasano? Oppure era l’ispettore Di Tolla il vero obiettivo del «dossieraggio»? Si legge nel documento sequestrato a casa dell’ex 007: «Contemporaneamente a questi accadimenti, l’ispettore principale della polizia stradale di Potenza, Di Tolla, ha chiesto e immediatamente ottenuto il passaggio alla Squadra mobile. Di Tolla è da sempre il principale fiduciario di un magistrato della Procura potentina (Woodcock, ndr). Così, oggi, di fatto, si è creato un canale diretto fra due magistrati e due uffici operativi della Questura». Nicrospie in questura - Ma chi fu a chiedere e ottenere i due trasferimenti? «Da notizie attinte da fonte inconsapevole prossima al questore - è scritto nel dossier - i due trasferimenti sono stati richiesti in modo pressante e perentorio dal procuratore Giuseppe Galante (che si lasciò decadere a seguito delle accuse di alcuni suoi colleghi. Nell’inchiesta bis sulle toghe lucane è parte offesa)». 

Anche il questore era stato spiato? E chi è quella fonte inconsapevole?

È probabile che l’ufficio del questore sia stato anche intercettato. Luisa Fasano, infatti, confida al suo interlocutore telefonico che il nuovo questore, Romolo Panìco, subentrato a Vincenzo Mauro, prima di insediarsi nella sua stanza ha dovuto fare «una bonifica ambientale». Erano state installate delle microspie? E da chi? È questo che dovranno accertare gli investigatori.

Dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 novembre 2011. Al sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi qualcuno aveva promesso un posto all’ispettorato del ministero della Giustizia. All’ex agente del Sisde Nicheo Cervone, invece, dissero che sarebbe diventato consulente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica diretto da Massimo D’Alema.

In cambio - secondo i magistrati della Procura di Catanzaro che ritengono di aver scoperto una società segreta che si riuniva al terzo piano del palazzo di giustizia di Potenza, sede della Procura generale - avrebbero dovuto delegittimare alcuni sostituti procuratori in servizio a Potenza: Henry John Woodcock, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e Laura Triassi.

Perché? Curavano alcune indagini, sostengono il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi, che davano fastidio agli ambienti politici.

Nel caso di Woodcock fu preparato un esposto anonimo firmato con lo pseudonimo «Sicofante» e consegnato all’ispettore della polizia di Stato Leonardo Campagna che lo spedì - secondo gli investigatori - su ordine dell’ex 007 del Sisde. L’esposto - secondo la Procura - conteneva calunnie (per i giudici del Tribunale del Riesame di Catanzaro erano notizie diffamatorie) nei confronti del magistrato anglonapoletano e del suo braccio destro, l’ispettore della polizia di Stato Pasquale Di Tolla. I due erano accusati di aver passato atti dell’inchiesta «Totalgate» al principale indagato e di intrattenere rapporti telefonici con alcuni giornalisti. Ma Bonomi e Modestino Roca, l’altro sostituto procuratore generale indagato, avrebbero «agito» anche con i «poteri ispettivi» che la Procura generale può esercitare nei confronti della Procura della Repubblica.

«Un’intimidazione», secondo gli investigatori di Catanzaro. Perché da quel momento i pm Woodcock, Montemurro, Triassi e Piccininni, hanno lavorato sotto la costante minaccia di «sanzioni».

Le notizie contenute nell’esposto anonimo, ma anche altre «riservate» che circolavano negli uffici investigativi venivano rese pubbliche al fine di rendere vane le indagini. Per la rivelazione di notizie che dovevano rimanere segrete sono indagati i carabinieri Consolato Roma e Antonio Cristiano (ex militari in servizio all’aliquota di polizia giudiziaria, poi trasferiti). E un maresciallo della Guardia di finanza, Angelo Morello. Secondo i magistrati di Catanzaro sono stati loro a fornire le informazioni (contenute in indagini di cui si stavano occupando) all’ex agente segreto. Altre notizie venivano reperite, secondo l’accusa, dal vicequestore aggiunto Luisa Fasano (all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza) e dal colonnello Pietro Gentili (ex comandante dell’aliquota di Pg dei carabinieri di Potenza, poi responsabile della sicurezza di un villaggio turistico del Metapontino) e fornite direttamente a Bonomi e Roca.

Ma chi ha promesso a Bonomi un posto all’ispettorato del ministero? E chi disse a Cervone che sarebbe entrato al Copasir? Al centro del complotto pare ci sia un politico lucano. Gli investigatori l’hanno intercettato mentre parlava con Cervone e ritengono di aver accertato che avesse relazioni anche con Bonomi. È stato lui a promettere quelle importanti postazioni in cambio della delegittimazione dei magistrati scomodi? È quello che gli investigatori stanno cercando di accertare.

Su “Libero news” la risposta piccata di Bonomi. A Luigi De Magistris gliene hanno dette di tutti i colori, soprattutto durante la sua prima vita, quella di magistrato. Ma «viscido ectoplasma» è uno di quegli epiteti che difficilmente si dimenticano. Specie se a pronunciarlo è un altro magistrato, uno di peso, come il sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi. È lui l’uomo al centro dell’inchiesta Toghe Lucane bis, che avrebbe ordito - secondo la procura di Catanzaro - un complotto per screditare il pm Henry John Woodcock, organizzandosi addirittura in un’associazione segreta con altre toghe, con funzionari di polizia e servizi segreti deviati. Insomma, una riedizione (per quel che ne è dato di capire sinora) della vecchia indagine di De Magistris, l’unica che ha concluso ma non l’unica ad esser annegata nel nulla.

L’ex pm, more solito, ha visto in questa nuova inchiesta la prosecuzione del suo lavoro, parlandone pubblicamente e attaccando i suoi vecchi indagati. Chi non conosce la Toghe Lucane originale, immagina che si tratti di chissà cosa: naufragò platealmente per ragioni intrinseche all’indagine stessa, non certo per i cosiddetti «influssi esterni» per bloccare De Magistris. Ora Bonomi, in una esilarante lettera inviata al Quotidiano della Basilicata, ridicolizza sia De Magistris, sia Woodcock che l’intera indagine fotocopia partorita nelle stanze del procuratore aggiunto calabrese Borrelli. Con sprezzante ironia, affibbia alla loggia da lui creata, secondo le accuse, il nome di «PP», laddove si intenda «Propaganda Potenza». Ma è quando arriva il turno dell’ex pm che il piatto si fa forte: «Mi aspettavo da sempre che viscidi ectoplasmi di un recente passato pur raggiunti, a vario titolo, da sanzioni documentate e motivate, che oggi qualcuno tenta goffamente di far apparire come conseguenze di complotti, tentassero di rialzare la testa per riacquistare una dignità fondatamente perduta in modo irreversibile, ma sono certo che anche stavolta i loro convulsi ed agitati spasmi di avvoltoi non conseguiranno alcun risultato favorevole».

Qui c’è da giurare che finirà a carte bollate. Aspetto che non sembra preoccupare il sostituto procuratore generale di Potenza, tant’è che nella lettera al quotidiano ne ha per tutti, a partire proprio dal pm anglo-napoletano e dalla sua amica Federica Sciarelli. Eccone un passaggio significativo: «Non ho come parenti soggetti nobili (conti, principi etc), o eventualmente appartenenti alle alte gerarchie della chiesa (cardinali, vescovi) e tantomeno ho amici, più o meno intimi, nel clero locale o nella "intellighentia" lucana, disposti a cantare le mie lodi. Sono solo un magistrato che ha sempre operato e tutt’ora opera in silenzio, senza simpatie per il clamore mediatico, che, in quanto tale, non dispone di molti supporters neanche tra i giornalisti, tra i quali purtroppo non figura nessuna mia amica e nessun amico».

INSABBIAMENTI E CENSURA

Ecco la Basilicata dei veleni e silenzi. Un libro dossier la cui recensione è stata fatta sul “La Gazzetta del mezzogiorno” del 6 agosto 2011.

Anni di denunce. E di silenzi imbarazzanti. Anni di proteste, di viaggi, di ricerche per portare alla luce una Basilicata nascosta, o meglio, che qualcuno vorrebbe tenere nascosta, celata dalla «copertina» patinata di una regione dall’aria buona, dall’acqua pulita, dall’atmosfera bucolica. Maurizio Bolognetti ha condensato in un libro-dossier tutto il suo lavoro d’indagine, corredato da articoli di stampa, su contraddizioni, verità nascoste e «veleni» che si annidano nel territorio lucano. Il titolo del volume è chiarificatore: «La peste italiana. Il caso Basilicata - Dossier sui veleni industriali e politici che stanno uccidendo la Lucania».

Il messaggio di fondo: siamo di fronte a uno status quo che ha l’imprimatur della politica, di quella che comanda, dirige, sentenzia. «Una regione con 131 comuni e nemmeno seicentomila abitanti, ricca di acqua, di gas, ora anche di petrolio, con le montagne innevate e il mare caldo, le campagne generose di grano, viti, ulivi e colture pregiate - scrive il giornalista Carlo Vulpio nella prefazione - è un luogo perfetto dove creare un feudo, in cui pochi signorotti comandano e tutti gli altri ubbidiscono, subiscono, o nel migliore dei casi si adeguano. Proprio quello che è accaduto in Basilicata».

LE «SPINE» - Il quadro generale che emerge dal lavoro di Bolognetti è devastante, crudo, non «addomesticato», senza edulcoranti: discariche al collasso, discariche che rilasciano nel terreno il percolato, l’inceneritore Fenice che ha inquinato la falda acquifera del fiume Ofanto, controlli ambientali carenti e dati nascosti di monitoraggi, sorgenti inquinate e siti di bonifica di interesse nazionale (Tito scalo e Ferrandina) non bonificati. E ancora: inchieste su reati ambientali che vanno in prescrizione o che scompaiono tra i faldoni in qualche Procura, società che agiscono in autocontrollo. Sullo sfondo di questo campionario di accuse l’inquietante aumento di malattie tumorali in Basilicata.

IMMONDIZIA - Occhi puntati sul ciclo di rifiuti solidi urbani. «Mentre si continua a viaggiare sul binario discariche/ inceneritori e la raccolta differenziata langue - scrive Bolognetti nel suo libro - i costi di smaltimento dei rifiuti sono passati da 103 a 170 euro a tonnellata. Chi, dunque, fa affari con la monnezzopoli lucana? Chi ne trae profitto? Perché una regione come la Basilicata, scarsamente popolata, non è riuscita in tanti anni a innescare un ciclo dei rifiuti virtuoso? Chi guadagna con la costruzione e la gestione dele discariche, con gli inceneritori e il trasporto della monnezza e con inceneritori camuffati da centrali a biomassa? ».

ACQUE - La recente denuncia di Goletta Verde sull’inquinamento a Nova Siri, in località Torre Bollita, del Canale dove sfocia il depuratore, e della foce del fiume Basento, a Bernalda, conferma che il sistema di depurazione in Basilicata è inadeguato. Un fatto storico. Acclarato. Bolognetti avrebbe senz’altro inserito questa vicenda nel suo libro, finito di stampare a giugno scorso. Così come avrebbe evidenziato la smentita, da copione, di Acquedotto Lucano che parla di valori inquinanti sotto la soglia d’allarme. È una storia che si ripete e che si inserisce nel contesto di quello che Bolognetti definisce «la politica del tutt’a posto» in cui l’assessore, il dirigente o il presidente di turno gli appioppa l’etichetta del mistificatore, del mitomane. Lo dissero quando Bolognetti denunciò l’inquinamento degli invasi lucani, sottolineando i dati di analisi effettuate da una ditta privata alla Camastra. Quella «rivelazione» ispirò un’inchiesta giudiziaria. Ma non quella che Bolognetti si augurava: fu lui stesso oggetto di una perquisizione (gli inquirenti cercarono le «carte» che avrebbero ispirato la sua denuncia) finendo iscritto nel registro degli indagati in compagnia del suo «complice», Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia provinciale di Potenza, sospeso dal servizio. L’accusa: rivelazione del segreto d’ufficio. Chi è il criminale? Chi denuncia casi di devastazione ambientale o chi inquina?

LE COPERTURE - Interrogativo che alimenta la teoria «vulpiana » del feudo in cui tutto deve restare com’è. Compreso i veleni. Compreso i silenzi che ignorano la «Convenzione di Aarhus», applicata ovunque in Europa, che impone la trasparenza e la massima divulgazione di atti, dati e documenti su questioni ambientali. I cittadini, insomma, hanno il diritto di essere informati. Ma l’esperienza fatta sul campo da Bolognetti (i casi Fenice e Pertusillo, i siti inquinati di Tito e Val Basento, l’estrazione di petrolio in Val d’Agri) testimoniano che non è così. «La Basilicata - scrive Bolognetti - viene presentata sui depliant turistici come un Paradiso naturale. In realtà è deturpata e sventrata da crimini contro il territorio e l’ambiente di ogni tipo. Sullo sfondo, un quadro terrificante di connivenza tra chi commette i crimini e chi dovrebbe sorvegliare».

Per gli insabbiamenti giudiziari e la censura a Potenza sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 9 gennaio 2011 è uscito un editoriale del direttore Carlo Bollino.

"Dopo che per mesi il mondo dell’informazione aveva protestato, urlato e manifestato contro i rischi della legge bavaglio, riuscendo infine nell’intento di congelare in parlamento la bozza liberticida, scopriamo che la libertà di stampa rimane a rischio anche senza quella legge. Basta toccare i poteri forti o anche meno: perché se scrivi e lavori in Basilicata basta sfiorare la storia di Danilo Restivo per cacciarti nei guai. Questo giovanotto, a dispetto del numero di omicidi dei quali è accusato o anche solo sospettato, continua evidentemente a godere di ampie tutele se è stato sufficiente scandagliare un po’ nei retroscena della sua personalità deviata, per mobilitare procura di Salerno e squadra mobile e far finire sotto inchiesta il giornalista che ha osato scrivere di lui. È come se contro il desiderio collettivo di giustizia continuasse a infrangersi l’onda lunga dell’immunità che al di là di ogni ragionevole decenza ha consentito a Danilo Restivo di farla franca dal 1993 al 2010, quando finalmente l’evidenza degli indizi a suo carico (alcuni risalenti addirittura a tredici anni prima) si è trasformata in un mandato di arresto internazionale. Ecco, il nostro collega Fabio Amendolara, travolto da un impeto investigativo che in 17 anni non si era mai visto manifestarsi con altrettanta urgenza contro gli assassini di Elisa Claps, si era limitato a scrivere questo: a ricostruire, dettaglio dopo dettaglio, tutte le prove raccolte dal 1993 ad oggi nei confronti del giovane rampollo lucano. E con la logica trasparente che deve sempre ispirare il lavoro di un cronista, a chiedersi in un breve editoriale pubblicato ieri in edizione di Basilicata «cos’altro servisse per arrestare prima Danilo Restivo». Tutte le prove erano raccolte in un’informativa redatta dalla squadra mobile di Potenza nel 2008, ma che la procura di Salerno aveva ritenuto insufficienti ad incriminare Restivo, chiedendone così l’archiviazione. Salvo poi ripescare lo stesso documento due anni dopo, in seguito al ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa di Potenza, e in base a quelle stesse prove chiedere e ottenere l’arresto. Strano oltre che imbarazzante. La procura di Salerno ha così ordinato alla polizia di Potenza di rintracciare Fabio Amendolara che è stato raggiunto dagli agenti mentre come ogni giorno faceva i suoi giri in città a caccia di notizie, e insieme con lui hanno perquisito giornale, casa e auto, sequestrandogli le carte sulle quali lavorava, incluso l’intero archivio sul caso Claps, e accompagnandolo infine in questura dove per altre 4 ore lo hanno sottoposto ad interrogatorio. Senza che nel frattempo gli fosse concessa la possibilità (anzi: il diritto) di mettersi in contatto con i suoi colleghi, né con la sua giovane moglie. Ora, che un giornalista possa finire nel mirino della giustizia per una qualunque rivelazione di segreto istruttorio ci sta pure: diciamo che è un infortunio del mestiere, per nulla imbarazzante giacchè semmai è la prova-provata che stava scrivendo la verità. Ma è sul metodo che dissentiamo. Su questa sproporzionata esibizione di forza che in 17 anni – e ricordarlo oggi appare grottesco – non è mai stata usata nei confronti del presunto assassino. Al quale, tanto per dire, rientrato a casa dal suo ultimo incontro con Elisa della quale si erano appena perse le tracce, procura e polizia dell’epoca consentirono di far sparire la giacca forse macchiata proprio dal sangue della ragazzina. Ed era solo l’inizio di una imbarazzante inchiesta che infatti non approdò a nulla. Ecco, è paradossale che una vicenda giudiziaria condizionata per 17 anni da depistaggi e omertà nella quale anche il silenzio dell’informazione ha avuto un pesante ruolo colpevole, debba giungere al suo epilogo con l’incriminazione di chi invece sta tentando di contribuire alla chiarezza, e se non è sospetto è certamente inopportuno che tanto accanimento nei confronti di un giornalista si sia manifestato adesso, e proprio intorno a questo caso. Sulla tragica fine di Elisa Claps e sulle lacunose indagini che ne sono seguite sembrava finalmente strappato il bavaglio, ed è per questo che suscita stupore e indignazione scoprire che oggi qualcuno ritrovi invece il coraggio di impugnarlo. Con il corpo della disgraziata 16enne di Potenza che attende tuttora di essere sepolto. E mentre chi indaga deve ancora dar prova di saperle restituire, fino in fondo, la Giustizia che merita."

MAFIOPOLI. I BASILISCHI.

I Casalesi nelle carceri lucane pensano al post-Basilischi. La 'ndrangheta» e l'ex isola felice. La «Famiglia» di Basilicata in uno studio dell'Università di Essex. «Dalle celle i boss potrebbero riorganizzare il clan», scrive Silvia Bortoletto l'11 settembre 2016 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, dà il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology. La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti? «A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona «holding» del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di «outsourcing», di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata «commissionata» a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati «concessi» dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel «collante narcisistico» tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La «creazione» dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della «Lucania Felix», di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80». La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo «succube» o comunque legata alle attività criminali e agli intenti «manageriali» di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni? «Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma così come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Inoltre, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità «madre». Nel momento in cui i capi si sono pentiti noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto». Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi...«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90». Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra? «È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario». Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente? «Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania». Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire? «I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che hanno deciso di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi, fino a quando è rimasto aperto, è risultato particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro «esperimento mafioso», questa volta targato Camorra».

I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati.

I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del sud Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Don Saru dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da una azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di una inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi.

Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi".

Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Da “Il Giornale” la mafiopoli lucana. Scommesse clandestine, partite truccate, cocaina e politica, cocaina e calcio, cocaina alla «Potenza-bene». Un fiume di parole, e di polvere bianca. Inchieste e processi in corso scuotono la sonnolente Lucania: affari sporchi, appalti criminali, compravendita di voti e posti di lavoro, ricatti incrociati, relazioni pericolose coi boss della quinta mafia sconosciuta ai più: i Basilischi. Il bubbone della calciopoli locale esploso a novembre del 2009 con l’arresto del presidente del Potenza calcio, Giuseppe Postiglione - accusato di vendersi le partite e di scommetterci sopra - investe il centrosinistra della Basilicata (la giunta regionale guidata dal Pd Vito De Filippo). Antonio Cossidente, temuto pentito della cosca locale collegata alla ’ndrangheta, dopo aver verbalizzato quel che sapeva sulla connection sportivo-criminale (dalla costruzione di un nuovo stadio alla gestione di sale-scommesse, dai 170mila euro «di provenienza illecita versati al presidente Postiglione» al servizio d’ordine affidato al clan) ha «sparato» sui politici. E sui presunti rapporti con alcuni di loro che fanno parte, o appoggiano, la giunta del governatore De Filippo. Accuse tutte da dimostrare, ovviamente. I nomi snocciolati in aula dal super pentito Cossidente (che Postiglione considerava suo «fratello maggiore») sono quelli del vicepresidente della giunta, Agatino Mancusi, coordinatore regionale dell’Udc, ma anche del consigliere regionale Luigi Scaglione, eletto nelle file di Popolari uniti che appoggiano l’amministrazione di centrosinistra e poi Roberto Galante, già consigliere comunale dell’Idv e candidato dei Popolari uniti. È invece un secondo pentito, Alessandro D’Amato, a fare il nome di Gaetano Fierro, ex assessore regionale all’Agricoltura ed ex sindaco di Potenza, candidato al Senato con l’Udeur, ora nell’Udc al coordinamento regionale. D’Amato si sofferma anche sulla confidenza ricevuta in cella dal coimputato Cossidente che gli avrebbe parlato di un ricatto da 100mila euro ai politici per tenere la bocca chiusa. Vere bombe a orologeria quelle del collaborante Cossidente: «Negli anni dopo il 2002-2003 controllavo la sicurezza dello stadio Viviani di Potenza con la società Potenza Asc (...). Poi ebbi contatti con il consigliere regionale Luigi Scaglione sia in termini di politica che di amicizia, dopodiché, nell’ultimo periodo, parlammo della costituzione di una nuova società e della costruzione di un nuovo stadio con annessi locali commerciali». Affari su affari, favori su favori. Cossidente si sofferma a lungo su Scaglione: «L’ho conosciuto nel 2002 (...) era inserito nel Cda del Potenza e in quel momento entrai a far parte della sicurezza per il tramite di Renato Martorano (esponente della ‘ndrangheta in Basilicata, ora in carcere, ndr). In quell’occasione conobbi Raffaele Marino, Vito Giuzio, Genni D’Onofrio e Agatino Mancusi. Dopo iniziai ad avere vari contatti. Lui era inviso dalla tifoseria e quindi cercò di avere tranquillità. Dato che ero sottoposto a una misura di sicurezza molto rigida avevo la necessità di dimostrare che facevo qualcosa. Scaglione si adoperò con Orazio Colangelo (nel 2008 eletto con una lista civica vicina al centrosinistra, ndr) per farmi avere la gestione del campo “Tre fontane” e avere una facciata pulita (...)». A suo dire Postiglione sarebbe stato a conoscenza dell’ottimo rapporto tra il boss e il consigliere, tant’è che chiese al «fratello maggiore» d’intercedere: «Mi disse se potevo parlare con Gigi (Scaglione, ndr) perché sapeva che lo conoscevo (...) Per la mia organizzazione ci sarebbe stato un utile di tipo economico, avremmo potuto gestire sia lo stadio (...)». Quando si passa al capitolo elezioni, le parole del «dichiarante» si spostano sull’ex Idv Roberto Galante: «Nel 2005 votammo sia lui (Scaglione, ndr) che Roberto Galante, alle regionali... comunque fu aiutato». E sempre a proposito di Scaglione parla dell’assunzione di uno dei suoi uomini al Don Uva, un centro di riabilitazione: «Ha fatto da tramite per far sì che una persona a me vicina facesse lavori di giardinaggio (...) un pregiudicato a me vicino (...), tramite un altro politico all’interno della struttura». Poi la domanda del pm punta alla droga. Cossidente non si fa pregare: «In un’occasione il boss Aldo Fanizzi mi disse di aver consegnato 5 o 10 grammi di cocaina a Scaglione». Vero? Falso? Le persone tirate in ballo dal pentito respingono le rispettive accuse. «Non ho mai fumato neanche una sigaretta - sbotta Scaglione - figuriamoci la cocaina. Hanno intercettato il telefono, è tutto negli atti, è tutto chiaro e trasparente». E sul favore chiesto per il figlio dal boss pentito? Scaglione non nega il contatto ma spiega d’aver chiesto a Cossidente il titolo di studio prima di liquidarlo così: «E fallo studiare che poi si vede». Nega anche Galante. Rapporti limpidi. «Gli inquirenti avranno modo di dimostrare che non c’entro niente. Cossidente lo conoscono tutti visto che i giornali ne hanno parlato tanto. Bisogna capire cosa si intende per “conoscere” (…). Il mio elettorato è fatto dalle persone che conosco, da amici. E allora quest’anno quando ho preso 838 voti chi mi ha appoggiato, la Sacra corona unita?». Si difende energicamente anche il vicepresidente Agatino Mancusi sui contatti con l’ex boss: «Andavo al campo ma non ho mai avuto rapporti di gestione all’interno del Potenza Asc (…), solo ruoli marginali. Eravamo un gruppo di amici che portavano avanti questa esperienza, niente più. Conosco Cossidente perché veniva sempre lì, né più e né meno (…). Quando stai ai bordi di un campo e conosci delle persone, non è che sai tutto il resto...».

Basilischi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I basilischi sono un'organizzazione criminale, di tipo mafioso, nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. Grazie ad intercettazioni e all'intervento dello Stato, il 22 aprile 1999 tutti i capi di questa organizzazione sono stati arrestati. Da allora, secondo la procura nazionale antimafia, la criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese sono controllate da cosche che fanno capo alla 'Ndrangheta di Rosarno.

La famiglia dei basilischi nacque agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d'angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all'interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l'intento di creare un'organizzazione che, con l'avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi. Ottenuto difatti il nulla osta dalle 'ndrine dei Pesce e Serraino di Rosarno, si formò un gruppo di malavitosi operante in tutta la Regione con a capo Giovanni Gino Cosentino. Quella organizzazione ambiva a diventare la quinta mafia del meridione d'Italia. L'organizzazione venne effettivamente formata da Saverio Mammoliti (detto Don Saru) dei Mammoliti che nominò come capo-società Renato Martorano. Sembra abbiano avuto contatti anche con i Morabito.

Con l'inchiesta Iena 2, in cui sono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M.), Gianfranco Blasi (la cui posizione è stata archiviata su richiesta dello stesso P.M. nel 2006) e Antonio Luongo, il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro evidenzia un cambio di assetto: l'appalto ottenuto all'Ospedale San Carlo da un'azienda controllata da un gruppo malavitoso campano viene trattato dai Basilischi in prima persona. Da questo si dedurrebbe che il controllo del territorio lucano è in mano al gruppo dei Basilischi che tratta alla pari con le altre mafie assumendo così una sua identità ed autonomia, pur rimanendo legato alla 'ndrangheta.

I Basilischi sono stati oggetto di un'inchiesta della procura antimafia di Potenza, "l'operazione Chewingum", che sta tentando di fare luce sulle attività e sulla struttura dell'organizzazione.

In seguito al maxi-arresto del 22 aprile 1999, che ha incarcerato i capi della cosca, sembra che la 'ndrangheta di Rosarno abbia ristabilito il potere sulla criminalità in Basilicata, destituendo Cosentino e creando sette 'ndrine, composte da malavitosi locali e comandate direttamente da sette calabresi. Nel 2006, nell'inchiesta che ha coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e il sindaco di Campione d'Italia, vi era anche la famiglia Tancredi del potentino. Secondo la procura antimafia nazionale, le zone lucane colpite da questo fenomeno sono quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico (dove operano gli Scarcia), la Val d'Agri (dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione), e Melfese. Con sentenza del 21 dicembre 2007 il Tribunale di Potenza, composto dai giudici Daniele Cenci, Ubaldo Perrotta e Gabriella Piantadosi, ha accertato l'esistenza della "Famiglia Basilischi". Il 30 ottobre 2012 la Corte d'appello di Potenza ha confermato la sussistenza del clan mafioso dei “Basilischi”. Sono affiliati all'organizzazione dei Basilischi alcuni membri del clan Scarcia del materano, i melfitani Massimo e Marco Cassotta (quest'ultimo assassinato il 14 luglio 2007), Antonio Cossidente e il salernitano Vincenzo De Risi, il gruppo potentino capeggiato da Renato Martorano (coinvolto nell'inchiesta Iena 2), e a cui appartengono i noti Dorino Stefanutti e Michele Badolato. Tutti i citati sono sotto inchiesta e condannati più volte per reati di stampo mafioso.

Ascesa e caduta dei Basilischi, la mafia italiana che voleva imitare la 'ndrangheta, scrive Vincenzo Marino il 14 giugno 2016. Dalle rocce del Pollino si vede tutto: salendo dal lato che poi sprofonda nello Ionio si può capire quasi nitidamente dove comincia la Calabria, e dove la Basilicata diventa Puglia. Attorno alla seconda metà degli anni Novanta, non era inusuale trovare un gruppo di uomini parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni. Lì, scortato da "tre sentinelle d'omertà", il "novizio" avrebbe potuto incontrare gli "uomini d'onore" e il boss, e vedersi fare questa domanda: "Conoscete la Famiglia Basilischi?" I "Basilischi," oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un'organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012. Ma temporalmente, il loro operato come "Quinta Mafia italiana" - come verrà definita - si estende soltanto dal 1994 a 1999. È in quell'anno infatti che - stando al racconto del collaboratore di giustizia Santo Bevilacqua - il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, pregiudicato noto col nome di "faccia d'angelo", l'indipendenza del suo clan lucano. L'incontro avviene nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene. Lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe "ricevuto dai calabresi l'investitura del Crimine, ovvero il capo di organizzazione mafiosa," ricorda ancora Bevilacqua. Ed è sempre dal carcere che "Faccia D'angelo" darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l'intero territorio regionale. Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana 'propriamente detta', la picconata al mito della Lucania felix, regione ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado sia geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla 'ndrangheta a sud. In realtà, sin dagli anni Ottanta - ossia subito dopo il terremoto dell'Irpinia - si ha conoscenza di gruppi criminali locali, pronti ad accaparrarsi e a gestire per altri gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Ma il processo di espansione delle strutture criminale locali verrà genericamente ignorato. È solo negli anni Novanta però che - come affermerà il Procuratore Generale dell'epoca - la situazione viene definita "preoccupante," ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi. Sarà proprio la 'ndrangheta ad "allenare" la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l'organizzazione fosse grosso modo autonoma. Eppure, in qualche modo, la smania di emergere come "nuova mafia" non è mai mancata. La sua versione embrionale, la Nuova Famiglia Lucana - creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi - denunciò un proprio tentato omicidio telefonando all'agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: siamo arrivati. La stessa necessità di emergere anima la prima fase dei Basilischi, così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone — una delle tipologie d'omicidio più roboanti, la rappresaglia contro lo Stato. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d'Agri, dove sono concentrate le risorse petrolifere della regione. Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi. Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d'azzardo, e l'estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese. "I Basilischi," riporta la studiosa Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, "praticavano l'usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati." Il cambio di passo arriva con l'operazione scoperta dall'inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza - la cui posizione verrà poi archiviata - per quello che il pubblico ministero di Potenza Vincenzo Montemurro definirà un "cambio di assetto": la famiglia riesce a mettere le mani sull'appalto di costruzione dell'Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie — essendo coinvolto, nell'appalto, anche l'interesse della malavita campana. Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di "outsourcing," l'esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo. Proprio questa necessità di sentirsi effettivamente mafia il prima possibile, e di trovare un'amalgama identitaria dapprima inesistente, li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo "spiegati" in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino. Per rinsaldare un gruppo ancora privo di collante, questi riti puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche. Una delle liturgie prevedeva la recitazione dei una formula per diventare "uomo d'onore". "Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato," recitava una di queste frasi.

"Conoscete la Famiglia Basilischi?"

"Certo che la conosco," rispondeva l'aspirante affiliato. "La tengo nel cuore, la servo e mi servo."

"Qual è il tuo desiderio?", gli veniva replicato.

"La stima, l'orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza."

I luoghi in cui avvenivano questi rituali non sono per nulla casuali. Il monte Pollino è la sommità "da dove tutto si vede e non si è visti," il fiume Sinni - tra i cuori d'acqua della regione - è ciò che accoglierà il corpo freddo dell'adepto in caso di tradimento." E poi tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della 'ndrangheta e della polizia — mentre per questi ultimi, però, il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi reca una catena in mano. Il capo società, infine, abbracciava il nuovo adepto, che gli rispondeva "Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo." La struttura interna, insieme ai rituali, ricalcava la stessa 'ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a "faccia d'angelo" come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine, 'ndrine e locale. Parlando da collaboratore di giustizia ai pubblici ministeri, è Cosentino a spiegare che la stessa struttura a "albero," tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: le cinque parti della pianta rappresentavano il "capobastone" (il tronco), i "mastri di giornata" e i "camorristi di sangue, di sgarro e di seta" (i rami), i "picciotti" (ramoscelli) e i "giovani d'onore" (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla "linfa" dell'omertà e del silenzio. Sotto l'albero, il fango di traditori e polizia. Alla fine il "fango" prevarrà sulla "linfa": nell'aprile del 1999 una maxioperazione porterà all'arresto di praticamente tutti i capi dell'organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette 'ndrine comandate direttamente dai calabresi. Dopo il pentimento del cognato, però, "faccia d'angelo" perse credibilità, e venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì tuttavia a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti. Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di "seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati," che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader. A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. "Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva."

I Basilischi. Anna Sergi racconta la mafia della Basilicata, scrive Silvia Bortoletto. Il mito della Lucania Felix, la Basilicata come isola povera ma felice, in un mare inquinato di criminalità e violenza, va sfatato. I tentativi della 'Ndrangheta di costituire una mafia lucana, cui potesse essere affidata la gestione di vari traffici, si registrano sin già dagli anni '60 e '70. La vera indipendenza, però, e l'attribuzione di un nome, Famiglia Basilischi, all'organizzazione criminale, avviene nel 1994: l'allora boss della 'Ndrangheta, Peppe Morabito, da il permesso a Giovanni Luigi Cosentino, detenuto nel carcere di San Gimignano con l'accusa di aver gestito un giro di prostituzione, di costituire un'entità mafiosa autonoma. La Famiglia Basilischi, come tale, ha però vita breve: il 22 aprile 1999, la Procura di Potenza, grazie anche alla cooperazione di un crescente numero di pentiti, emette 84 ordini di custodia cautelare, assestando un duro colpo all'organizzazione. A quel punto i Basilischi devono mutare forma per sopravvivere e, come la 'Ndrangheta, diventano imprenditori di un vero e proprio marchio, che fa capo a diversi clan con vari gradi di affiliazione. Traffico di armi e droga, riciclaggio di denaro, usura, smaltimento illegale di rifiuti, investimenti nell'attività estrattiva del petrolio e gestione di appalti pubblici: sono tante le aree d'interesse cui la mafia lucana si è dedicata nel tempo. Di questo parliamo con Anna Sergi, docente di criminologia all'Università di Essex e co-presidente della commissione post-laurea della British Society of Criminology.

La Famiglia Basilischi sembra essersi affermata, così come altre associazioni di stampo mafioso, grazie all'allettante prospettiva di appartenenza ad una setta/confraternita offerta agli aspiranti membri. Ma, a differenza, di altre organizzazioni, i Basilischi sono nati grazie al beneplacito della 'Ndrangheta e grazie all'azione di proselitismo svolta dal carcere di San Gimignano da Cosentino. Non c'era quindi una storia di famiglie dai cognomi conosciuti e temuti?

«A livello criminologico, la Famiglia Basilischi è stata un esperimento della ‘Ndrangheta che, da buona “holding” del crimine organizzato, ha deciso di operare un tentativo di “outsourcing”, di esternalizzazione delle risorse, in Basilicata. Questo perché molti dei clan della ‘Ndrangheta hanno da sempre l’acume tipico dei businessmen: capire quando e come permettere l’autonomia di gruppi locali per trarne vantaggi economici. La creazione di un gruppo autonomo, la Famiglia Basilischi, è stata “commissionata” a Cosentino in carcere nel 1994, i rituali di affiliazione sono stati ripresi da quelli già esistenti della ‘Ndrangheta, le affiliazioni guidate dai Morabito (nda: potente famiglia della mala calabrese), e, soprattutto, gli accessi ad alcuni dei mercati “concessi” dagli stessi clan calabresi. La Famiglia Basilischi nasce quindi come costola della ‘Ndrangheta, ma si avvale di rituali ancor più mistici, ancora più ascetici; questo per creare quel “collante narcisistico” tipico dei gruppi mafiosi, in un territorio che vergine non era. I gruppi esistenti in Basilicata prima dei Basilischi dovevano, tramite certi rituali, re-inventarsi sotto un nuovo nome e una nuova affiliazione. La “creazione” dei Basilischi deve essere intesa come convincimento di questi gruppi pre-mafiosi ad unirsi sotto una nuova egida con il benestare della ‘Ndrangheta, che, appunto, porta le licenze e gli accessi ai mercati. Sin dagli anni 80, quindi, subito dopo il terremoto dell’Irpinia – con conseguenti investimenti e fondi allocati alla regione – troviamo gruppi criminali locali pre-mafiosi al servizio di altre mafie espansionistiche e avide di accaparrarsi quei fondi e quegli investimenti, soprattutto la ‘Ndrangheta. Fino al 1989 abbiamo delle autorità disattente e dei media ancora più ciechi; e il mito della “Lucania Felix”, di un territorio non affetto dal morbo mafioso, è stato il mantra ripetuto per tutto il decennio. Nel 1990, il nuovo Procuratore Generale di Potenza, inizia un’operazione di riconoscimento delle situazioni pre-mafiose sul territorio e inizia a setacciare la zona per ricondurre estorsioni, omicidi – le faide inter-clan di Montescaglioso da fine anni Ottanta - , atti di violenza – incendio doloso al Municipio di Melfi -, arricchimenti veloci e crimini economici, tutti sotto un’unica strategia di mafia lucana o quantomeno di penetrazione di altre mafie in Basilicata. Il mito della Lucania Felix pertanto ha reso le autorità incapaci di vedere che tutti gli ingredienti per l’indipendenza erano già presenti dagli anni 80».

La Famiglia Basilischi ha gradualmente sancito la propria autorità, pur sempre rimanendo “succube” o comunque legata alle attività criminali e agli intenti “manageriali” di 'Ndrangheta e Camorra sul proprio territorio. Ma quali erano le maggiori differenze con le più note organizzazioni?

«Ad oggi i gruppi criminali, un tempo affiliati come Famiglia Basilischi, non risultano più attivi sotto questo nome. Non deve sorprendere che la Famiglia Basilischi sia stata un esperimento fallito, su cui la magistratura è riuscita a intervenire già nel 1999, con arresti e catture che hanno menomato il gruppo in modo sostanziale. La Famiglia si presentava come un’organizzazione molto gerarchizzata che, grazie a rituali mistici, invitava i vari membri ad unirsi ad una fratellanza e ad un sentire comuni. Al centro di tutto vi era l'idolatria del capo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave di differenza: la ‘Ndrangheta non ha mai avuto un culto del capo, un capo dei capi dal potere assoluto, come lo volevano i Basilischi. Nella ‘Ndrangheta, ma cosi' come anche nei clan di Camorra, non può esserci spazio per idolatrie: il potere e gli affari devono essere il più possibile flessibili. Infatti, un gruppo nuovo che centralizza il potere, non garantisce la flessibilità che certi affari richiedono. Inoltre, e questa è un’altra differenza con gruppi mafiosi più forti, i Basilischi non si sono mai specializzati in un’attività prescelta. Hanno sempre fatto di tutto e di più: dalla droga, al radioattivo, al racket, alle interferenze politiche, al riciclaggio di denaro, al contrabbando. Questa diversificazione delle attività in un gruppo appena nato e in un mercato criminale già saturo e saldamente in mano ad altre forze, soprattutto la ‘Ndrangheta, non può essere una strategia vincente. A livello di organizzazione economica, un gruppo nuovo e piccolo ha più possibilità di successo nel mercato quando sceglie la specializzazione in un’area di nicchia, piuttosto che optare per la generalizzazione e il conseguente dispendio controproducente di energie e risorse. Da ultimo, la differenza dei Basilischi con altre associazioni mafiose, sta nella struttura del gruppo e nell’incapacità di reagire in modo efficace alle varie sfide interne ed esterne. Per esempio, nonostante la centralizzazione del potere in mano a Cosentino (e poi Cossidente), nonostante i rituali di affiliazione da manuale, la Famiglia non sembra avere piani di riserva e strategie di conservazione in atto e i gruppi locali, soprattutto dopo la divisione in sei aree di influenza voluta dalla ‘Ndrangheta nel 2003, hanno continuato a preferire ed inseguire interessi propri, rispetto a quelli della Famiglia come entità “madre”. Nel momento in cui i capi si sono pentiti – che in altri gruppi mafiosi significa che si formano nuove alleanze di ‘resistenza’ e di ‘rinnovamento’ del gruppo per garantire la perpetuazione delle attività – noi vediamo la Famiglia Basilischi crollare ed essenzialmente morire. In altri gruppi criminali mafiosi la capacità del gruppo di ripresentarsi nonostante gli attacchi delle autorità e gli incidenti di percorso, rappresenta una forza e una garanzia che i Basilischi non sembrano mai avere avuto».

Grazie all'azione di pentiti, tra i quali Antonio Cossidente, dal 2003 spuntano nomi di politici locali, affiliati a partiti noti, collusi con i Basilischi. Tra i tanti troviamo Roberto Galante, ex consigliere comunale, pronto a promettere incarichi e appalti, in cambio di voti e protezione. E' emerso qualche altro nome recentemente?

«Negli ultimi anni si è registrato un aumento dell’attenzione delle autorità e dei media locali e nazionali sui nessi mafia-politica in Basilicata. In particolare, da quando Antonio Cossidente, secondo capo dei Basilischi, si è ufficialmente pentito nel 2010 (anche se la sua collaborazione con la giustizia pare risalire al 2003), sono venuti a galla vari legami tra partiti politici e gruppi mafiosi lucani sin dagli anni 90. Si pensi per esempio alle indagini sui deputati Antonio Luongo (Ds), Antonio Potenza (gruppo misto Popolari-Udeur), Gianfranco Blasi (Forza Italia). Negli anni le indagini hanno colpito nomi di spicco dell’amministrazione locale: il Presidente della Giunta regionale della Basilicata, Filippo Bubbico (Ds); il Presidente del Consiglio regionale lucano, Vito De Filippo (Margherita); l’assessore alle attività produttive della Regione Basilicata ed ex sindaco di Potenza, Gaetano Fierro (Udeur); il sindaco di Potenza ed ex Presidente della Provincia, Vito Santarsiero (Margherita). Più di recente, nel maggio 2015, abbiamo l’ex vicegovernatore ed assessore regionale, Agatino Mancusi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e rinviato a giudizio con altre 6 persone, tra cui il succitato Roberto Galante, l’ex consigliere regionale Luigi Scaglione (attuale segretario regionale del Centro democratico) e l’ex assessore comunale di Potenza, Rocco Lepore, già condannato in primo grado e assolto in appello nell’ambito di un altro processo sui presunti intrecci tra mafia e politica. Il processo ci sarà in autunno 2015 e significativamente vedrà il giudizio anche su Antonio Cossidente. L’ipotesi dell’accusa è che Cossidente si sia servito dei suoi agganci politici per influenzare le elezioni comunali di Potenza nel 2004, mentre un sistema di scambi e favori, tra assunzioni lavorative e discussioni di strategie politiche, è stato al centro dell’inchiesta grazie ad intercettazioni tra i politici e i luogotenenti di Cossidente o Cossidente stesso.Il collegamento tra mafia e politica a questi livelli, se confermati in giudizio, ci fa capire come i Basilischi, nei loro anni di maggiore operatività, stessero efficacemente portando avanti una strategia di infiltrazione nelle amministrazioni locali, piuttosto che mirare ad affermarsi solo come forza criminale. Sebbene il loro piano di azione si sia poi dimostrato fallimentare e sia caduto in seguito ad arresti ed interventi delle forze dell’ordine e anche della ‘Ndrangheta che ha ripreso il controllo del territorio, si può capire come la politica in Basilicata sia stata vicina alle consorterie criminali e sia stata penetrabile con modalità molto simili a quelle di Calabria, Sicilia e Campania».

Qual è lo scopo principale della sottrazione di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia? Può questa attività collidere con il monopolio dello smaltimento dei rifiuti detenuto dalla Camorra?

«È del 2001 l’indagine di una delegazione della Commissione Antimafia in Basilicata per investigare su sottrazioni di materiale radioattivo dal Centro Enea della Trisaia, dove per anni scorie radioattive, rifiuti solidi e liquidi di alta e media attività nucleare, risultavano abbandonate in condizioni di scarsa sicurezza. Ancora una volta, al centro delle indagini era la ‘Ndrangheta e per fatti risalenti già ai primi anni 90. Si parlò in seguito anche di eventuali connessioni con elementi deviati dei servizi segreti. Il materiale, che fu rivelato essere plutonio, pare sia stato trasportato a Reggio Calabria da cui fu poi imbarcato e rivenduto a gruppi terroristici in altri paesi: i media parlarono dell’Iraq, tra gli altri. Ma l’indagine rimase e rimane top secret. Il Centro Enea, dal canto suo, ha più volte ribadito che non solo non si trattava di plutonio ma che nulla era sparito dal proprio inventario. A mio avviso, l'interessamento dei Basilischi verso materiale radioattivo di scarto, risponde a piani e voleri della 'Ndrangheta. I calabresi, infatti, soprattutto nell’alto Tirreno, più vicino alla Basilicata, si occupano di radioattivo perché e quando è lucrativo, come merce di scambio per il traffico d’armi per citare un esempio. I gruppi camorristici, invece, a differenza di quelli calabresi, di questo settore hanno il monopolio: hanno cioè scelto di “specializzarsi”. In questo senso non credo si possa parlare di collisione con i camorristi, perché i Casalesi detengono il controllo del loro territorio in maniera specialistica e consolidata da decenni: il loro monopolio non viene intaccato. Quello che si può pero' affermare con certezza e' che, nel momento in cui i Basilischi dovessero sparire di scena, i clan che volessero lavorare sui terreni in Basilicata sarebbero sicuramente in concorrenza con i clan di Camorra. La ‘Ndrangheta sicuramente lo è, come lo è in altri territori in Italia, ma si tratta di una concorrenza studiata e non casuale».

Può la Famiglia Basilischi realisticamente pensare ad un controllo dell’attività di estrazione del petrolio in Val d'Agri con la probabile collusione della classe dirigente?

«Tutte le famiglie mafiose di un certo calibro si preoccupano di condizionare gli appalti regionali e locali. La Famiglia Basilischi necessariamente è stata attratta da appalti pubblici e soprattutto dagli investimenti relativi ai giacimenti di petrolio in Val D’Agri. In quel territorio, in particolare, sono da anni attivi clan campani e calabresi. I Basilischi si trovano a partecipare a fine anni 90, legati ai clan di Siderno e della bassa Campania. Recentemente, tra il 2013 e il 2015, l’attenzione delle autorità sugli investimenti e il petrolio della zona si è ravvivata a causa delle preoccupazioni a livello sia ambientale, sia sanitario di tali estrazioni. Ad ogni modo, il coinvolgimento di clan locali, appoggiati da clan sia calabresi, sia campani, nella zona è storia vecchia e come tale consolidata. La collusione con la classe dirigente non risulta un dato di fatto ma resta probabile. Le mafie da sempre seguono il denaro e seguono gli investimenti. Quando si tratta di attività cosi lucrative come le estrazioni in Val D’Agri, il supporto anche indiretto della classe dirigente aiuta l’infiltrazione mafiosa e permette l’insediamento negli appalti pubblici. Quanto questo sia volontario e strategico nella classe dirigente non lo sappiamo. Quello che sappiamo, però, è che i politici locali hanno interessi nella zona e utilizzano il solito sistema di favoritismi e clientelismo per partecipare agli investimenti. L’incontro tra consorterie mafiose e ditte locali a un certo punto risulta inevitabile»»

Quanto c’è da temere la presenza del clan casalese nelle carceri lucane? Quali scenari si possono aprire?

«I clan mafiosi pescano da sempre all’interno delle carceri per manovalanza. Le carceri sono probabilmente il luogo più sicuro e più consono al reclutamento di nuove e vecchie leve. Negli ultimi anni si è registrato questo fenomeno curioso di affiliati di Camorra latitanti, soprattutto casalesi, che decidono di costituirsi alle autorità presentandosi al carcere di Melfi, poiché il Tribunale di Melfi risulta particolarmente veloce nel gestire i procedimenti di custodia cautelare. La concentrazione di camorristi nelle carceri lucane potrebbe evolversi in almeno due scenari. Da una parte, questa potrebbe essere una mossa strategica dei casalesi, per assicurarsi manovalanza propria in terra lucana; la situazione “post-Basilischi”, infatti, risulta confusa e sicuramente non organizzata come prima, pertanto ci sono spazi di manovra che, sia Camorra, sia ‘Ndrangheta potrebbero sfruttare. D’altra parte, la concentrazione del know-how camorristico nel carcere lucano potrebbe essere impiegato nella costituzione di nuovi gruppi in carcere e nella formazione di criminali autoctoni, a servizio dei casalesi, un po’ come accadde con la ‘Ndrangheta e Cosentino nel 1994. Sarebbe l'inizio di un altro “esperimento mafioso”, questa volta targato Camorra». Silvia Bortoletto - Cosa Vostra

MAGISTROPOLI

GIUSTIZIA INGIUSTA. ITALIA FANALINO DI CODA NEL MONDO: E' 156/MA SU 181 PAESI NELLA CLASSIFICA INTERNAZIONALE DEL SISTEMA GIUDIZIARIO.

"Non possiamo andare avanti così - lo ha detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria". “Inoltre – conclude - in Europa solo l'Italia supera la soglia dei 200mila avvocati (per l'esattezza, 213.081), più del 30% del totale europeo. (La stima, è elaborata dal Ccbe, il Consiglio degli ordini forensi d'Europa). "Tutti gli altri Paesi - scrive Carbone - si attestano ben al di sotto di questa cifra: la Spagna con 154.953, la Germania con 146.910, il Regno Unito con 139.789, la Francia con soli 47.765".

Anche nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". A dirlo un addetto ai lavori. Colpisce a fondo Vitaliano Esposito, Procuratore Generale della Corte di Cassazione nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Inoltre Esposito ha attaccato il rischio di politicizzazione della magistratura: ''I magistrati sono in crisi di identità. Ci muoviamo su un terreno impervio in cui il magistrato rischia di divenire il mediatore dei conflitti con un rischio di politicizzazione e radicalizzazione''. Esposito ha chiesto dunque ai magistrati di mantenersi estranei al conflitto con la politica: ''La magistratura deve essere estranea al conflitto con le parti politiche. L'unica politica consentita alla magistratura è quella della legalità'''. Esposito ha poi spiegato che la lentezza dei processi nell'anno precedente ha portato all'aumento del 19% dei risarcimenti previsti dalla legge Pinto (quella che appunto risarcisce le vittime di giudizi troppo lunghi - ndr) per un totale di 32 milioni di euro in un solo anno.

«PROCESSO INGIUSTO: TEMPI LUNGHI, ERRORI GIUDIZIARI E INGIUSTE DETENZIONI»

Più che ispirarsi ai principi costituzionali del giusto processo, la realtà giudiziaria italiana presenta gravi disfunzioni che rivelano l’esistenza di un processo ingiusto. E’ dura l’analisi del presidente della Corte d’appello di Bari, Vito Marino Caferra, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Assenti i penalisti che protestano per ottenere una riforma del processo.

Caferra si è soffermato a lungo sul 'processo al processo', ovvero sui processi 'derivati' dal principale con i quali i cittadini chiedono la riparazione per la violazione del termine ragionevole della durata del processo (legge Pinto), oppure la revisione per errore giudiziario (art.314 del codice di procedura penale), quest’ultima avanzata da coloro che sono stati arrestati e poi assolti. Fino al 30 giugno 2008 in corte d’appello pendevano 428 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione.

A proposito di processi-lumaca: un processo civile dura in media 775 giorni in primo grado e 1.193 in appello. Va meglio nel penale con 441 giorni davanti al giudice monocratico, 366 al collegiale e 535 in assise. In appello il dibattimento penale dura in media 1.025 giorni. Tempi biblici che hanno fatto aumentare da 10.962 a 13.099 (+9) le prescrizioni dei reati. Proprio per evitare la proliferazione dei procedimenti penali Caferra invita i suoi colleghi della procura e del gup del tribunale a rispettare la legge e a “non chiedere (e disporre) il giudizio quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio e non consentono di pervenire ad una pronunzia di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”.

«CREDIBILITÀ DEI MAGISTRATI AI MINIMI TERMINI»

''Tacere e rinunciare alla discussione significherebbe certificare definitivamente la nostra sconfitta. E la sconfitta della magistratura è una sconfitta per la nostra democrazia e per il nostro futuro di uomini liberi”. E’ la considerazione fatta dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Mario Buffa, nel corso della relazione tenuta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.

“Noi magistrati – ha sottolineato – siamo consapevoli dell’importanza del nostro ruolo all’interno della società e del nostro dovere di fare quanto da noi dipende per esserne all’altezza. E tuttavia siamo altrettanto consapevoli che la nostra credibilità va sempre più diminuendo”. Buffa, tra le tante motivazioni, ha tra l’altro indicato “la nostra incapacità di far capire di chi è la vera responsabilità delle incredibili deficienze dell’apparato giudiziario, a cui in definitiva è legata la nostra perdita di credibilità”.

“Sta di fatto – ha detto ancora – che se anche i sondaggi dicono il contrario, che ci danno in vantaggio di fronte ad altre istituzioni, la nostra credibilità è oggi ai minimi termini. E siamo ormai circondati da sentimenti di vera e propria insofferenza quando pretendiamo di indicare responsabilità altrui sminuendo invece le nostre. Ed è triste dover constatare che noi giudici oggi siamo più temuti dai cittadini, che non rispettati”. “E anche per questo – ha concluso Buffa – ci dobbiamo sforzare di cambiare e dobbiamo cambiare e possiamo cambiare, come si legge in un recente documento della nostra associazione, solo se siamo capaci di rinnovarci al nostro interno, perché è nostro dovere e responsabilità assicurare ai cittadini una magistratura, capace, motivata e professionalmente adeguata”.

«TROPPE INTERCETTAZIONI, MISURE CAUTELARI, CENSURE E FUGHE DI NOTIZIE IMPUNITE»

Il ''notevole aumento'' delle intercettazioni, da un lato, e delle pendenze, alle quali si aggiungono le carenze di organico: sono stati questi i due principali temi che, a Potenza, hanno oggi caratterizzato la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, nella quale gli avvocati hanno lamentato il ricorso “troppo facile” alle misure cautelari.

Il Presidente della Corte di Appello, Ettore Ferrara, e il Procuratore Generale, Vincenzo Tufano, hanno messo in evidenza i “numeri”: in tre anni, ad esempio, la durata complessiva delle intercettazioni della Procura della Repubblica potentina è stata di circa 267 anni, vale a dire oltre due secoli e mezzo, con un netto incremento nell’ultimo anno. Ferrara ha anche evidenziato “l'aumento delle pendenze”, che “è molto più preoccupante per i Tribunalì. Un caso per tutti: il Tribunale di Matera “dove in materia di lavoro e previdenza risultano pendenti circa 5.600 ricorsi, tutti assegnati a un solo giudice”.

Affermazioni ancora più “pesanti” sono arrivate sempre da Tufano (che, poco dopo lascerà l'incarico) sulle fughe di notizie, che “scandalosamente restano impunite”. In particolare, il Pg si è rivolto al Procuratore della Repubblica di Melfi (Potenza), Domenico De Facendis, al quale ha chiesto di “scoprire le fonti delle fughe di notizie” sulla risoluzione dell’omicidio dell’avvocato Francesco Lanera, ucciso nel suo studio nel 2003. I rappresentanti degli ordini degli avvocati hanno espresso un giudizio di “eccessiva facilità per l’emissione di misure restrittive della libertà”, mentre il Presidente dell’Ordine dei giornalisti, Oreste Lo Pomo, ha detto che “non bisogna mettere il bavaglio ai cronisti”.

Omicidio Claps. Gildo scrive ad Elisa: «Mia cara sorellina...»

«Stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene»: lo ha scritto Gildo Claps il 9 aprile 2010 in una lettera alla sorella, Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni, il cui cadavere è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della canonica della chiesa della Santissima Trinità, a Potenza.

La lettera, affidata da Gildo Claps all’ANSA e riportata da tutta la stampa, comincia con un commovente «mia cara sorellina» e prosegue con un tono delicato: «Stavolta un rimprovero devo proprio fartelo...», ha aggiunto il fratello di Elisa, chiedendole «come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta». Subito dopo, però, la lettera assume un tono ironico e polemico, se non di aperta accusa, nei confronti di chi indagò sulla scomparsa di Elisa: «Pensa – scrive Gildo – a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare». Non mancano riferimenti a Danilo Restivo, unico indagato nell’inchiesta, al padre, «un notabile amico di notabili», al questore che a Natale del 1993 «mise alla porta» la madre di Elisa («Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla»), ai depistaggi: «E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo», ha scritto Gildo alla sorella, facendo considerazioni critiche sul vescovo e sui sacerdoti della Santissima Trinità sul ritrovamento ufficiale del cadavere e sul fatto che, invece, era già stato trovato quasi due mesi prima.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA

«Mia cara sorellina, stavolta un rimprovero devo proprio fartelo: ma come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta; e come se non bastasse te ne sei stata lì per 17 anni invece di prendere le tue poche cose e allontanarti con garbo ed in silenzio fino farti inghiottire per sempre dalle nebbie del tempo. Ti rendi conto che così facendo hai messo in imbarazzo tutti? Capisco che ti hanno toccato il cuore le lacrime di mamma e di papà, posso comprendere che hai voluto dare a me e Luciano (altro fratello) un segno tangibile che questi anni non sono trascorsi invano, ma potevi farlo in modo diverso e soprattutto evitando di mettere tante persone che contano nelle condizioni di dover spiegare i loro comportamenti davanti ad un paese intero.

Pensa adesso a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare; come faranno a far capire alla gente che non sono mai entrati in quella chiesa a cercarti se non dopo tanti anni e peraltro senza trovarti. Hai messo in difficoltà anche noi che dobbiamo chiarire come mai a poche ore dalla tua scomparsa, ci precipitammo in chiesa ma non riuscimmo a salire fin sopra perchè le chiavi di quella porta le aveva solo il parroco che in quel momento non era presente.

Capisci, adesso dovremo spiegare come mai due ragazzi e pochi amici avevano avuto l'intuizione di andare a guardare lì, e investigatori di provata esperienza se ne sono semplicemente dimenticati. E poi sorellina mia, dovevi incontrarti proprio con Danilo (Restivo, indagato per la morte di Elisa) quel giorno? Hai messo di nuovo in difficoltà quel bravo magistrato e ancora una volta noi stessi. Ti rendi conto che abbiamo dovuto scavare nel passato di quel povero ragazzo, far venir fuori tutta una serie di episodi spiacevoli che lo riguardavano? Ci hai costretto ad accusarlo fin dal primo giorno, ma con l’intuizione dei grandi investigatori ci diedero dei pazzi, NOI. E poi era pur sempre il figlio del direttore della Biblioteca Nazionale, un notabile amico di notabili, dico io, non potevi incontrarti con il figlio di un operaio in cassa integrazione? Sarebbe stato tutto più semplice.

Ti rendi conto sorellina – prosegue la lettera di Gildo Claps alla sorella – che ora dovranno spiegare il motivo per cui non andarono ad interrogarlo quel giorno stesso, non sequestrarono i suoi vestiti, non acquisirono i tabulati telefonici? Quale imbarazzo per persone che negli anni hanno continuato a fare il loro 'dovere' mentre noi ci si consumava piano nel vuoto della tua assenza.

E ricordi quando mamma fu messa alla porta dal questore poco prima di quel Natale del 1993, il primo senza di te, ricordi le sue parole esatte: 'signora basta, non può venire ogni giorno qui con i suoi figli a disturbare, sua figlia è scappata di casa, lo vuole capire o no?' Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla. E quando gli avvocati di uno degli indagati, attingendo a fonti confidenziali, ci dissero che eri in Albania? Noi pensammo subito ad un ennesimo depistaggio, ma da lassù sono certo che avrai visto per un attimo una scintilla negli occhi di mamma, era il riflesso sepolto della segreta speranza di saperti ancora in vita.

Pensa adesso se a qualcuno venisse in mente di andare a chiedere loro quali erano queste fonti confidenziali, capisci sorellina quale imbarazzo sarebbe per due stimati professionisti dover dare spiegazioni su questa vicenda? E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo. Il vescovo, il parroco, il vice e giù fino all’ultimo anello della catena sono ora costretti a spiegare come, quando, chi? E già, sarebbe stato tutto così semplice, lineare, se fosse stato vero che un’impresa edile, nell’effettuare lavori di riparazione, avesse casualmente scoperto il tuo corpo. Invece no, tutto complicato in questa maledetta faccenda e ancora una volta tutto così imbarazzante. Forse sono state prima le donne delle pulizie, no scusa, il viceparroco, no lui non ne sapeva niente, era gennaio, no febbraio, sì, ma di quale anno? Il vescovo dice di non sapere, non ammette oggi di aver saputo ma non pensava che fossi tu (come se ciò facesse la differenza), però il giorno dopo il ritrovamento, con il suo avvocato si affretta a rassicurare i fedeli che la chiesa riaprirà presto al culto (era sicuramente questa la cosa che la città sconvolta voleva sapere per prima); il parroco sfida chiunque a dimostrare che lui sapesse, il vice sapeva ma se n'era dimenticato.

Da ultimo proprio ieri ho saputo sorellina, che qualcuno circa un anno fa, nei bagni del Gran Caffè aveva scritto più volte con un pennarello, Elisa Claps è nella Trinità, un altro matto certamente. Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov'eri, forse devono aver fatto un pensiero profondamente cristiano, è stata buttata lì per tanti anni, anno più anno meno che cosa cambia? Oggi sorellina rischi di mettere in imbarazzo la parte buona di questa città, quella che non si è mai arresa, quella che si è stretta intorno a te e ha pianto con noi, quella che gridava verità e giustizia, quella che ripudia i compromessi, il quieto vivere, le consorterie e gli intrallazzi, quella che ha il coraggio di chiedere conto a tutti, che siano uomini di chiesa o di potere. Ti lascio, ma solo per il momento, e stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene».

COME E’ MORTO GIUSEPPE PASSARELLI?

Nella vita, così come nei fatti di giustizia se il buon giorno non si vede dal mattino, meglio lasciar perdere, non si caverà mai un ragno dal buco. Se quattro archiviazioni non son degne di convincere…allora si passerà per mitomani o pazzi: Salerno 2013, Castrovillari 1998, 2001, 2010.

Il suicidio di Giuseppe Passarelli, carabiniere di Policoro (Mt) morto nella caserma di Cassano allo Ionio (Cs) nel 1997, non convince. Indagarono i suoi stessi colleghi. A 16 anni dall'inchiesta restano molte zone d'ombra e aspetti mai chiariti. Hanno chiuso il caso come suicidio, ma restano molte zone d'ombra. La famiglia di Giuseppe Passarelli, carabiniere di Policoro (Mt) morto in circostanze mai chiarite nella caserma dei carabinieri di Cassano allo Ionio (Cs), chiede la verità, scrive Fabio Amendolara.

I fatti risalgono al 23 marzo del 1997. Passarelli, dopo il periodo di addestramento, era stato spedito per la sua prima esperienza lavorativa a Cassano sullo Jonio. Quel giorno si trovava nell’archivio, doveva trovare un fascicolo. Ma in quell’archivio viene trovato agonizzante ferito con un colpo di pistola esploso a qualche centimetro di distanza dal suo cranio. Trasportato prima all’ospedale di Castrovillari, poi a quello di Cosenza, decedeva il giorno dopo. Il caso è stato archiviato per ben tre volte dalla procura di Castrovillari come “suicidio”.

Policoro, caso Passarelli: confermata l'ipotesi suicidio, scrive l'11 Dicembre 2013 “La Nuova del Sud”. Ancora un’archiviazione per il caso di Giuseppe Passarelli, il giovane carabiniere di Policoro morto nella caserma di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, il 23 marzo del 1997. Il gip del tribunale di Salerno, Bruno De Filippis, infatti, nella giornata di ieri ha accolto la richiesta formulata dal pubblico ministero lo scorso 24 ottobre. Per il tribunale campano il ventenne carabiniere lucano morì suicida, ma questa versione non è mai stata accettata dalla famiglia di Giuseppe Passarelli che da anni conduce una battaglia per arrivare alla piena verità. La decisione di ieri, però, rappresenta l’ennesima delusione e segue le altre tre precedenti archiviazioni decise dalla procura di Castrovillari nel 1998, nel 2001 e nel 2010. Al tribunale di Salerno, però, erano state evidenziate proprio delle presunte “omissioni” da parte dei magistrati calabresi, accusati dai familiari del carabiniere di non aver compiuto tutti gli atti di indagini finalizzati ad accertare le cause della morte di Giuseppe Passarelli. Per il gip, tuttavia, l’azione penale nei confronti dei magistrati non può essere proseguita a causa dell’intervenuta prescrizione. E comunque, sempre secondo il giudice, “l’ulteriore ed inusuale terza riapertura delle indagini dimostra la volontà della procura di esaminare con ogni scrupolo i fatti”. Il giovane di Policoro fu trovato in fin di vita nell’archivio della caserma calabrese, dove era in servizio da soli venti giorni. Fu trasportato in ospedale e morì qualche ora dopo a causa di un colpo di pistola esploso a qualche centimetro di distanza dal suo cranio. Tanti i dubbi emersi in questi anni, a partire dall’assenza di impronte sulla pistola e di tracce di polvere da sparo sul braccio del carabiniere e i graffi sulle scarpe che hanno fatto pensare ad un trascinamento. Dubbi che forse non verranno mai chiariti.

Come è morto Giuseppe Passarelli? Il 24 marzo 1997 nell'archivio della Caserma dei Carabinieri di Cassano allo Jonio, un carabiniere di Policoro (MT), Giuseppe Passarelli, si sarebbe sparato con un colpo di pistola alla nuca morendo dopo circa tre ore di agonia. Ufficialmente si parlò di suicidio, ma la famiglia non si è mai rassegnata perché questa storia presenta davvero tante contraddizioni. A partire, per esempio, dalle modalità dell'evento alle incongruenze tra non pochi passaggi del referto autoptico e alcune testimonianze sulle ore immediatamente precedenti la morte del giovane militare. Non a caso, tra l'altro, lo stesso giudice che ha disposto l'ultima archiviazione pur affermando l'assenza di qualunque indizio che potesse far pensare ad un omicidio, ha comunque parlato di "una serie di elementi che destano perplessità e sconcerto e che non vi è una dimostrazione scientifica" che si sia trattato di un suicidio.

Diciannove anni di ricerca della verità sul caso della morte del carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli, scrive “L’Eco di Basilicata" il 25 marzo 2016. Il carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli di Policoro aveva solo diciannove anni quando morì dopo ore di agonia in seguito ad un colpo di pistola alla nuca sparata da alcuni centimetri di distanza. Diciannove anni pieni di dolore per la sua famiglia che continua a cercare la verità sulla sua morte e di sapere cosa sia successo al loro caro figlio quel giorno nella caserma di Cassano allo Jonio (CS) mentre era in servizio con altri commilitoni. Era la sua prima destinazione ed era arrivato da appena venti giorni. Tre archiviazioni sul caso, chiuso come suicidio, ma tantissimi sono i dubbi sollevati non solo dai periti di parte e dalla famiglia.

Un perito della stessa Procura di Castrovillari parla nella sua relazione di corpo trascinato a terra e su terreno, luogo non compatibile con il luogo dell’accaduto.

Negativo lo stub sulla mano di Giuseppe, cosa improbabile se fosse stato lui stesso a sparare quel colpo.

Nessuna impronta digitale sull’arma ritrovata, come se fosse stata ripulita.

Tanti i dubbi relativi alla certezza che a sparare sia stata effettivamente l’arma in dotazione a Giuseppe.

Il documento attestante la corresponsione tra una determinata arma e chi la detiene, con un unico numero di matricola, la cosiddetta scheda di armamento della pistola di Giuseppe è inesistente perché danneggiata. Questo implicherebbe che non vi sia certezza alcuna sulla corresponsione che quell’arma da cui è partito il colpo sia inequivocabilmente quella in dotazione a Giuseppe.

Giuseppe era in servizio eppure la sua divisa era sporca di terriccio, né ai familiari è stata consegnata la cravatta della divisa.

Le macchie di sangue fuoriuscito dopo lo sparo sono presenti sulla camicia della divisa ma quelle sulla giacca risulterebbero trasudate dall’interno della stessa verso l’esterno.

Troppe risultano le contraddizioni a cui ancora non vi sono risposte certe, che alimentano dubbi su dubbi su quanto accaduto e che meriterebbero approfondimenti ulteriori per restituire la certezza della Verità. Continueremo a chiederla affiancando i familiari di Giuseppe.

Un'altra morte dai contorni “misteriosi” nel centro del Metapontino torna di attualità, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 25 marzo 2015. Quella di Giuseppe Passarelli, trovato senza vita, a 20 anni, il 24 marzo del 1997 nell’archivio della Caserma dei carabinieri di Cassano allo Jonio (CS). Giuseppe, che era di Policoro, fu rinvenuto esanime con un colpo di pistola alla nuca. E ieri, in occasione di un altro anniversario senza verità e giustizia dopo quello di Luca Orioli e Marirosa Andreotta, i coordinamenti provinciali di Matera e di Cosenza dell'Associazione antimafia Libera hanno diffuso un comunicato dal titolo “Come è morto Giuseppe Passarelli?” Un interrogativo che pesa come un macigno a 18 anni dallo svolgersi del tragico evento. “Ufficialmente – ha sostenuto Libera - si parlò di suicidio, ma la famiglia non si è mai rassegnata perché questa storia presenta davvero tante contraddizioni. A partire, per esempio, dalle modalità dell’evento alle incongruenze tra non pochi passaggi del referto autoptico e alcune testimonianze sulle ore immediatamente precedenti la morte del giovane militare. Non a caso, tra l’altro, lo stesso giudice che ha disposto l’ultima archiviazione, il 10 dicembre 2013, presso il tribunale di Salerno, pur affermando l’assenza di qualunque indizio che potesse far pensare ad un omicidio, ha parlato di “una serie di elementi che destano perplessità e sconcerto e che non vi è una dimostrazione scientifica” che si sia trattato di un suicidio”. Una decisione molto controversa come quelle alla base delle altre tre archiviazioni sul caso disposte dalla Procura di Castrovillari nel 1998, 2001 e 2010. Tante le anomalie, infatti, emerse durante le indagini tecniche: nessuna impronta sulla pistola, nessuna traccia di polvere da sparo sul braccio, il terriccio sulla camicia e sui pantaloni cosi come i graffi sulle scarpe quasi fosse stato trascinato. Anomalie che hanno gettato ombre su una morte per tantissimi aspetti assurda. Ed è proprio per questi motivi che i coordinamenti provinciali di Libera di Matera e di Cosenza, sulla scia del tema della XX giornata nazionale in memoria di tutte le vittime innocenti di mafia, “La verità illumina la giustizia”, insieme alla famiglia Passarelli hanno chiesto che anche su questa storia si faccia completamente luce perché Giuseppe abbia finalmente giustizia. Dopo 18 lunghi anni da quel giorno in cui egli perse, tragicamente, la vita.

S’infittisce il mistero: sulla pistola non c’erano tracce lasciate dal militare. Fu ripulita? Scrive Fabio Amendolara il 19 gennaio 2013 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Sulla pistola trovata accanto al corpo non c’erano le impronte digitali della vittima e sulle braccia non sono state trovate tracce di polvere da sparo. Il caso, però, è stato chiuso come suicidio. I pantaloni e la camicia d’ord i n a n z a erano sporchi di terra. «Tipiche imbrattature che di solito si trovano sugli indumenti di soggetti strascinati per terra», secondo uno dei consulenti tecnici che si è occupato 15 anni fa della misteriosa morte, nell’archivio della caserma dei carabinieri di Cassano allo Ionio (Cs), di Giuseppe Passarelli, 20 anni, carabiniere ausiliare di Policoro. «Ritengo che quelle imbrattature di terra siano state causate dal trascinamento del corpo di mio figlio dopo il ferimento mortale», sostiene Antonio Passarelli, il papà di Giuseppe nell’esposto con cui chiede la riapertura delle indagini alla Procura di Salerno (sono passati oltre tre mesi e il fascicolo non è stato ancora assegnato al magistrato che dovrà occuparsi del caso). Antonio, dopo 15 anni e tre inchieste giudiziarie finite nel nulla, ha deciso di andare in Procura a Salerno – competente territorialmente sui magistrati calabresi – per chiedere di riaprire le indagini sulla morte di suo figlio e di accertare se chi ha indagato finora lo ha fatto fino in fondo. Sarebbe la quarta inchiesta. Le altre tre risalgono al 1998, al 2001 e al 2010. La Procura di Castrovillari è giunta sempre alla stessa conclusione: Giuseppe si è suicidato con un colpo di pistola. «Ma ci sono decine di elementi che dimostrano il contrario», sostiene il papà. «A questo punto – secondo Passarelli – pongo il seguente interrogativo: come poteva sporcarsi di terriccio la camicia di mio figlio se all’atto del suo ferimento indossava la giacca? La stessa giacca che indossava al momento del suo arrivo in ospedale». Il sospetto è che qualcuno probabilmente coinvolto nel delitto abbia alterato la scena del crimine. E ripulito la pistola. Ma Giuseppe potrebbe anche essere morto altrove e poi portato nell’archivio della caserma. «C’è una sola spiegazione- scrive papà Antonio nella sua istanza alla Procura di Salerno – mio figlio non indossava la giacca al momento dell’uccisione, solo successivamente gli è stata messa addosso. Contraddicendo con ciò quanto detto dai testimoni». Ma perché dei carabinieri avrebbero dovuto mentire? «Hanno cercato in tutti i modi di farci credere che è stato un suicidio – sostiene il padre del carabiniere morto – ma per noi quel colpo alla testa glielo ha sparato qualcuno». Se il carabiniere ausiliario Giuseppe Passarelli è stato ucciso nell’archivio della caserma di Cassano allo Ionio nel 1997 e se qualcuno ha cercato di coprire l’omicidio ora dovrà accertarlo la Procura della Repubblica di Salerno.

La famiglia del Carabiniere Passarelli chiede che si riapra il caso, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 17-10-2012. Nel ‘97 la sua morte, a 20 anni, fu archiviata come suicidio. «Hanno cercato in tutti i modi di farci credere che è stato un suicidio, ma per noi quel colpo alla testa glielo ha sparato qualcuno. Ora diteci chi è stato». Antonio Passarelli è il papà di Giuseppe, il carabiniere ausiliario di Policoro morto nel 1997 in misteriose circostanze nell’archivio del comando stazione carabinieri di Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza. Antonio, dopo 15 anni e tre inchieste giudiziarie finite nel nulla, ha deciso di andare in Procura a Salerno – competente territorialmente sui magistrati calabresi – per chiedere di riaprire le indagini sulla morte di suo figlio e di accertare se chi ha indagato finora lo ha fatto fino in fondo. Sarebbe la quarta inchiesta. Le altre tre risalgono al 1998, al 2001 e al 2010. La Procura di Castrovillari è giunta sempre alla stessa conclusione: Giuseppe si è suicidato con un colpo di pistola. «Ma ci sono decine di elementi che dimostrano il contrario», sostiene il papà in un documento giudiziario depositato l’altro giorno in Procura a Salerno. La sera del 22 marzo del 1997 Giuseppe chiama la mamma e l’avvisa che il giorno successivo sarebbe arrivato a Policoro per l’ora di pranzo. La mattina del 23 marzo termina il turno di servizio alle 6. Ma non parte per Policoro. Alle 9 chiama a casa e dice alla madre che è stato trattenuto dai suoi superiori in caserma. E aggiunge: «Mamma non posso parlare, ti spiego quando torno». Ma non è più tornato. Spiega il padre: «Giuseppe è rimasto in caserma, senza far nulla, dalle 6 di quella domenica fino alle 14 del lunedì successivo, ora in cui ha ripreso servizio». Perché gli viene revocato il permesso per tornare a casa se poi resta senza incarico per 32 ore? «A questo punto – sostiene il padre nella sua richiesta di riapertura delle indagini – è lecito pensare che mio figlio possa essere stato trattenuto in caserma perché era stato già pianificato il suo omicidio». Qualcuno voleva evitare che Giuseppe parlasse con i suoi familiari? Qualcuno che era a conoscenza delle preoccupazioni che negli ultimi tempi impensierivano il carabiniere ausiliario. «È possibile – sostiene Antonio Passarelli – che mio figlio alcuni giorni prima della sua morte possa aver scoperto qualcosa di sporco o di illegale che accadeva in caserma». È per questo che gli è stata tappata la bocca? Antonio se lo chiede da 15 anni. Soprattutto da quando ha appreso che sulla pistola trovata accanto al corpo di Giuseppe non c’erano impronte digitali. Ripulite? Non c’erano neanche le sue di impronte. Le dichiarazioni imprecise dei colleghi di Giuseppe hanno reso il giallo ancora più ingarbugliato. La Procura di Salerno dovrà cercare di sbrogliarlo.

La morte di Giuseppe Passarelli ancora avvolta nel mistero, scrive venerdì 27 maggio 2011 Gabriele Elia (fonte il Quotidiano della Basilicata). La recente manifestazione regionale di “Libera” ha riportato d’attualità le morti sospette lucane. Ma nel centro jonico una di queste è rimasta nel dimenticatoio e lontana dalla luce dei riflettori delle cronache. E a ricordarla indirettamente c’è stato fino a qualche settimana fa il necrologio affisso in città dove i parenti ricordano che nessuno potrà mai restituire loro la giovane vita del figlio, ma la giustizia sì, almeno questa è la loro speranza. Quattordici anni di silenzi accompagna il decesso di Giuseppe Passarelli, la cui morte è ancora avvolta nel mistero proprio come quella dei fidanzatini Luca e Marirosa ancora tutta da decifrare. Passarelli era un giovane animato da sani principi morali che come sogno aveva quello di fare il carabiniere. E c’era riuscito entrando nell’Arma come ausiliario. Dopo il periodo di addestramento era stato spedito per la sua prima esperienza lavorativa a Cassano sullo Jonio (città calabrese tristemente conosciuta a Policoro perché risiede Antonio Francese, sotto inchiesta per la morte di Francesco Mitidieri avvenuta nel 2005 sempre a Policoro). Da pochi giorni arrivato non ha fatto nemmeno in tempo a conoscere l’ambiente che il 24 marzo del 1997 decedeva nell’ospedale di Cosenza, dopo un primo ricovero in quello di Castrovillari. Per ben tre volte la magistratura di Castrovillari ha archiviato l’inchiesta come suicidio. Tesi che non ha convinto del tutto i familiari che gridano giustizia e vogliono la verità su un ragazzo che non avrebbe mai commesso un atto del genere dopo che si era avverato un sogno per lui. E poi ci sono alcuni lati oscuri tutti da chiarire: la pistola non era a contatto con la tempia, come da rilievi del perito della procura, ma stava a diversi centimetri di distanza; gli esami della perizia stub hanno dato esito negativo per Giuseppe, nel senso che non sono state rilevate tracce sulla mano di polvere da sparo; la giacca della divisa si presentava sporca di sangue solo all’interno. E poi ancora l’ordine di servizio ricevuto il giorno prima dal comandante quando aveva già programmato di tornare a Policoro la domenica delle palme per una licenza, avendo già avvisato la madre. Ebbene quel giorno Giovanni venne trattenuto in caserma senza un perché, e oltretutto senza fare nulla forse perché lo volevano punire per qualcosa che aveva visto o sentito? E poi il giorno successivo il maresciallo di turno, che faceva le veci del comandante, gli intima di andare in archivio a prendere un fascicolo. Giuseppe non lo trova e ritorna al piano di sopra. Il maresciallo gli dice di non perdersi d’animo e di guardare meglio tra i faldoni di pregiudicati e cittadini che avevano avuto a che fare con la caserma di Cassano. Lontani da occhi indiscreti mentre Giuseppe rovistava tra gli armadi dello scantinato semibuio, parte un colpo di pistola fatale per il militare. A nulla servono gli aiuti sanitari e quando arriva nel vicino ospedale è troppo tardi. Da allora i familiari a più riprese chiedono la verità. Quella ufficiale non viene giudicata attendibile dai familiari anche per il “conflitto di interessi” esistente tra quella caserma dei Carabinieri e la procura di Castrovillari, competente per territorio, che avrebbe omesso alcuni dettagli fondamentali. E l’archiviazione del caso non è suffragata da validi motivazioni, anzi si presenta lacunosa per i motivi suddetti. E’ possibile supporre che Giuseppe si sia trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato vedendo nella piccola caserma un giro poco pulito che potrebbe avergli decretato una fine insperata.

INSABBIAMENTI: UN MURO DI GOMMA

Dalla stampa sono pubblicati gli atti processuali divenuti pubblici, da cui si rileva che Luigi De Magistris, ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno.

De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in udienza camerale ex art. 409 CPP celebratasi il 16-10-2007 e disposta a seguito della sua richiesta di archiviazione del 12-3-2007, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissato dal GIP. In Catanzaro dall'aprile 2008 in poi".

Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini che gli erano state ordinate da un GIP su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento. Le indagini erano state ordinate dal GIP di Catanzaro al P.M. De Magistris a seguito di camera di consiglio disposta in virtù di opposizione alla richiesta di archiviazione.

In quella opposizione si profilavano ipotesi delittuose gravi a carico di alcuni magistrati di Lecce e di Potenza ed era del seguente tenore: "… Al cospetto di notitia criminis di siffatta evidenza, l’ill.mo Giudice dovrebbe imporre, a sommesso parere dell’umile deducente, l’imputazione coatta per i reati di favoreggiamento, di associazione per delinquere o, quanto meno, di omissione di atti d’ufficio. Il deducente non può non chiedere, infine, in alternativa, le investigazioni a tutto campo per stroncare una volta per tutte quella che il deducente ritiene che sia una vera associazione per delinquere fra quei magistrati del Tribunale di Lecce che archiviano tutti i procedimenti penali a carico di……e quei magistrati della Corte di Appello di Potenza che archiviano, senza svolgere dovute ed approfondite indagini, procedimenti penali a carico dei suddetti magistrati che hanno un siffatto comportamento che il deducente ritiene “contra jus”. La legge penale dovrebbe essere uguale per tutti:….e per i magistrati. Se numerosi magistrati della Procura della Repubblica di Lecce hanno questo comportamento, che al deducente sembra criminoso, non vuol dire che i numerosi magistrati della Procura non debbano essere processati se essi non applicano la legge: un’intera Procura non forma un parlamento; un’intera Procura ha l’obbligo della tutela della legge. Sui fatti di sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di procedimenti penali a carico di …e dell’altrettanto sistematica archiviazione dei procedimenti penali a carico di quei magistrati che hanno consentito tali “facili” archiviazioni possono riferire".

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

Quando la legge non è uguale per tutti.

Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia da parte dei denuncianti !!!!

Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.

L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia.

Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.

L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa".

IL LEGALE DEL MAGISTRATO: DENUNCIA INFONDATA.

L'avvocato Gorini riferisce che il Gip di Potenza, su richiesta del pm e nonostante l’opposizione della difesa del ministro, “ha ritenuto quest’ultimo non legittimato a proporre opposizione non essendo persona offesa dal reato e, nel merito, ha escluso la sussistenza del reato di violazione del segreto di ufficio, in quanto quasi tutte le notizie oggetto di pubblicazione non erano coperte da alcun segreto e, limitatamente ad un’unica notizia illecitamente divulgata, ha escluso ogni e qualsiasi coinvolgimento di Dinapoli e degli altri pm denunziati rigettando le richieste di ulteriori indagini sollecitate dal denunciante”. L'avvocato Gorini riferisce, inoltre,che Fitto “aveva presentato molteplici esposti diretti a varie autorità, nei confronti dei magistrati in servizio presso la Procura di Bari, tra cui il dott. Dinapoli, che lo avevano inquisito”. “Nel marzo 2009 aveva anche ottenuto dal ministro della giustizia l’apertura di una inchiesta amministrativa sull'operato dei predetti magistrati con l’invio a Bari di un gruppo di ispettori, fra cui il vicecapo dell’ispettorato generale”. Gorini rileva, inoltre, che nessun rilievo formale è stato mai fatto dal ministro della giustizia in seguito a quella ispezione nè nei confronti di Dinapoli nè degli altri magistrati. Nel maggio 2009 il tribunale civile di Lecce aveva rigettato una richiesta di risarcimento danni (per un milione di euro) proposta da Fitto sempre nei confronti di Dinapoli, per il contenuto dell’intervista rilasciata dal magistrato al quotidiano 'la Repubblica'. Il Tribunale aveva ritenuto “del tutto infondata” la richiesta e condannato Fitto al pagamento delle spese processuali.

LEGALE MINISTRO: MURO GOMMA.

"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”. “In merito poi alla richiesta di risarcimento danni avanzata da Raffaele Fitto al Tribunale di Lecce per l’intervista al dott. Marco Dinapoli pubblicata il 22 giugno 2006 da 'Repubblica' - prosegue Sisto – va precisato che, singolarmente, nel corso dell’istruttoria di quel processo, il giornale non fu in grado di provare la genuinità dell’intervista, assumendosene conseguentemente tutta la responsabilità e liberando il dott. Dinapoli da ogni onere; il Tribunale di Lecce, quindi, non solo non ha rigettato la richiesta di Raffaele Fitto, ma, piuttosto, il 16 maggio 2009, l’ha accolta, condannando 'La Repubblica', a risarcire a Raffaele Fitto 63 mila euro, ritenendo diffamatorio il contenuto dell’intervista stessa”.

Lecce come Potenza.

La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.

PRESENTATO ESPOSTO CONTRO GLI INSABBIAMENTI PRESSO LE PROCURE LUCANE, IN PARTICOLAR MODO DI POTENZA, COMPETENTE SUI MAGISTRATI DI TARANTO, LECCE E BRINDISI.

Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.

Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.

La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.

I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.

Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.

Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.

La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.

Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.

Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.

Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo.

Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.

TUTTO QUESTO, E ANCHE PEGGIO, SUCCEDE A CHI, NON CONFORME ALLA SOCIETA' CIVILE COLLUSA E CODARDA, NON ACCETTA DI SUBIRE E DI TACERE.

“Roba nostra. Storia di soldi, politica, giustizia nel sistema del malaffare” (Il Saggiatore), libro di Carlo Vulpio.

"Bisogna far sistema". Questa ricetta, con cui in genere le economie decollano e i paesi si sviluppano, trova da noi un'applicazione tipicamente all'italiana. Consiste nella capacità inesauribile di stabilire reti di complicità e connivenze tra politici, esponenti professionali e istituzionali, faccendieri e malavitosi, con un unico scopo: saccheggiare i beni e le risorse pubbliche. Anche grazie alle rivelazioni emerse dalle inchieste del pm Luigi de Magistris e alle vicende del giudice Clementina Forleo, Carlo Vulpio punta l'attenzione sul sistema meridionale del malaffare, dove i partiti-famiglia sono macchine oleatissime con cui si smistano i fondi nazionali ed europei, si assegnano gli appalti, si decide la fortuna o la sfortuna nelle carriere pubbliche, a cominciare dalla magistratura. E mette in primo piano le vere forze che "fanno girare" il paese, condannandolo all'inefficienza dei servizi, agli scempi ambientali e al declino inarrestabile della sua economia. Di queste forze, dopo le scoperte pionieristiche del pool di Milano, "Roba Nostra" offre la radiografia più aggiornata. Nuovi capibastone politici, tangentisti della prima e della seconda Repubblica, massoni riuniti in fantasiose logge, affaristi devoti della Compagnia delle Opere, clan familiari che sperimentano le tecniche più spietate per garantirsi il controllo di tutto ciò che è pubblico in intere regioni: dalla sanità all'istruzione, ai cosiddetti incentivi per lo sviluppo.

Il libro di Carlo Vulpio, “Roba Nostra” edito da “Il Saggiatore” è un vaccino, molto forte, invasivo. Come ogni medicinale ha i suoi effetti collaterali. Che nel caso di questo libro si manifestano nel 99% dei casi. Nausea, forte e inarrestabile.

Vulpio, inviato del Corriere della Sera è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Ma torniamo al libro.

Vulpio parte da una premessa che poi è l’intuizione dalla quale partono le inchieste Why Not e Poseidon, le due sottratte a De Magistris: dimenticate Tangentopoli, o almeno quella delle mazzette, quelle dei soldi sporchi che passano di mano in mano, e che magari alla fine finiscono in un cesso. Storia vecchia. Oggi la nuova Tangentopoli si basa su fondi pubblici, soprattutto europei, che non arrivano in Italia e poi vengono spartiti, ma hanno già il timbro di appartenenza quando partono da Bruxelles.

Chi prova a scoperchiare questo sistema politicamente tacito e trasversale è proprio il Pm campano, che con perfetta coscienza va incontro alla “profezia Chiaravalloti” (ex presidente della regione Calabria, premiato con la presidenza dell’Authority) intercettato mentre parla con la segretaria: “Lo dobbiamo ammazzare… no… gli facciamo le cause civili per il risarcimento danni e affidiamo la gestione alla camorra… Vedrai, passerà i suoi anni a difendersi”. Chiaravalloti, lungimirante, voto 9.

Il libro è un’ottima chiave di lettura per capire su cosa davvero stava indagando De Magistris prima di essere esautorato d’ufficio, e soprattutto perché fosse fisiologica una simile fine per quelle inchieste: fare luce su questi traffici di denaro pubblico avrebbe significato far saltare i piani alti della politica e della magistratura.

Vulpio ricompone pazientemente ogni singolo tassello di un puzzle che alla fine sviluppa uno scenario da golpe: magistrati che fanno parte di comitati d’affari e acquistano proprietà da costruttori che nel frattempo stanno indagando, tecnici e funzionari che collaborano con il Pm (Gioacchino Genchi, il mago delle tecnologie investigative, il maresciallo Pasquale Zacheo, insostituibile archivio vivente, il prototipo del Bellodi di Sciascia) vengono trasferiti e viene loro revocato l’incarico, il tutto in un habitat in cui la massoneria ha gli uomini giusti nei posti strategici.

Grande spazio, naturalmente, all’inchiesta regina, Why not, che ruota attorno all’uomo del destino, Antonino Saladino, amico di tutti, di tutti quelli che stanno al potere, si intende. Vulpio non dimentica di occuparsi di Toghe Lucane, l’unica inchiesta rimasta in mano a De Magistris (ma c’è tempo anche per quella), che indaga su un comitato d'affari di politici, magistrati, avvocati, imprenditorie funzionari che avrebbe gestito grosse operazioni economiche in Basilicata.

Nel libro vengono raccontati degli episodi che a prima vista non c’entrano nulla con la storia giudiziaria che si dipana tra Lucania, una volta Felix oggi Appetix, e la Calabria. Come quella dei “fidanzatini di Policoro”, in Basilicata, apparentemente morti in un incidente poi diventato duplice omicidio, causato forse dalla paura che la ragazza raccontasse di festini hard a base di coca ai quali partecipavano magistrati e politici. Anzi, ormai è più che un sospetto.

Pagine e pagine dedicate alla “collega ideale” di Luigi De Magistris, Clementina Forleo, l’unica scesa veramente in campo per difendere il collega dalla canea che lo stava delegittimando. E l’unica, che assieme a DeMagistris sta difendendo l’autonomia della magistratura, mentre altri colleghi sono sazi e soddisfatti del tacito accordo Mastelliano che accontenta tutti con posti al Ministero e favori amichevoli.

Carlo Vulpio racconta i fatti inediti delle devastazioni alle proprietà della famiglia Forleo in Puglia mentre Clementina si occupava di scalate a Milano: la villa demolita, il raccolto dato alle fiamme, e ultimo, lo strano incidente in cui morirono i suoi genitori. Cose che il giudice, che secondo il Csm soffre di vittimismo, non ha mai raccontato.

E’ un libro pieno di circostanze, di date e di fatti, che si legge come un romanzo ma ha la struttura della migliore inchiesta giornalistica.

Cosa rimane alla fine? Carlo Vulpio dice che il pessimismo del libro è superato da alcuni casi di speranza concreta. E’ difficile credergli, ma lui è sincero. Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”.

E’ un libro da comprare, leggere e regalare. Perché il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

Toghe lucane: spezzatino giudiziario.

Il gup di Catanzaro, Maria Rosaria Di Girolamo, accogliendo la richiesta della Procura, il 18 marzo 2011 ha archiviato la posizione di 30 persone indagate nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane su un presunto comitato d’affari che avrebbe agito in Basilicata con la complicità di politici, magistrati, professionisti, imprenditori e rappresentanti delle forze dell’ordine. «Tutti gli elementi evidenziati consentono quindi di ritenere l’impianto accusatorio lacunoso e di affermare l’insussistenza della fattispecie penale ipotizzata». È quanto scrive il gup di Catanzaro, Maria Rosaria di Girolamo, nell’ordinanza di archiviazione di Toghe lucane, in relazione all’accusa di associazione a delinquere finalizzata ad una serie di reati fine ipotizzata nei confronti di 16 indagati, tra i quali magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Gli elementi, scrive il gup, «non consentono di sostenere adeguatamente, nei confronti di tutti gli indagati, una fattispecie associativa quale quella ipotizzata, essendo del tutto carente la prova in ordine all’esistenza di un sodalizio».«Non basta – scrive tra l’altro il gup – la prova in ordine all’esistenza di rapporti di amicizia o di frequentazione, nell’adozione di comportamenti che riflettono, al massimo, una posizione di adesione alle diverse ed opposte posizioni ed orientamenti che, durante la gestione delle attività giudiziarie, si erano venuti a creare, determinando una contrapposizione tra coloro che operavano all’interno del palazzo di giustizia». Tra gli indagati la cui posizione è stata archiviata ci sono alcuni magistrati lucani; il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo; l’ex sottosegretario del governo Prodi e ora senatore del Pd, Filippo Bubbico, ed alcuni ufficiali dei carabinieri.

Ma su questa archiviazione cala un ombra. Ecco il titolo della Gazzetta del Mezzogiorno : Inchiesta toghe lucane Agente Sisde a indagato «Sarà tutto archiviato».

«Dino, a me hanno detto che lì archiviano, se non hanno già archiviato, è chiaro! Se non hanno già archiviato! Io in questo periodo non è che me ne sono stato con le mani in mano, chiaro?». A dirlo è stato l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, arrestato il 30 2010 dalla squadra mobile di Potenza su disposizione del gip di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane-bis su una presunta calunnia ai danni dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock, attualmente in servizio alla Procura di Napoli. Cervone è stato poi scarcerato dal Tribunale del riesame di Catanzaro. Cervone parla con Leonardo Campagna, agente di polizia in servizio nel commissariato di Cerignola (Foggia), indagato nella stessa inchiesta della Procura catanzarese, che registra la conversazione dopo essere stato chiamato per essere sentito. Campagna ha ammesso di avere spedito alcune lettere anonime a giornali e uffici giudiziari per delegittimare Woodcock. Lettere, ha riferito, che gli furono date da Cervone, al quale era legato da rapporti di amicizia, e di cui lui – ha detto - non conosceva il contenuto. La registrazione, che non è recente, è contenuta nelle motivazioni con cui il tribunale del riesame ha scarcerato Cervone, che sono state depositate nelle scorse settimane (e di cui si è avuta notizia solo ora) sostenendo che il reato ipotizzato nei suoi confronti, la calunnia, non è configurabile, mentre si tratterebbe di diffamazione. Con quella frase Cervone risponde all’affermazione di Campagna che gli dice: «Mi hai detto che il problema me l'avrebbero risolto con quelli lì, mi avrebbero archiviato, intanto la comunicazione al ministero è arrivata, se avessero archiviato tutto, io non sarei stato chiamato dal Questore e trattato di me..., come un delinquente». Interrogato dalla squadra mobile di Potenza, che conduce le indagini, Campagna ha raccontato che Cervone, durante un altro colloquio gli disse: «non preoccuparti perchè la tua situazione verrà archiviata, ci sarà un’intercessione tra i vertici delle due Procure. Tra le Procure di Potenza e di Catanzaro». Campagna ha anche raccontato che, in merito alle lettere, Cervone gli disse che «siccome stanno succedendo problemi all’interno della Procura di Potenza, ci sono dei miei amici magistrati che avevano bisogno, dovevano far sì che queste cose venissero fuori, bisognava indagare su quest’attività». Le lettere furono spedite nel febbraio 2009, un periodo in cui, a Potenza, erano in corso forti contrasti tra magistrati dell’ufficio di Procura. L'inchiesta a carico di Cervone è una delle due inchieste che sono ancora aperte a Catanzaro dopo che il gup ha archiviato l’inchiesta Toghe Lucane a carico di trenta persone tra magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. L'altra inchiesta tutt'ora aperta riguarda due magistrati della Procura generale di Potenza, Gaetano Bonomi e Modestino Roca, un autista dello stesso ufficio giudiziario ed un imprenditore.

Ma i dubbi e le ombre non mancano. Omicidio Claps. Perito: quella maglia ignorata da Pascali. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una «diabolica» coincidenza di negligenze o i tasselli di un complotto? Tutto è cominciato con il mancato sequestro degli abiti sporchi di sangue di Danilo Restivo; si è proseguito lasciandosi deviare da depistaggi (tutt’altro che innocenti), fino al giallo del ritrovamento del cadavere, scoperto ufficialmente il 17 marzo del 2010, tra visioni di un «ucraino» (così inteso, in verità il prete brasiliano al suo superiore parlava di cranio ndr) nel sottotetto e ricostruzioni contraddittorie delle donne delle pulizie. L’ultima puntata del caso Claps: la scoperta dei Ris del Dna riconducibile a Restivo sulla maglia indossata da Elisa svela l’ennesimo «buco nero» dell’inchiesta. Perché il prof. Vincenzo Pascali, autore della prima perizia, ha ignorato la maglia tra i reperti da esaminare? Chiunque, anche chi non mastica «medicina legale», avrebbe preso in considerazione quell’indumento per cercare tracce biologiche. Il lavoro del genetista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo ricordiamo, aveva riscontrato profili genetici isolati che non corrispondevano col Dna di Restivo, consegnando alla Procura di Salerno un dossier «impalpabile» ai fini delle indagini. La magistratura campana ha avuto il merito di non accontentarsi di quei risultati, sfiduciando, di fatto, Pascali e affidando ai Ris il compito di una nuova perizia. Ma se oggi, con la scoperta del Dna riconducibile a Restivo, si è arrivati ad una svolta dell’inchiesta lo si deve soprattutto a Patrizia Stefanoni, dirigente della sezione di genetica forense del servizio di Polizia scientifica e consulente del pubblico ministero. È lei che ha evidenziato le carenze della perizia di Pascali. 

Un ex agente del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, si occupò dell’omicidio di Elisa Claps, commesso a Potenza il 12 settembre del 1993. E firmò un dossier che nel 1997 svelava la verità sul delitto. «La ragazza era stata uccisa dalla persona verso cui venivano condotte le indagini». Questo era più o meno il contenuto di quel documento investigativo. La «Gazzetta del Mezzogiorno» - che all’epoca (il 31 ottobre del 1997) pubblicò in esclusiva alcune indiscrezioni contenute nel dossier del Sisde - è riuscita a rintracciare l’ex agente segreto in una località che, per ragioni di sicurezza, verrà omessa. L’ex «barba finta» ora svela: «Un prete sapeva dell’omicidio». Lo definisce «un personaggio a latere » dell’inchiesta. Uno che non aveva preso parte al delitto ma che, probabilmente, «sapeva». Un «prete». Giacca di pelle e lunghi baffi bianchi, l’ex agente segreto ha l’aria di uno di quei detective da serial tv americano (all’incontro era presente un inviato del Tg5). Seppure senza mai scriverne il nome, gli 007 nel 1997 puntarono il dito contro Danilo Restivo (in quel momento indagato per il reato di «false informazioni rese al Pubblico ministero»), condannato recentemente all’ergastolo in Inghilterra per il delitto della sarta Heather Barnett e da sempre il sospettato numero uno per l’omicidio Claps. Ma nel trovare conferme gli agenti del Sisde appresero anche altro. Da altri informatori e molto probabilmente all’interno della Chiesa.

Perché i servizi segreti si sono occupati della scomparsa di una ragazza? E con quali risultati? «Il succo dell’informativa è che la scomparsa della ragazza era dovuta al fatto che la Claps era stata uccisa a Potenza. E che il presunto autore era la persona sempre considerata tale. L’informativa diceva che Elisa era stata uccisa il giorno stesso della scomparsa, il 12 settembre del 1993. Ce ne occupammo perché avevamo un informatore e per dare degli input agli investigatori».

E all’epoca c’era già un’altra ipotesi: qualcuno sapeva che il delitto era avvenuto in chiesa. «Noi parlammo di un personaggio a latere. Una persona che doveva sapere dell’uccisione».

Un personaggio a latere? «Ma sì, diciamo che era un prete».

Il vecchio parroco della chiesa della Trinità (luogo del delitto, in cui 17 anni dopo la scomparsa sono stati trovati i resti di Elisa) don Mimì Sabia? «Questo non lo so».

Il suo nome comunque non era nell’informativa? «No, non c’era».

C’era qualche altro nome? «Di solito quelle note informative non contengono nomi».

In quel dossier c’era comunque quanto bastava per risolvere il mistero di Elisa e per attirare l’attenzione sulla chiesa della Trinità. Quell’informativa, però, non arrivò mai agli investigatori dell’epoca. Ed Elisa è stata ritrovata ufficialmente solo il 17 marzo del 2010. Ben 17 anni dopo il giorno dell’omicidio.

E sempre dalla Gazzetta del Mezzogiorno. «Se il rapporto sul caso Claps è stato scritto non può essere sparito». Nicheo Cervone è l’ex agente del Sisde che entrò in contatto con Gildo Claps, fratello di Elisa, qualche anno dopo la scomparsa. Dice di non aver mai lavorato al caso Claps per il vecchio servizio segreto civile ma di aver parlato con Gildo solo «per amicizia». E sostiene che il suo ex collega - che ha svelato in esclusiva alla Gazzetta e al Tg5 l’esistenza di un’informativa che nel 1997 dava indicazioni precise sul delitto (la Gazzetta ne anticipò in esclusiva alcuni contenuti) - è l’unico a poter ricostruire i contenuti di quel dossier. «Che comunque non può essere scomparso».

Agente Nicheo, lei si è mai occupato dell’omicidio Claps?

«Voglio precisare che Nicheo è il nome con cui mi chiamano parenti e amici, non quello di copertura. E non mi sono mai occupato del caso Claps».

Il delitto più intricato commesso a Potenza non l’appassionava?

«I servizi segreti di solito non si occupano di queste cose».

Lei, però, a Gildo alcune domande sulla scomparsa della sorella le ha fatte.

«Ho conosciuto Gildo in modo casuale e diventammo amici. Mi dispiace che pensi che io possa aver tradito la sua amicizia».

Glielo presentò qualcuno?

«Ricordo che fu un maresciallo dei carabinieri in servizio al Reparto operativo di Potenza».

Fu il maresciallo Vincenzo Anobile (l’unico, tra i carabinieri, che si occupò del caso Claps)?

«Francamente non ricordo se fu lui oppure un altro maresciallo che conoscevo».

E s’informò sul caso Claps?

«Gli chiesi della scomparsa della sorella e, aggiungo, non avrei perso occasione per avere anche una sola notizia sul caso Claps. E questo per l’amicizia che mi lega a lui. Purtroppo non è così. Non me ne occupai. Per il Sisde seguivo esclusivamente faccende di criminalità organizzata».

Però fu lei a dire a Gildo che quel dossier non esisteva.

«Quando uscirono le notizie sul giornale mi chiamò perché voleva incontrarmi. Lo invitai a casa dei miei genitori e lì gli dissi la verità, ovvero che per quanto ne sapevo io non c’era nessun dossier».

Quindi dell’informativa del 1997, mi pare di capire, non sa nulla?

«Io sono stato a Potenza fino al 1996, poi ho lavorato in Puglia. Con l’ufficio di Potenza in quegli anni non ho avuto contatti».

E prima del 1997 nessuno le ha mai chiesto di occuparsi del caso?

«Anche prima del 1997 mi occupavo di criminalità organizzata».

E di quel dossier non ha mai neanche sentito parlare?

«Ripeto: per quanto ne so non c’è nessun dossier».

A noi risulta il contrario.

«Se hanno scritto un rapporto quando io non c’ero non posso saperlo. Dalle foto che ho visto sulla Gazzetta mi sembra di riconoscere la persona che è stata intervistata. Non ne faccio il nome per non incorrere in una rivelazione del segreto di Stato. Per la posizione che ricopriva all’epoca nel Sisde, la persona fotografata è l’unica a sapere se era stato fatto un rapporto. Mi sembra strano, conoscendo i meccanismi del Sisde, che sia sparito».

Allora cosa è accaduto?

«Cosa è accaduto non lo so. Ma posso dire che se per uno strano caso informatico il rapporto fosse sparito, il suo contenuto non sarebbe difficile da ricostruire».

L’impressione è che qualcuno abbia voluto che non arrivasse in Procura.

«Io so solo che la persona che riconosco in foto è la stessa che dopo gli articoli della Gazzetta andò in Procura per dire che non c’era nessun rapporto dei servizi segreti. Oggi la cosa più importante sarebbe sapere chi è o chi sono gli informatori alla base di quella nota informativa. Solo così si potrebbe arrivare a capire se ci fu una reale o una eventuale volontà di depistaggio».

Qualcuno sapeva la verità su Elisa Claps, in Questura a Potenza, molto prima della terribile scoperta nel sottotetto della chiesa della città?

Così sembrerebbe, da quanto emerso da una rivelazione fatta dalla mamma di una poliziotta appunto di Potenza, morta nel 2001 in circostanze mai chiarite secondo i familiari. Proprio questo disse infatti la donna, Anna Esposito, all'epoca commissario di polizia nel capoluogo della Basilicata, poco prima di morire, parlando con sua madre, come è stato raccontato in tv alla trasmissione di Rai3 "Chi l'ha visto?". 

Anna Esposito avrebbe detto che qualcuno in Questura sapeva la verità su quella ragazzina scomparsa. Le avrebbe confidato che qualcuno già sapeva che Elisa era stata uccisa e sapeva anche dove si trovava il corpo. Solo adesso però quel racconto di Anna è stato rivelato dalla mamma a Gildo Claps, fratello di Elisa, che lo ha raccontato a Rai3. 

Anna Esposito morì poco dopo aver fatto questa confidenza scottante alla mamma, nel 2001. Sembrò un suicidio, ma il papà della donna, Vincenzo, è convinto che non fu Anna a togliersi la vita. Si trattò di mobbing? Un procedimento giudiziario dice che Anna aveva confidato a don Pierluigi Vignola, cappellano della Questura, di aver tentato il suicidio in passato. Perché don Pierluigi non lo disse a nessuno?, si chiede il papà di Anna, che ha incontrato più volte quel prete subito dopo la morte della figlia. 

Sarebbe stato proprio don Vignola a raccontare a papà Vincenzo di atteggiamenti strani da parte dei colleghi nei confronti della commissaria, di lettere anonime, di pagine strappate dalle sue agende. E, sempre stando alle parole di Vincenzo Esposito, lo stesso prete avrebbe consigliato al padre della commissaria di mandare un esposto anonimo alla magistratura per denunciare i colleghi di Anna. A che scopo? Un nuovo tassello che si aggiunge alla già intricata vicenda di Elisa Claps, che si fa sempre più complessa.

Anna Esposito era un commissario della polizia di Stato. Lavorava a Potenza e coordinava l’ufficio della Digos. È morta in circostanze misteriose il 12 marzo del 2001. «Fu suicidio», secondo la Procura. Ma suo padre Vincenzo, da sempre, sostiene che sia stata uccisa. E ora che sono emersi sinistri collegamenti con il caso di Elisa Claps - la ragazza scomparsa il 12 settembre del 1993 a Potenza e uccisa, secondo i magistrati della Procura di Salerno, da Danilo Restivo, condannato a 30 anni di carcere per il delitto - vuole vederci chiaro. La sua ex moglie, la mamma di Anna, inoltre, ricorda che sua figlia le confidò che in Questura a Potenza c’erano poliziotti che conoscevano il luogo in cui era nascosto il corpo di Elisa (i resti della ragazza sono stati trovati il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Trinità a Potenza da alcuni operai mandati lì a riparare un’infiltrazione d’acqua. Ma quella, per la famiglia Claps, è stata solo una «messinscena »).

Gildo Claps si è ricordato che qualche giorno prima di morire quella poliziotta lo chiamò chiedendogli un appuntamento. «Non ho fatto in tempo a incontrarla», dice alla Gazzetta del Mezzogiorno. E non immaginava che la triste storia di quella poliziotta potesse incrociarsi con quella di sua sorella. Poi ha saputo che uno dei sacerdoti intercettati dalla Procura di Salerno per l’inchiesta bis sul caso Claps - quella sulle coperture e i depistaggi che, secondo la Procura, avrebbero aiutato l’assassino di Elisa a eludere le indagini per 17 anni - don Pierluigi Vignola, cappellano della polizia di Stato segnalato per sinistri contatti con appartenenti a una società segreta, aveva avuto un strano ruolo anche nel caso del commissario Esposito. E si è insospettito. Don Vignola racconta al magistrato che indagava per «induzione al suicidio» che il commissario Esposito, in confessione, gli aveva detto che qualche settimana prima aveva tentato di uccidersi stringendosi una cintura al collo. Proprio la stessa modalità che avrebbe usato poi per togliersi la vita.

Ma perché don Vignola non avvisò la famiglia (con cui intratteneva anche buoni rapporti di amicizia)? Non le aveva creduto? Ecco cosa annota il magistrato: «Stupisce non poco il fatto che il cappellano, deputato alla cura spirituale del personale della polizia di Stato, non abbia manifestato, se non a un superiore, almeno alla famiglia o a qualche collega o amica della Esposito di starle vicino, di non perderla di vista in quel particolare grave momento di sofferenza».

Il sacerdote, invece, consiglia al padre di Anna di scrivere un esposto anonimo (le indagini, quando don Vignola incontra Vincenzo Esposito, erano ormai chiuse e il caso era stato archiviato come suicidio). È una strana strategia quella suggerita dal sacerdote. Chi avrebbe dovuto accusare il padre della poliziotta? Don Vignola, sentito in Procura, nega. Poi, davanti all’evidenza - e dopo le contestazioni degli investigatori che sospendono l’interrogatorio per permettere al sacerdote di consultarsi con un legale - confessa: «Rettificando quanto da me detto in precedenza - si legge nel verbale che ha firmato in Procura don Vignola – voglio rappresentare che potrei essere stato io stesso a suggerire a Vincenzo Esposito di scrivere una lettera anonima alla Procura contenente richieste che a mio avviso servivano più a confortare il mio interlocutore che a consentire di scoprire nuovi scenari».

Quegli scenari, però, subito dopo li descrive al pm: «C’erano persone (don Vignola fa anche i nomi di alcuni poliziotti) che manovravano in qualche modo la vita di questa ragazza». Era vero? Cosa aveva appreso il cappellano della polizia sul conto di queste persone? Oppure era stata Anna a riferirgli di quei minacciosi messaggi anonimi che spesso trovava sulla sua scrivania in Questura? E quanto hanno influito sulla decisione di farla finita? Sempre che sia andata davvero così. Il papà di Anna è convinto che il caso vada riaperto. E ora anche Gildo Claps sospetta che scavando in questa storia possa uscire qualche altra verità sull’omicidio di sua sorella: «In quanti sapevano che era in quel sottotetto?»”. È quello che dovranno accertare gli investigatori.

E’ una vita apparentemente felice e realizzata quella di Anna Esposito. Una donna forte, determinata e decisa. Anna era capo della Digos di Potenza e aveva due splendide figlie che vivevano con i nonni a Cava de’ Tirreni. Improvvisamente il 12 marzo del 2001 i genitori ricevettero una chiamata che li avvisa che la donna si era suicidata, impiccandosi con una cintura alla maniglia della porta del bagno della sua casa a Potenza. La famiglia però non crede assolutamente a questa versione. Il commissario di polizia intervenuto in casa di Anna aveva subito slegato la donna con “la speranza di trovarla viva”, ha riferito il padre di Anna, che però era morta ben 10 ore prima. Secondo i periti però questo sarebbe un “suicidio anomalo, ma possibile”, contrariamente alla versione di Enzo Esposito (papà di Anna) che sostiene invece che la cinghia della cintura si dovrebbe trovare nella nuca e non all’altezza della mandibola, come invece era successo per Anna. Un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza è il disordine che è stato trovato nella casa dell’ispettore Esposito, come se qualcuno cercasse qualcosa di preciso. Nei mesi precedenti la morte, Anna riceveva costantemente biglietti anonimi di minaccia. Anna potrebbe essere stata indotta al suicidio? C’è inoltre un’altra stranissima coincidenza che lega la vicenda di Anna alla morte di Elisa Claps. La famiglia Esposito era molto amica di Don Vignola, il parroco che forse saprebbe molte cose sull’omicidio di Elisa. Don Vignola avrebbe dichiarato di aver visto segni di una cinghia sul collo di Anna qualche mese prima della sua morte, come se la donna avesse già tentato il suicidio, senza però riuscirci. Il padre di Anna è molto contrariato dal comportamento del parroco che avrebbe notati segni del genere senza manifestare le sue preoccupazioni alla famiglia Esposito o alle amiche di Anna. Don Vignola in un incontro con Enzo Esposito ha suggerito al padre di Anna di scrivere alla Procura una lettera anonima sulla morte della figlia, e si propone pure per aiutarlo. La mamma di Anna ha nei giorni scorsi contattato Gildo Claps, il fratello di Elisa, raccontandogli le confidenze fatte dalla figlia qualche giorno prima di morire. Anna aveva detto alla mamma che in Questura qualcuno sapeva che fine avesse fatto Elisa Claps, chi l’aveva uccisa e dove si trovava il suo corpo.

Chi ha potuto vederla la descrive come una cintura di cuoio lunga poco meno di un metro. «Quasi nuova». O, comunque, che non «presentava i segni che un nodo, dopo dieci ore di tensione con un peso rilevante, avrebbe dovuto lasciare». Sulle cause del decesso, «asfissia da strozzamento», sembra che non ci siano dubbi. È la dinamica, così come ricostruita all’epoca dagli investigatori, che rende ancor più misteriosa la morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito, la poliziotta che forse aveva appreso dove era stato nascosto il corpo di Elisa Claps e che è morta nel 2001 in circostanze mai del tutto chiarite (l’inchiesta è stata archiviata un anno dopo). Il corpo, senza vita - stando alle ricostruzioni contenute nelle informative degli investigatori che per primi entrarono nell’alloggio del commissario - era seduto sul pavimento. La cinghia di cuoio, con la fibbia di metallo stretta alla gola della poliziotta, era attaccata, dall’altro capo, alla maniglia della porta del bagno. Sia il dottor Rocco Maglietta, sia il professor Luigi Strada, che hanno effettuato l’autopsia, definiscono l’impiccamento «atipico». Perché l’ansa di scorrimento era posta «anteriormente, sul lato destro». Un impiccamento tipico, messo in atto in modo certo dal suicida, «avrebbe portato - spiegano i medici - automaticamente l’ansa di scorrimento a disporsi nella parte posteriore del collo». Nonostante la trazione sia durata per più di dieci ore (i medici fanno risalire la morte alle 23 del 11 marzo 2001. La cintura è stata slacciata alle 9.30 del 12 marzo), e con un peso di circa 65 chilogrammi, chi ha visto la cintura ricorda che «non presentava i segni del nodo».

nche la lunghezza - poco meno di un metro - appare incompatibile con le modalità del suicidio.

«Lo sviluppo minimo del nodo (ovvero la parte della cintura impegnata dal nodo). - si legge negli atti dell’inchiesta, di cui la Gazzetta del Mezzogiorno è in possesso - doveva essere di circa 24 centimetri». La circonferenza intorno al collo «era di 41». La poliziotta si sarebbe uccisa, quindi, con meno di 30 centimetri di corda, da un’altezza - quella della maniglia - di 103 centimetri da terra. Se le cose sono davvero andate così i piedi del commissario toccavano il pavimento e, solo per pochi centimetri, non toccavano a terra anche i glutei. Ecco come i poliziotti intervenuti sul posto descrivono la posizione: «Le gambe - scrivono nella relazione di servizio - sono leggermente piegate all’altezza delle ginocchia verso sinistra, tanto che i piedi poggiano sul pavimento, rispettivamente quello destro con la parte interna del tallone, quello sinistro con la faccia esterna».

La causa della morte «È dovuta a un’asfissia acuta e meccanica». Che poteva essere stata procurata solo ed esclusivamente dalla cintura? Scrive il dottor Maglietta: «Si è parlato di impiccamento incompleto in quanto il corpo non era totalmente sospeso, bensì in posizione semiseduto, con le natiche sospese». Nella casistica medico-legale, precisa il dottor Maglietta, «è chiaramente indicativa di una volontà suicida». Nonostante le mani libere e i piedi che toccano il pavimento? È un aspetto che le indagini dell’epoca non hanno chiarito completamente.

Il collega ha sentito dire che aveva tentato il suicidio; il sottoposto ha raccontato che gli aveva confidato «di aver fatto una cosa brutta di cui però si era pentita»; il sacerdote ha svelato di aver già visto sul collo della ragazza «i segni della fibbia della cintura». Testimonianze che hanno involontariamente portato gli investigatori verso un’unica conclusione: Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato che forse sapeva di Elisa Claps e che è morta in circostanze mai chiarite - si è suicidata.

Nonostante ci fossero dubbi e aspetti oscuri. Nonostante una consulenza dei medici che effettuarono l’autopsia descrisse il suicidio - Anna Esposito fu trovata impiccata con una cintura di cuoio attaccata alla maniglia di una porta - come «atipico», perché i piedi della donna toccavano il pavimento. E nonostante quanto dichiarò in Procura il dottor Rocco Maglieta, medico-legale, che definì la possibilità che la poliziotta avesse già tentato il suicidio «inverosimile». L’inchiesta è finita in archivio.

L’ispettore Mario Paradiso lavorava all’ufficio del personale. Il 12 marzo del 2001 entrò nell’alloggio del commissario Esposito. Dice agli investigatori: «Non mi spiego questo gesto, anche perché la Esposito era sempre gentile e disponibile. Solo successivamente sono venuto a conoscenza di problemi familiari, sentimentali ed economici e ho appreso dal cappellano della Questura che la Esposito gli aveva confessato di aver tentato il suicidio già in precedenza». Ma questo particolare l’ispettore quando lo apprende? Prima del suicidio? Oppure dopo il 12 marzo? L’ispettore Paradiso verbalizza quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del commissario. E nessuno gli pone questa domanda.

L’ispettore Antonio Cella lavorava nell’ufficio diretto dal commissario Esposito: la Digos. L’ispettore conferma agli investigatori che il suo dirigente gli riferiva «particolari della sua famiglia» e anche delle sue relazioni amorose. E il precedente tentativo di suicidio? Dice l’ispettore: «Non mi ha detto espressamente di aver tentato il suicidio, ma mi ha riferito di aver fatto una cosa brutta di cui però si era liberata».

Don Pierluigi Vignola all’epoca era il cappellano della Questura di Potenza. Riferisce al magistrato di aver saputo che il commissario Esposito aveva confidato anche ad altre persone quello che aveva detto a lui in confessione: la poliziotta aveva già tentato il suicidio. Ma con chi si era confidata Anna Esposito? Dice il sacerdote: «Erano delle giocatrici di pallavolo di Potenza». Che, però, non risultano tra i testimoni dell’inchiesta. Poi il sacerdote aggiunge: «Il mese prima avevo io stesso visto sul collo di Anna i segni della fibbia della cintura che indossava e che aveva utilizzato per il tentativo di suicidio. Non mi riferì però perché avesse scelto quelle modalità». E lui non glielo chiese?

Il dottor Maglietta, con argomenti scientifici, smentisce al magistrato la «teoria» del precedente tentativo di suicidio. Dice: «Secondo me è inverosimile. Avrebbe dovuto avere segni di ecchimosi per almeno cinque o sei giorni abbastanza evidenti, trattandosi di una cintura larga. Segni che qualcuno avrebbe dovuto notare». Qualcuno oltre al sacerdote.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO

Olimpia e Filomena sono due donne toste. Anzi, sono due mamme toste. Nessuno le ha mai viste piangere. Il loro è infatti un dolore che ha superato il territorio di confine delle lacrime. Una frontiera dell'anima inesplorabile per chi non ha vissuto la stessa tragedia di Olimpia e Filomena: perdere un figlio in situazioni drammatiche. E misteriose. Un sentiero disperato lungo il quale queste due madri coraggio si sono incontrate spesso. Diventando amiche. Filomena è l'ormai «famosa» mamma di Elisa Claps; Olimpia è invece la «sconosciuta» madre di Luca Orioli. La storia di Elisa Claps la conoscono tutti. Quella di Luca pochi «addetti ai lavori». Il 23 marzo 1988 Luca Orioli e la sua fidanzata Marirosa Andreotta furono trovati morti in circostanze mai chiarite. Tra depistaggi e amnesie (che ricordano sinistramente il caso Claps) mamma Olimpia - da oltre 20 anni, quasi 30 - combatte in nome di una verità negata. Nei motori di ricerca del web questo ennesimo mistero lucano è archiviato come il «giallo dei fidanzati di Policoro».

I cadaveri di Luca e Marirosa erano nella vasca da bagno di casa. «Morti folgorati in acqua». Anzi, no, «morti per inalazione di ossido di carbonio». E se invece fosse stato un omicidio? La mamma di Luca ne è sempre stata convinta.

Ora, dalla risepoltura della salma di Luca Orioli nel cimitero di Policoro ad opera della Procura della Repubblica di Matera, la signora Olimpia chiede formalmente l'intervento dei Ris a mezzo di una lettera inviata al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli, per chiarire gli ulteriori punti oscuri emersi in questi ultimissimi giorni, compreso il terrificante sospetto che la salma alla quale è riferita l'autopsia condotta dal professor Introna non sia quella di Luca Orioli.

Il Giornale è venuto in possesso del testo della lettera. Che pubblichiamo integralmente:

«Esimio Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gen. Leonardo Gallitelli, è con grande fiducia e speranza che rivolgo a Lei questo mio appello. Sono Olimpia Fuina, madre di Luca Orioli, morto nell'88 a Policoro, in situazione tuttora volutamente misteriosa. L'anno scorso sono state riesumate per la seconda volta le salme di Luca e Marirosa (cosiddetti Fidanzatini di Policoro).
Oltre ai numerosissimi depistaggi e insabbiamenti che costellano il caso, ci sono perizie truccate, riconosciute reati e fatti prescrivere. Al tutto si aggiunge l'inquietante mistero della sparizione degli organi interni (visceri, fegato, polmoni, cuore, lingua, trachea, osso ioide) e dei vestiti che Luca indossava al momento della morte, conservati nel cimitero di Policoro e misteriosamente ricomparsi, non si sa quando, presso l'Istituto di Medicina Legale dell'Università La Sapienza di Roma, peraltro mai incaricato di procedere a perizia su tali reperti. Gli stessi, nel tentativo ultimo di prelevarli da Roma e consegnarli direttamente ai familiari, come se non si trattasse di preziosi elementi di indagine per una definizione certa di morte, sono risultati persino privi di un elenco. Agli atti non esiste nessun verbale che certifichi né la presa in consegna di tali reperti, né i relativi esiti.

Dopo la permanenza di quasi un anno presso l'Istituto di Medicina Legale di Bari, e, con le indagini ancora in corso, la Procura di Matera decide di ritumulare frettolosamente le salme senza spiegare le ragioni di una tale scelta, noncurante della contro-perizia redatta da tre autorevoli Professori dell'Università di Siena che smontano radicalmente quella di Ufficio, argomentandola adeguatamente e documentandola con una ricca letteratura scientifico-medico-legale.
Un mio timore è che in quella bara possa non esserci il corpo di mio figlio, ragione per cui non posso accettare l'invito pressante e minaccioso di prenderlo in consegna.
Me lo fa pensare il fatto che dagli atti relativi all'ultima perizia di ufficio non risulta l'analisi del DNA con i confronti dei familiari che ne possano determinare l'assoluta certezza.

Me lo fa pensare, inoltre, il fatto che il corpo radiografato presenta agglomerati, non meglio definiti, che sarebbero propri di un corpo di anziano.

Luca aveva 20 anni.

Chiedo e mi auguro, alla presenza di un'Italia intera, che con me chiede e aspetta giustizia, che Lei voglia coinvolgere gli esperti dell'Arma dei RIS, per far piena luce sui troppi punti oscuri mai affrontati seriamente, spesso banalizzati, ignorati o, alcuni, addirittura, mai presi in considerazione.

Lei rappresenta la mia ultima fondata speranza.

Confido nel Suo noto impegno a difesa del diritto di tutti e di ciascuno.

Non è possibile accettare una perizia, dimostrata scientificamente falsa, inutile sotto il profilo tecnico, decisamente dannosa per la verità.

Indubbiamente è una verità che scomoda molte poltrone.

Non è possibile pensare che un PM, non volendo approfondire la parte scientifica, con la scusa di non averne la competenza, rifiuti totalmente il confronto e il riscontro oggettivo delle due perizie, così fortemente contrastanti, facendo serio riferimento alla letteratura scientifica di relativo supporto da cui invece far scaturire la dovuta competenza come io stessa, misera mortale, ho potuto maturare.

Occorre solo intelligenza e volontà a farlo. E' ciò a cui io ho dovuto fare ricorso per combattere un sistema avverso alla difesa del diritto giusto.

Non è possibile accettare a "scatola chiusa" una verità che avrebbe tutti i requisiti per essere considerata preconfezionata. Lo dice il fatto che la porta dichiarata grandemente aperta dalla madre della ragazza, venga poi considerata chiusa dall'ultima perizia. Lo dice inoltre il fatto che persino l'ipotesi fantasiosa della morte, avanzata dal Prof. Introna, è fallace anche sotto il profilo logico.

Secondo quest'ultima ricostruzione, i due ragazzi sarebbero entrati nel bagno, avrebbero chiuso la porta per fare l'amore (un gesto superfluo poichè in casa non c'era nessuno), la ragazza si sarebbe sentita male e sarebbe caduta, Luca avrebbe cercato di aiutarla, cadendo anche lui, e, stranamente, questa volta la porta è socchiusa. Chi l'avrebbe socchiusa? Luca mentre moriva? E poteva Luca morire di monossido di carbonio con la porta semiaperta? Avrebbe potuto prima di morire, socchiudere la porta e distendersi in maniera composta millimetrando l'esiguo spazio disponibile? E' possibile che una caduta bassissima, dolce, come quella che si sarebbe verificata, a loro dire, a brevissima distanza dal rubinetto e dalla mensola, entrambi ritenuti probabili oggetti contundenti, possa aver procurato una ferita lacero-contusa di 14 cm, all'epoca? E come mai non c'è traccia di sangue? E come mai una caduta così lacerante non avrebbe fatto cadere i flaconcini sistemati sulla mensola accanto al rubinetto? Può un PM ignorare cose così gravi e giustificare quanto accaduto quella notte, e durante il corso di 24 anni, continuando ad addurre le irresponsabilità (tante) alla superficialità, alla non professionalità, all'età giovane degli inquirenti avvicendatisi nel gioco al massacro della verità? Qualora ciò fosse possibile, credo, come cittadina che paga le tasse, di poter pretendere che tali professionalità non possano continuare ad occupare quei posti. La cosa grave è che lo Stato possa continuare anch'Esso ad ignorare una vicenda così scabrosa, che calpesta il diritto del cittadino, annienta la dignità della persona oltre che del dolore, e offende pesantemente la sua stessa Costituzione. Lo Stato ha il dovere di assicurare piena efficienza ai suoi cittadini.

Lo esigo. Lo pretendo.

Gli italiani hanno diritto e bisogno di sapere "perché".

.....Si difendono i poteri forti?....

Vorrei poterlo non pensare.

Ma Qualcuno mi aiuti a farlo.

E' l'Italia, quella che segue con attenzione e con forte coinvolgimento emotivo le vicende dei suoi connazionali, che vuole saperlo, con me. E' dovuto.

La verità che, così convenientemente si vorrebbe difendere esclusivamente nelle aule di tribunali, se tale, non può temere la piazza né i mass media, che grande mano invece stanno dando alla ricerca della verità.

La scienza non è un'opinione, ed io non posso accettare la chiusura del caso, ancora una volta, per approssimazioni gratuite e infondate non solo scientificamente ma anche oggettivamente secondo i fatti presenti agli atti. Solo chi teme il confronto e un probabile affronto alla propria professionalità, preferisce le aule di tribunale e rinuncia ad informare le folle che attendono da anni una tesi attendibile, sotto il profilo scientifico, e, condivisibile sotto il profilo logico.

A chiusura del caso serve infatti una "tesi" scientifica che è ancora possibile cercare sui miseri resti (se sono quelli) sbranati finora dal potere onnipotente indiscriminato e inoppugnato dell'Istituzione preposta ad accertarne invece la verità.

Confidando in un Suo intervento La saluto cordialmente».

È un giallo che dura da quasi un trentennio e che ora è diventato anche uno scontro fra periti. Fa ancora discutere il caso dei «fidanzatini di Policoro», Luca Orioli e Marirosa Andreotta, trovati morti nel marzo del 1998. Dopo due riesumazioni, dopo l'ultima autopsia che indica nel monossido di carbonio la morte dei due giovani, la madre di Luca Orioli, Olimpia Fuina, continua a non credere alle ragioni accidentali ed insiste nell'indicare agli inquirenti un'ipotesi di morte violenta.

Una vicenda giudiziaria nata con un peccato originale: quando i corpi furono trovati l'autopsia non fu fatta. Da quel momento è stato tutto un susseguirsi di indagini ed accertamenti che non hanno mai placato la sete di verità della signora Fuina. L'esito dell'autopsia del professor Francesco Introna, della Medicina legale di Bari, è contrastato dalle contro-perizie di altri consulenti secondo i quali il monossido riscontrato non è in quantità letali. La mamma di Luca Orioli ha messo in atto azioni clamorose. Prima si è incatenata al cimitero di Policoro per evitare la ri-tumulazione dei resti del figlio. E adesso arriva a chiedere di verificare che quel corpo appartenga realmente al suo Luca.

Non erano più ragazzini e probabilmente la loro relazione si era interrotta, ma sono diventati per tutti i ''fidanzatini di Policoro''. Luca Orioli e Marirosa Andreotta erano due ragazzi che si volevano bene, frequentavano la parrocchia e gli amici, andavano all'Università e guardavano alla vita con fiducia. Vennero trovati morti il 23 marzo 1988 in casa di Marirosa Andreotta, nudi: la ragazza giaceva nella vasca da bagno, il ragazzo era disteso per terra. A trovarli fu la madre della ragazza, la signora Giannotti, di ritorno a casa da un concerto a Matera. Il caso dei due ragazzi prende la piega che non avrebbe dovuto prendere. Si fa strada l'ipotesi del fatto accidentale. Nella stanza c'è una stufetta caldobagno. Si pensa ad un malfunzionamento dell'apparecchio da cui è partita una scarica elettrica. L'elettrocuzione - si pensò - ha dunque causato un arresto cardiocircolatorio. Il caso viene chiuso subito. Questa frettolosità indusse a non compiere l'autopsia. E' questo il punto che ha lasciato una serie di interrogativi. I mancati accertamenti post-mortem hanno infatti tolto dei punti fermi alla vicenda, facendo venir meno gli elementi di certezza sulle cause e alimentando i dubbi. Anche il governo nel 2000 lo ha confermato. Rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Vincenzo Sica, l'allora Guardasigilli Piero Fassino dichiarava che ''la complessa vicenda ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati nel corso dell'esame esterno dei cadaveri''.

Così successivamente, quando l'esame della stufetta non ha dato particolari riscontri, si è fatta strada l'ipotesi di un avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una caldaia. Si pensò anche ad uno scherzo finito in tragedia.

L'autopsia viene fatta a distanza di anni, con la prima riesumazione. Sui cadaveri dei due giovani ci sono dei segni che invece avrebbero dovuto far propendere per l'annegamento, anche segni di fratture. Inoltre Luca Orioli ha un testicolo lesionato. Ma anche in questo caso qualcosa non va: non funziona la tac per esami radiologici. I dubbi rimangono.

I primi sospettati escono dall'indagine e vengono prosciolti tutti coloro (medici, periti, magistrati) che sono stati indagati per negligenze o per errori nell'attività di indagine o di consulenza. E ci sono poi gli altri elementi del giallo.

Una lettera di Marirosa Andreotta alimenta altri scenari. Si parla di un segreto («una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre») che tale resterà. Poi le foto: alcune fanno pensare ad una manomissione del luogo del ritrovamento che in effetti è stato alterato. Ma troppo tempo è trascorso.

Un'inchiesta nata male, già archiviata, poi riaperta e di nuovo destinata all'archiviazione. Così aveva deciso la Procura, che si stava orientando sull'ipotesi del soffocamento, ma su richiesta di Olimpia Fuina, che si è opposta, l'indagine non è stata chiusa ed anzi il giudice ha coattivamente stabilito di riesumare i corpi. Fatto avvenuto il 17 dicembre scorso. Poi l'autopsia. Ma la battaglia legale continua. «Non mi sento sola - afferma Olimpia Fuina - sento aumentare l'affetto delle persone. Io continuo questa battaglia perchè le contro-perizie hanno stabilito che la quantità di monossido riscontrata nell'autopsia è assolutamente non letale. Lo dicono i periti e la letteratura scientifica. Per questo mi sono opposta alla ri-tumulazione perchè voglio altri accertamenti. Ho chiesto al comandante dei carabinieri, Gallitelli, l'intervento dei Ris».

Per la madre di Luca i misteri intorno a questa vicenda non si dipanano, tutt'altro. A cominciare dall'inquietante denuncia della mancanza degli organi interni del ragazzo, tra cui l'osso ioide, forse scomparsi nella precedente riesumazione ma anche su questo non c'è certezza. E tutto questo non aiuta la ricerca della verità, anzi alimenta i sospetti. Olimpia Fuina nella lettera a Gallitelli avanza un'ipotesi ancora più inquietante. «Quel corpo - dice - potrebbe non essere quello di Luca perchè non è documentato negli atti l'esame del dna. Sembra essere quello di un anziano».

Per tenacia la signora Fuina somiglia molto ad un'altra mamma coraggio della Basilicata, Filomena Claps, che attende da 20 anni di conoscere tutta la verità sull'omicidio della figlia Elisa e non solo la condanna del responsabile, Danilo Restivo, condannato a Salerno a 30 anni. Ma, se nel caso Claps l'autopsia di Introna è stata «vangelo», nel caso-Policoro invece viene messa in dubbio. Sulle inquietanti ipotesi avanzate, il professor Introna, contattato, ha detto: «Non rispondo, perchè su questi fatti il confronto può avvenire solo nelle aule di giustizia, altrimenti si creano confusione e illazioni». «Abbiamo fatto l'autopsia sulla salma di Luca e restituito la salma di Luca. È tutto documentato. Ci sono i filmati dei carabinieri». Sono parole del prof. Franco Introna, direttore dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Bari e perito della Procura di Matera nell'indagine sulla morte dei “fidanzatini di Policoro”. Due morti, quelle di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, al centro, dal 23 marzo 1988, di perizie contrapposte. Da qui l'ennesima inchiesta e le risultanze del docente barese. Risultanze oggetto di critiche cui Introna non aveva risposto. La “goccia” è stata la lettera di Olimpia Fuina, madre di Luca, inviata al comandante generale dell'Arma dei carabinieri: temo che nella bara tumulata nei giorni scorsi a Policoro possa non esserci il corpo di mio figlio, ha scritto la donna che da 23 anni insegue la verità sulla morte del suo Luca.

«Quando la salma è stata stumulata c'erano i carabinieri, i consulenti di parte - risponde ora alla Gazzetta il prof. Introna - nella bara c'era il corpo di un ragazzo che aveva già subito una riesumazione. Abbiamo fatto le indagini e conservato la salma. Attese le controdeduzioni, abbiamo risposto per cui il pm ci ha chiesto di riconsegnare i corpi. I carabinieri hanno filmato tutto».

In questa vicenda, però, le cose inverosimili sono state tante. Ad esempio, i vestiti, i visceri, l'osso ioide fratturato, non sono stati trovati alla seconda riesumazione. Un mistero.

«Nessun mistero. Il prof. Giancarlo Umani Ronchi ha scritto che l'osso ioide era sano prima della prima riesumazione e che lo ha rotto lui nel corso delle operazioni. I vestiti, poi, sono stati ritrovati».

La famiglia Orioli chiede di analizzarli per verificare tracce di dna. «Sono inservibili. Sono stati conservati malissimo. Troveremmo miriadi di dna. Ma non vi ho trovato lesioni da arma da taglio o da fuoco».

La sua perizia, che riconduce le due morti al monossido di carbonio (CO), è stata contestata dai nuovi periti di Olimpia Fuina. «Non so se chi ha fatto quelle critiche ha interesse a farlo. Se fossero persone preparate saprebbero che il monossido di carbonio si attacca al sangue nell’80 per cento e nel 20 per cento alle globine muscolari. Abbiamo cercato il monossido nei muscoli. E l'abbiamo trovato. Poi, nella putrefazione si forma tutto tranne il monossido. E la tecnica da noi usata è l'unica che libera il monossido distruggendo le mioglobine. Sono stupefatto dalla critiche».

Ma la porta del bagno era aperta. Come poteva concentrarsi il monossido? «La porta del bagno aperta è in una seconda testimonianza. In una prima è chiusa. I due ragazzi portano una stufetta elettrica nel bagno poiché i riscaldamenti sono chiusi. Si spogliano nudi. Perchè devono tenere la porta aperta? Poi aprono l’acqua calda. E quello scaldacqua non era a norma. Fanno scorrere l’acqua calda e si sviluppa vapore, ma anche verosimilmente monossido di carbonio».

Quella caldaia ha funzionato per altri 2-3 anni senza intossicare nessuno. «Io non faccio l’ingegnere. Può essere che tirando l’acqua calda al massimo sia andata in sovrafunzione».

E la concentrazione di CO differente in Luca e Marirosa? «Lei è morta annegata dopo aver battuto la testa. Lui ha cercato di tirarla fuori, ma non ce l’ha fatta ed è morto per avvelenamento».

Perché non fare i nuovi esami a Foggia come chiesto da Olimpia? «Non sono necessari. I dati sono chiari».

Prof. Introna, come finirà? «Non ne ho la più pallida idea. Ma non creiamo castelli in aria.

Tranquillizziamo la povera madre che ha tutta la nostra comprensione, ma diciamole la verità».

I dubbi di Olimpia Fuina-Orioli e la perizia dell'anatomopatologo, Francesco Introna. Su questi due elementi si è intrecciata la disputa più recente sulla morte dei Fidanzatini di Policoro, Luca Orioli (figlio di Olimpia) e Marirosa Andreotta, trovati morti a Policoro il 23 marzo del 1988 nel bagno della casa della ragazza. La mamma di Luca, con un nuovo pool di periti, ha avanzato sospetti sulla perizia di Introna, la donna, tra gli altri aspetti, ha messo in discussione che la salma analizzata fosse quella del figlio (ipotesi respinta da Introna che ha fatto riferimento all'esistenza dei filmati dei Carabinieri che hanno documentato tutto). Nella sua perizia, l'anatomopatologo ha ricostruito i fatti, fatte le puntualizzazioni del caso, evidenziato alcune riserve e cautele, spiegate le modalità con cui è stato ricercato il monossido di carbonio, il gas killer che avrebbe ucciso Luca e indotto in Marirosa un malessere tale da determinare la caduta della ragazza, durante la quale si sarebbe verificato l'urto nucale contro la manopola del rubinetto, e l'annegamento terminale avvenuto nella vasca. Luca, stando alla perizia, avrebbe tentato di soccorrere la fidanzata, ma era astenico, anche lui aveva inalato il gas killer. Ha provato a prendere Marirosa da una gamba ma è sopravvenuto il coma: si accascia a terra fino alla morte.

LA RICOSTRUZIONE

- La madre di Marirosa quando entrò in casa trovò il riscaldamento centralizzato in funzione. Circostanza che “meravigliò” la signora: Marirosa, in casa, avrebbe dovuto spegnerlo. Nel corridoio vide il riflesso della luce proveniente dal bagno, sentì distintamente il rumore del caldobagno in funzione e, aperta la porta, notò il corpo della figlia all'interno della vasca con la testa sommersa. Istintivamente azionò la manopola per il deflusso dell'acqua dalla vasca. (Rapporto 142/2 CC Policoro, deposizione acquisita alle ore 00,30 del 24.3.1988). In altri documenti processuali (missiva del 19.5.1995 inviata al P.M.) la porta del bagno parrebbe essere stata descritta come socchiusa.

- La temperatura ambientale in casa era elevata al momento dell'arrivo di Luca Orioli e Marirosa Andreotta perché l'impianto autonomo di riscaldamento, posto in “manuale”, era in funzione.

- L'impianto autonomo di riscaldamento presentava caldaia e bruciatore in un vano tecnico esterno alla casa (Perizia Strada).

- La temperatura nel bagno al momento del rinvenimento delle salme era elevata (stimata sui 30°C perizia Lattarulo Sansotta + perizia Giordano). Al momento del rinvenimento delle salme, nel bagno vi era un termosifone in attività (connesso con l'impianto centralizzato della casa cfr perizia Lattarulo Sansotta) ed un termoventilatore elettrico (caldobagno) in funzione con l'interruttore del termostato inserito sul “Manual” a 1000 Watt e regolazione della temperatura fissata sul valore massimo possibile (valore 6) (CFR verbale dei CC, perizia Strada).

- L'impianto elettrico era funzionante e non vi era stato alcun cortocircuito.

- Le indagini successive evidenziarono una perfetta funzionalità sia dell'impianto elettrico che del Caldobagno che non mostrò alcuna potenzialità di dispersione elettrica, neanche in seguito a test esasperati. (Cfr Perizia Valecce, ctp Pugliese)

- Anche gli accertamenti sull'impianto elettrico parrebbero aver la normalità dello stesso.

- La caldaia per il solo riscaldamento dell'acqua era posizionata nel bagno, al di sopra della vasca e presentava oggettivi segni di affumicatura (documentati iconograficamente) in corrispondenza della ispezione della fiammella pilota (cfr documentazione iconografica perizia Strada, consulenza UACV 2009).

- L'impianto per il riscaldamento dell'acqua non era a norma per l'assenza nel vano ove era locata la caldaia (bagno), di alcun sistema di ventilazione esterna (cfr Consulenza Strada-Mastrantonio)

- Nessuna perizia tecnica fu mai disposta sullo stato e sul funzionamento della caldaia a gas presente nel bagno per il riscaldamento dell'acqua nell'immediatezza degli avvenimenti ovvero prima che la stessa fosse spostata.

- La giacca di Luca Orioli era appesa ad una sedia in cucina

- Non è chiaro chi posizionò i jeans di Luca sul bacino per occultare i genitali, né ci è dato sapere dove fossero locati i Jeans prima di essere posti sui genitali dell'Orioli.

- Dalla documentazione iconografica parrebbe che almeno la scarpa destra ed uno o due calzini dell'Orioli fossero nel bagno.

- Non ci è dato sapere dove fossero i vestiti di Marirosa indossati all'arrivo a casa.

- Il pigiama celeste a tuta, uno slip bianco, un paia di collant, la maglietta intima di Marirosa, le ciabatte, l'orologio, il reggiseno ed un bracciale erano variamente disposti in sostanziale ordine, nell'interno del bagno.

- Al pari del bagno oltre alla scarpa destra e a un calzino era presente la camicia e la maglietta intima dell'Orioli.

Sulla base di questi dati circostanziali e alla “luce dei seguenti paletti di riferimento medico legale: “il fungo mucoso per la salme rinvenute può essere considerato un segno fortemente indicativo per un annegamento […] Nella intossicazione da monossido di carbonio il fungo schiumoso è di raro riscontro e ove presente è connesso con l'edema polmonare dovuto, in parte, anche all'azione tossica del CO sugli alveoli polmonari; nell'intossicazione mortale da CO, il lasso di tempo intercorrente fra l'esposizione al gas e la perdita di conoscenza dipende dalla concentrazione di CO nell'aria inalata […] Dalla perizia Fedele-Mastrantonio si evince che in presenza di una caldaia a gas contraddistinta da un malfunzionamento ipotizzato lieve, sarebbero stati sufficienti 50 minuti di esposizione continuativa per indurre una sintomatologia significativa nei due giovani in assenza di particolare attività fisica. La concentrazione ambientale di CO, direttamente proporzionale ai di tempi di funzionamento de all'entità del malfunzionamento della caldaia, il tempo di esposizione e l'attività fisica espletata, rappresentano le tre principali variabili dipendenti interconnesse ne determinismo degli eventi […]. Tutto ciò supponendo comunque che la porta del bagno era chiusa o socchiusa.

Da queste premesse, Introna ha scritto che: "Luca e Marirosa si recano insieme in casa Andreatta e decidono di fare la doccia insieme. La casa è già calda, ma Marirosa non spegne il riscaldamento verosimilmente per creare una condizione confortevole anche dopo il bagno. Luca inizia a spogliarsi in cucina e sposta il caldobagno nel bagno dove lo accende a mezza potenza in posizione manual. Verosimilmente viene aperto il rubinetto dell'acqua calda e chiusa la porta sì da favorire nell'interno del bagno un piacevole ambiente caldo-umido. Marirosa verosimilmente si spoglia in camera sua ed entra nel bagno con il pigiama a mò di tuta. Entrambi i ragazzi chiudono o socchiudono la porta e iniziano a spogliarsi mentre la vasca si sta riempendo. Marirosa entra nella vasca con acqua calda e mentre sta in piedi, apre il doccino ed inizia a docciarsi. La caldaia continua ad essere in attività. Luca non entra nella vasca e dopo essersi spogliato aiuta Marirosa. Non è dato sapere né quanto tempo i due ragazzi trascorrono nel bagno con la caldaia in attività, né cosa fanno nel frattempo certo è che abbondanti schizzi d'acqua finiscono sul pavimento del bagno. La vasca continua a riempirsi. Non ci è dato sapere quando la caldaia smette di funzionare per la chiusura del rubinetto dell'acqua calda. Del tutto attendibilmente ad un certo punto Marirosa inizia a sentirsi male, verosimilmente con la doccia ancora in funzione, perde conoscenza e cade nella vasca, verosimilmente offrendo le spalle al muro su cui è locata la caldaia. In fase di caduta impatta il capo contro la manopola del rubinetto procurandosi la ferita lacera a livello occipitale. Luca cerca di aiutarla, chiude il rubinetto dell'acqua, cerca di estrarla dalla vasca tirandola per la gamba destra, altra acqua cade sul pavimento ma Luca è astenico, fiacco a causa del CO inalato e si accascia al suolo ove, in coma continua ad inalare CO fino alla morte, mentre Marirosa muore annegata nella vasca da bagno. La porta, verosimilmente socchiusa consente quindi di disperdere la concentrazione ambientale di CO negli ambienti circostanti".

LA RICERCA DEL GAS KILLER. Le salme di Luca e Marirosa presentavano strutture muscolari ancora riconoscibili sebbene mummificate. (Deciso viraggio peggiorativo con evoluzione verso la prescheletrizzazione e mummificazione dei tessuti molli residui). Per questo motivo il sistema di indagine scelto da Introna è stato quello di cercare il CO legato alla mioglobina mediante metodi di microdiffusione e fissazione. La tecnica è diversa da quella scelta da Umani Ronchi e De Zorzi nel 1996 quando fu eseguita la prima autopsia. Anche gli esiti sono diversi. Si legge nella perizia: “Alla luce della negatività delle indagini condotte dal prof Umani Ronchi e dei campioni biologici disponibili si è effettuata un'indagine mediante ricerca elettiva del CO inglobato nei tessuti muscolari profondi mediante reazione chimica con cloruro di palladio in soluzione acida. L'indagine così condotta, su ileopsoas e sul muscolo femorale, ha costantemente evidenziato nella salma di Luca Orioli la presenza di di CO in misura media di 0,702 per cento grammi di tessuto muscolare testato”. Valori più modesti sono stati ritrovati nel corpo di Marirosa: 0.06 g%. Quanto basta per “supporre concretamente che anche Andreotta Marirosa inalò monossido di carbonio prima di morire”.

Toghe lucane: Il racconto di un boss a de Magistris e il giallo sulla morte dei «fidanzatini». Da “Il Corriere della Sera”: «Policoro, il pm incontrò l' indagato».

L'inchiesta Toghe lucane, quella che non si è riusciti a togliere al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è come una palla di gomma. Più si cerca di spingerla sott' acqua, più l'acqua la respinge verso l'alto con la stessa forza. L' ultima clamorosa rivelazione, che riporta in primo piano il caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta (i «fidanzatini di Policoro» uccisi il 23 marzo 1988), è il racconto di Salvatore Scarcia, tra i più noti capiclan della mafia del Metapontino. Scarcia è stato interrogato da De Magistris nel carcere di Melfi, in cui sta scontando una condanna per associazione mafiosa. Ma non è un «pentito», quindi ciò che ha detto - e che secondo il pm ha trovato già parecchi riscontri - non gli procurerà alcuno sconto di pena. Scarcia, in rapporti molto confidenziali con il patron di Marinagri, Vincenzo Vitale (indagato a Catanzaro come tutti gli altri protagonisti del racconto di Scarcia), ha detto tante cose inquietanti. Tra queste, ha parlato dettagliatamente, descrivendo persino tipo e colore delle auto, e fotografando tutto e tutti, di un «summit» tenuto nell'estate del 2000 nell'azienda di piscicoltura Ittica Valdagri, nella foce del fiume Agri, dove poi sarebbe sorto il villaggio vacanze Marinagri, assegnatario di un contributo di 26 milioni di euro di fondi europei. Racconta Scarcia: «Era una domenica mattina. Avevo saputo che ci sarebbe stata una riunione importante. E intorno alle 10 circa mi appostai nei pressi dell'Ittica Valdagri... Vidi arrivare una Fiat Croma bianca con quattro persone a bordo: l'autista, il pm di Potenza, Felicia Genovese, suo marito Michele Cannizzaro e il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili. Poi, con una Mercedes scura, arrivarono il pm di Matera, Vincenzo Autera, e il dottor Giuseppe Galante (capo della procura di Potenza) e una terza persona che non ho riconosciuto. Da un'altra Mercedes, di colore chiaro, scesero l'imprenditore Gino Lavieri e Walter Mazziotta, banchiere (in realtà, bancario) di Policoro. Infine, arrivarono altre due auto, una Golf bianca e una Thema Ferrari amaranto, ciascuna con due persone a bordo. Tutti entrarono nell'ufficio di Vitale». A questo punto, Scarcia esce allo scoperto e bussa alla porta dell'ufficio. Va ad aprirgli Vitale. «Gli chiesi di farmi entrare - racconta - e lui diventò pallido. Gli dissi che già sapevo chi c'era dentro, lo forzai ed entrai. Così mi feci vedere da tutti. Intuii che stavano progettando qualcosa di grosso a livello economico. Autera è socio di Marinagri attraverso un prestanome ed era tra quelli che aveva partecipato ai festini a luci rosse che si facevano da quelle parti. Lui, Galante e Genovese cercarono di calmarmi e mi dissero che mi avrebbero aiutato economicamente, se io in zona non mettevo bombe e non facevo attentati. Poi con discorsi un po' strani mi dissero se potevo far qualcosa a Mario Altieri (ex sindaco di Scanzano Jonico), perché dove ci trovavamo doveva venire un "paradiso terrestre", così mi dissero, e invece per colpa di Mario Altieri il tutto era stato bloccato». Scarcia a questo punto non ci sta, arretra, teme di poter essere prima usato e poi incastrato. E così viene anche minacciato. «Guarda che ti facciamo arrestare quando vogliamo, mi dicono». Scarcia abbozza e se ne va. Ma lì, quella domenica mattina, aveva visto, seduti intorno allo stesso tavolo, Vincenzo Autera, il pm che senza aver nemmeno disposto l'autopsia dei cadaveri dei fidanzatini chiese l'archiviazione del caso, e Walter Mazziotta, che nel 1994 finisce indagato proprio per l'omicidio di Luca e Marirosa. Negli anni successivi, Autera, imputato di aver affermato il falso sulla morte dei fidanzatini, verrà prosciolto a Salerno. Mentre il vicepretore Ferdinando Izzo, delegato di Autera, e accusato come lui, verrà assolto a Matera: grazie alla bravura di Nicola Buccico, ex sindaco di Matera ed ex membro laico del Csm, che dopo essere stato il legale della famiglia di Luca Orioli diventa il difensore del vicepretore Izzo. L' inchiesta «Toghe lucane», condotta dal pm Luigi de Magistris, ipotizza un «comitato d'affari» composto da magistrati, politici e imprenditori Le accuse L'ipotesi è il condizionamento di investimenti e nomine pubbliche. Coinvolti anche cinque magistrati.

ESCLUSIVO - IL CASO ELISA CLAPS IN TOGHE LUCANE di Rita Pennarola [29/03/2010] su La  Voce delle Voci La Voce lo scriveva già a settembre 2008.

“Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps riapre una fra le pagine più incandescenti ed inedite dell'inchiesta Toghe Lucane, condotta dall'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. A settembre 2008 la Voce aveva dedicato in esclusiva un articolo di copertina alle minuziose ricostruzioni della Procura di Salerno, cui si erano rivolti De Magistris ed i magistrati oggetto delle sue indagini. Ripubblichiamo i brani da cui emerge il collegamento fra Toghe Lucane e la scomparsa della ragazza. Con l'ombra della massoneria.

Una pagina inquietante si apre, nell'inchiesta Toghe Lucane, sulla misteriosa scomparsa della giovane Elisa Claps, avvenuta a Potenza il 12 settembre 1993. Il caso torna infatti alla luce su iniziativa dei pm Luigi Apicella e Gabriella Nuzzi che, per riscontrare ulteriormente la correttezza delle attività investigative condotte da Luigi De Magistris, assumono importanti riscontri in merito alle indagini condotte da quest'ultimo a carico di Felicia Genovese e del marito Michele Cannizzaro, iscritto alla Massoneria, coinvolti - secondo quanto emerge dall'inchiesta Toghe Lucane - nel caso Elisa Claps. Seguiamo la ricostruzione dei pubblici ministeri salernitani. Nel 1999 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello rivela come un fiume in piena particolari sulla scomparsa della ragazza, verbalizzando dinanzi al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello (il quale dichiarava di aver appreso le notizie sul caso Elisa Claps da un mercante d'arte di Potenza, Luigi Memoli), a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. Il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile in costruzione a quell'epoca. Sempre stando alla versione fornita dal pentito, Maurizio Restivo, padre di Danilo, «implicato nell'indagine e poi condannato per false informazioni al pubblico ministero, aveva, per il tramite del Memoli, contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinchè intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno, competente ad indagare sulle presunte omissioni o violazioni della Genovese. Veniva accertato che quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo era stato effettivamente in compagnia della giovane poco prima della scomparsa. Cosa fece il pm Genovese, che era all'epoca titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Elisa? «Le articolate indagini esperite dalla Procura di Salerno consentivano di ricondurre la scomparsa della giovane Elisa Claps ad una morte violenta, ma non anche ad individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso. Invero, si acclarava che il giorno 12 settembre 1993, Restivo Danilo, effettivamente, era stato in compagnia della giovane poco prima della scomparsa; che quel giorno stesso era stato medicato presso il locale nosocomio per alcune lesioni, prodotte, a suo dire, per un'accidentale caduta, ma, verosimilmente, frutto di una colluttazione. L'esame dell'attività investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese, evidenziava, tuttavia, che nella immediatezza della notizia della scomparsa, alcuna perquisizione era stata disposta né sulla persona del Restivo Danilo, né presso l'abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilità». Il 27 gennaio 2000 depone dinanzi al pm di Salerno l'avvocato Giuseppe Cristiani, legale della famiglia Claps, il quale fra l'altro fornisce elementi circa la comune appartenenza alla massoneria di Cannizzaro e di Maurizio Restivo, padre di Danilo. Le indagini avviate all'epoca dalla Procura salernitana su questa vicenda non consentirono di «individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso» ed anche l'operato della Genovese venne considerato corretto. Strettamente collegato alla scomparsa di Elisa Claps era però quanto il pentito Cappiello verbalizzò in seguito sul duplice omicidio di stampo mafioso dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, avvenuto a Potenza il 29 aprile ‘97. Cappiello sosteneva di avere appreso quelle notizie da Saverio Riviezzi, un pregiudicato di Potenza che era stato contattato da alcuni calabresi, fra cui un certo Aldo Tripodi, uno degli esecutori dell'omicidio, per quella duplice esecuzione. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia ai pm della Direzione Antimafia, «mandante dell'omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero era - seguiamo ancora la ricostruzione di Cappiello, così come riportata dal documento di Apicella e Nuzzi - Cannizzaro Michele, marito del sostituto procuratore dottoressa Genovese, che aveva inizialmente curato le indagini relative al duplice omicidio in questione». Quanto al movente, «il Cappiello lo riconduceva ai rapporti che il Gianfredi aveva avuto con il Cannizzaro Michele aventi natura finanziaria, assumendo che tale ultimo era un grosso giocatore d'azzardo, rapporti bilanciati da favori giudiziari di cui il Gianfredi godeva per il tramite della moglie del Cannizzaro». Comincia dunque una lunga serie di indagini che la Procura di Salerno avvia per riscontrare le dichiarazioni di Cappiello. «Gli esiti - spiegano oggi nell'ordinanza Apicella e Nuzzi - non consentivano di ritenere acquisite fonti di prova idonee a ricondurre agli indagati i gravi fatti delittuosi iscritti a loro carico. Emergevano, tuttavia, dalle investigazioni svolte alcune significative circostanze atte a delineare il particolare contesto ambientale di consumazione dei fatti delittuosi, la condotta tenuta dalla dottoressa Genovese nelle prime investigazioni, la personalità del marito dottor Cannizzaro, le frequentazioni ed i suoi legami con ambienti criminosi - in particolare, con Gianfredi Giuseppe, vittima del duplice omicidio - i contatti con esponenti della criminalità organizzata calabrese, i suoi interessi economici che, allora, come oggi, non potevano, comunque, non apparire “inquietanti” in relazione alla natura dell'attività svolta dalla moglie dottoressa Genovese, designata all'incarico di sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, nell'ambito, cioè, del medesimo luogo di consumazione degli accadimenti delittuosi». Dopo lunghe indagini, il pentito Cappiello sarà considerato dall'autorità giudiziaria di Salerno “inattendibile”. Eppure, ad offrire uno scenario sorprendentemente simile delle due vicende (Claps e Gianfredi), era arrivata la testimonianza di un prete-coraggio della diocesi di Potenza: don Marcello Cozzi. La giovane, quel fatale giorno del 1993, aveva battuto mortalmente la testa per sottrarsi ad un tentativo di violenza messo in atto da Danilo Restivo, il cui padre, per coprire le responsabilità del ragazzo, avrebbe contattato il dottor Cannizzaro; questi a sua volta si sarebbe rivolto a Giuseppe Gianfredi, che avrebbe fatto sparire il cadavere con l'aiuto dei fratelli Notargiacomo, titolari di un'officina meccanica, che avevano pertanto la disponibilità di acido in grado di dissolvere il cadavere. Anche stavolta le indagini furono archiviate. Si segnala intanto ancora un particolare: da alcuni accertamenti della Guardia di Finanza di Catanzaro era emerso che Luigi Grimaldi, dirigente della Squadra Mobile di Potenza all'epoca delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps, dopo aver ricoperto l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Università di Salerno, svolgeva l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, dove Michele Cannizzaro era direttore generale. Per concludere questa vicenda va segnalato che, sentito come teste a ottobre 2007 nel corso delle indagini sull'operato di De Magistris, ai colleghi Nuzzi ed Apicella il pubblico ministero di Potenza John Woodcock ha raccontato d'aver chiesto a marzo 2007 di astenersi in un procedimento a carico, fra gli altri, di Michele Cannizzaro in ragione del contenuto di una intercettazione telefonica fra la moglie di Cannizzaro Felicia Genovese ed il procuratore generale Vincenzo Tufano, «nella quale venivano usate espressioni particolarmente volgari sulla giornalista (Federica Sciarelli, che più volte nel corso della trasmissione “Chi l'ha visto” si è occupata del caso Elisa Claps, ndr) e sul suo rapporto di amicizia con il magistrato (Woodcock, ndr)». Quest'ultimo riferiva inoltre «di altri emblematici tentativi di indebita strumentalizzazione del suo rapporto personale con la giornalista Federica Sciarelli, riconducibili al medesimo gruppo di soggetti indagati dal pubblico ministero De Magistris nel procedimento Toghe Lucane». IL CSM “AMICO”. Il 4 marzo 2008 De Magistris chiede alla Procura salernitana che indaga sul suo conto (e che poi lo proscioglierà, aggiungendo ipotesi di gravi addebiti a carico dei suoi principali denuncianti), di rendere testimonianza spontanea. Dalla lunga verbalizzazione emerge, fra l'altro, l'allucinante spaccato sul ruolo del Csm così come si evince direttamente dalla lettura dell'intercettazione telefonica intercorsa il 28 febbraio 2007 tra Felicia Genovese ed un altro noto esponente di Magistratura Indipendente, Antonio Patrono, presidente della prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, deputata a verificare l'apertura di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale di De Magistris. La conversazione avviene il giorno successivo all'esecuzione delle perquisizioni nell'ambito del procedimento Toghe Lucane. Nel commentare con Patrono le sue vicende giudiziarie, Genovese sollecita l'interessamento di altri componenti del Csm tra cui Giulio Romano, della sua stessa corrente, e Cosimo Ferri. «Tra i nominativi richiamati nella conversazione - tengono a sottolineare Apicella e Nuzzi - vi è quello del dottor Giulio Romano, componente della Sezione Disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti del dottor De Magistris»."

Toghe Lucane, ma anche Calabresi, ma anche Salernitane, ma anche... Insomma toghe italiane. Qualcuno si meraviglia che il sostituto procuratore a Crotone applicato a Catanzaro per prendersi cura del procedimento penale “Toghe Lucane”, abbia chiesto l'archiviazione per la maggior parte degli indagati. Oggi, non quando fu chiamato ad assumere l'incarico, possiamo finalmente dirlo: sapevamo che sarebbe finita così; e non ci voleva la scienza infusa per arrivarci. Dopo che un paio di ministri (della cosiddetta Giustizia), un paio di Procuratori Generali presso la Suprema Corte di Cassazione, il Presidente della Repubblica, il vice-Presidente del CSM, ed una pletora di magistrati, avvocati, parlamentari, indagati, associati per delinquere ed anche per altro, avevano fatto carte false per trasferire Luigi de Magistris ad altra sede proprio quando stava per definire i rinvii a giudizio di “Toghe Lucane”, beh, era così difficile immaginare che il suo sostituto sarebbe stato scelto con cura affinché risolvesse il problema? A dirlo un anno fa ci avrebbero subissato di querele, oggi è un'evidente ovvietà. Un cittadino si è recato di buonora dal PM. Da Matera a Catanzaro (300Km) ci vogliono oltre quattr'ore, superando i limiti di velocità ogni volta che la strada lo permette. Il cancelliere preposto agli atti ha subito messo le mani avanti: “il fascicolo non è ancora pronto. Torni appena dopo il ricevimento dell'avviso”. Ma un avviso, con tanto di ampi stralci virgolettati era su tanti giornali. E così insistendo e sollecitando il Procuratore Capo (Dr. Lombardo) in qualche modo l'atto di archiviazione salta fuori. Ecco svelato l'arcano. Il PM ha spezzettato l'inchiesta in tanti piccoli e piccolissimi stralci, ciascuno con un pezzo delle 200 mila pagine originarie e delle decine di capi d'imputazione. Ed il pezzo che possiamo guardare, piccolo piccolo, è sufficiente per capire tutto il resto anche senza vederlo. Mancano le prove certe del reato, dice il PM, si chiede l'archiviazione. Per forza, signor PM, le prove che nel caso specifico sono le conversazioni fra un indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e una sospettata di far parte della medesima associazione) si trovano (forse) in qualche altro pezzettino o stralcio che dir si voglia. Ammesso che, in cotanto spezzatino, non siano andate “smarrite”. Forse sarà sfortunato il PM oppure è semplicemente disattento. Dovrebbe aver letto, fra gli atti recenti, che alcune delle parti offese avevano potuto accedere a tutto il fascicolo (quando era ancora un blocco granitico) e quindi saranno in grado di produrre le “prove” mancanti in sede di opposizione alla richiesta archiviazione. Certo è che una associazione per delinquere, quale era quella fra magistrati, politici ed imprenditori ipotizzata in “Toghe Lucane”, può continuare tranquillamente a delinquere proprio perché tanti magistrati di Matera, Potenza, Catanzaro e, perché no, Salerno, continuano ad ignorare persino le denunce formalmente presentate e documentate. Ma anche...

I NOMI DEI 33 «VIP» COINVOLTI USCITI CON UN NON LUOGO A PROCEDERE.

L'avviso di conclusione indagini del pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nell’ambito dell’inchiesta Toghe lucane, riguardava 33 persone.

Oltre al presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, ed al parlamentare Filippo Bubbico, erano indagati:

Arnaldo Mariotti, segretario particolare di Bubbico al ministero quando era sottosegretario;

Massimo Goti come direttore generale del ministero dello Sviluppo economico;

Emilio Nicola Buccico, ex componente del Csm e sindaco di Matera;

Vincenzo Tufano, procuratore generale a Potenza;

Gaetano Bonomi, sostituto procuratore generale a Potenza;

Felicia Genovese, ex pm della Dda di Potenza, adesso a Roma;

Michele Cannizzaro, marito della Genovese, ex direttore generale dell’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza;

Giuseppe Chieco, procuratore di Matera;

Iside Granese, ex presidente del Tribunale di Matera;

Vincenzo Barbieri, ex direttore della direzione generale magistrati al ministero della Giustizia e attuale procuratore di Avezzano;

Claudia De Luca, pm a Potenza;

Daniele Cenci, ex giudice a Potenza;

Biagio Costanzo, cancelliere al Tribunale di Lagonegro;

Luisa Fasano, ex dirigente della squadra Mobile di Potenza, adesso a Matera;

Vincenzo Mauro, ex questore di Potenza, adesso a Messina;

Massimo Cetola, ex generale dei carabinieri, adesso commissario all’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria;

Emanuele Garelli ex comandante della Regione carabinieri Basilicata;

Nicola Improta, ex capo di Stato maggiore della Regione carabinieri Basilicata;

Pietro Giuseppe Polignano, ex comandante provinciale dei carabinieri di Potenza;

Attilio Caruso, ex presidente della Banca popolare del Materano;

Vincenzo e Marco Vitale, titolari del villaggio turistico Marinagri di Policoro;

Pietro Gentili, ex ufficiale dei carabinieri, attuale addetto alla sicurezza del Marinagri;

Giuseppe Labriola, ex presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Matera;

Elisabetta Spitz, dirigente generale dell’Agenzia del demanio di Roma; Nicolino Lopatriello, sindaco di Policoro;

Nicola Montesano, presidente del Consiglio comunale di Policoro;

Felice Viceconte, dirigente del settore urbanistica del Comune di Policoro;

Giuseppe Pepe, dirigente del demanio di Matera;

Michele Vita, segretario generale dell’Autorità di bacino regionale della Basilicata;

Vito Santarsiero, sindaco di Potenza.

Anni di favoritismi, di clientele e di raccomandazioni. Contratti a tempo determinato, collaboratori e «portaborse» infilati senza concorso negli uffici della regione Basilicata. Per tutta questa platea di precari (circa 300) sta per scattare una sorta di sanatoria. È all’esame della prima commissione consiliare il disegno di legge dal titolo che è tutto un programma: «Misure volte a favorire qualità ed efficienza dei sistemi professionali nella Regione Basilicata». In pieno ciclone Brunetta, con la sua onda moralizzatrice che travolge l’amministrazione pubblica, il governo lucano si appresta a varare una legge che ha già scatenato un polverone di polemiche.

Il «ddl», in sostanza, si muove su due piani: riserva il 70% dei posti previsti nell’assunzione di personale non dirigenziale a tempo determinato a soggetti che hanno svolto, presso la Regione, lavoro con contratti di collaborazione per almeno un anno. Già l’aver riservato questa quota (che, peraltro, una recente disposizione del ministro Brunetta farebbe scendere al 40%) ha fatto storcere il naso soprattutto ai tanti disoccupati lucani che ambiscono ad entrare nell’«eden dei colletti bianchi» di via Anzio. Ma il vero punto focale della polemica è l’articolo 4 bis del disegno di legge in cui si prevede la conversione automatica in rapporto di lavoro a tempo indeterminato per il personale impegnato da almeno tre anni alla Regione con contratti di lavoro coordinato e continuativo o a tempo determinato. Rientrano in questo raggio d’azione anche i cosiddetti «portaborse».

L’assunzione automatica avverrebbe solo per chi ha già partecipato a un concorso in data antecedente il 29 settembre 2006. Chi, invece, non ha sostenuto in passato una prova concorsuale (la maggioranza) - si legge ancora nel «ddl» - dovrà sottoporsi a non meglio precisate prove selettive. I detrattori la definiscono la classica «pezza a colori» per tentare di anticipare le polemiche. Che sono inevitabilmente esplose attorno a un interrogativo di fondo: perché si deve privilegiare chi in passato è stato già favorito dalla chiamata diretta di un politico?

Le prove scritte di un centinaio di aspiranti legali lucani furono annullate dalla Commissione di Trento nel dicembre 2007, e la Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi di conclusione delle indagini a quelli che anni fa erano gli esaminandi.

Compiti troppo simili per passare inosservati, e annullati perché ''copiati in tutto o in parte da altri lavori'': all'esame di abilitazione alla professione di avvocato, le prove scritte di un centinaio di aspiranti legali lucani furono annullate dalla Commissione di Trento nel dicembre 2007, e la Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi di conclusione delle indagini a quelli che anni fa erano gli esaminandi. I particolari della vicenda sono stati pubblicati sul ''Quotidiano della Basilicata''. La prova scritta prevede la redazione di due ''pareri'' (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolta a Potenza con una commissione composta da avvocati, magistrati e professori universitari del Distretto. Gli elaborati, nel 2007, furono poi inviati per la correzione alla Commissione di Trento, scelta attraverso un sorteggio. La maggioranza di quelle prove scritte furono annullate, e solo pochissimi candidati furono ammessi a sostenere l'orale. Il numero di elaborati ''bocciati'' troppo alto ha dato il via all'inchiesta, affidata al pm di Potenza, Sergio Marotta: poi sono stati inviati gli avvisi di conclusione delle indagini.

E' stata la Commissione esaminatrice di Trento - che nel 2007 ha valutato e poi bocciato le prove scritte di un centinaio di aspiranti avvocati lucani all'esame per l'abilitazione professionale - a informare la Procura della Repubblica di Potenza che quei compiti erano troppo simili tra di loro, quasi identici: non sarebbe stato però un unico testo quello ''copiato'', ma tre diversi, che hanno ''ispirato'' altrettanti gruppi di esaminandi.

L’auto blu al mare: figuraccia del moralista Idv.

Il capogruppo al Senato Belisario, sempre pronto a denunciare sprechi e ingiustizie, era a Roma mentre il suo autista sfrecciava al lido di Policoro col lampeggiante acceso e più persone a bordo. E scatta la denuncia per peculato.

«Le modifiche al codice della Strada devono servire per ridurre gli incidenti ed evitare le stragi che ogni anno avvengono sulle strade italiane. Per questo vanno introdotte norme che amplino la sicurezza e tra queste certamente non ci possono essere quelle che aumentano i limiti di velocità. Con la vita non si scherza, non si può scherzare, e tutti senza eccezione alcuna devono rispettare le regole: questo vale anche per le auto blu». Era giusto il 4 maggio dell’Anno Domini 2010, quando il senatore dell’Idv, Felice Belisario, così sentenziava dalle pagine virtuali del suo sito internet. Parole sante.

Valori veri, non quelli dell’Italia dei medesimi, ma quelli della prudenza e del rispetto della legge. Sempre e comunque uguale per tutti, come ci ricorda, ogni giorno, Antonio Di Pietro. Già. Ma se poi quelle parole ti tornano indietro come un boomerang due mesi dopo? Ma se un’auto blu, mettiamo proprio quella assegnata (chissà a quale titolo poi?) al senatore Belisario, viaggia talmente a velocità sostenuta da venir fermata da un pattuglia dei carabinieri? E se poi dentro quell’auto blu i militari scoprono che non c’è nemmeno il senatore Belisario ma altre persone? Beh, allora, qualche riga sui giornali questa curiosa vicenda, forse la merita.

È ciò che puntualmente ha fatto, denunciando l’accaduto, la Gazzetta del Mezzogiorno che scrive: «L’auto blu assegnata al senatore Felice Belisario, eletto in Basilicata e capogruppo al senato dell’Italia dei valori, era al lido di Policoro, in provincia di Matera, nel pomeriggio di qualche giorno fa. Ma con le due o tre persone a bordo, uomo al volante compreso, il senatore non c’era. La berlina, una Lancia, ha incuriosito una pattuglia dei carabinieri della Compagnia in fase di normale controllo del territorio poiché aveva il lampeggiante blu sul tetto e andava a velocità sostenuta. Da qui l’alt e la successiva verifica. Tutto in regola. A parte l’assenza del senatore Belisario a bordo. I carabinieri hanno inviato una segnalazione dell’accaduto all’autorità giudiziaria. L’ipotesi: peculato».

Pubblicando la notizia sul suo sito web il 14 luglio 2010, la Gazzetta del Mezzogiorno ha acceso l’indignazione di molti lettori. Leggiamo qualcuno dei commenti più teneri: «Questa è l’Itaglia dei valori - persi o trovati? - valutate!» scrive Paolo Miraglia da Matera. «Come mai un senatore qualsiasi ha un’auto blu e autista a disposizione? Che ci facevano l’autista e company sull’auto blu se il senatore non c’era?» si domanda, giustamente Anto68 da Bari. Mentre Antonio, da Potenza si sfoga: «Finalmente lo hanno fermato! Per le strade di Potenza, soprattutto Viale Marconi, l’autista in questione crede di essere su una pista di Formula1. E meno male che è al servizio di un autorevole esponente del partito de la giustizia è uguale per tutti. Chissà se varrà anche per lui?».

Imbarazzante, ammettiamolo. Sì perché Felice Belisario non è soltanto il capogruppo dei senatori dell’Idv è anche, assieme, naturalmente, a Tonino l’Immarcescibile, l’altro Grande Moralizzatore del partito della pulizia, l’uomo che non si lascia sfuggire un’occasione che è una per bacchettare Silvio Berlusconi e il suo governo. Per spiegare al popolo italiano come le cose andrebbero fatte per il loro bene, nel rispetto, appunto, delle regole della trasparenza e dell’onestà. Così dal suo sito ogni giorno è buono per fare un piccolo comizio: «Il governo Berlusconi - scrive, sconsolato, il 6 luglio 2010 - è in piedi solo perché, ad oggi, non c’è un’opposizione sufficientemente determinata e coesa capace di creare un’alternativa all’attuale maggioranza parlamentare.

Altrimenti il Caudillo di Arcore sarebbe a casa da un pezzo». E il 13 luglio: con questi «fior di galantuomini Idv non può e non deve collaborare, non ci sono governi di solidarietà nazionale che tengano. Nessuna riforma è possibile: sarebbe come consegnare i principi fondanti della nostra Patria nella mani del carnefice». Tornando all’imbarazzante episodio, l’autista di Belisario, Antonio Scavone, ha detto ai carabinieri che si stava recando dall’assessore regionale dell’Idv, Rosa Mastrosimone, ma i militari non gli hanno creduto e lo hanno denunciato. Dal canto suo Belisario dice di non saperne nulla e garantisce che mercoledì 7, quando dovrebbe essere avvenuto l’episodio, Scavone era con lui a Roma e non a Policoro.

C’è anche da dire che il capogruppo dipietrista di Palazzo Madama non è granché fortunato con gli autisti. Nel 1994, quando era nel Ppi, il suo collaboratore Numida Leonardo Stolfi, fu arrestato per sfruttamento della prostituzione, nel 2000 è stato condannato a nove anni e mezzo. E ora è di nuovo in cella come esecutore materiale di un omicidio. Mentre Antonio Scavone, descritto come un giovane molto focoso e dai modi piuttosto bruschi, è stato espulso dai carabinieri per motivi disciplinari. Ma, insomma, senatore Belisario ci pensi un attimo prima di predicare bene, altrimenti sono figuracce.

AMBULANZE. QUANDO LI VUOI NON CI SONO.

"Ambulanze del 118 in ritardo". Il direttore di Basilicata Soccorso spiega gli ultimi casi di "intervento tardivo", scrive Giusi Cavallo su “Basilicata 24”. L'ultimo in ordine di tempo è l'episodio accaduto domenica 8 luglio ad Avigliano. Una persona ha accusato un malore, il personale del 118, allertato immediatamente con una telefonata, è giunto con notevole ritardo in quanto l'ambulanza è arrivata da Genzano di Lucania. Almeno secondo quanto riferito dai presenti. L'ambulanza arrivata ad Avigliano giungeva da Genzano di Lucania. Di norma arrivano quelle di Potenza. C'è poi un altro episodio di un mese fa circa verificatosi a Potenza, nel rione Parco Aurora. Solito malore, chiamano l'albulanza ma anche in questo caso l'attesa è piuttosto lunga. Il mezzo di soccorso questa volta arriva da Trivigno e non dal vicino ospedale San Carlo. Come è possibile? Sul caso di Avigliano c'è una interrogazione scritta del consigliere regionale Rosa (Pdl), al presidente della Regione Baislicata, De Filippo. Noi abbiamo chiesto lumi al dirigente di Basilicata Soccorso, il dottor Libero Mileti, il quale ci ha fornito una spiegazione molto semplice. In pratica - dice il dottor Mileti - se le ambulanze di Potenza sono occupate è normale arrivino quelle più vicine. Può capitare e quindi i casi che lei mi rappresenta rientrano in queste circostanze.

Ma com'è possibile che si permetta tutto ciò a discapito della salute dei cittadini?

"Le spiego subito una cosa. Gridare allo scandalo è facile. Creare leggende metropolitane pure. La realtà è che le chiamate al 118 sono aumentate, in questo periodo poi, ancor più. La gente ci chiama per un semplice svenimento, pensando che si tratti di altro, magari di un infarto. Per un semplice svenimento potrebbe intervenire il medico di base, ma chiamano noi. Del resto in quei momenti non spetta al cittadino comune fare una diagnosi. Quindi, come si può ben comprendere, capita che le ambulanze disponibili su un determinato territorio siano tutte occupate e che quindi si debba far ricorso a quelle più prossime all'area da cui arriva la chiamata di soccorso".

Si ma l'attesa prolungata può mettere a repentaglio la vita del paziente?

"Guardi che noi all'atto di intervenire valutiamo diversi fattori. E' chiaro che se riscontriamo, già dalla telefonata di richiesta soccorso, che c'è una situazione grave mandiamo l'elicottero".

E' chiaro che c'è un problema di equipaggiamenti, ma forse le risorse non consentono di impiegare più mezzi e ovviamente personale. Ma allora, stando così le cose, si può rischiare di morire per scarsità di ambulanze?

Il valzer delle ambulanze di Potenza. Ogni giorno le ambulanze lucane percorrono 300 chilometri solo per essere sterilizzate, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. Dai 200 ai 400 chilometri al giorno solo per essere sterilizzate. Le ambulanze della provincia di Potenza sono sicuramente le più “attive” d’Italia. Un triste primato conquistato non per il trasporto dei malati o per gli interventi d’emergenza del 118 bensì per gli sprechi di denaro pubblico e per i chilometri "bruciati" a vuoto. Infatti, fino a pochi mesi fa, le ambulanze provenienti dagli oltre 36 presidi di soccorso presenti nelle province di Potenza e Matera effettuavano mediamente 300 chilometri al giorno, tutti i giorni, solamente per essere “sanificate” ovvero sterilizzate. In sostanza in Basilicata si assisteva ad un valzer dei mezzi di soccorso che giravano per le strade della regione percorrendo centinaia di chilometri, a “vuoto”, solo per raggiungere la postazione autorizzata al lavaggio di questi mezzi. Un’operazione quella di lavaggio, ordinario e straordinario, obbligatoria, senza la quale i mezzi non possono essere utilizzati. Insomma, un vero e proprio “girotondo”, durato anni, che secondo un’indagine del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Potenza, è costata ai contribuenti italiani solamente di benzina, oltre 100 mila euro l’anno. Ma la benzina è solamente la spesa “più evidente” perché a questo costo occorre aggiungere i chilometraggi ingenti percorsi dai mezzi con una conseguente ed importante usura dell’ambulanza stessa, le spese elevate di missione e, particolare non secondario, indisponibilità del stesso mezzo che in questo modo viene sottratto alle altre emergenze sanitarie per decine di ore. Sempre secondo l’indagine della Finanza, finita anche sulla scrivania della Corte dei Conti, per raggiungere la postazione di Santarcangelo, l'unica autorizzata in tutto il territorio regionale, effettuare la sterilizzazione del mezzo e il rientrare al presidio di soccorso di provenienza, i mezzi impiegavano quasi un intera giornata. Quella di Santarcangelo, fino alla denuncia delle Fiamme gialle, è infatti rimasta l’unica postazione “autorizzata” e riconosciuta dalla Regione Basilicata per diversi anni. Qui venivano convogliate "a forza" non solo le ambulanze della provincia di Potenza ma persino quelle dei presidi sanitari della provincia di Matera che per raggiungere l'autolavaggio erano costrette a percorre oltre 400 chilometri in strade secondarie, spesso dissestate. Ma che cosa è cambiato dopo la denuncia della Finanza? Adesso le postazione riconosciute dall’amministrazione regionale sono salite a tre: Venosa, Santarcangelo e Potenza. Ma non sono ancora abbastanza per ridurre gli sprechi. Infatti, sono ancora molte le ambulanze lucane che quotidianamente devono percorre 200 chilometri per essere sanificate. Intanto, la Finanza ha segnalato alla Corte dei Conti 16 dirigenti delle Asl tra dirigenti generali e amministrativi che si sono succeduti negli anni per non aver rispettato la legge e non aver mai attivato sul territorio le postazioni per sterilizzare le ambulanze. “Lo spreco di denaro pubblico con il conseguente impoverimento delle casse delle Aziende sanitarie non si sarebbe verificato – spiega la Finanza nel dossier inviato alla Corte dei Conti – se i responsabili delle Aziende sanitarie locali avessero attivato numerose postazioni su tutto il territorio, in base a quanto previsto da una apposita legge regionale”.

SCUOLOPOLI. ESAMI TRUCCATI.

Diplomi facili a Potenza: in 222 davanti al gup. Coinvolte quattro scuole, scrive Giovanni Rivelli su “la Gazzetta del Mezzogiorno” È come se in quell’aula fosse comparsa l’intera incolpevole popolazione di S.Paolo Albanese, compresa buona parte di quanti sono emigrati negli ultimi 15 anni. Nell’aula Ferrara del Tribunale di Potenza, ieri, al via l’udienza preliminare per l’ipotesi di «diplomi facili» rilasciati da quattro istituti scolastici privati lucani, il «Pagano» e il «Besta» di Scanzano, il «Pitagora» di Potenza e il «Falcone e Borsellino» di Viggianello.Un «grande procedimento» in senso letterale. Perchè con 222 imputati difesi da 153 avvocati (la sola citazione è lunga 71 pagine) ieri in quell’aula, sebbene chiusa al pubblico, c’era una folla. Al punto che il Gup Amerigo Palma ha praticamente impiegato tutta la mattinata a fare l’appello dei presenti (mai termine fu più pertinente) e a verificare le costituzioni per poi aggiornare l’udienza al 28 settembre, verrebbe da dire dopo le vacanze estive. Era il massimo che il giudice potesse fare. Anche perchè tra quei 153 avvocati ce ne era uno che ha manifestato un legittimo impedimento a prender parte all’udienza e non si è potuto procedere ad altro. E considerato che si tratta di un solo legale su 153 si direbbe quasi un’incidenza fisiologica. Quella folla ieri è il frutto di un’inchiesta avviata nel 2010 dal Pm Annagloria Piccininni a seguito di una segnalazione di un ispettore del Ministero della Pubblica istruzione. Il funzionario aveva notato che qualcosa non andava in quelle scuole e i successivi accertamenti fatti dalla Guardia di Finanza hanno portato a consolidare il sospetto facendolo diventare una imputazione per 222. Ad 85 è addirittura contestato il reato di associazione a delinquere in numero superiore a dieci allo scopo di commettere delitti contro la fede pubblica e la pubblica amministrazione. Si tratta di 80 docenti delle scuole e 5 dirigenti (ce n’era un’altro poi deceduto) con, per questi ultimi, l’accusa di essere i promotori dell’organizzazione. Un’accusa pesante rivolta ad Angelo Scaringi, presidente della Scuola nazionale, gestore degli istituti paritari (Tecnico per il turismo Mario Pagano e Tecnico Commerciale Besta di Scanzano Jonico e Istituto tecnico per geometri e commerciale Pitagora di Potenza), Massimo Branca, amministratore unico della Cedifor Srl e gestore dell’Istituto tecnico per geometri Falcone e Borsellino di Viggianello, Prospero Massari, direttore amministrativo e direttore tecnico degli istituti Tecnico per il turismo Mario Pagano e Tecnico commerciale Besta di Scanzano, Filomena Lucca, dirigente scolastico dell’Istituto tecnico per geometri Pitagora di Potenza, il deceduto dirigente scolastico dell’Istituto tecnico per il turismo Mario Pagano e Istituto tecnico commerciale Besta di Scanzano, Mattia Dideco, dirigente scolastico dell’Istituto tecnico per geometri Falcone e Borsellino di Viggianello. Il meccanismo, stando alle accuse, era semplice ed efficace al punto da attirare studenti anche da fuori regione: si attestava una frequenza che non c’era in modo da consentire l’ammissione agli esami da interni e avere una bella agevolazione al conseguimento del titolo. Gli alunni, insomma, risultavano assidui al di là di ogni limite umano, al punto da essere presenti, in due casi, anche il 29 febbraio di un anno che non era bisestile. Fatti che, stando all’accusa, sarebbero andati avanti dal 2006 al 2011 interrompendosi con l’inchiesta in atto. E che ora approdano all’esame del Gup. Col rischio, dati i numeri, che siano esami che non finiscono mai....

PARLIAMO DI MATERA

Matera, altro che cultura. È la capitale dell'abbandono. Non basta tirare a lucido i sassi. Niente fondi alle biblioteche, librerie che chiudono, teatri al fallimento. E scuole di design che trascurano i tesori locali, scrive Simonetta Sciandivasci il 22 Dicembre 2015 su “L’Inkiesta”. «Matera ha le condizioni per fare nel 2019 una città della cultura che sia indimenticabile, basta questo». Così ha detto Matteo Renzi alla Leopolda, dopo aver spiegato la differenza tra mah e wow (il mah pertiene ai disfattisti misoneisti, cioè gli italiani e il wow agli entusiasti solidali, cioè gli americani). Tra tre anni, la città sarà capitale europea della cultura, titolo e, onere per cui, come per l'Expo milanese, la partita si gioca nell'avvento e nel sequel, più che nell'evento. Qualche condizione: la biblioteca provinciale "Tommaso Stigliani", con 30mila volumi antichi, 100 manoscritti, 60 incunaboli, 130mila volumi moderni e 1200 testate, da 12 mesi non acquista un libro: il trasferimento della competenza della struttura dalla Provincia alla Regione, in ottemperanza alla legge Delrio, ha bloccato la destinazione dei fondi (recentissimamente, sono stati stanziati 25mila euro da spendere entro fine mese: bruscolini intenzionali). Turn over bloccato, non una lira per la formazione del personale - che lavora al freddo, come nei migliori auspici di decrescita felice. Sul futuro grava un grande boh. La Casa di Ortega, polo museale inaugurato più di un anno fa, non ha mai aperto: vie ufficiose dicono che accadrà entro fine anno, ma chissà. Il Cineteatro Duni, il solo della città, ha chiuso a maggio, in piena campagna elettorale: i candidati avanzavano ipotesi di riqualificazione, diversificazione, molti -one. Ma finito il voto, gabbato il teatro. Qualche spettacolo s’è fatto, poi, in condizioni da nono mondo, tanto che ora si chiede al sindaco di dichiarare l'inagibilità della struttura, così che l'eutanasia finisca, il funerale di Stato si tenga e la necessità di un intervento scuota qualche galantuomo illuminato (e ricco, si spera, molto). «L'Open Design School sarà la prima scuola di design in Europa a fondarsi sui principi dell'Open Culture, con particolare enfasi sul ruolo del design come forma di pratica culturale di rilievo in un processo di ricostruzione di comunità», si legge in un bando pubblicato da qualche giorno sul sito di Matera2019, che chiama a raccolta architetti, sociologi, designer, mentre a pochi chilometri dalla città crepano La Martella e Venusio, borghi rurali che urbanisti e architetti da mezzo mondo furono interpellati a creare, affinché riscostruissero una comunità. In Architetture nell'Italia della ricostruzione, da poco uscito per Quodlibet, Carlo Melograni si chiede come mai quei borghi non siano studiati, ma vuoi mettere con l’Open Culture (esiste una cultura chiusa?) e il design, il colone del millennio. Spazzati via dallo storytelling (è la parola adatta, nella sua orrida teleologia) di Matera su Matera, i galantuomini sono stati estromessi pure dalla memoria della città e della regione, sebbene Cesare Malpica, intellettuale capuano della prima metà dell'800, nel suo Basilicata, impressioni (Ed. Osanna, c'è persino su Amazon) raccontasse lo stupore per aver trovato una terra abitata non da barbari, ma da «una borghesia cosciente e responsabile e galantuomini colti, preparati». Una classe senza eredi, sparita o nascosta (che è peggio) e per la quale non esiste rimpianto: lo spazio della commemorazione è votato alla civiltà contadina, cui sono appaltate le radici del futuro, i richiami all'autenticità, i menu dei ristoranti, la solfa istituzionale, i pacchetti turistici. Il “riscatto del sud” non avrebbe lo stesso impatto se non fosse proclamato in nome degli ultimi della terra. «State commettendo un delitto contro la civiltà contadina», disse Pasolini a Mimì Notarangelo, giornalista materano, durante le riprese del Vangelo secondo Matteo. PPP si riferiva allo sgombero dei Sassi, il rione patrimonio Unesco, dove si viveva come bestie, tra le bestie (Togliatti, nel ‘48, li definì «vergogna nazionale»). Notarangelo, invece, era entusiasta all'idea che gli ultimi della terra potessero abbandonare le grotte per emanciparsi nei condomini. La Matera progredita, che ha tirato a lucido i Sassi trasformandoli in un presepe rassicurante che ne archivia la drammaticità per far trionfare la bellezza (tutta inventata: i Sassi non sono mai stati belli, solo disturbanti: lì sta, anzi stava, la loro potenza) oggi fa di Pasolini il simbolo della transizione da vergogna nazionale a capitale europea (proprio lui che in quella vergogna voleva che la città restasse) in una pettegola mistificazione intellettuale, perdonabile a un villaggio Alpitour e non a una capitale della cultura, intenzionata a ribaltare il Sud per capitalizzarne le riserve, la decelerazione, l’alternativa. Pasolini, di Matera, amava la povertà che Matera ha debellato, rinascendo romantica, smagliante e guadagnandosi gli wow del mondo. «Del mio paese amo lo stare abbandonatamente nelle cose»: Alfonso Guida, poeta vivente lucano. A Matera si sta abbandonatamènte tra presidi slow food, grotte trasformate in alberghi chic (talmente esosi che i turisti vanno a dormire in Puglia), B&B in cui si assiepa l’occupazione giovanile. Ah, a (s)proposito, le librerie sono tre, una scolastica, una sbadigliante e un’altra costretta a sloggiare dal centro storico, dove semper est bibendum. Di cultura qualche ombra, ma ogni cosa è illuminata da panorami indimenticabili: al Sud, in fondo, basta questo.

AMMINISTRATOPOLI.

Tutta la stampa ne parla: Matera (Blitz). Arrestati comandante dei vigile e 3 dipendenti per concussione. Il comandante della polizia locale di Matera, Franco Pepe, due vigili urbani e un dipendente comunale sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza con le accuse, a vario titolo, di concorso in concussione e abuso d’ufficio. I fatti si riferiscono a vicende in cui protagonista è Pepe: l’acquisto di un ”appartamento di pregio”, i suoi rapporti con un’associazione sportiva e condotte illecite ai danni di un dipendente comunale. L’arresto – ai domiciliari – è stato ordinato dal gip di Matera, Rosa Bia, su richiesta dei pm Annunziata Cazzetta e Savina Toscani, che hanno coordinato le indagini delle fiamme gialle. Oltre a Pepe, sono stati arrestati i vigili urbani Cesare Rizzi e Vincenzo Scandiffio e il dipendente comunale Nicola Colucci. Per quanto riguarda le accuse, la prima si riferisce all’acquisto dell’appartamento. Pepe lo ottenne con ”numerosi vantaggi di natura economica” ma, alla richiesta del pagamento da parte dell’azienda venditrice, il comandante della polizia locale divenne suo ”acerrimo nemico”, avviando ”una vera e propria campagna di controlli”, diventati anche ”vessatori”. Pepe, poi, avrebbe avviato ”una serie di azioni ritorsive” contro un circolo sportivo da cui era stato in precedenza radiato. Sia sulla prima sia sulla seconda vicenda la Guardia di Finanza ha indagato dopo aver raccolto le denunce dell’imprenditore e del presidente dell’associazione sportiva. Infine, Pepe avrebbe compiuto ”veri e propri atti vessatori” ai danni di un dipendente comunale ”a lui avverso già da tempo, per motivi sindacali poi trasferiti sul piano personale”. Secondo “Il Quotidiano di Calabria” lo hanno svegliato all’alba per notificargli il provvedimento emesso dal Gip, Rosa Bia, su richiesta dei sostituti procuratori del tribunale di Matera, Annunziata Cazzetta e Savina Toscani. Il colonnello Franco Pepe (in foto), comandante della Polizia municipale di Matera (e dirigente alla Manutenzione urbana, Trasporti, Sport e commercio) arrestato ieri dagli uomini del comando provinciale della Guardia di Finanza, è accusato di concussione e abuso d’ufficio continuato e in concorso. A suo carico, ma anche dei due agenti di polizia municipale Cesare Rizzi e Vincenzo Scandiffio e del dipendente del Comune Nicola Colucci, ci sarebbero elementi tali da prevedere la misura della custodia cautelare. Nell’inchiesta è coinvolta, in qualità di indagata per concussione, anche la moglie di Pepe, Cinzia Chietera. Secondo i magistrati, il comandante gestiva il suo ufficio per interessi personali, concentrando l’attenzione su chi si opponeva ai suoi progetti. Un’abitazione da acquistare a condizioni favorevoli, un club che lo aveva radiato e contro il quale avrebbe avuto atteggiamenti vessatori così come contro un dipendente comunale che lo aveva infastidito. Sono questi i tre episodi che gli inquirenti contestano e che hanno portato all’arresto dei quattro, convertito in domiciliari. Le indagini avviate almeno sei mesi fa, si basano anche su intercettazioni telefoniche e ambientali che hanno dimostrato, secondo gli inquirenti, quanto il dirigente comunale approfittasse della sua posizione per ottenere trattamenti di favore. Gli agenti della Guardia di Finanza del comando provinciale di Matera, agli ordini del colonnello Pallaria, hanno sequestrato documenti sia nell’abitazione di Pepe che nel suo ufficio al Comune. Da quelle carte attendono ulteriori conferme all’impianto accusatorio che le denunce presentate nei confronti del colonnello hanno man mano costruito fino a concludersi con l’arresto di ieri. “Pur avendo ottenuto numerosi vantaggi di natura economica - si legge nel comunicato diffuso dal comando della Guardia di Finanza, relativo all’imprenditore edile che ha avviato le indagini - nel momento in cui l’azienda venditrice ha richiesto il riconoscimento di quanto contrattualmente dovutole, il Pepe si sarebbe trasformato in un acerrimo persecutore, utilizzando a fini personalistici l’Ufficio da egli diretto al fine di avviare ai danni della ditta venditrice una vera e propria campagna di controlli che, in breve tempo, avrebbe assunto caratteri vessatori”. Al componente di un’associazione sportiva dalla quale Pepe era stato radiato, che “Lamentava situazioni penalmente rilevanti commesse dal Pepe nei confronti dell’associazione”, il colonnello “Avviava una serie di azioni ritorsive utilizzando all’uopo, la dipendente Polizia locale”. Infine sulla vicenda che riguarda i rapporti con un dipendente comunale, si legge ancora “Pepe, dopo aver ricevuto una delle tante deleghe dirigenziali che attualmente riveste, essendosi venuto a trovare in una posizione di diretta sovraordinazione rispetto al dipendente comunale, ha compiuto abusando anche questa volta dei poteri a lui conferiti ed anche per il tramite della Polizia locale, una serie di veri e propri atti vessatori, tendenti ad annullare moralmente, bloccare materialmente o addirittura minacciare fisicamente il malcapitato avversario”. Secondo la ricostruzione complessiva dei fatti il gruppo, composto da Pepe, Rizzi, Scandiffio e Colucci operava su indicazione del colonnello indirizzando le proprie attenzioni contro chi si frapponeva ai progetti che, di volta in volta, l’ufficiale intendeva mettere in atto. L’arresto del comandante, dei due agenti e del dipendente comunale che lavora alla discarica ha scosso la mattinata ed è divenuta in poche ore argomento di discussione in molti ambienti. . La notizia si è diffusa in città già dalle prime ore del mattino, ripercuotendosi negli ambienti comunali dove il colonnello Pepe svolge quotidianamente la sua attività per le numerose deleghe che ricopre. La posizione dell’amministrazione comunale è stata affidata alle parole del sindaco Salvatore Adduce ma ieri, al sesto piano, del palazzo comunale tutto faceva avvertire la particolare gravità della vicenda che avrà ripercussioni sull’attività istituzionale. Nelle prossime ore Pepe, Scandiffio, Rizzi e Colucci incontreranno il magistrato per la convalida del provvedimento. Antonella Ciervo.

Anche da “La Gazzetta del Mezzogiorno del 18 gennaio 2012 si viene a sapere che il comandante della polizia locale di Matera, Franco Pepe, due vigili urbani e un dipendente comunale sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza con le accuse, a vario titolo, di concorso in concussione e abuso d’ufficio. I fatti si riferiscono a vicende in cui protagonista è Pepe: l'acquisto di un «appartamento di pregio», i suoi rapporti con un’associazione sportiva e condotte illecite ai danni di un dipendente comunale. L'arresto – ai domiciliari – è stato ordinato dal gip di Matera, Rosa Bia, su richiesta dei pm Annunziata Cazzetta e Savina Toscani, che hanno coordinato le indagini delle fiamme gialle. Oltre a Pepe, sono stati arrestati i vigili urbani Cesare Rizzi e Vincenzo Scandiffio e il dipendente comunale Nicola Colucci.

LA RICOSTRUZIONE

Controlli a tappeto, azioni ritorsive, «atti vessatori» e anche minacce fisiche: li hanno subiti un imprenditore, un’associazione sportiva e un dipendente comunale, a Matera, dal comandante della polizia locale, Franco Pepe, che è da stamani agli arresti domiciliari per concussione aggravata e continuata e abuso d’ufficio, reati commessi, a vario titolo, in concorso con due vigili urbani e un altro dipendente comunale, anche loro ai domiciliari. Ma Cesare Rizzi e Vincenzo Scandiffio (i due vigili arrestati) e Nicola Colucci (il dipendente comunale ai domiciliari per decisione del gip, Rosa Bia, che ha accolto la richiesta dei pm, Annunziata Cazzetta e Savina Toscani) hanno nella vicenda un ruolo da comprimari rispetto a Pepe. Su di lui si sono concentrati gli investigatori della Guardia di Finanza, dopo la denuncia di un imprenditore materano: quest’ultimo tempo fa aveva venduto al comandante della polizia locale un «appartamento di pregio» (per 600mila euro) nel centro storico della città, a pochi metri dagli antichi rioni Sassi, patrimonio dell’umanità dal 1993. Ad un certo punto, però, Pepe aveva smesso di onorare le rate del mutuo ipotecario. Alla richiesta dell’imprenditore di pagare quanto stabilito, però, il capo dei vigili urbani ha «scatenato» i suoi uomini e l'imprenditore ha visto crescere la pila dei verbali per infrazioni, anche minime, commesse sui suoi cantieri: una «vera e propria campagna di controlli», divenuti in breve tempo «vessatori». Nel luglio scorso ha denunciato tutto alle fiamme gialle. Durante le indagini è emersa, basata anche questa volta su una denuncia, un’altra vicenda. Pepe, radiato tempo fa dal circolo tennis di Matera, aveva avviato nei confronti del sodalizio sportivo «una serie di azioni ritorsive»: anche stavolta, il suo «braccio» erano i vigili. La terza vicenda riguarda un dipendente comunale: il contrasto fra quest’ultimo e Pepe si era spostato dai «motivi sindacali» al piano personale. Ricevute alcune deleghe che lo avevano posto in posizione sovraordinata rispetto al dipendente «avverso», il comandante della polizia locale avrebbe abusato del suo ufficio per compiere «una serie di veri e propri atti vessatori» ai danni del «malcapitato avversario», con conseguenze sul piano morale, materiale e anche fisico (in un’intercettazione al dipendente viene consigliato di «stare calmo» se vuole evitare conseguenze peggiori). Appresa la notizia degli arresti – che ha colpito oggi tutta la città – il sindaco di Matera, Salvatore Adduce, ha espresso «piena fiducia» nella magistratura, alla quale ha chiesto di «fare rapidamente chiarezza».

Il sindaco di Matera, Salvatore Adduce, in una dichiarazione, ha espresso «piena fiducia nell’operato della magistratura», in riferimento all’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari eseguita stamani a carico del comandante della polizia locale, di due vigili e di un altro dipendente comunale. Adduce ha espresso «l'auspicio che si possa fare rapidamente chiarezza su quanto contestato anche al fine di consentire all’amministrazione comunale di adottare le opportune decisioni, di organizzare al meglio la sua attività e di riportare serenità al Comando dei vigili urbani e nel palazzo municipale».

Ma Matera non è nuova agli scandali. Nell'ambito dell'inchiesta Pisu il gip del tribunale di Matera Rosa Bia ha condannato attraverso un processo con rito abbreviato l'ex sindaco della città di Matera e la giunta in carica negli anni 2003 e 2004.

L'inchiesta Pisu del Tribunale di Matera entra nel vivo: 4 mesi per l'ex sindaco Porcari e le sue giunte in carica nel biennio 2003-2004. Il gup di Matera, Rosa Bia, ha condannato, al termine di un processo con rito abbreviato, a quattro mesi di reclusione (pena sospesa) e all’interdizione dai pubblici uffici per la stessa durata della pena, l’ex sindaco di Matera Michele Porcari  e le giunte in carica nel 2003 e 2004, composte da Nicola Trombetta, Maridemo Giammetta, Gaetano Santarsia, Giovanni Magariello Vincenzo Ianaro, Nicola Montemurro, Marco Saponara, Achille Spada, Paolo Colonna, Michele Morelli ed Espedito Moliterni, tutti assessori scelti dalla coalizione di centrosinistra. Nei loro confronti l’accusa, sostenuta dal pm Salvatore Colella, era quella di abuso in atti di ufficio nella costituzione dell’Ufficio progetti integrati di sviluppo urbano (PISU). "La richiesta non cambia il mio stato d'animo - ha dichiarato dopo aver appreso la richiesta del gip l'ex sindaco della città Michele Porcari. Sono sereno e tranquillo, consapevole di aver agito nell’interesse pubblico, come dimostrano i progetti per oltre 36 milioni che stanno riqualificando la città. Esprimerò il mio stato d'animo dopo aver letto le motivazioni della sentenza". (Motivazioni che non arriveranno a breve visto che il giudice si è riservato di depositarle entro novanta giorni - ndr). In ogni caso - ha concluso Porcari - pur rispettando la sentenza e in attesa di conoscere motivazioni, posso già annunciare che farò appello a questa decisione". Il gup ha assolto tutti gli imputati, con la motivazione perché il fatto non costituisce reato, da un’altra accusa di abuso in atti di ufficio nell’adozione di procedure per delibere riguardanti lo stesso ufficio Pisu. Il pm aveva chiesto condanne a un anno di reclusione per Porcari, e a otto mesi per gli ex assessori. Il giudice ha rinviato a giudizio – fissando l’inizio del processo per il 23 aprile 2008 – altre due dipendenti del Comune. Imputati risultano l’ex responsabile degli uffici tecnici comunali, Angelo Pezzi, accusato di aver firmato attestazioni ritenute non veritiere circa la disponibilità di personale tecnico comunale sufficiente per le progettazioni e l'ex dirigente dell’Ufficio Pisu, l’architetto Franco Gravina, accusato oltre che di abuso in atti di ufficio, di truffa aggravata e falso ideologico.  Si ricorda in proposito che l'ex dirigente dell'ufficio Pisu Franco Gravina fu sottoposto il 4 marzo 2005 agli arresti domiciliari nell'ambito dell'inchiesta avviata dalla Guardia di Finanza: su di lui pendeva l'accusa di peculato, in quanto avrebbe "intascato", in qualità di responsabile dell’ufficio Pisu, una "parcella" pari a 95 mila euro. Il Pm Salvatore Colella aveva chiesto una condanna di anno di reclusione per l'ex sindaco Michele Porcari e otto mesi per gli ex assessori. Si ricorda inoltre che l'ex dirigente dell'ufficio Pisu Franco Gravina fu sottoposto il 4 marzo 2005 agli arresti domiciliari nell'ambito dell'inchiesta avviata dalla Guardia di Finanza.

MAGISTROPOLI.

In Basilicata la presenza della criminalità organizzata «si conferma su livelli certamente più contenuti rispetto ai fenomeni delle regioni confinanti», ma in particolare nel Potentino il nuovo scenario della malavita «impone una rinnovata attenzione». Sono questi alcuni dei passaggi salienti sul Distretto di Potenza contenuti nella relazione annuale della Dna (Direzione nazionale antimafia), dalla quale arriva anche un forte richiamo alla Procura di Matera, «che sembra prigioniera di una visione molto riduttiva del contrasto antimafia». Le associazioni per delinquere operanti in Basilicata «sono organizzazioni criminali autoctone» ma «dalle chiare connotazioni mafiose», che hanno come «attività di interesse le estorsioni, l’usura, i traffici di droga, il rinnovato tentativo di condizionamento dell’Amministrazione pubblica e gli appalti». 

Ed ancora. Il giudice M.G.C., ex GIP di Trani, è stata trasferita a Matera e per questo motivo è balzata agli onori della cronaca, anche se a suo dire, gli articoli a lei dedicati sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro. Stesso trattamento, d'altronde, riservato ai poveri cristi, che non si possono nemmeno lamentare. Gogna e mancato ristoro in caso di assoluta estraneità ai fatti. Secondo La Gazzetta del Mezzogiorno a Trani se ne parla da settimane, se non da mesi. Sin da quando in piena estate durante un incontro in Sardegna, «lei» ha lanciato una borsa contro di «lui», mandandolo in ospedale. Un rapporto difficile quello tra due magistrati, un uomo e una donna, che litigano da mesi, lanciandosi reciproche, pesanti, accuse. Dalle parole i due sono passati prima ai fatti, poi alle carte bollate. Una vicenda, quella tra un magistrato in servizio a Trani e un altro che in passato ha prestato servizio nell’ufficio tranese, finita così davanti alla Procura di Lecce, competente ad indagare su reati che sarebbero stati commessi da magistrati in servizio nel distretto di Corte d’Appello di Bari, e anche davanti al Csm. Dalle denunce per stalking e lesioni che dopo l’estate si sono scambiati è nato un fascicolo in cui tutti e due, per reati diversi, risultano indagati e persone offese. Proprio ieri è stato disposto un accertamento tecnico preventivo, un atto irripetibile sui cinque telefoni cellulari sequestrati a lei a metà settembre e sul computer portatile sequestrato a lui. Lì ci sarebbero le fonti di prova dei rispettivi sms. Entrambi si accusano reciprocamente di avere subìto dall’altro telefonate ripetute, sms continui, in qualche caso persino inviati, a mo’ di molestia trasversale, ad alcuni parenti. La Procura di Lecce ha conferito l’incarico ad un consulente. Al vaglio della magistratura leccese, le reciproche accuse che i magistrati si stanno lanciando da tempo. E c’è chi parla di alcuni video, qualcuno persino a luci rosse, che sarebbero finiti agli atti dell’inchiesta. Ma si tratta in questo caso solo di una indiscrezione. Una delle tante che circolano sulla vicenda a Trani, dove, da settimane, non solo negli ambienti giudiziari, non si parla d’altro. La vicenda del tutto personale, ma da tempo divenuta di dominio pubblico, è finita anche davanti al Csm. Il comportamento della dottoressa era stato considerato talmente grave dal Procuratore generale presso la corte di Cassazione al punto da chiederne la sospensione del magistrato tranese dalle funzioni e dallo stipendio. La sezione disciplinare dell’organo di autogoverno dei magistrati ha ritenuto il provvedimento cautelare troppo severo. Per questo ha disposto nei suoi confronti la misura meno grave del trasferimento ad un altro ufficio, a Matera, fuori dal distretto di Corte d’Appello di Bari. Per ora lontano da Trani, poi si vedrà nel merito.

Da “Il Giornale”. Ristorante di Sassari. Luglio 2011. Scena, atto primo: un alto magistrato della città e un ispettore del ministero della Giustizia, già in servizio a Trani, degustano un piatto di pesce quando nel locale irrompe una donna che non sembra aver voglia di pranzare. È abbastanza su di giri, decisa a farsi giustizia di un qualche torto subito da uno dei due commensali. Il tempo di individuare il tavolo giusto e la borsa della signora finisce violentemente in faccia allo 007 di via Arenula, che crolla a terra, semisvenuto, una maschera di sangue. Seguono insulti e accuse. La toga padrona di casa prova a separare l'aggredito dall'aggressore. Intervengono i camerieri, mentre un cliente seduto vicino chiama l'ambulanza perchè l'ispettore è conciato male. La rissa finisce lì: la signora, soddisfatta, se ne va. L'ispettore finisce immediatamente sotto i ferri dell'ospedale cittadino: 17 punti di sutura e interventi di chirurgia plastica a ricomporre il viso. Così, almeno, la racconta la vittima dell'aggressione in un esposto in procura e al Csm. Lecce, atto secondo. Scena: di lì a poco l'aggredito prende carta e penna e denuncia l'aggressore, una signora magistrato di Trani, con la quale già da tempo è in attrito per varie questioni legate a complicati rapporti personali. L'esposto è dettagliato e agghiacciante. Le accuse sono incredibili quanto allucinanti. La procura leccese, competente sui magistrati del distretto tranese, apre immediatamente un fascicolo, altrettanto fa il Consiglio superiore della magistratura. Lei reagisce denunciando lui per stalking dando così vita a un altro fascicolo e non si capisce più se sia solo lei indagata, se lo sia anche lui, e se entrambi ricoprano pure la figura di parti offese. Un casino. Un groviglio di accuse via sms, mail, telefonate, piazzate sotto casa, urla, schiaffi, liti furibonde, danneggiamenti di auto, addirittura un video, per non parlare delle minacce di morte a familiari e parenti. Per capire chi abbia cominciato prima e/o continuato poi, i pm di Lecce dispongono una perizia tecnica affidata a un consulente esperto di telefonia e computer chiamato a riesumare la memoria dei 5 telefonini sequestrati a lei e del pc sequestrato a lui. La procura, intanto, interroga lei e interroga lui. A lui vengono fatti vedere documenti e chieste delucidazioni su alcuni fatti gravi: l'esistenza di filmini a luci rosse, alcune decisioni favorevoli adottate dal magistrato donna nei confronti di persone da lei conosciute, l'acquisto di autovetture e di case, i rapporti con uomini dell'Arma. Esce fuori di tutto, e tanto di più. Uno spaccato indescrivibile della realtà tranese che ruota intorno al tribunale. Anche storie pruriginose, oltre che di ripicche e di vendette con altri appartenenti all'ordine giudiziario, con avvocati, ufficiali dei carabinieri. Il Csm, caso rarissimo nella sua storia, si muove alla velocità della luce. La donna ha chiesto, invano, di essere spostata a Lucera. Il procuratore generale presso la Cassazione ha invece sollecitato il provvedimento della sospensione dalla funzione e dallo stipendio tanto sarebbe grave, a suo avviso, il comportamento tenuto dal magistrato di Trani. Addirittura si vocifera di un intervento del Quirinale. Alla fine la sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli reputa la richiesta del pg esagerata, ma prende comunque una decisione dura, senza se e senza ma: trasferimento d'urgenza, immediato, per la signora magistrato da Trani a Matera. Ma non è tutto. Sullo sfondo, stando alle carte depositate, vi sarebbe anche una traccia che porterebbe a retroscena inquietanti sulla genesi dell'inchiesta della procura di Trani nei confronti di Berlusconi, quella nota come Agcom-Minzolini, sulle pressioni per bloccare la trasmissione televisiva di Michele Santoro, Annozero. Protagonista indiretta, anche qui, la signora in toga e un altro magistrato col quale la donna avrebbe avuto rapporti diventati col tempo più che conflittuali. All'ufficialità della notizia dell'inchiesta e del provvedimento del Csm corrisponde l'ufficiosità del vortice di pettegolezzi che da mesi tiene banco negli uffici giudiziari di Trani e Lecce, per non dire dei commenti increduli al Csm a Roma. Gossip allo stato puro alimentato dalle voci sull'esistenza di esposti anonimi con gravi notizie di reato snocciolate con dovizia di particolari, video a luci rosse girati col telefonino, lettere, appunti, memorie, diari. Siamo all'inizio della «guerra dei Roses» fra toghe, all'inizio della verità dell'inchiesta che voleva colpire Berlusconi attraverso Minzolini e l'Agcom.

Allucinante da “Il Giornale”: Grave imbarazzo al Csm, dove è arrivata sul tavolo del Consiglio una querelle tra magistrati che fa tremare le Procure. L'ex gip di Trani, il cui nome è riportato sull'articolo linkato, è stata trasferita dal CSM disposto dal C.S.M., in data 20.10.2011, dalla cittadina pugliese a Pisticci, in provincia di Matera, per «carenza di equilibrio». L'accusa? Aver perseguitato per anni un suo amante, ex gip di Trani a sua volta, M. N.. Minacce, un'aggressione, inseguimenti e sms violenti che avrebbero potuto costarle il posto e la carriera. La vicenda privata, però, si intreccia parzialmente con l'inchiesta sulle presunte pressioni di Berlusconi sull'Agcom per fermare Santoro. Secondo N., infatti, la gip disse «Berlusconi è un dittatore, lo faranno cadere» e avrebbe mentito ai carabinieri sulla fuga di notizie legata all'intercettazione del Cavaliere. La donna però nega tutto: «Quel messaggio è falso, mai detto nulla in proposito». E anche il pm Ruggiero respinge le accuse di fuga di notizie.

Botte e minacce tra giudici dietro la guerra contro il Cav. Al Csm la lite tra due toghe porta alla luce particolari inquietanti sul caso Agcom-Annozero Un magistrato di Trani: «La gip mi disse che Berlusconi è un dittatore, lo faranno cadere» di Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Quando le toghe trescano e inforcano i guantoni pensando a Berlusconi come a un dittatore. Ha dell’incredibile la relazione tra due magistrati sfociata in pestaggi, volti sfregiati, minacce, appostamenti sotto casa, rocamboleschi pedinamenti, irripetibili ingiurie telefoniche, denunce e controdenunce, coinvolgimenti di ufficiali dei carabinieri, persino filmini hard. La storia che a Trani è finita a cazzotti e carte bollate ha incidentalmente portato alla luce inquietanti collegamenti con la nota inchiesta Agcom, quella delle intercettazioni selvagge dell’ex premier Silvio Berlusconi. Emergerebbero, infatti, retroscena tali da riscrivere la genesi dell’inchiesta del pm di Trani, Michele Ruggiero, finito lui stesso sott’inchiesta al Csm per aver nascosto parte dell’indagine su Berlusconi al procuratore capo di Trani, Carlo Maria Capristo. Per addentrarci in questo ginepraio occorre rifarsi all’ordinanza 163/2011 con la quale la sezione disciplinare del Csm dispone il trasferimento da Trani al tribunale di Matera del gip M. G. C. Nella decisione dell’ottobre scorso si fa presente che il procuratore generale della suprema corte di Cassazione, letti gli atti, ha chiesto la sospensione cautelare delle funzioni e dallo stipendio e il collocamento fuori ruolo organico della dottoressa C. In subordine, il trasferimento d’ufficio, opzione poi scelta dal Csm che la manderà in provincia di Matera dopo aver fatto presente che la gip è indagata a Lecce e che «vi sono serie ragioni per ipotizzare, con ragionevole fondatezza, la sussistenza di fatti posti a fondamento dell’azione disciplinare» posto che «le condotte contestate appaiono (...) sintomatiche di una carenza di equilibrio». Come dire: un gip con poco equilibrio non può stare a Trani, ma può benissimo esercitare a Matera. Nelle motivazioni si parla di una relazione «caratterizzata da atteggiamenti violenti e minacciosi» della gip che «hanno creato disdoro per l’immagine della magistratura» in quel di Trani, dove la storia era divenuta pubblica attraverso un esposto anonimo. «La verosimiglianza e la credibilità delle prospettazioni accusatorie – continua il dispositivo - sono provate anche dalla documentazione in atti e in particolare dai certificati medici da cui si evincono le lesioni (riportate da N.) di cui alle incolpazioni» e ancora «dal tenore e dal contenuto degli sms, dal fatto che la dottoressa C. non neghi, nella sua memoria difensiva, il rapporto conflittuale con N.», dando un’altra versione dei fatti. Le due parti in causa, contattate dal Giornale, hanno rifiutato qualsiasi commento. Anche i testimoni hanno preferito non esprimersi. Parlano le carte, ovvero l’atto d’accusa del giudice N. e la controdenuncia della C. finita alla procura generale. N. la mette così. Spiega che nell’ambito di rapporti di natura personale si sono sviluppati «atti aggressivi, violenti e persecutori» da parte della dottoressa C. Le cose, aggiunge, si mettono presto male. Gli episodi di stalking selvaggio riferiti dall’autore dell’esposto (che fa sempre i nomi dei testimoni dei fatti denunciati) non si contano. E quando N. minaccia di rivolgersi al Csm, la gip, a suo dire, fa presente che gliela farà pagare perché lei ha amici intimi a palazzo dei Marescialli. N. dice d’aver provato a ricondurla a più miti consigli. Ma il 15 marzo scorso viene raggiunto a Sassari e aggredito a pranzo. «Verso le 14.45 la C. piombò letteralmente nel ristorante senza alcun preavviso e dopo avermi strattonato e preso a calci e pugni davanti agli astanti cominciava a insultarmi ad alta voce col solito frasario: figlio di puttana, merda, stronzo. Erano presenti il presidente del tribunale di sorveglianza dottoressa Vertaldi, i presidenti delle sezioni di corte d’appello, l’avvocato generale Claudio Locurto...» e via discorrendo. Proprio l’avvocato, continua N., prova inutilmente a calmare la donna. Dopodiché, fuori dal locale, N. è colpito al volto con una borsa. «Cadevo privo di sensi, in una pozza di sangue». Come da referti medici allegati, N. si risveglierà al pronto soccorso: viso sfregiato, 17 punti di sutura per 70 giorni di prognosi. Atti violenti si sarebbero susseguiti anche nei mesi a seguire in più luoghi. Quel che più avrebbe scioccato i componenti del Csm sarebbero però i toni degli sms inviati dalla C. Frasi dettate dal risentimento, che lasciano però interdetti: «Non smetterò di respirare finché non ti avrò visto nel fango», «a suo tempo devi crepare», «So cose su di te con cui posso schiacciarti come un verme, stai attento tu verme e pensa a non fare ingravidare tua figlia da qualche delinquente come te verme schifoso», «pagherai caro, e non per mano mia», «Aspetteremo di vedere il fiorellino che hai a casa (mia figlia di 11 anni, scrive N.) da quanti sarà colto, «tanto ci penseranno altri a fartela pagare, e comunque i tuoi figli sono merde come te». La gip, da parte sua, offre un’altra versione ai carabinieri che hanno appena finito di perquisirla a casa e in ufficio. Riferisce che alla luce dei suoi ripetuti tentativi di lasciare l’uomo, N. «implementava la sua attività persecutoria già manifestata in precedenza con minacce di ogni genere (“stai bene attenta, guardati le spalle, ti distruggerò, se mi attraversi la strada accelero”) e iniziava una pressante attività di persecuzione ai miei danni già manifestata in passata con ingiurie, minacce e aggressioni fisiche». La C. mette nella denuncia contenuti di alcuni sms e chiosa: «Sinora ho vissuto in un clima di terrore che è aumentato dopo l’arrivo dell’esposto anonimo» ai miei genitori. Il Csm ha creduto a N., per ora. Le contestazioni della gip sono ora al vaglio della Procura generale. Lo stesso Csm si dovrebbe però concentrare anche sul contenuto di alcune e-mail, tra gli allegati agli atti della controversia, che il terrorizzato N. archiviava a futura memoria. Perché in una di queste si dà conto di uno strano presunto episodio che coinvolge la gip e il pm dell’inchiesta Agcom-Annozero, finito lui stesso sotto procedimento disciplinare al Csm per aver nascosto al capo parte dell’inchiesta su Berlusconi. Accuse gravi, queste di N., che non si possono lasciare appese al dubbio. Perché se è vero quel che dice N., il pm Ruggiero avrebbe riferito alla gip C. notizie che non solo non aveva messo a conoscenza del suo procuratore ma ne avrebbe parlato con un potenziale giudice terzo dell’inchiesta. In una e-mail delle ore 9.54 del 22 giugno 2010 N. scrive: «La stessa (la C.) mi ha riferito di aver deposto il falso dinanzi al maggiore dei carabinieri nascondendo la circostanza che il dottor Ruggiero, con il quale ha un rapporto confidenziale, nel dicembre del 2009 le disse che stava intercettando Berlusconi e che presto il clamore della vicenda avrebbe fatto cadere il governo. La circostanza mi fu immediatamente riferita dalla C. poco prima di Natale del 2009. Ero convinto che avrebbe deposto la verità. Le ho chiesto le ragioni della falsa dichiarazione e lei mi ha risposto che non poteva tradire Michele Ruggiero e che comunque Berlusconi meritava di cadere perché è un dittatore». Il pm Ruggiero, rintracciato dal Giornale, casca dalla nuvole: «Della vicenda fra loro (N. e C.) so quello che sanno un po’ tutti. Ma una cosa è certa: quello che sarebbe scritto nella mail è assolutamente e totalmente falso. Non solo io non ho riferito niente a nessuno ma queste cose erano coperte da segreto e mai e poi mai le avrei dette, né in ragione della mia professione e nemmeno dal fatto che vi era un rapporto di colleganza o di amicizia». E siamo solo al primo round.

La gip e quei rapporti "particolari" al Csm. La denuncia contro la giudice coinvolta nel caso Agcom-Berlusconi: "Mi diceva che era protetta da certi colleghi..." di Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. La relazione intima tra due magistrati di Trani finita letteralmente a cazzotti e carte bollate davanti al Csm offre un ulteriore retroscena inedito dopo quello che ha disvelato particolari inquietanti sul caso delle intercettazioni a Berlusconi nel procedimento Agcom-Annozero (di cui abbiamo parlato ieri). Una trama che porta dritto a quel Palazzo dei Marescialli che alla fine di una rapida istruttoria ha trasferito la gip M. G. C. in provincia di Matera senza tenere conto delle sollecitazioni della procura generale presso la Suprema Corte che alla semplice lettura degli atti depositati dal denunciante ferito (il giudice M. N.) aveva sollecitato iniziative durissime: la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e il collocamento fuori ruolo organico. Per la più alta procura d’Italia, insomma, la gip C. doveva essere sanzionata più energicamente. Il Csm ha optato, invece, per il nuovo incarico lontano da Trani, riconoscendo comunque nei comportamenti violenti della gip all’ex amante e ai suoi familiari una «carenza di equilibrio» e «un disdoro per l’immagine della magistratura nella sede dove l’incolpata esercita le funzioni di gip, come emerge anche dalla lettera anonima inviata al presidente del tribunale di Trani» nella quale si raccontano fatti a dir poco sconvolgenti, se confermati da un’inchiesta della procura di Lecce. Nelle carte che irrobustiscono i fascicoli d’indagine si dà conto di una storia parallela a quella che ha portato alla luce la mail con la quale la gip C., a detta di, sarebbe stata a conoscenza delle segrete indagini della procura di Trani su Berlusconi (che la stessa avrebbe N. definito un dittatore). Una vicenda poco o niente approfondita dal Csm, riferita dal giudice M. N. e che, omissata dei nomi dei consiglieri del Csm citati, riportiamo così com’è posto che nessuna delle parti in causa ha accettato di parlarne con Il Giornale. In soldoni. Nel riferire dettagliatamente tutta una serie di violenze e di minacce subite dalla donna-gip, il giudice denunciante fa presente di aver appreso dalla C. dei rapporti particolari di un certo tipo che la stessa avrebbe all’interno del Consiglio superiore della magistratura. E che dunque qualsiasi iniziativa finalizzata a metterla in difficoltà presso la sezione disciplinare non avrebbe portato al risultato sperato da N.. «La dottoressa C. disse che se solo avessi provato a presentare un esposto al Csm contro di lei per tutto quello che mi aveva combinato, tutto si sarebbe ritorto contro il sottoscritto per via delle sue particolari amicizie. La C. - continua N. nella memoria - si sente così vicina a certi componenti del Csm, che a suo dire le coprirebbero le spalle, che parla dell’organo di autogoverno della magistratura come se ne facesse parte integrante». Per spiegarsi meglio N. riporta alcuni sms della C., tra cui uno del 21 agosto 2011: «Sei un patetico coglione che non conosce il funzionamento delle istituzioni. Abbiamo altro a cui pensare al Csm, con le tue denunce ci faremo due risate». E ancora, sempre a leggere dalla memoria: «Una volta la C. mi minacciò di rovinarmi la carriera se solo mi fossi rivolto al Csm mostrandomi un messaggio, ma sarebbe meglio dire sbattendomi sotto gli occhi un sms, che lei asseriva esserle stato inviato dal consigliere (...)». Pur specificando nero su bianco che a suo avviso l’ex amante, con riferimento ai presunti rapporti «particolari», «millantava credito presso consiglieri del Csm», N. non tralascia nulla. Riferisce tutto. Fa nomi e cognomi di illustri componenti di Palazzo dei Marescialli in strettissimo contatto con la donna perché fu la stessa a fargliene menzione. Osserva come un simile atteggiamento era assolutamente mirato non tanto a ingelosirlo quanto a «indurmi uno stato d’ansia e di paura costanti». E che tale modo di fare oltre a essere «uno strumento di pressione e di minaccia utilizzata contro il sottoscritto, sottolinea la scorrettezza e la mancanza di eticità della dottoressa C.». Entrare nei dettagli di altre delicatissime situazioni che hanno portato, ad esempio, all’allontanamento di un ufficiale dei carabinieri, ci pare obiettivamente fuori luogo. Così come non meritano particolari attenzioni i riferimenti ai pettegolezzi, contenuti nella memoria di N. e in un esposto anonimo girato al Csm, riferiti all’esistenza di presunti, improbabili, scottanti video hard. Ha collaborato Simone di Meo. 

Da parte sua La Repubblica riporta che due magistrati che si denunciano a vicenda per ragioni strettamente personali e che finiscono in un fascicolo alla procura di Lecce. Una di loro che viene trasferita a Matera dal Consiglio superiore magistratura. In mezzo una storia di carte bollate e accuse che diventa un caso nel tribunale di Trani dove i due giudici lavorano o hanno lavorato. Proprio per questo motivo il Csm, dopo una richiesta esplicita dello stesso giudice, ha deciso di trasferire il magistrato in Basilicata per evitare ogni ulteriore motivo di dissidio. Agli atti del Consiglio, così come a quelli di Lecce che indaga per competenza, è finita infatti tutta una serie di esposti anonimi contro il magistrato, esposti che per il momento non hanno trovato riscontri. Alcune denunce sono state però presentate direttamente da N., ex gip a Trani e poi all'ispettorato del ministero. Denunce che devono essere ancora esaminate: è possibile quindi che la storia non sia ancora finita.

Fin qui la sintesi della vicenda, che da sè sarebbe già allarmante e poco etica. Ma c'è un seguito. Il resoconto è il coordinamento sintetico  di articoli pubblicati da vari giornali (di destra e di sinistra, locali e nazionali) con il link di riferimento. Nell'occasione si è omesso il nome della protagonista, che si trova sugli articoli originali, e si sono saltate le questioni più scabrose. Nonostante ciò, con spirito di rivalsa e di censura, la signora, anziché far oscurare le pagine dei quotidiani che riportano gli articoli ha pensato di inviare alla nostra redazione questa diffida:

«Spett.le  Redazione "ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE" ONLUS C. F. 90151430734 SEDE LEGALE: AVETRANA (TA), VIA PIAVE 127 in persona del responsabile del SITO WEB dott. GIANGRANDE ANTONIO

Ad ogni effetto, la sottoscritta, dott.ssa M.G.C., Magistrato Ordinario, nel proprio interesse e con riferimento agli articoli di cui all’oggetto, comparsi sui siti web in indirizzo; considerato che gli articoli riportati nei suindicati siti web sono inveritieri e, per toni e contenuti, gravemente lesivi del proprio onore e decoro; impregiudicata ogni azione a tutela della propria onorabilità nella sede penale e civile

DIFFIDA

Il responsabile del sito web in indirizzo affinché provveda all’immediata rimozione dal web degli articoli di cui all’oggetto. Rappresenta sin d’ora che in difetto, si vedrà costretta a convenire in giudizio il responsabile per inibire con urgenza la detta pubblicazione, con ogni conseguenza e riserva, anche a fini di rettifica.

Addì, 03 aprile 2012      Dott.ssa M.G.C».

Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica. Non è certo il tono usato, però, che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conoscono i miei libri, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta e i nostri canali you tube. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato alla signora per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è la signora che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta a livello istituzionale letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. Gli articoli citati dalla signora sono inseriti in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per la signora siano inveritieri e diffamatori, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono frutto di ricerca e di didattica su materiale altrui su cui va indirizzata la volontà repressiva.

Comunque, anche se non dovuto, si è omesso ogni riferimento al nome della signora in ordine a fatti e circostanze degli articoli pubblicati. Tanto io dovevo ad un magistrato che non conosco e che sarò lieto di aiutare, quando si riterrà essere vittima di un complotto mediatico giudiziario, in integrazione esplicativa alla sua richiesta di aggiornamento. 

Ed Ancora. C'è anche Rosa Bia, giudice del Tribunale di Matera, tra i magistrati indagati nell’ambito delle inchieste condotte dalla Procura della Repubblica di Catanzaro sui presunti rapporti illeciti tra ambienti giudiziari ed esponenti politici lucani. Sono cinque, dunque, i magistrati coinvolti nelle indagini. Il nome di Rosa Bia, infatti, si aggiunge a quelli dei procuratori della Repubblica di Potenza e Matera, Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco; del presidente del Tribunale di Matera, Iside Granese, e del sostituto procuratore della Repubblica di Potenza, Felicia Genovese. Nei confronti del giudice Bia s'ipotizzerebbe il reato di abuso d’ufficio.

L'IPOTESI: CASO INSABBIATO

Giuseppe Chieco, avrebbe insabbiato l’inchiesta avviata dal suo ufficio sui presunti illeciti nella realizzazione del villaggio turistico Marinagri di Policoro, omettendo di effettuare la necessaria attività investigativa. E’ l'accusa che la Procura della Repubblica di Catanzaro contesta al procuratore della Repubblica di Matera. Il mancato completamento dell’inchiesta aveva consentito ai titolari dell’investimento di ottenere un finanziamento da parte del Cipe di quasi 26 milioni di euro, che in un primo tempo era stato bloccato. Nei confronti di Chieco vengono ipotizzati i reati di concorso in abuso d’ufficio e truffa ai danni dello Stato. L'inchiesta trae origine dalla presunta irregolarità nella realizzazione del villaggio per il fatto che una parte dell’area interessata dalla costruzione della struttura sarebbe stata di proprietà demaniale. Fatto, quest’ultimo, che non avrebbe impedito il rilascio delle concessioni edificatorie per la realizzazione del villaggio grazie alla collusione di funzionari del Comune e dell’Ufficio del demanio di Matera. Gli illeciti nell’iter per la realizzazione del villaggio furono oggetto di un’informativa da parte della Guardia di finanza al procuratore Chieco, il quale, però, non avrebbe effettuato l’attività investigativa necessaria per l'accertamento della prova. Lo stesso Chieco, inoltre, successivamente ha chiesto l’archiviazione del procedimento. Secondo l’ipotesi accusatoria formulata dalla Procura di Catanzaro, il procuratore Chieco, nel periodo in cui si sono svolte le indagini preliminari, avrebbe espresso l’intenzione di acquistare un immobile all’interno del villaggio, effettuando anche una visita nel cantiere della struttura. Circostanza riscontrata in una relazione riservata inviata da Chieco al procuratore generale di Potenza a seguito di un esposto anonimo presentato nei suoi confronti. Secondo i magistrati della Procura di Catanzaro, la condotta del procuratore Chieco sarebbe stata finalizzata ad insabbiare l'inchiesta sulla realizzazione del villaggio consentendo l'impunità dei soggetti coinvolti e lo sblocco del finanziamento da parte del Cipe.

AVVOCATOPOLI.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».

ESAMI UNIVERSITARI TRUCCATI

SESSO PER ALZARE I VOTI

Scandalo a Università della Basilicata

Alla Facoltà di Lettere e filosofia presso la sede materana dell'Università degli studi della Basilicata era un po' come il segreto di Pulcinella: la voce girava da tempo, scrive il TGcom. Una studentessa aveva qualche difficoltà a superare un esame o non era contenta del voto conseguito? Bastava rivolgersi a lui, nel suo ufficio, di solito tra le 18 e le 20, e tutto si aggiustava, come risulta dalle indagini sinora condotte dagli inquirenti. Il "lui" è il professor Emanuele Giordano, 55 anni, docente di dialettologia, dialettologia italiana, storia della lingua italiana, conduttore del laboratorio di italiano scritto, coordinatore dell’indirizzo linguistico letterario della Ssis, la scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario, protagonista di primo piano del panorama letterario regionale, frequentatore di cenacoli letterari, relatore di conferenze, affabulatore della platea studentesca per la sua mostruosa preparazione e per la sua incommensurabile passione per la lingua e la letteratura italiana.

Chi lo conosce stenterebbe a credere alle accuse che gli vengono mosse, se non fosse per quelle intercettazioni ambientali e i video girati dalle telecamere della polizia nel suo studio ad incastrarlo. Ed ora il professore è agli arresti domiciliari, nell’ambito dell’operazione della Squadra Mobile della Questura di Matera denominata "Privè" con l’accusa di violenza sessuale, concussione sessuale, contraffazione e falsificazione di atti pubblici in concorso con altri.

Gli altri sono una professoressa di inglese, che ha dichiarato di aver cambiato un voto su un libretto perché glielo aveva chiesto Giordano, ed una studentessa, entrambi iscritti nel registro degli indagati, mentre è al vaglio degli inquirenti il coinvolgimento di due applicati di segreteria e di altri due docenti. Nell’ordinanza di arresto il gip Onorati afferma che Giordano era "caparbiamente incline a considerare il suo pubblico ufficio una sorta di privè da utilizzare per i suoi piaceri sessuali".

Tutto è iniziato dalla querela di una studentessa sporta lo scorso mese di ottobre, a causa di avance particolarmente insistenti da parte del professore, dopo che già nel mese di luglio del 2007 la stessa ragazza si era rivolta solo confidenzialmente alla Mobile di Matera. Il lato per così dire "nobile" del meccanismo sta nel fatto che se la ragazza rifiutava veniva semplicemente giudicata come tutte le altre, e non penalizzata in sede di esame.

Era questo un meccanismo conosciuto all’interno dell’ambiente universitario materano, che però ha anche avuto ripercussioni su alcune studentesse che hanno preferito cambiare corso di laurea o addirittura abbandonare gli studi. Ora tutta la vicenda è seguita personalmente dal Procuratore capo Chieco, dopo che a seguire la vicenda era stato il pm Paola Morelli, da poco trasferita. Intanto tra studenti e docenti dell’Università lucana scattano le prime reazioni di indignazione, soprattutto nella sede centrale di Potenza, mentre le alte cariche dell’Ateneo, complice anche l'assenza del Rettore Tamburro che è all’estero, tacciono.