Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

PARMA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

Descrizione: TUTTO PARMA.jpg

 

 

 

 

I PARMIGIANI ED I PARMENSI

SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!

 

Tutto quello che i parmigiani non avrebbero mai voluto leggere.

Tutto quello che i parmigiani non avrebbero mai potuto scrivere.

(*Su Bologna c'è un libro dedicato)

di Antonio Giangrande

 

 

 

  

 

TUTTO SU PARMA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

 

SOMMARIO

INTRODUZIONE

L’OMERTA’ ROSSA DI PARMA.

POTERE A 5 STELLE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

PARMA CALCIO: UN BEL RICORDO.

LA RETATA IN SALSA EMILIANA ROMAGNOLA.

COOP: ROSSE, MA DI VERGOGNA.

PARMA: UNO SCANDALO TIRA L’ALTRO.

ENRICO CECI E LA FINE PERPETUA.

CHE GIUSTIZIA ABBIAMO IN ITALIA. ED A PARMA?

POVERA PARMA. UNO SCANDALO TIRA L'ALTRO.

PROCURATORI ABUSIVI?

PARMA ED IL CASO PARMALAT.

QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.

IL SISTEMA PARMA.

PARMA E LA MAFIA.

PARMA E LA MASSONERIA.

TOGHE, POLITICA E VELENI.

C'ERA UNA VOLTA PARMA.

PARMA E LA MALAGIUSTIZIA.

PARMA E LA SICUREZZA: VIGILI URBANI NEL MIRINO.

PARMA E LA GRANDE TRUFFA.

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

L’OMERTA’ ROSSA DI PARMA.

Parma, l'omertà sullo stupro al centro sociale: "Taci con gli sbirri". Dopo sei anni un blog di ragazze dice basta al silenzio sui "compagni" accusati della violenza, scrive Maria Novella De Luca il 16 dicembre 2016 su "La Repubblica". Più che la notte, Claudia aveva raccontato l'alba. "Mi sono svegliata su un tavolo di legno, i vestiti buttati a terra, sul mio corpo i segni di quello che mi avevano fatto...". Era l'alba di sei anni fa, nella sede della "Raf", la rete antifascista di Parma, e in quel centro sociale mentre i "compagni" festeggiavano come ogni 12 settembre la cacciata delle camice nere da Parma nel 1922, Claudia, 18 anni appena compiuti, veniva stuprata per un'intera spaventosa notte. In tre, forse di più, i militanti della "Raf" avevano abusato di quella loro amica, dopo averla drogata, filmando senza pietà con un cellulare ogni passaggio di quell'orrore. Ma soltanto adesso, dopo sei lunghissimi anni, è iniziato a Parma il processo contro i tre presunti autori dello stupro. Perché un incredibile muro di silenzio e di omertà, dentro quella galassia di sinistra antagonista a cui la "Raf" apparteneva, ha protetto per anni i violentatori. Isolando invece Claudia, lasciata sola con gli incubi di quella notte, addirittura definita "infame" dai suoi ex amici e amiche perché si era affidata alla giustizia dello Stato, agli sbirri, ai tribunali. Un brutta storia di cui nessuno vuole parlare a Parma, un processo a porte chiuse che sembra imbarazzare tutti, e che mai avrebbe valicato i muri del centro sociale antifascista in via Testi, se il video della notte dello stupro non fosse finito nelle mani dei carabinieri. Una pagina oscura, torbida, che oggi spacca e dilania il movimento stesso. Per tre anni infatti, dal 2010 al 2013 erano stati tanti (e tante) i compagni e le compagne che avevano visto quel video, girato con un vecchio Nokia, e dove Claudia (naturalmente il nome è di fantasia) viene addirittura chiamata con un nomignolo che allude, e qui l'orrore è massimo, ad atti ancora più brutali durante la violenza. Ma nessuno aveva rotto il silenzio, quasi fosse più importante difendere il movimento da incursioni di polizia e carabinieri, piuttosto che denunciare lo stupro e solidarizzare con la vittima. Oggi nel casermone con le inferriate arrugginite alla periferia di Parma, la sede della Rete antifascista non c'è più, restano soltanto poche copie ingiallite di giornali anarchici. "Ripresi i miei vestiti e me ne andai, lì dentro non c'era più nessuno", ha raccontato agli inquirenti Claudia, che nella notte delle "barricate antifasciste" vede la sua vita andare in pezzi. Però Claudia non denuncia. Per imbarazzo, vergogna, per "proteggere" i suoi genitori. Tenta di tornare alla vita di prima, nei centri sociali, ma invece, come denuncia l'unico documento di autentica condanna di questo stupro, firmato da un gruppo di ragazze sotto la sigla "Romantic Punx", Claudia viene isolata, cacciata con violenza da quegli spazi autogestiti. Sì, perché Claudia è diventata pericolosa per il branco che l'ha seviziata. Uomini che però "continuano a frequentare cortei, manifestazioni, ridono, bevono birra, escono con ragazze, nonostante giri un video in cui fanno sesso con una donna che sembra morta", denunciano le "Romantic Punx" sul blog "Abbatto i muri". Ma il 30 agosto del 2013 una bomba carta scoppia accanto ad una sede di Casa Pound a Parma. I carabinieri indagano tra i circoli anarchici, la "Raf", i centri sociali: anche Claudia, che quei posti li frequentava, viene interrogata, e specifica che lei da quel mondo si è allontanata dopo "una brutta storia". E la brutta storia appare in tutto il suo orrore quando i carabinieri sequestrano i cellulari di alcuni militanti, e nel telefonino di uno di questi ci sono i tre video che testimoniano la violenza sessuale nella di quella notte. Claudia è distesa su un tavolo, immobile, e mentre alcuni ripetutamente abusano di lei, altri filmano la violenza. Scatta la denuncia d'ufficio per stupro di gruppo, ma le indagini, coordinate dal Pm Giuseppe Amara della procura di Parma, sono difficili, nessuno collabora con gli "sbirri". Claudia riconosce però i presunti stupratori, ai domiciliari finiscono nel 2015 Francesco Cavalca, 25 anni, Francesco Concari, di 29 anni, e Valerio Pucci, romano, di 24 anni. Per Claudia però è l'inizio di un nuovo incubo: i compagni fanno quadrato attorno agli indagati, la definiscono "infame", la contattano per convincerla ad "alleggerire" le dichiarazioni. Parte una indagine per favoreggiamento. Ma anche le compagne del movimento, tranne alcune eccezioni, tacciono. Fino a quando le "Romantic Punx" decidono di uscire allo scoperto e di condannare la "macchina spietata" messa in moto contro Claudia, affermando che "uno stupro è sempre un atto fascista, anche se chi lo commette si dichiara antifascista". Anche perché, come in molti processi per violenza, la difesa punterà probabilmente a dimostrare che Claudia a quel "gioco" ci stava. Inerte e incosciente però. Come morta. (Ha collaborato Maria Chiara Perri).

POTERE A 5 STELLE.

La crisi di Parma, tra fallimenti e proteste. La città guidata dal sindaco Cinque Stelle Pizzarotti non riesce a risollevarsi. Ecco perché, spiega Gianfrancesco Turano il 3 agosto 2015 su “L’Espresso”. Non c’è nulla di semplice a Parma. Anche un concerto estivo di Renzo Arbore in piazza Duomo, annullato dal Comune per “una serie di manchevolezze tecniche” con i biglietti venduti e il pubblico già seduto, è l’occasione di polemiche feroci. Idem per i viaggi del sindaco Federico Pizzarotti in Giappone (cinque giorni) o negli Stati Uniti (tre settimane). Idem per la programmazione del teatro Regio, per i debiti del Comune, per il fallimento della squadra di calcio, per il crollo della Parmacotto della famiglia Rosi, per l’inceneritore, per la raccolta differenziata, per la nuova stazione ferroviaria, per la crisi dell’aeroporto Giuseppe Verdi, salvato in extremis dalla chiusura a giugno, e per i risparmi sul welfare. «I cittadini si lamentano delle stesse cose con tutti i sindaci del mondo. Quello che manca in Italia è la speranza», sostiene Pizzarotti. Il primo cittadino della città emiliana risponde sui 'fronti' aperti nel suo comune dal pesante indebitamento ereditato dalle precedenti amministrazioni. E dice: "Sento un distacco ingiustificato da parte dei miei vertici nazionali che non raccontano quello che facciamo". In effetti, la speranza è tutto ciò che resta con un debito di partenza, fra Comune e una trentina di partecipate, di 870 milioni di euro che si stenta a ridurre. La classe politica responsabile di questo disastro, a partire dall’ultimo sindaco Pdl Pietro Vignali, è finita in blocco sotto processo. Molti ne sono usciti patteggiando: un anno e nove mesi, un anno e dieci mesi, un anno e undici mesi. Sopra i due anni, la pena che porta in carcere, da queste parti ci è finito soltanto Calisto Tanzi per la bancarotta della Parmalat. Quello che è successo in una zona fra le più ricche d’Italia dall’inizio del terzo millennio è persino difficile da immaginare. Prima con lo scomparso Elvio Ubaldi e poi soprattutto con Vignali, il Comune ha prodotto progetti faraonici affidati a società di diritto privato controllate dall’azionista-cittadino ma gestite in totale autonomia dai manager scelti dai politici. Queste società sono state usate, nelle parole di Pizzarotti, «come bancomat dalle scorse amministrazioni». Nella città di Maria Luigia d’Austria non si sono fatti mancare niente, dalle inaugurazioni del festival verdiano rallegrate da Sara Tommasi e Nadia Macrì ai soldi buttati in consulenti d’immagine come Sergio Mariotti, in arte Klaus Davi. Immobiliaristi d’assalto hanno venduto a prezzi d’oro prati fuori mano nella prospettiva di triplicare i 100 mila residenti di Parma e portare nel cuore dell’Emilia il modello Dubai, con tanto di presunto sceicco (tal Shurooq) interessato a produrre prosciutti islamicamente corretti. In queste condizioni, era quasi inevitabile che Pizzarotti fosse il primo grillino a conquistare una città importante. È successo alle elezioni del 2012 dopo una fase di commissariamento sotto la guida dei prefetti Annamaria Cancellieri, poi ministro, e Mario Ciclosi. In una città dove niente è semplice, è logico che anche il sindaco sia una figura complicata. Tre anni dopo il trionfo elettorale, il gelo fra l’amministratore pentastellato e la diarchia Grillo-Casaleggio è polare (intervista a pagina 24). Bisogna dire che Pizzarotti, 43° nella lista di gradimento dei sindaci pubblicata dal Sole 24 ore, regge la barra con un manuale di navigazione sui generis, non troppo in linea con il dettato del Movimento. I tagli al welfare saranno forse imposti dalla situazione debitoria ma sono poco in linea con la propaganda grillina e sono stati presi come uno schiaffo ai cittadini più in difficoltà. Il sindaco ci tiene ad annunciare sgravi imminenti per 3,5 milioni di euro da distribuire fra le famiglie numerose, fra quelle sotto i 7500 euro di reddito Isee e fra chi è stato colpito dall’alluvione del torrente Parma, uscito dagli argini nell’ottobre dell’anno scorso e ridotto in secca dal caldo infernale di luglio. A Pizzarotti si rimprovera tutto e il suo contrario. È accusato di essere ambiguo con l’inceneritore e di volerne aumentare la produttività, ma anche di spendere troppo con una differenziata a livelli di record nazionale (70 per cento) che molti cittadini tollerano male perché la raccolta porta a porta li obbliga a un calendario ferreo. Chi salta l’appuntamento deve aspettare per giorni il giro successivo. Si rinfaccia a Pizzarotti di andare troppo d’accordo con l’Unione parmense degli industriali, l’ancora potente Upi proprietaria della Gazzetta di Parma, e di non fare abbastanza per aiutare i lavoratori coinvolti dalla crisi della Parmacotto di Marco Rosi e figli. Soprattutto non è andato giù il patto sui servizi all’infanzia con Antonio Costantino, presidente della grande rete cooperativa Gesin-Proges, che riunisce 27 società per oltre 220 milioni di euro di ricavi aggregati. Costantino ha voce in capitolo nell’informazione locale con il sito Parmadaily e prima ancora con il settimanale il Nuovo di Parma, finanziato insieme a Gian Paolo Dallara (vetture da competizione). Il presidente di Proges era già in joint-venture e in ottimi rapporti con il Comune berlusconista guidato da Vignali, messo agli arresti nel gennaio 2013 e anch’egli in cerca di un patteggiamento sul quale si deciderà entro settembre. Invece di internalizzare almeno una delle due società, come da promessa programmatica, Pizzarotti ha rovesciato il rapporto azionario con Proges salendo dal 49 al 51 per cento. In questo modo ha portato nell’area di consolidamento del bilancio comunale Parma06 e Parma Infanzia mantenendo la gestione in mano al socio privato. Non proprio l’ortodossia grillina. Paradossalmente va meglio con gli esponenti nazionali dei democratici. Mentre in consiglio comunale il sindaco litiga con una parte del Pd, strizza l’occhio al renzismo. A scontentare il vertice dei Cinque stelle è in particolare il rapporto cordiale fra il primo cittadino e due politici emiliani di peso: il governatore dell’Emilia Romagna, il modenese Stefanno Bonaccini, e il ministro reggiano Graziano Delrio. Quando la giunta ha traballato, è stato il Pd a tenerla in piedi o, quanto meno, a risparmiare il colpo di grazia. E l’ultimo atto di Delrio alla guida dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani, è stato nominare Pizzarotti all’ufficio di presidenza. Un segno di stima che, per alcuni, potrebbe preludere a un trasferimento dell’esponente grillino sulla sponda democrat alla fine del suo mandato. Mancano ancora due anni, però, e ci sono traguardi importanti da raggiungere. Il principale obiettivo che il sindaco ha posto alla sua amministrazione è la riduzione del debito. Adesso siamo al 40 per cento. Un anno e mezzo fa è stata annunciata la cancellazione dell’intera somma entro il 2018. Non è realistico pensare che accada. Anzi Nicola Dall’Olio, capogruppo dei democratici in Comune, sottolinea come anche il 40 per cento di riduzione sia stato ottenuto essenzialmente con la svendita della società di trasformazione urbana (Stu) Pasubio da parte del prefetto Ciclosi, successore della Cancellieri. «E poi c’è il fallimento di un’altra spa controllata del Comune, la Spip», prosegue Dall’Olio, «che ha cancellato quasi 100 milioni di euro di debiti ma ha anche eliminato una quota di patrimonio dal bilancio». La Spip è uno dei capitoli del romanzo criminale alla parmigiana di cui ancora narrano le cronache giudiziarie, con le indagini per bancarotta fraudolenta chiuse dieci giorni fa per malversazioni raccontate da “l’Espresso” cinque anni fa. La Spip, controllata dalla holding comunale Stt, è stata tenuta in vita con le lettere di patronage che il Comune firmava e ha ottenuto 140 milioni di euro di finanziamento da istituti grandi (Unicredit) e piccoli (Passadore). Il saldo debitorio finale è stato di 44 milioni di euro al netto di quanto incassato dalla cessione degli attivi. Non sarà soltanto il Comune a rimetterci. Parteciperanno alle spese anche i creditori, banche in testa. Ma i finanziatori, inconsapevoli di consulenze pazze e plusvalenze immobiliari chiuse con triangolazioni a distanza di poche ore, pretendono di avere qualcosa dell’unico vero gioiello rimasto a Pizzarotti. Sono i 78 milioni di azioni dell’Iren, la multiutility di cui il Comune emiliano possiede poco meno del 7 per cento, pari a circa 100 milioni di euro alle quotazioni attuali (1,3 euro). Pizzarotti sottolinea che è stato un errore tragico del centrodestra conferirle alle spa controllate, che potevano fallire. Ma ora si tratta di contenere il danno e mollare qualche uovo senza perdere la gallina. Approfittando del fatto che anche il Comune di Torino ha bisogno di fare cassa con la sua partecipazione in Iren, Parma venderà il 2 per cento. In questo modo dovrebbero arrivare in cassa una trentina di milioni che serviranno a rabbonire le banche già impiombate da un decennio di disastri, dalla Parmalat alla Guru di Matteo Cambi. Dei due istituti locali, la Cassa di risparmio di Parma è stata rilevata dai francesi di Crédit Agricole. La Banca del Monte, fondata nel 1488 dal francescano Bernardino da Feltre, è stata incorporata dal gruppo Intesa San Paolo. Per chiudere in bellezza oltre 500 anni di storia, dopo i guai con la Parmalat sotto la gestione di Franco Gorreri, il Monte risulta azionista con il 4,2 per cento della Eventi sportivi. È la holding bresciana dell’ex presidente del Parma Tommaso Ghirardi, formidabile autore di 1382 (diconsi milletrecentottantadue) compravendite di giocatori in sette anni (2007-2015), secondo i calcoli del sito Wired. Eventi sportivi controlla il Parma calcio e rischia di subire il contraccolpo del dissesto finanziario del club. Anche l’amministrazione pubblica si lecca le ferite della gestione Ghirardi, che è costata al Comune 2 milioni di euro equivalenti a un anno di risparmi da costi della politica (10 milioni di euro complessivi nel quinquennio). In aggiunta a un danno monetario di cui non si sentiva il bisogno, la città ha accettato molto male il crollo diretto dalla serie A alla serie D. L’ultima fase ha visto avventurieri di ogni categoria, con in testa Giampietro Manenti arrestato lo scorso marzo, presentarsi come i salvatori del club portato alla fama mondiale dal ragionier Tanzi, anche se questo si tende a metterlo in secondo piano. Svanita la speranza di iscriversi alla serie B, che il sindaco ha esplorato fino alla fine a costo di confrontarsi con i truffatori, si lavora sul progetto serie D. Nemmeno la discesa fra i dilettanti ha spento le polemiche, con lo scontro fra la cordata Parma 1913 e la cordata Magico Parma di Giuseppe Corrado, presidente della catena di multisale The space cinema. La vittoria finale è andata a Parma 1913, iscritto al campionato lunedì 27 luglio. Il nuovo club ha impostato un progetto che punta sul vivaio e sui giovani locali ma anche su un azionariato diffuso dove sono presenti alcuni grandi nomi dell’imprenditoria parmigiana: oltre a Dallara, Guido Barilla, i costruttori Pizzarotti e Mauro Del Rio, fondatore di buongiorno.it, società di servizi per la telefonia. È un progetto innovativo, di applicazione relativamente facile nelle serie minori. Pizzarotti, che è in buoni rapporti con i Barilla, afferma che Parma 1913 è in linea con la sua «scala valoriale». Il sindaco si professa «non tifoso di calcio» ma ha dovuto prendere atto che la crisi della squadra ha portato in città i giornalisti di Cnn e al Jazeera. Aggiunge che «c’è un club di 3 mila tifosi del Parma nelle Filippine». Ma il loro consenso è accademico visto che non votano alle elezioni. Da qui a due anni il sindaco più inclassificabile d’Italia dovrà trovarsi un sostegno più concreto, se vuole continuare in politica.

Parma, i guai del rettore a Cinque Stelle. Loris Borghi, da due anni alla guida dell'ateneo di Parma, è accusato di avere favorito la convivente nella ristrutturazione dei dipartimenti di medicina. Il magnifico respinge le accuse e si dice vittima di un attacco politico per la sua presunta vicinanza al sindaco grillino Pizzarotti. La Guardia di finanza indaga, scrivono Silvia Casanova e Gianfrancesco Turano il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Guai in vista per il Magnifico rettore dell'università di Parma, Loris Borghi, in carica da due anni. Un esposto mandato ai Nas dei carabinieri e poi girato alla Guardia di finanza contesta a Borghi la nomina della convivente Tiziana Meschi alla guida di due strutture create tra il febbraio e l'aprile del 2014: l'unità operativa complessa di medicina interna e lungodegenza critica e il dipartimento geriatrico-riabilitativo dell'Azienda ospedaliera universitaria di Parma. Gli incarichi sono stati assegnati dall'allora direttore dell'azienda ospedaliera universitaria Leonida Grisendi, d'intesa con il rettore. Su disposizione della Procura della repubblica la finanza sta anche indagando per abuso d'ufficio sul concorso che ha consentito a Meschi, entrata in università come ricercatrice nel novembre 2000, di passare da ricercatore a professore associato di medicina interna. La procedura è stata bandita dal rettore Borghi nel giugno del 2014, dopo che Meschi aveva ricevuto gli incarichi per l'unità operativa complessa e per il dipartimento assistenziale integrato (Dai). Oltre alla Procura della repubblica, una relazione sulla vicenda è stata girata all'Anac, l'autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. Nonostante il materiale raccolto dagli investigatori, i due interessati smentiscono la convivenza. «È un attacco politico», dice Borghi. «I miei rapporti con la professoressa Meschi sono di stima reciproca e di frequentazione professionale assidua. È stata una delle mie allievie il direttore generale mi ha proposto di riorganizzare i dipartimenti e io ho suggerito di ridurli da 11 a 5. La cosa ha suscitato numerose proteste. Sono stato eletto rettore nel 2013 quando ero responsabile dell’unità di lungodegenza critica. Quando sono entrato in servizio, in novembre, ho ritenuto necessario lasciare la direzione della struttura. Meschi lavorava fin dall’inizio nella struttura. Aveva fatto un percorso adeguato e ho proposto il suo nome». «Certo che sono in rapporti col rettore», commenta Meschi. «Lo conosco da 30 anni e non ricordo un giorno in cui non l’ho visto. Ma si tratta di rapporti esclusivamente professionali».Va ricordato che nel codice di comportamento dei dipendenti pubblici emanato nell'aprile del 2013, si prevedono norme restrittive sul conflitto di interessi e si vieta ai dipendenti pubblici di “partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero dei suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale”. Gli stessi principi sono stati recepiti dal piano triennale anticorruzione 2015-2017 applicato dal rettore all’ateneo parmense e all’azienda sanitaria ospedaliera. Borghi, nato il 15 febbraio 1949, è diventato ordinario nel 2000, sul finire del rettorato del costituzionalista Nicola Occhiocupo, passato all'Antitrust. La politica lo ha sempre attirato fin da quando, da giovane iscritto al Pci, è stato consigliere comunale per dieci anni (1970-1980) di Castelnuovo Monti, comune di 10 mila abitanti in provincia di Reggio Emilia. Grazie alla sua capacità, nel 2005 Borghi viene eletto preside della Facoltà di Medicina. Passano altri due anni e tenta la via del rettorato contro Gino Ferretti, che occupa la carica da sette anni. Ferretti ha la meglio e resterà in carica fino al 2013 quando non è più eleggibile. Borghi riesce a ripresentarsi per il rotto della cuffia. Solo pochi mesi lo rendono candidabile prima che scatti il limite pensionistico, proiettato sul termine dei sei anni. Questa volta vince. È l'11 giugno 2013. L'insediamento ufficiale avviene circa cinque mesi dopo, il primo novembre. Politicamente ha il sostegno dell'ala più istituzionale del Pd, quella travolta alle elezioni comunali del 2012. Ma Borghi si dichiara in buoni rapporti anche con il vincitore di quel voto, il sindaco grillino Federico Pizzarotti, che negli anni è diventato sempre più eretico rispetto ai Cinque stelle e sempre più sostenuto proprio dai democrat. Dall'università Pizzarotti ha ingaggiato l'assessore al bilancio Marco Ferretti, che è entrato in giunta a luglio del 2013. «Qui a Parma è già iniziata la campagna elettorale», aggiunge Borghi. «Vengo attaccato perché mi considerano vicino al sindaco del M5S. Ma io ho solo voluto aiutare la città, non una parte politica». Appena dopo l'elezione il neo Magnifico mette subito mano alla riorganizzazione della facoltà di medicina utilizzando i poteri molto ampi che la riforma Gelmini ha dato ai rettori. Ed è così che nel giro di pochi mesi Meschi diventa una delle figure di punta dell'azienda ospedaliera, a rischio di creare qualche malumore. L'ascesa della ricercatrice, nata nel 1960, non è l'unico motivo di critica all'operato del rettore. La fronda interna ai dipartimenti sottolinea i metodi spicci di Borghi, il cui braccio destro è il prorettore con delega all'edilizia Carlo Quintelli, architetto autore del “mostro di via Kennedy”, come a Parma chiamano il cubo di cemento color senape costruito nel popolare quartiere dell'Oltretorrente a ridosso dell'Ospedale vecchio e destinato a ospitare le nuove aule della facoltà di economia. Al pugno di ferro nella gestione interna si unisce una grande attività di tipo social, dalle lauree honoris causa assegnate al regista parmense Bernardo Bertolucci e all'imprenditore torinese Giovanni Ferrero, presente il ministro dell'istruzione Stefania Giannini, alla lectio magistralis dell'ex sottosegretario berlusconiano Mario Pescante o di Luca Barilla, esponente di spicco dell'industria locale. L'affare Borghi-Meschi arriva pochi giorni dopo l'inchiesta della procura parmense, anche questa per abuso d'ufficio, sulle nomine al Teatro Regio. Il catalogo della mala amministrazione nella città di Maria Luigia d'Austria, già piuttosto corposo, non smette di allungarsi.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

PARMA CALCIO: UN BEL RICORDO.

Addio Parma, buona fortuna, scrive Andrea Rosati su “Vavel”. Con il fallimento alle porte, Parma si avvia a lasciare il calcio che conta, in attesa di una nuova ricostruzione, di un nuovo inizio, sulle orme del passato. Il Parma calcio è arrivato ai titoli di coda, ormai il destino dei ducali sembra segnato e il fallimento resta l’ipotesi più plausibile. Che tristezza, verrebbe da dire. Peccato che la tristezza in questa vicenda c’entri poco; ad emergere è soprattutto la rabbia per il modo in cui questa società è stata fatta passare di mano tre volte in meno di un mese; ad emergere è il rimpianto di aver visto crescere un Club che per anni ha rappresentato quanto di meglio il calcio globale potesse offrire ed assistere ora alla spartizione della carcassa da parte di avvoltoi e sciacalli; ad emergere è il disgusto per il disinteresse totale di una federazione che da tempo sapeva ma ha sperato di poter nascondere la sporcizia sotto l’ennesimo tappeto. Il Parma calcio meriterebbe molto meglio di quanto stia succedendo; so che molti obbietteranno circa queste parole, citando giustamente il primo pseudo fallimento del Parma e lo scandalo che ha investito la famiglia Tanzi. Vero, è tutto sacrosanto e il Parma avrebbe dovuto ricominciare da zero all’epoca, salvato invece in maniera non limpida e poi mantenuto in vita da una dirigenza esterna che – col senno di poi – è stata probabilmente la migliore avuta dal Club negli ultimi anni. Il Parma calcio però ha fatto molto sia prima delle manie di grandeur di Calisto e Stefano Tanzi che dopo il disastro, mettendo in piedi due realtà molto simili ed entrambe estremamente affascinanti. Vi invito a lasciare momentaneamente da parte il crac Parmalat e leggere queste poche righe, scritte di getto per raccontarvi l’altra storia del Parma calcio. Non voglio tornare indietro ai tempi di Massimo Barbuti, nè far riaffiorare Arrigo Sacchi allenatore debuttante o Carlo Ancelotti  in versione giovane calciatore, più semplicemente raccontarvi gli esordi di questo piccolo Club sulla ribalta della Serie A. Un clamoroso quinto posto finale al termine della prima stagione in Serie A ha fatto drizzare le orecchie a qualche osservatore neutrale, dalla vittoria della Coppa Italia la stagione seguente a quella della Coppa delle Coppe nel 1993, con tanto di terzo posto finale in campionato e alla nuova finale di Coppa delle Coppe dell’anno successivo – persa contro l’Arsenal – tutti si sono accorti del Parma. L’apoteosi della vittoria in coppa UEFA contro la Juventus ha messo il punto esclamativo su questa realtà. Eppure, quella squadra si allenava ancora in uno dei tanti parchi del centro città, in mezzo alla gente comune; eppure quei giocatori passeggiavano per il centro con famiglia e non rifiutavano mai di fermarsi a fare quattro chiacchiere con questo o quel tifoso. La simbiosi con la città è sempre stata impressionante, probabilmente inconcepibile per un qualsiasi tifoso esterno; all’inizio degli anni ’90, il Parma calcio era sicuramente un modello da seguire per qualsiasi Club di medio livello che aspirasse ad imporsi senza rovinarsi. Poi sono iniziati i guai, le sette sorelle e l’ossessione per quello scudetto che avrebbe coronato una decade di raro successo per un Club come il Parma calcio. Non voglio nemmeno soffermarmi sul disastro che l’ambizione sfrenata della famiglia Tanzi ha causato, preferisco passare oltre e concentrarmi sul lento percorso di guarigione, firmato da un burocrate come Enrico Bondi e fatto brillare da un tecnico di nome Cesare Prandelli, capace di raggiungere il quinto posto per due stagioni di fila pur avendo a disposizione un gruppo di ragazzini di buona prospettiva come Sébastien Frey, Matteo Ferrari, Massimo Donati, Matteo Brighi, Adriano, Adrian Mutu e Alberto Gilardino; certo, a leggere ora questi nomi la sorpresa è un po’ attenuata, però allora nessuno di questi giocatori sembrava certo di costruirsi la carriera che poi ognuno ha effettivamente vissuto – alti  e bassi a parte. Quella squadra aveva tante similitudini con il primo Parma che si è affacciato in Serie A, vuoi per la gioventù della squadra, vuoi per il fatto di dover – ancora una volta – trarre il meglio dalle poche risorse disponibili. Dalle mie parti siamo bravissimi a tirare fuori risultati eccezionali con pochi (ma buoni) ingredienti, il calcio ha spesso seguito questa strada. Come per magia, la squadra si è riavvicinata alla città – e viceversa; i giocatori sono tornati ad arrivare allo stadio a piedi (non era difficile incrociarne alcuni alla fine della partita), le Lamborghini che giravano in città sono drasticamente diminuite ed è tornato l’obbligo morale per i giocatori di restare in campo qualche minuto alla fine di ogni partita per ringraziare i tifosi presenti allo stadio. Ricordo che durante i primi anni di Serie A, Nevio Scala aveva l’abitudine di far svolgere un leggero lavoro defatigante subito dopo la partita, direttamente sul prato del Tardini, che veniva spesso accompagnato dagli incoraggiamenti dei tifosi – rimasti ovviamente al proprio posto. E pensare che ad un certo punto perfino fermarsi sotto la tribuna per firmare qualche autografo sembrava troppo faticoso...Quella seconda fase si è conclusa con l’addio di Cesare Prandelli, approdato alla Roma, e la partenza di tutti quelle giovani promesse diventate giocatori da Nazionale. Al Tardini risuonava spesso il coro “chissenegrefa, giocherà la Primavera; chissenefrega, l’importante è star con te...” sulle note di Maledetta Primavera e ricordo di essere stato in Curva Nord quel pomeriggio in cui la seconda epoca d’oro del Parma è finita. Per concludere, vi sprono a non pensare solamente al Parma calcio firmato Stefano Tanzi ma ricordare piuttosto come questo Club abbia rivoluzionato il calcio italiano e abbia saputo ritagliarsi un posto d’onore anche in Europa – dimostrando che è possibile raggiungere certi traguardi senza finire nel baratro. La buona notizia è che nulla è perduto definitivamente; per quanto in basso la società sia costretta a ripartire, la prova che sia possibile costruire un gioiello partendo da materie prime umili l'abbiamo avuta. E non mi riferisco certo alla squadra che ambiva a vincere il campionato, perchè nonostante i Thuram, Cannavaro, Veron e compagnia, se chiedete in città quale sia stata la formazione del Parma più forte di tutte, quasi sempre vi snoccioleranno questa: Taffarel, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grün, Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi, Asprilla (o Brolin, dipende...) Provare per credere...

Parma o dell’orrido infinito del calcio italiano, scrive Nicola Sellitti su “Il Manifesto”. Venerdì 6 marzo 2015 si decide il destino del club emiliano, ma il campionato è di fatto già falsato. Una vicenda che è solo la punta dell'iceberg di un sistema malato. Partite di campionato rinviate a tempo indeterminato, calciatori, soprattutto impiegati e fornitori non pagati da mesi. In alcuni casi, anni. Assieme a mobilia e panchine dello stadio pignorate, computer sequestrati. A Parma ormai si è ben oltre l’avanspettacolo di scarsa qualità. Lo sceneggiatore si è divertito, tra gag, caos, buffoni e truffati: orrido che avrebbe disgustato anche Seneca. Ma ora servono soluzioni immediate. La Serie A 2014/2015 è di fatto un torneo falsato. Non più credibile anche se il Parma arrivasse a giocare sino all’ultimo turno. C’è una squadra che gioca gratis da mesi. Che ha deciso, d’accordo con l’Associazione italiana calciatori, di non scendere in campo domenica scorsa contro il Genoa. Con il tecnico Roberto Donadoni che ha pagato anche il conto con il farmacista di fiducia del club. Il Parma ha un proprietario fantasma, Giampietro Manenti che dice di avere i soldi per pagare i debiti, senza aver avuto il tempo (sono le sue parole…) di fare due conti sulla situazione finanziaria pregressa. E che dopo esser stato aggr­dito per strada dai tifosi parmensi si dice pronto a vendere. E le Istituzioni del pallone sono arrivate sulla faccenda con un paio di giri di ritardo. Solo la punta dell’iceberg, sebbene il caso abbia ricoperto pagine dei quotidiani internazionali. È il sistema calcio che non funziona. In Italia chiunque può acquistare una società di calcio. Non ci sono controlli preventivi, nessun antivirus. Nulla. In Inghilterra Massimo Cellino è stato invitato senza troppi fronzoli a mollare il Leeds per la sua condanna per evasione fiscale. Mentre in Serie A – in attesa di sviluppi dalle serie inferiori – per esempio ci sono club con più di 200 tesserati per produrre plusvalenze a bilancio, che comprano calciatori in leasing oppure a rate come gli elettrodomestici, altre che spendono anche se indebitate. E altre come la Sampdoria che ingaggia Samuel Eto’o ma non gioca il derby della Lanterna per campo impraticabile – niente teloni dopo temporale a Genova — per il mancato pagamento da due anni, assieme al Genoa, della ditta che gestisce Marassi. Per il Parma la dead-line è venerdì 6 marzo, ovvero il giorno dell’assemblea della Lega calcio (quella precedente, giorni fa, ha omesso la discussione sull’argomento), mentre il sindaco Federico Pizzarotti prova a mediare tra le parti della farsa. La Lega potrebbe strappare ai club un contributo di solidarietà – 500 mila euro a testa – per far concludere il torneo al Parma. Ma solo a fallimento dichiarato. Sono però in molti a essere contrari, tipo le società con bilanci in regola. Non sono tantissime, ma esistono. Senza una soluzione tampone per restituire un minimo di credito al campionato (non è forse il caso che abbonati del Parma non pensino a una class action contro le Istituzioni del calcio per essere risarciti come parte lesa di questa storiaccia?), con due gare già rinviate, il dossier Parma finirebbe sulla scrivania del governo. La minaccia arriva da Giovanni Malagò, numero uno del Coni, che nei giorni scorsi ha richiamato alle proprie responsabilità sia Lega che Figc. Il presidente della Lega, Maurizio Beretta – quello che contava zero, secondo il consigliere della Figc Claudio Lotito intercettato – ha spiegato come le regole sul controllo dei conti della società, a opera della Covisoc, sarebbero state rispettate e le delibere firmate anche dal Coni. Che però ha dalla sua parte il Governo. Insomma siamo al gioco delle parti, in attesa del gong del tribunale sul fallimento del club, il 19 marzo. Mancano ancora due partite da giocare sul campo. Quella decisiva si gioca invece sui tavoli della politica del calcio. Cioè, chi ha fatto guai dovrebbe anche risolverli.

Parma, debiti e trucchi contabili, scrive Gianni Dragoni su “Il Sole 24ore”. Un tempo il Parma era una delle «sette sorelle» del calcio italiano, una grande, grazie ai soldi (e alle relazioni) di Calisto Tanzi, l’ex patron della Parmalat, travolto da un crac da 14 miliardi di euro nel 2004. Adesso a Collecchio non ci sono neppure i soldi per l’acqua calda. Se, dopo le partite non giocate con Udinese e Genoa, il club dovesse saltare la prossima con l’Atalanta, il Parma verrebbe escluso dal campionato. Per la prima volta la serie A proseguirebbe con 19 squadre. Sempre che qualche altro club non salti prima della fine. Quest’eventualità non sarebbe da escludere se le autorità di controllo, Figc, Lega e Covisoc, facessero il loro dovere con il massimo scrupolo, ad esempio controllando se stipendi e tasse sono pagati con puntualità e ponendo fine alle operazioni di cosmesi contabile, che Il Sole 24 Ore racconta da anni. Sui conti del Parma Football club, come sugli ultimi due passaggi di proprietà a 1 euro che hanno visto arrivare la cipriota Dastraso e ora Giampietro Manenti, c'è molta confusione. Che nei conti del club ci fossero cose che non andavano Il Sole 24 Ore lo aveva riferito già il 5 marzo 2014, in un articolo dal titolo: «Parma salva i conti “cedendo” il marchio». Cos'aveva fatto il Parma? Nell'ultimo giorno dell'esercizio al 30 giugno 2013 il club aveva ceduto il marchio e il contratto con la concessionaria di pubblicità sportiva alla Parma Brand Srl. E per questo il club aveva messo in bilancio plusvalenze nette di 30,7 milioni di euro (di cui 22,7 milioni dal marchio), che gli avevano consentito di contenere la perdita netta in appena 3,2 milioni ed evitare una ricapitalizzazione. Ma era una strana vendita: la società compratrice del marchio apparteneva a quello che era l'azionista unico della squadra di calcio, la Eventi Sportivi Spa di Brescia, cioè la holding di Tommaso Ghirardi e altri soci. Per capire i veri conti del Parma Fc bisogna quindi andare al piano superiore, guardare ai conti del gruppo Eventi Sportivi, perché un pezzo del club è finito dentro la società madre, infatti è questa che Ghirardi ha ceduto il 19 dicembre. Il bilancio consolidato della Eventi Sportivi mostra che al 30 giugno 2013 l'intero “gruppo Parma” aveva una perdita di 34,2 milioni, cioè 31 milioni in più delle perdite ufficiali del solo Parma Fc. Il gruppo Eventi Sportivi aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni, anziché positivo per 23,26 milioni come dichiarava il bilancio del Parma Fc. Nella stagione terminata il 30 giugno 2014 il bilancio consolidato di Eventi Sportivi - che il revisore PwC non ha certificato - è in perdita per 7,32 milioni e il patrimonio netto è negativo per 21,2 milioni, nonostante 44,1 milioni di plusvalenze da calciomercato: i guadagni principali sono i 9,16 milioni per Belfodil e gli 8,1 milioni per Crisetig, venduti all'Inter. Il gruppo Parma ha un giro d'affari simile all'Udinese, 56,8 milioni, ma costi del personale molto più elevati, 52 milioni contro 30. Anche il valore in bilancio dei calciatori è più alto (85,8 milioni contro 37,5 milioni dell'Udinese) e quindi il Parma deve spesare ammortamenti più pesanti (22,3 milioni). Questi valori si sono gonfiati negli anni con il ricorso massiccio alle comproprietà: i controlli dov'erano? I debiti sono esplosi fino a 201,8 milioni al 30 giugno 2014, quattro volte i crediti. Secondo il bilancio consolidato di Eventi Sportivi, al 30 giugno scorso c'erano debiti per 24 milioni verso banche (di cui 11,5 milioni tra Banco di Brescia e Credito Sportivo), 40,6 milioni per factoring su crediti per diritti tv e trasferimento calciatori: con Mps (16,8 milioni), Unicredit (12,1), Ubi (6,1), Ifitalia (3,7), Factorit (1,86). Ci sono inoltre debiti per 45,9 milioni verso squadre di calcio per compartecipazioni e calciomercato, 36,3 milioni verso fornitori e 42,27 milioni di debiti tributari, cioè debiti con lo Stato: 24,56 milioni di debito Iva, 8,4 milioni per ritenute su lavoro dipendente, 7,2 milioni di debiti per Irap. Se il Parma salta, chi li paga?

Crac Parma, si muove la Procura: sotto inchiesta anche i vertici della GdF. Per i pm che indagano sull'ipotesi di bancarotta del club ci sarebbero pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Alle 16 vertice Pizzarotti-Tavecchio, scrive “Sport Mediaset”.  In attesa dell'udienza fallimentare del 19 marzo, ore d'attesa per nuovi sviluppi sull'ipotesi di bancarotta del Parma calcio.  A breve i pm potrebbero prendere infatti provvedimenti clamorosi, visto che hanno riscontrato pericoli di fuga e inquinamento delle prove. Intanto sono finiti sotto inchiesta i vertici della GdF di Parma, accusati di omissione di atti d'ufficio e di aver tardato a far partire l'inchiesta sul crac del club. Ancora Hernan Crespo in merito alla situazione del Parma, questa volta con un messaggio chiaro indirizzato alle istituzioni del calcio: "Se chi doveva vigilare (Figc e Lega) ci avesse fatto sapere che il Parma non si poteva iscrivere tutti noi avremmo cercato una altro lavoro". "Più che grottesca, la vicenda del Parma calcio ha dell’inverosimile, perché è un’insieme di responsabilità che porta ogni addetto ai lavori a dire che lui non c’entrava nulla, e questo è totalmente inaccettabile. La cosa più importante è che nell'assemblea di venerdì i colleghi di questo fantascientifico personaggio arrivato in fondo a questa catena (Manenti, n.d.r.) trovino il modo di salvaguardare almeno la parte sportiva e dare una regolarità completa al campionato che di fatto sarebbe anomalo se il Parma non tornasse a giocare. In attesa di ulteriori sviluppi sulla vicenda, il sindaco di Parma ha chiesto un appuntamento con Tavecchio per fare il punto della situazione. Il vertice dovrebbe tenersi oggi alle 16. Il crac Parmalat coinvolge anche la GdF. Nel mirino della Procura sono finiti il comandante provinciale colonnello Danilo Petruccelli e il suo vice, il capo del Nucleo di polizia tributaria tenente colonnello Luca Albanese. Entrambi sono accusati di aver ritardato a far partire l'inchiesta sul dissesto societario del Parma calcio. Nell'ambito del consiglio comunale è inoltre emerso un nuovo dettaglio sui mancati pagamenti del Parma calcio. In particolare, è stato appurato che dal 2011 il club non ha pagato l'affitto del Tardini, le imposte di pubblicità e l'impiego dei pullman della Tep. In dettaglio, si tratta di un debito di un milione e 400mila euro. Dalle indagini attorno al club emiliano, sono emerse inoltre inquietanti modalità di gestione della società, soprattutto sugli incentivi all'esodo (niente obbligo dei pagamenti trimestrali, diversa tassazione e pagamenti diluiti). Nel dettaglio, a svelare il sistema diffuso del Parma Calcio è stato Hernan Crespo, ora sulla panchina della Primavera del club crociato. "Non mi ero mai accorto della gravità della situazione. I pagamenti arrivavano in ritardo, ma arrivavano. Io ero uno di quelli che aveva l'incentivo all'esodo, e lì si andava in difficoltà. Infatti ho accettato di tramutere l'incentivo nello stipendio da allenatore della Primavera. Era un modo per spostare il debito e aiutare la società. Mi avevano anche promesso che alla scadenza del contratto di Donadoni mi avrebbero dato in mano la prima squadra". Già da qualche tempo in molti avevano intuito che il gioco del Parma girasse intorno ai numerosissimi tesseramenti di giocatori. La Procura è convinta che proprio qui stia la chiave del crac. SI compravano calciatori aumentando a dismisura il costo degli stipendi e quando non si potevano più rinviare i pagamenti si proponeva loro di spalmare il debito su più anni, allungando il contratto. Una parte dello stipendio, inoltre, veniva convertita in diritti di immagine, in modo da eludere i controlli della Covisoc. 

A Parma saltano i vertici della Finanza. Comandante e vice avrebbero ritardato l'inchiesta sul crac. Manenti: "Il club non è del sindaco. Semmai lo vendo io", scrive Vanni Zagnoli su “Il Giornale”.  «Cerco un centro di gravità, per Manenti". La canzone di Franco Battiato fa davvero al caso del presidente crociato.  Dalle 15 di ieri il presidente è tornato nuovamente al centro dell'attenzione presentandosi negli uffici di Collecchio per tre ore, con il commercialista Andrea Galimberti, mentre il Parma si allenava a buon ritmo. A un tratto Lucarelli urla «Giampietro, Giampietro, esci». Mai sentito un capitano irridere così il proprio presidente. Che tramite il sito della società fa sapere: «Se qualcuno è interessato ad acquistare il Parma, può rivolgersi a me o ai professionisti che lavorano per me. Il sindaco Pizzarotti non è il proprietario». Insomma, il presidente è lui e vuole guadagnarci qualcosa, per lasciarlo. Oppure restare con qualche incarico, sempre che prima non fallisca. Il Comune era già andato incontro all'ex Ghirardi, dal 2011 evitava di fargli pagare l'affitto del Tardini, le imposte di pubblicità e i pullman della Tep, la municipalizzata. «Per un totale di un milione e 400mila euro - spiega l'assessore Ferretti -. Ora valutiamo azioni penali per il comportamento del club negli ultimi mesi». Intanto cadono le prime teste, non sportive, per il crac del Parma: sono stati rimossi i vertici provinciali della Guardia di Finanza, il colonnello Petrucelli e il suo vice, nonchè capo della polizia tributaria, Albanese, entrambi sotto inchiesta per omissione di atti d'ufficio, per avere ritardato la partenza dell'inchiesta. Insomma, altri dettori della città risultano coinvolti in questa storia che ha dell'incredibile. Pizzarotti intanto lavora per riaprire lo stadio di Parma, poichè la squadra rifiuterebbe di giocare al Garilli, offerto dal sindaco di Piacenza Dosi. Del resto aveva già detto no alle porte chiuse con l'Udinese. Il primo cittadino ducale ha incontrato Lucarelli, il vice Gobbi, Cassani e il presidente dell'Aic Tommasi, che aveva confessato un timore diffuso: «Non è così sicuro che vengano recuperate le gare del Parma con Udinese e Genoa». «Con l'Atalanta - spiega il sindaco -, si gioca al 50%». «Dipende da cosa esce dall'assemblea di Lega di venerdì», confermano i calciatori. Mentre l'imprenditore romano Nuccilli rinuncia all'acquisto ("Troppe tensioni attorno al club"), un gruppo americano incontrerà presto il sindaco, puntando al fallimento pilotato: "Pagheremmo tutti gli stipendi", fa sapere tramite l'emissario italiano.

Parma calcio, saltano vertici locali Guardia di Finanza. Finanzieri sono sotto inchiesta per omissione di atti d'ufficio. Tribunale di Bologna nomina curatore speciale dando ragione al socio Energyscrive scrive “La Repubblica” Il crac del Parma Fc investe come un terremoto i vertici del comando provinciale della Guardia di Finanza. La Procura di Parma ha iscritto nel registro degli indagati per il reato di omissione d'atti d'ufficio il colonnello Danilo Petrucelli e il vice tenente colonnello Luca Albanese, capo del Nucleo di polizia tributaria. Entrambi sono stati rimossi dagli incarichi la scorsa settimana. Come anticipato da gazzettadiparma.it, i due ufficiali sono accusati di aver trasmesso in ritardo l'informativa sulla situazione finanziaria del Parma Calcio, ritardando quindi l'apertura dell'indagine per bancarotta fraudolenta. Sarebbe quindi venuto a mancare il rapporto di fiducia con il pool di magistrati che coordina l'inchiesta. Gli ufficiali non torneranno più in servizio a Parma, come disposto dal Comando generale delle Fiamme Gialle: Albanese è stato trasferito nella caserma di Prato, mentre ancora non è stato deciso il trasferimento di Petrucelli che per ora è in ferie. L'indagine penale rimane affidata al Nucleo di polizia tributaria di Parma, da lunedì guidato dal tenente colonnello Carlo Pasquali in arrivo dal comando regionale. I due ufficiali indagati si sono messi a disposizione della Procura per ogni chiarimento sulla propria posizione. Albanese sarebbe già stato ascoltato, Petrucelli lo sarà nei prossimi giorni. Pare che i vertici delle Fiamme gialle non abbiano indagato sulle plusvalenze fittizie, sui debiti spalmati sugli anni ai giocatori oppure scambiati "prestiti infruttiferi" e come tali esenyti  da imposte. Un sistema cresciuto in maniera enorme per evitare i controlli della Covisoc, al punto che si profilava l'ipotesi per gli inquirenti di evasione fiscale. Sarebbero stati usati anche incentivi all'esodo (veri o fasulli) in quanto più favorevoli come regime fiscale. Sarebbero stati aggirati dalla società numerosi obblighi anche nei confronti della Covisoc. Il tribunale ordinario di Bologna ha accolto il ricorso del socio di minoranza del Parma F.C., Energy T.I. Group, e ha nominato per la società calcistica un curatore speciale, il commercialista bolognese Mauro Morelli. Il decreto del giudice Anna Maria Drudi è stato emesso lo scorso 18 febbraio e pubblicato dal sito stadiotardini.it. Il patron di Energy T.I. Roberto Giuli aveva presentato il 16 febbraio la richiesta ai sensi dell'articolo 2049 del codice civile, prospettando gravi irregolarità nel Cda del Parma, dove ancora siede dopo aver rescisso il contratto di cessione del 10% delle quote sottoscritto lo scorso maggio. Giuli denunciava di disconoscere i passaggi di proprietà, avvenuti senza consultarlo, e aveva dichiarato di non conoscere Manenti. Lo scorso dicembre inoltre il socio di minoranza si era astenuto dall'approvazione del bilancio del club, il cui debito è lievitato da 50 milioni a 97 nell'arco di sei mesi. Il curatore speciale ha il compito di vigilare su eventuali atti degli amministratori che danneggino la società o i soci di minoranza.  Ed è stato l'ultimo colpo di scena in una giornata tutta dedicata al Parma. E' stata una lunga discussione quella in consiglio comunale  riguardante il buco che  la società calcistica ha lasciato tra l'altro all'amministrazione comunale. In contemporanea il presidente della società calcistica ribadiva che chiunque sia intenzionato ad acquistare in tutto o in parte il Parma calcio deve rivolgersi a lui e non al sindaco di Parma Piazzarotti. Mentre era in corso il Consiglio comunale il sindaco incontrava i rapopresentanti dei calciatori guidati dall'ex romanista Tommasi. Al momento le possibilità che il tardini venga riaperto , dopo che il calendario del Parma ha già subito due stop sono al 50%.

Parma, Ghirardi (sotto scorta) va all'attacco e denuncia Taci. Accusato del fallimento e minacciato dai tifosi, l'ex presidente ripensa ai dirigenti che gli parlarono bene dell'albanese per poi voltargli le spalle...scrive Giovanni Capuano su “Panorama”. Spaventato forse no. Preoccupato certamente, e con la macchina della Digos fissa fuori dalla sua casa a Carpenedolo perché la rabbia dei tifosi del Parma si sta scaricando soprattutto su di lui. Ha letto le scritte minacciose, prova a tenere tranquilla la sua famiglia e, intanto, studia la strategia per uscire dal caos nel quale è infilato insieme a tutti gli altri protagonisti della vicenda del crac della società emiliana. La Procura ha aperto un fascicolo di indagine per reati fiscali e ha messo nel mirino tutti gli amministratori che hanno guidato il Parma in questi anni; i magistrati vogliono vederci chiaro per capire a quanto ammonti il tesoretto non versato al Fisco (16,7 milioni di euro) e se esista una responsabilità penale. Non è però questa l'unica chiesta, perché Ghirardi si è mosso anche in prima persona e questa volta come parte lesa. Ritiene di essere stato beffato da Rezart Taci e lo denuncia: violazione di contratto e truffa. Insieme ai legali sta raccogliendo tutto il materiale, scritto e non solo, che racconta sei mesi di trattative con il petroliere albanese; dal 30 maggio, giorno dell'annuncio dell'addio dopo l'iscrizione negata all'Europa League, fino al 19 dicembre, il momento in cui cedendo le quote alla Dastraso Holdings Ltd ha ritenuto di avere chiuso la sua avventura nel calcio italiano. Nel faldone sono stati raccolti mail, lettere e contatti con Taci e gli uomini del suo board, sempre con la mediazione di uno studio notarile di New York e con la convinzione di lasciare il club in buone mani. Certezze incrinatesi a metà novembre, quando la trattativa sembrava saltata al momento della formalizzazione dell'acquisto, ma mai crollate perché il petroliere albanese si era presentato con tutte le garanzie del caso e con referenze importanti. Quali? In queste giornate, chiuso nel bunker di Carpenedolo, Ghirardi ripensa anche alle telefonate con i vertici del calcio, dirigenti di Lega e Figc, costantemente informati sull'andamento delle cose e che gli avevano dipinto Taci come un personaggio amico di gente potentissima, pieno di soldi e furbo. Molto furbo. Gli stessi dirigenti che ora gli hanno voltato le spalle facendo finta di non aver avuto nulla a che fare con una persona che nel sistema italiano non era stato certo portato da Ghirardi, ma girava già da qualche anno. I nomi non sono difficili da rintracciare, considerando anche chi sedeva nel consiglio della Lega in quel momento. Lontano dal Parma i problemi di Ghirardi non sono finiti. Anzi, si sono moltiplicati e riguardano anche l'azienda di famiglia che sta vivendo un momento di forte fibrillazione. L'ex presidente attendeva di essere liberato dalle fideiussioni personali messe a garanzia dell'attività del club, ma anche questo appuntamento è stato disatteso. Preoccupazioni che si intrecciano con il dispiacere per essere finito al centro di quella che ritiene un'aggressione mediatica non giustificata, puntata più su di lui che su Taci e Manenti. Rispetto a quest'ultimo, ad esempio, Ghirardi ritiene di avere poco o nulla a che fare, non avendogli aperto lui le porte del Parma: un concetto ribadito anche a chi in queste settimane lo ha chiamato dopo aver visto all'opera l'attuale proprietario, che non ha ancora versato un euro nelle casse mentre Ghirardi rifà i conti sul bloc-notes e ricorda di essere stato l'ultimo a staccare un assegno (da 3 milioni di euro) a novembre per pagare gli stipendi dei 22 dipendenti e una mensilità per i calciatori. Soldi versati a fondo perduto e la cui documentazione è (sarebbe) in mano al sindaco Pizzarotti, insieme ad altre testimonianze di quei mesi in cui il primo cittadino ha (avrebbe) affiancato passo passo il proprietario uscente. Nei prossimi giorni Ghirardi farà altre mosse, quasi certamente lontano dalla ribalta mediatica. Al momento non risponderà, ad esempio, alle accuse dei suoi ex calciatori e di chi gli addebita una gestione allegra del Parma. Con un dato oggettivo: fino alla metà di novembre, prima del grande caos, la squadra aveva messo insieme 9 sconfitte e 2 sole vittorie in Campionato. Andamento lentissimo. Le riflessioni sui debiti e sullo stato patrimoniale della società al momento del suo addio le ha affidate all'unica ricostruzione giornalistica uscita in questi giorni ("L'indebitamento corrente ammonta a 73,5 milioni e riguarda fornitori, procuratori, personale federale, dipendenti e tasse. Debiti che potrebbero essere oggetto di trattativa e accordi di rateizzazione"). Poi verrà anche il tempo di ragionare sulla politica dei 200 e passa tesserati, ma ora la priorità è un'altra: poter tornare alla vita di prima senza avere appiccicata addosso per la vita l'etichetta di quello che ha rovinato una storia centenaria. Documenti alla mano, Ghirardi si appresta così ad affrontare l'esame più duro. Pronto a difendersi, ma anche ad attaccare.

Parma calcio compie 100 anni. La storia di un successo (grazie ai soldi di Parmalat), scrive Silvia Bia il 15 dicembre 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Compie un secolo la squadra a cinque stelle dei Tanzi, che - come hanno dimostrato i magistrati - era foraggiata con denaro distratto dall'azienda parmigiana. Le cento candeline cadono negli stessi giorni del decimo anniversario del crac. Era l’estate del 1913 quando, nel centenario della nascita di Giuseppe Verdi, undici ragazzi indossarono le divise gialle e blu per giocare a calcio in quella che, in onore del Maestro di Busseto, si chiamava Verdi Football Club. Qualche mese più tardi, il 16 dicembre, da quel gruppo nacque il Parma Football Club e con esso l’inizio della storia del calcio a Parma e dei suoi giocatori, in campo con una croce sul petto che richiamava lo scudo della città, e che ancora oggi, a distanza di cento anni, è il simbolo della squadra. Il Parma festeggia un secolo di calcio, tra sconfitte e traguardi che hanno segnato l’ascesa di un piccolo club di provincia dalle serie minori fino alle più folgoranti vittorie in serie A e nelle competizioni europee. La città si stringe intorno alla sua gloria calcistica in tre giorni di celebrazioni, e l’unico grande assente è Calisto Tanzi, oggi ai domiciliari in ospedale, che di quella gloria è stato in gran parte il fautore. Fu alla fine degli anni Ottanta che l’ex patron della Parmalat firmò il primo contratto di sponsorizzazione della squadra, che segnò l’inizio dell’era d’oro del Parma Calcio, interrotta molti anni dopo dal crac finanziario dell’azienda di Collecchio. Ironia della sorte, le cento candeline del Parma Calcio cadono negli stessi giorni del decimo anniversario del crac Parmalat, quello che ha segnato la fine del calcio champagne made in Parma, quando sul campo i campioni dello stadio Tardini scalavano classifiche e guadagnavano coppe. In Europa, a Wembley, poi a San Siro e in ogni stadio dello Stivale. Di quel periodo oggi rimangono i ricordi e le inchieste giudiziarie. Di Tanzi, l’imprenditore che fece grande Parma con il suo impero del latte e che rese il Parma Calcio famoso in tutto il mondo sportivo, si parla solo nei tribunali. Allo stadio, il nome del “signor Calisto” che seguiva ogni domenica la sua squadra dalla tribuna, si sussurra sottovoce, e perfino nelle celebrazioni del centenario, cominciate lo scorso ottobre al Tardini, del Parma Calcio di Tanzi e delle grandi vittorie si è fatto solo cenno con imbarazzo, senza mai riferirsi esplicitamente all’ex proprietario della società. Del resto, il crac si è trascinato dietro anche la società sportiva di cui presidente era il figlio di Tanzi, Stefano. I magistrati hanno dimostrato che il calcio a cinque stelle dei Tanzi era in parte foraggiato con soldi distratti dalla Parmalat, da cui dal 1999 al 2003 sarebbero usciti 10 milioni di euro e 11 milioni di dollari. Anche i giocatori inneggiati ogni domenica dai Boys della Curva Nord sono in parte stati travolti dalle inchieste giudiziarie. Proprio di poche settimane fa la notizia della richiesta di rinvio a giudizio per le stelle del calcio Hernan Crespo, Sebastian Veron, Faustino Asprilla, Luigi Apolloni, Enrico Chiesa, Lilian Thuram, Dino Baggio, Hristo Stoichckov, Tomas Brolin, Lorenzo Minotti e Massimo Crippa. Tutti finiti invischiati nel crac finanziario con l’accusa di bancarotta fraudolenta in concorso per false sponsorizzazioni del marchio Parmalat pagate con soldi drenati dalle casse del gruppo di Collecchio, insieme a 15 ex dirigenti, consiglieri, sindaci e procuratori del Parma Calcio. Verso l’archiviazione invece altri nomi eccellenti della squadra di Tanzi, come l’ex mister Nevio Scala e i calciatori Gianfranco Zola, Nestor Sensini, Fabio Cannavaro, Alberto Di Chiara, Sandro Melli, Stefano Cuoghi, Antonio Benarrivo, Stefano Cuoghi e Johnnier Caicedo Montano. Nomi di un’epoca che sembra passato remoto, ma che a Parma per tutti i tifosi è un ricordo stampato nella memoria. Anche se ora, passata la bufera del crac Parmalat e il commissariamento, con la nuova direzione del Parma Football Club di Tommaso Ghirardi, nei festeggiamenti per i cento anni si tende a dimenticare quell’eredità finita nelle aule dei tribunali. Di quel tempo rimangono i trofei: la Coppa delle coppe, le due Uefa, la Supercoppa europea, lo scudetto sfiorato più volte. L’epoca dello stadio sempre pieno e della fila per comprare gli abbonamenti e i biglietti per conquistarsi un gradino in curva o un seggiolino in tribuna per vedere dal vivo lo spettacolo del calcio ducale, che dalla piccola Parma era arrivato in vetta alle classifiche, dando del filo da torcere alle grandi squadre della serie A. La storia del Parma Calcio è fatta anche di quella manciata di anni fortunati finiti con il crac. Nelle celebrazioni del centenario del club si festeggia un secolo di calcio ducale, un secolo di sconfitte e di vittorie, di ascese e di declini, come è per ogni squadra. Pagine di sport, di uomini, di trofei e anche di errori, di una realtà che è sopravvissuta alla fine dell’impero di Tanzi, con l’arrivo del nuovo presidente Ghirardi, che ultimamente è stato travolto nell’inchiesta Public Money, e il suo rinato Parma Football Club. Per celebrare questi cento anni densi di avvenimenti la città di Parma si prepara a una settimana di eventi: una mostra fotografica, la maglia del centenario da indossare durante la partita contro il Cagliari di domenica 15 dicembre, e poi incontri nelle scuole, baby maglie crociate in regalo ai nati all’ospedale il 16  dicembre. Il gran finale al Teatro Regio lunedì sera, nel giorno del centesimo compleanno del Parma Calcio, con una serata condotta da Simona Ventura che vedrà la partecipazione dei campioni giallo blu di ieri e di oggi. Per ricordare le glorie del passato e continuare a guardare avanti.

Parma calcio, quando Tavecchio nel 2013 premiava Ghirardi come miglior dirigente, scrive Andrea Tundo su “Il Fatto Quotidiano”. L'allora numero uno della Lnd riconobbe al presidente della società ducale il prestigioso riconoscimento durante la settima edizione de 'Le Ali della Vittoria'. La motivazione? "Sa coniugare dinamismo e razionalità per una gestione virtuosa del proprio club". Eppure i bilanci erano già ballerini. Il presidente della Figc Carlo Tavecchio dev’essere rimasto molto sorpreso della crisi finanziaria del Parma che sta spingendo il club verso il fallimento. Perché nel marzo 2013 riteneva Tommaso Ghirardi il miglior dirigente di società professionistiche in Italia soprattutto in chiave gestionale, nonostante – come raccontano oggi i bilanci – il crack della squadra crociata sia nato sotto la spinta di un debito cavalcante fin dal primo anno della gestione dell’imprenditore bresciano. Aumentando del 1200% secondo le analisi de Il Sole 24 ore tra il 2007 e il 2014. Ma l’ormai ex proprietario del Parma, poco meno di due anni fa, veniva così descritto dalla Lega nazionale dilettanti presieduta all’epoca proprio da Tavecchio: “Giovane ed intraprendente dirigente sportivo che sa coniugare dinamismo e razionalità per una gestione virtuosa del proprio club. Animato da grande passione, ha rappresentato una delle più felici novità sul panorama calcistico italiano degli ultimi anni”. “Razionalità” e “gestione virtuosa del proprio club”. È scritto proprio così, nero su bianco, nelle motivazioni con le quali Ghirardi venne premiato nella categoria ‘dirigente di società professionistica’ durante la settima edizione de Le Ali della Vittoria, premio istituito dal presidente Carlo Tavecchio nel 2004 che “gode ormai di un prestigio considerevole grazie alla partecipazione in passato di personalità del calibro di Michel Platini e Joseph Blatter”, si legge sul sito della Lnd. Sul palco dell’auditorium della Fiera di Cagliari, il 27 marzo, oltre a Pierluigi Collina e al presidente della Lega Serie A Maurizio Beretta, salì anche il presidente del Parma che, nel ricevere il premio dalle mani del vice di Tavecchio, Alberto Mambelli, pronunciò parole che riascoltate oggi appaiono quanto meno stonate: “Gli obiettivi del Parma? Crescere sempre di più, cercare di investire nel settore giovanile, di trovare talenti per il futuro, cercare di rendere la società sostenibile con dei costi-ricavi che si compensino, cercare di dare continuità a una società gloriosa che ha avuto dei periodi molto felici e dei periodi molto tristi”. Di fatto il Parma non ne ha raggiunto uno. Anzi, ad ascoltare quanto ha dichiarato pochi giorni fa al Corriere dello Sport il team manager gialloblù Alessandro Melli, la situazione era già compromessa dal 2011 quando “ci hanno tolto le carte carburante e dovevamo anticipare noi i soldi della benzina”. All’esterno però non se n’è accorto nessuno. E anche quando la Co.Vi.So.C. – come scoperto da ilfattoquotidiano.it – nell’aprile 2014 lanciava l’allarme consigliando “un attento monitoraggio” e la “necessità di un intervento sull’andamento economico”, le istituzioni calcistiche hanno ignorato l’avvertimento. “Colpa delle regole”, dicono oggi. Sono quelle cambiate il 3 maggio 2007 dal Consiglio federale della Figc, ammorbidendo i parametri per l’iscrizione ai campionati professionistici. Come riportato da Panorama, votarono a favore tutti i membri, da Galliani ad Albertini fino a Tavecchio. Lo stesso che, ignorando quanto la crisi già mordesse il Parma, due anni fa premiava Ghirardi “in onore del colpo d’ali offerto alla causa del calcio professionistico”.

Il calcio verso il crack 1,7 miliardi di debiti il Parma è solo l’inizio, scrivono Giuliano Balestreri Francesco e Saverio Intorcia  su “La Repubblica”. LA MAGGIOR PARTE DEI CLUB DI SERIE A VERSA IN CONDIZIONI ECONOMICHE PESSIME, OPPRESSI DALLE PASSIVITÀ E STRETTI FRA GLI INTROITI CALANTI DEI BIGLIETTI ALLO STADIO E I DIRITTI TV NON PIÙ STELLARI. L’UNICA SALVEZZA SEMBRANO ESSERE I RICCHI ORIENTALI. La Serie A è lo specchio del Paese: debiti enormi e zero utili. Come lo Stato, il campionato, ogni anno, spende più di quello che incassa: a fronte di 1,6 miliardi di ricavi, ce ne sono 1,7 di debiti netti e 3 di debiti lordi. Gli utili sono pari a zero e le perdite annue arrivano a 100 milioni di euro. Paradigma di un sistema che fatica a sostenersi da solo è il Parma che rischia di abbassare la saracinesca fra pochi giorni. Poi ci sono le due big milanesi legate agli investitori d’Oriente che, dopo l’Inter, ora posano gli occhi sul Milan. Siamo di fronte a un movimento rassegnato a lasciar partire i propri campioni: per far quadrare i bilanci si rinuncia allo spettacolo. Facendo finta di ignorare l’eccessiva e dannosa dipendenza dalle televisioni, pronte a chiudere i cordoni della borsa qualora l’audience calasse. Il caso più eclatante è quello del club gialloblù, che rischia il fallimento: l’udienza è fissata il 19 marzo. Eppure non è stato un crac improvviso. Il bilancio chiuso al 30 giugno 2014 ha evidenziato una perdita di 13,7 milioni (superiore a un terzo del capitale sociale). L’ indebitamento lordo del Parma è cresciuto in modo spaventoso negli ultimi anni: era di 16,1 milioni nel 2006-07, è salito a 197,4 nel 2013-14. La Federcalcio ha negato la licenza Uefa ma ha permesso al club di iscriversi al campionato: la crisi finanziaria della società ha reso subito impossibile pagare gli stipendi, ad eccezione di luglio. La proprietà aveva garantito la continuità aziendale solo fino al 31 dicembre 2014, e il bilancio 2013 era stato chiuso con una perdita contenuta (3,2 milioni) solo per la cessione del marchio che aveva generato una plusvalenza di 22,7 milioni. I bilanci Lo scudetto dei conti va al Napoli, che al 30 giugno 2014 - ultimo bilancio disponibile - ha chiuso con un utile di 20,2 milioni, migliorando il risultato del precedente esercizio (+12,2 milioni): effetto del ritorno in Champions e della maxi-cessione di Cavani al Psg. Il club di De Laurentiis ha registrato plusvalenze per 69,3 milioni. Altra società virtuosa è la Lazio che ha chiuso con un utile di 7,1 milioni, grazie alle ricche plusvalenze (22,9 milioni) e alla cessione di Hernanes all’Inter. In attivo anche la Fiorentina (+1,4 milioni, 33,4 milioni di plusvalenze), che aveva ceduto Jovetic e Ljajic. L’Inter (+33 milioni nel bilancio del club, -102,4 milioni nel consolidato) ha creato Inter Media and Communications, una newco in cui ha conferito i contratti di sponsorizzazione, i crediti dei diritti tv, le attività di gestione del marchio (già ceduto a Inter Brand srl), incassando ricche plusvalenze. In attivo anche Hellas Verona (+5,3 milioni, con la cessione del marchio) e Genoa (in sostanziale pareggio, con la cessione del ramo d’azienda e dello sfruttamento del brand). La Juventus ha perso 6,7 milioni, dato non drammatico perché il club sta riducendo il passivo (era -15,9 milioni nel 2012/13). Il Milan al 31 dicembre 2013 ha fatto registrare un rosso di 22,5 milioni (-15,7 nel consolidato), l’As Roma Spa ha chiuso con un passivo di 38,6 milioni al 30 giugno 2014. Sugli incassi totali della A, il fatturato netto (diritti tv, biglietteria, sponsor e contratti commerciali) è pari all’80%. Il restante 20 arriva dalle plusvalenze da calciomercato, una zona d’ombra che è stata oggetto d’indagine dei magistrati. Anche quando sono reali, i dati riguardano la cessione di campioni all’estero: per far quadrare i conti, la Serie A è costretta a rinunciare ogni anno ai suoi migliori giocatori. Nel mirino Uefa La Roma, insieme all’Inter, è nel mirino dell’Uefa: 7 club sotto indagine per violazione del fair play finanziario (gli altri sono Monaco, Besiktas, Krasnodar, Liverpool e Sporting Lisbona), in settimana possibili le sanzioni: dalla multa all’esclusione dalle coppe. I due club italiani hanno presentato un piano di rientro, rischiano il blocco dei premi Uefa ma sperano di cavarsela con una piccola sanzione. I debiti Il Parma non è l’unico club di A schiacciato dai debiti. Alla luce dei bilanci disponibili (2013/14 o 2013 per i club che si avvalgono del consolidato), il debito lordo delle squadre di Serie A ammontava a 3,3 miliardi, in deciso aumento sul 2012/13 (2,9 miliardi). Cifra che comprende i debiti, i fondi rischi e Tfr, i ratei e risconti passivi. Il debito netto ammonta a circa 1,7 miliardi, in aumento rispetto alla stagione precedente (1,5 miliardi), ma spesso tra gli attivi circolanti ci sono crediti che mai verranno riscossi. Il fatturato netto della Serie A ammonta a 1,6 miliardi. Osserva Luca Marotta, revisore contabile di bilanci calcistici: “Il rapporto fra passività e fatturato netto della Serie A 2013/14 è pari a 1,982. Questo significa in teoria che serve il fatturato di due anni per restituire la liquidità equivalente al capitale di terzi investito in un esercizio. Maggiore è questo indice, più importante diventa il continuo supporto finanziario della proprietà. Il club col più alto valore è il Genoa, con 5,6. Nel Parma era 4,2 e i problemi sono emersi quando è venuto meno il supporto degli azionisti”. Le luci dell’est L’Inter è già indonesiana, il Milan è nei sogni di thailandesi e cinesi, che sul piatto sono pronti e mettere un miliardo di euro: una cifra a cui la famiglia Berlusconi difficilmente potrà dire di no. Da Bangkok, la cordata con a capo Bee Taechaubol, si dice pronta a chiudere il conto con le banche (il Milan ha debiti per oltre 250 milioni) e a investire per riportare la squadra sul tetto d’Europa. Dalla Cina, il colosso Wanda, che gestisce diritti televisivi, ha smentito di poter chiudere l’affare a queste cifre: “Valutazione irrealistica”, secondo l’azienda che ha rilevato il 20% dell’Atletico Madrid per 45 milioni, e Infront per 1,05 miliardi. In un sistema incapace di camminare con le proprie gambe, dove lo spettacolo latita e i conti proprio non tornano, l’unica salvezza arriva dai cavalieri bianchi d’oriente ancora attratti dalla forza del made in Italy. Schiavi delle tv Nell’ultima stagione la Serie A ha fatturato 1,6 miliardi, al netto dei ricavi dal calciomercato. In questa voce, lo scudetto va alla Juventus (279,3 milioni), davanti a Milan (246), Napoli (165), Inter (154), Roma (128). Il Milan detiene il primato di ricavi commerciali (78 milioni). Ma il telecomando del calcio italiano è in mano ai network. Sul fatturato dei club, i diritti televisivi incidono per il 59%, gli sponsor e i contratti commerciali per il 19%, i biglietti per l’11% (altri ricavi generici ammontano all’11%). Un circolo vizioso: le società non confezionano un prodotto autonomo per poi rivenderlo, ma traggono dai contratti tv i fondi per allestire una stagione. In alcuni casi, come il Parma, le stagioni presenti si finanziano impegnando i futuri ricavi della cessione di diritti. All’estero Come funziona all’estero? Nel modello inglese, le tv incidono per il 51%, ma la Premier League ha appena ceduto il triennio 2016-19 per 5,136 miliardi di sterline, circa 7 miliardi di euro, con un aumento del 70%. Alla Serie A, in base all’ultimo contratto, andranno “solo” 1.003 milioni a stagione. E in Inghilterra i ricavi da gare (21%) e da sponsor (27%) insieme garantiscono l’altra metà dei ricavi. Nel modello tedesco, le tv incidono solo per il 29%, la fetta commerciale è del 42% e la biglietteria vale il 23%. In Spagna le entrate sono più bilanciate: 43% dalle tv, 26% dalle partite, 25% da sponsor e attività commerciali. L’incapacità di incrementare le altre voci del fatturato è il freno principale alla crescita del movimento. La Juventus, prima squadra italiana ad avere l’impianto di proprietà (seguita da Udinese e Sassuolo), dallo Stadium riceve solo il 16% dei ricavi. “Il punto debole – dice Dario Righetti, partner Deloitte – è la dipendenza dai diritti tv. All’estero hanno investito nella gestione degli stadi e del merchandising, creando un clima positivo che adesso permette alle leghe di rinegoziare contratti tv ancora più ricchi”. Laconico il commento dell’ad del Milan, Adriano Galliani: “Tra un anno l’ultima delle squadre inglesi prenderà dai diritti tv più di una grande italiana”. Costi e rischi Dice Marotta: «Se in un’azienda si produce di più spremendo il personale, nel calcio ogni crescita della produzione viene assorbita da premi e spese per i dipendenti». In Italia i costi del personale (calciatori e tesserati) arrivano al 71% dei ricavi, lasciando solo il 29% a copertura delle spese vive e dei costi finanziari: uno sbilanciamento che continua ad alimentare le spirale debitoria nella quale versano le squadre italiane. Ecco perché una fuga delle tv metterebbe a rischio l’intero sistema. Basterebbe anche una minore attenzione o un’asta al ribasso. Certo, l’ultima asta sui diritti tv che Infront, con furbizia e abilità, è riuscita gestire ottimizzando i ricavi tra Sky e Mediaset ha spostato il problema più in la di qualche anno. Ma i dubbi restano. Il Parma è sull’orlo del fallimento, schiacciato dai debiti e dagli scarsi incassi. La Lega ha deliberato che da ora in poi le partite alle quali non si presenterà si considereranno vinte per 3 a 0 dagli avversari.

LA RETATA IN SALSA EMILIANA ROMAGNOLA.

28 gennaio 2015. Un resoconto da tutti i punti di vista.

‘Ndrangheta, 117 arresti in tutta Italia. Risate anche sul terremoto. Nel mirino il clan Grande-Aracri di Cutro (Crotone). In manette l’imprenditore edile di Iaquinta, padre del giocatore di calcio campione del mondo a Berlino nel 2006, scrive “Il Corriere della Sera”. Maxi operazione dei carabinieri contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Centodiciassette gli arresti disposti dalla magistratura di Bologna. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia, per un totale di oltre 160 arresti. A coordinare l’inchiesta, denominata ‘Aemilia’, la procura distrettuale antimafia di Bologna, che ha ottenuto dal gip un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 117 persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di capitali di illecita provenienza, emissione di fatture per operazioni inesistenti ed altro. Tutti reati commessi con l’aggravante di aver favorito l’attività dell’associazione mafiosa. Contestualmente, le procure di Catanzaro e Brescia - in inchieste collegate - hanno emesso altri 46 provvedimenti di fermo per gli stessi reati. E anche in questo caso spuntano intercettazioni agghiaccianti: risate sul terremoto in Emilia, come all’Aquila. Sono in un dialogo citato nell’ordinanza del Gip tra due indagati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio del 29 maggio 2012, avvenuta alle 13.29, cioè solo 4 ore e mezza dopo la violenta scossa delle 9.03 che fece crollare diversi capannoni nel modenese: «È caduto un capannone a Mirandola», dice il primo. «Valerio ridendo risponde: eh, allora lavoriamo là.. Blasco: ah si, cominciamo facciamo il giro...», si legge. Nell’elenco delle persone arrestate risultano anche importanti imprenditori del settore edile e fra questi Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo campione del mondo nel 2006 a Berlino. Giuseppe Iaquinta è stato arrestato nel reggiano. Tra gli indagati nell’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna c’è anche Domenico Mesiano, già autista del Questore di Reggio Emilia. Mesiano risponde di associazione mafiosa e minacce. È lui che avrebbe fatto pressioni sulla giornalista Sabrina Pignedoli, della redazione reggiana del Resto del Carlino, per non pubblicare notizie sulla famiglia di Antonio Muto, il cui nome emerge nell’inchiesta. Oltre a Mesiano ci sono altri rappresentanti delle forze dell’ordine che sono indagati nell’ inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Si tratta di Antonio Cianflone e Francesco Matacera, ex ispettori della polizia in forza alla Squadra mobile di Catanzaro, Domenico Salpietro, ex carabiniere a Reggio Emilia, Maurizio Cavedo, ex sovrintendente della Polstrada a Cremona, Alessandro Lupezza, ex carabiniere a Reggio Emilia e Mario Cannizzo, ex carabiniere. In Emilia, sottolineano gli investigatori, la ‘ndrangheta ha assunto una nuova veste, colloquiando con gli imprenditori locali. Tra gli arrestati nella maxi operazione anche il capogruppo di Fi nel consiglio comunale reggiano, Giuseppe Pagliani. I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano (Reggio Emilia). In una delle intercettazioni Alfonso Paolini, ritenuto un elemento di costante riferimento per Nicolino Sarcone, per i Pm a capo dell’organizzazione `ndranghetistica a Reggio Emilia, gli dice: «Giuseppe ti dico sono gente che? i voti ti porteranno in cielo... guarda... però devi essere tu a consigliare e dire quello che bisogna fare...». Nella conversazione i due si mettono d’accordo per incontrarsi anche con Sarcone. Il 2 marzo 2012, annota il giudice, «ha luogo il primo summit tra il politico reggiano, Pagliani, e gli esponenti della cellula reggiana nell’ufficio di Sarcone Nicolino». Poi, il 21, ci sara´ la serata al ristorante Antichi Sapori dove per gli inquirenti fu siglato il patto tra politica e cosche. Il Gip sottolinea per i due, Pagliani e Sarcone, «la convergenza di interessi che è fondamento e giustificazione dell’accordo politico-mafioso». In una telefonata alla fidanzata, è lo stesso Pagliani, al termine della cena, verso mezzanotte, a raccontare: «Non vogliono usare altre linee, vogliono usare il partito, proprio il... il Pdl per andare contro la Masini, contro la Sinistra». E ancora, riferendosi alla Masini: «Adesso le faccio una cura come dio comanda, adesso le faccio fare una curetta giusta». «La situazione che abbiamo davanti è molto chiara: la lotta alla mafia in questa città e in gran parte del nord Italia è la nostra nuova Resistenza»: così il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi.«Nicolino Grande Aracri ha esportato il modello di `ndrangheta calabrese in tutta Italia e la cosca di Cutro ha occupato l’Emilia Romagna dal punto di vista criminale», ha sottolineato invece il procuratore capo di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo. Lombardo ha evidenziato che gli emissari di Grande Aracri «vanno e vengono da Bologna», mentre «c’è un insediamento del tutto simile alle nostre organizzazioni di `ndrangheta anche a Reggio Emilia, anche se ha limitato potere di autonomia perché le cose più importanti devono sempre avere l’assenso di Nicolino Grande Aracri». Secondo il procuratore di Catanzaro, «Nicolino Grande Aracri era un punto di riferimento per tutte le cosche che operano in questo distretto, come dimostrano anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Giampà. Lo stesso Grande Aracri dice che tratta con i reggini a pari livello».

Le mani della 'Ndrangheta sull'Emilia, 117 arresti. Indagati ridevano dopo sisma del 2012. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. Ramificazioni all'estero. In manette anche consigliere comunale forzista di Reggio Emilia. E alcuni imprenditori, tra cui il padre del calciatore Vincenzo Iaquinta. Tra gli indagati il sindaco di Mantova Sodano, scrivono Fabio Tonacci e Francesco Viviano su “La Repubblica”. I tentacoli della 'Ndrangheta sono arrivati fino in Emilia. Una maxi operazione dei Carabinieri, denominata "Aemilia", condotta dalla Dda di Bologna ha portato a 117 richieste di custodia cautelare (110 portate a termine, 7 persone risultano irreperibili) e ad oltre 200 indagati, per la maggior parte in Emilia. Altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia. Sul campo sono stati impiegati un migliaio di militari con il supporto anche di elicotteri. I provvedimenti di custodia riguardano soggetti ritenuti responsabili a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture false. Il clan al centro dell'inchiesta è quello dei Grande Aracri di Cutro (Crotone), di cui è documentata da tempo l'infiltrazione nel territorio emiliano, soprattutto nella zona di Brescello dove vivono esponenti di spicco della cosca calabrese. Alcuni dei reati hanno carattere transnazionale, interessano Austria, Germania, San Marino. Chiesto il sequestro di beni per 100 milioni di euro. Una parte consistente dell'inchiesta riguarda gli appalti della ricostruzione post terremoto e alcuni imprenditori emiliani. In particolare la "Bianchini costruzioni Srl" di Modena è riuscita ad ottenere "numerosissimi appalti" del Comune di Finale Emilia in relazione - si legge nell'ordinanza - ai lavori conseguenti il sisma del maggio 2012 e altri in materia edile e di smaltimento rifiuti. Per questo Augusto Bianchini è finito in carcere, Alessandro Bianchini è invece ai domiciliari. Tra gli arrestati anche l'imprenditore Giuseppe Iaquinta, padre dell'ex calciatore della Juventus e campione del mondo Vincenzo Iaquinta. E ancora una volta alcuni alcuni indagati, si legge nell'ordinanza del Gip, ridono dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia nel 2012 proprio come era accaduto nel 2009 all'Aquila. Le risate sono in un dialogo citato nell'ordinanza del Gip tra due indagati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio: "E' caduto un capannone a Mirandola", dice il primo. "Valerio ridendo risponde: eh, allora lavoriamo là.. Blasco: 'ah sì, cominciamo facciamo il giro...'", si legge. "Un intervento che non esito a definire storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord", ha commentato il Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti in conferenza stampa. Poi ha aggiunto: "Non ricordo a memoria un intervento di questo tipo per il contrasto a un'organizzazione criminale forte e monolitica e profondamente infiltrata". L'inchiesta, in corso da diversi anni, aveva portato gli inquirenti a sentire come persona informata dei fatti anche l'ex sindaco di Reggio Emilia e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio e altri politici locali. Lo stesso Delrio, in un tweet, ha manifestato il suo plauso per l'inchiesta bolognese: "Inchieste Dda Bologna fondamentali per rendere più forti e libere le nostre comunità #Aemilia". Anche la politica locale è coinvolta nell'inchiesta. Gli inquirenti hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenzare elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell'Emilia. Lo ha spiegato il procuratore Roberto Alfonso citando i casi di Parma nel 2002, Salsomaggiore nel 2005, Sala Baganza nel 2011, Brescello nel 2009. Tra le persone colpite dai provvedimenti di custodia, il consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, di Forza Italia. I carabinieri lo hanno prelevato dalla sua abitazione di Arceto di Scandiano, vicino a Reggio Emilia. Tra gli indagati ci sono il sindaco di Mantova Nicola Sodano, che sarebbe accusato di favoreggiamento per una vicenda legata a un appalto in cui è coinvolto un imprenditore arrestato, e Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del Consiglio comunale di Parma, allora appartenente a Forza Italia. Per lui la procura aveva chiesto l'arresto, ma il Gip non l'ha concesso. L'accusa a suo carico è di "aver contribuito pur senza farne parte al rafforzamento e alla realizzazione degli scopi dell'associazione mafiosa", perché "richiedeva e otteneva dagli associati voti a suo favore in relazione alla campagna elettorale 2007 per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale di Parma". Agli arresti anche Nicolino Sarcone considerato anche da indagini precedenti il reggente della cosca su Reggio Emilia. Sarcone, già condannato in primo grado per associazione mafiosa, è stato recentemente destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale che gli aveva bloccato beni per cinque milioni di euro. Dalle carte dell'inchiesta emergerebbe anche il sostegno elettorale imposto dai Grande Aracri ad alcuni candidati emiliani durante le amministrative. L'indagine è condotta dalla procura distrettuale antimafia di Bologna che ha ottenuto dal gip del Tribunale le 117 richieste custodie cautelari in Emilia, ma anche Lombardia, Piemonte, Veneto, Sicilia. Contestualmente si sono mosse le procure di Catanzaro e Brescia che hanno emesso 46 provvedimenti. Nella lista dei nomi colpiti dalle ordinanza di custodia sono finiti anche Ernesto e Domenico Grande Aracri, i fratelli del boss già detenuto Nicolino Grande Aracri, detto "Mano di gomma". Domenico è un avvocato penalista, il suo arresto è stato disposto dalla Dda di Bologna, mentre per Ernesto si è mossa la Dda di Catanzaro. Il centro di questa organizzazione è Cutro, piccola cittadina del crotonese: Nicolino Grande Aracri aveva intenzione di costituire una grande provincia in autonomia. La cosca di Cutro sarebbe riuscita, grazie all'avvocato del foro di Roma Benedetto Giovanni Stranieri (sottoposto a fermo per concorso esterno in associazione mafiosa), anche ad avvicinare un giudice di Cassazione e a fare annullare con rinvio una sentenza di condanna a carico del genero del boss. "Grande Aracri - ha spiegato il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo - si atteggia a capo di una struttura al di sopra dei singoli locali. E' sostanzialmente il punto di riferimento anche delle cosche calabresi saldamente insediate in Emilia Romagna dove c'era una cellula dotata di autonomia operativa nei reati fine. I collegamenti tra Emilia Romagna e Calabria erano comunque continui e costanti e non si faceva niente senza che Grande Aracri lo sapesse e desse il consenso". Intanto emergono dettagli sui tentativi di intimidazione che il clan aveva messo in atto nell'area emiliana. Non solo su imprenditori e istituzioni, ma anche su giornalisti, come nel caso di Sabrina Pignedoli, corrispondente ANSA da Reggio Emilia e cronista del Resto del Carlino. Tentativo però respinto dalla cronista. Un altro giornalista è finito agli arresti: si tratta di Marco Gibertini, cronista di TeleReggio, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa poichè, secondo l'accusa, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana facendoli andare in Tv e sui giornali. In manette anche sei "talpe", che informavano i Grande Aracri. Si tratta di tre ex carabinieri in congedo e tre poliziotti.

'Ndrangheta, 117 arresti in Emilia Romagna. Associazione mafiosa, usura e riciclaggio. Un'operazione dei carabinieri di Modena, Reggio Emilia e Bologna ha portato all'arresto nella notte di 117 persone e al sequestro di beni per svariati milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Una cellula emiliana della 'ndrangheta. Che ha forza militare, finanziaria e di relazione. Relazioni con la politica e persino con l'informazione. Tra Modena e Piacenza i padrini hanno investito denaro, tanto denaro. E si presentano come imprenditori perbene. «Si è sempre parlato della 'ndrangheta imprenditrice: gli arresti di oggi dimostrano proprio l'esistenza di questo tipo di organizzazione», ha spiegato il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso durante la conferenza stampa in cui è stata illustrata la grande retata denominata “Emilia” che ha portato in carcere 117 persone e al sequestro di beni per un valore di oltre 100 milioni di euro.  Un'indagine messa a punto dalla procura antimafia felsinea che ha coordinato i comandi provinciali di Modena, Reggio Emilia, Parma. La parte patrimoniale invece è stata eseguita dalla Direzione investigativa di Bologna e dalla Guardia di Finanza di Cremona. Maxi operazione dei carabinieri contro la 'ndrangheta in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Calabria e Sicilia. Migliaia gli uomini impiegati. 117 gli arresti disposti dalla magistratura di Bologna, altri 46 provvedimenti sono stati emessi dalle procure di Catanzaro e Brescia, per un totale di oltre 160 arresti. A coordinare l'inchiesta, denominata 'Aemilia', la procura distrettuale antimafia di Bologna. A finire in cella sono capi, organizzatori, complici politici e imprenditoriali della 'ndrina Grande Aracri. Una famiglia originaria di Cutro, ma che da trentadue anni ha “delocalizzato” le proprie attività nella rossa Emilia.  Delocalizzato è il termine adatto.  Al pari delle grandi aziende multinazionali. Questa holding  negli anni è riuscita a diventare sempre più autonoma rispetto alla casa madre calabrese. I detective dell'Arma dopo tre anni di indagini serratissime hanno fotografato l'organigramma della mafia calabro emiliana. Il vertice della cosca è composto, secondo gli inquirenti, da sei persone. A ognuno una zona di competenza. Nicolino Sarcone è il reggente per la zona di Reggio Emilia città. Michele Bolognino supervisiona la bassa reggiana e l'area di Parma. Alfonso Diletto sovraintende i centri di Brescello e comuni limitrofi. A Francesco Lamanna è toccata Piacenza e dintorni. Antonio Gualtieri si è spartito il Piacentino con il collega Lamanna e gestisce parte del territorio reggiano. Infine Romolo Villirillo che si occupava di più zone compreso il cremonese, il mantovano e il veronese. Eccoli i nomi dei nuovi boss che si sono spartiti in parti uguali la via Emilia. Un capo senza quattrini fa poca strada. Per questo il livello imprenditoriale è di primaria importanza per l'organizzazione. Gli inquirenti ne individuano una decina. Dieci personaggi però che non sono semplici complici esterni alla famiglia Grande Aracri, ma sarebbero dei veri e propri affiliati. Gli inquirenti ne hanno contati cinquantasei. Tra questi c'è anche Giuseppe Iaquinta, il padre del calciatore Vincenzo campione del mondo in Germania con la nazionale di Marcello Lippi. È questo il gruppo che assicura il raccordo tra la parte criminale e quella economica. E grazie a loro sono riusciti perfino a costruire un interno quartiere a Sorbolo, provincia di Parma. Duecento appartamenti modernissimi pronti per essere venduti, e che ora sono stati sequestrati su ordine del giudice. C'è tanta politica nel capitale relazionale del clan emiliano. Perché senza appoggi politici tutto diventa più complicato. Due uomini del centro destra regionale finiscono così tra gli indagati. Sono Giuseppe Pagliani, avvocato e consigliere comunale di Reggio Emilia in quota Forza Italia, candidato anche alle ultime regionali, e Giovanni Bernini, ex assessore a Parma e soprattutto ex consigliere dell'allora ministro Pietro Lunardi, che passò alla storia per la dichiarazione “con la mafia bisogna conviverci”. Per entrambi la procura ha chiesto l'arresto con l'accusa di concorso esterno, ma il giudice per le indagini preliminari ha concesso il fermo solo per Pagliani. «Ricorreremo in appello per la posizione di Bernini», ha assicurato il capo della procura bolognese. Con lo stesso capo di imputazione è finito in carcere Augusto Bianchini, titolare di un'importante società modenese che ha lavorato nella ricostruzione post terremoto permettendo alle aziende dei Grande Aracri di inserirsi nei lavori. Ma non finisce qui, perché a disposizione dei boss, secondo gli investigatori, c'è pure un giornalista: Marco Gibertini. Un volto noto delle tv locali che durante una delle sue trasmissioni aveva ospitato il politico Pagliani e il padrino Sarcone. Complice e Boss, dunque, seduti comodamente in prima serata per parlare delle numerose aziende bloccate dal prefetto perché sospettate di inquinamento mafioso. Quando si dice l'imparzialità dell'informazione. L'elenco di chi avrebbe servito il clan è lungo. Ci sono professionisti coma  Roberta Tattini, con studio nella centralissima piazza Santo Stefano, che dalle intercettazione sembra quasi affascinata dal potere del capobastone calabrese. E ancora consulenti finanziari, commercialisti, avvocati. Tutti pazzi per i Grande Aracri. Decine  di casi di usura, altrettante estorsioni. La cosca come un banca. Ma che poi esige i crediti. Anzi, offre anche agli altri questo servizio molto richiesto in tempi di crisi.  La 'ndrangheta per quanto indossi i panni del buon imprenditore, mantiene comunque l'animo feroce e arcaico di sempre. E lo rispolvera quando serve. La procura ha contato oltre 70 casi tra prestiti a strozzo e recupero crediti che celavano estorsioni. Un numero impressionante. Che rende però l'idea di quanto fossero ricercati i padrini calabresi. In molti casi visti come gli unici in grado si salvare l'azienda locale dal fallimento. La 'ndrangheta però non fa nulla gratis. Non è per la beneficenza. Quello che dà lo rivuole indietro. E se non lo ottiene arrivano gli incendi, le botte, le minacce. Intimidazioni di questo tenore: «Ti rompo le ossa, questa volta te lo giuro te le rompo»; «Me la vedo con tua moglie se non rispetti i termini»; «Ti spacco la testa», minaccia a cui sono seguiti i fatti, cioè il rogo di un locale notturno in provincia di Ravenna. Parma, 2007 e 2012. Sala Baganza, 2011. Brescello, 2009. Campegine, 2012. Salsomaggiore Terme, 2006. Tutte queste competizioni elettorali sono state viziate, secondo il giudice per le indagini preliminari, dagli uomini del clan Grande Aracri. È la prima volta che l'Emilia fa i conti con la compromissione di alcuni politici. Certo, i sospetti ci sono sempre stati. Ma ora per la prima volta un politico è in cella con l'accusa di concorso esterno. Primo caso in Emilia. E nessuno degli schieramenti più importanti è immune. Dal Pd alla Lega, passando per Forza Italia. Se da un lato la strategia mediatica del clan prevede l'utilizzo della stampa, e di giornalisti non troppo coraggiosi che stanno al gioco, per costruirsi un'immagine pulita, dall'altra, per fortuna, ci sono cronisti che mantengono la schiena dritta. Così la cosca è costretta a tornare ai vecchi metodi: l'intimidazione. A farne le spese Sabrina Pignedoli del Resto del Carlino. «Se continui ti taglio i viveri» gli avrebbe detto Domenico Mesiano, l'ex autista dell'allora Questore di Reggio Emilia. Una frase che suona come minaccia per un articolo scritto su un suo amico sempre del giro Grande Aracri. Per questo Sabrina, preoccupata, è corsa alla procura antimafia a denunciare il fatto e ora un capo di imputazione riguarda proprio le pressioni subite dalla giovane collega. Un caso isolato purtroppo. Perché dalle carte emerge invece che altri su suggerimento di amici degli amici dei boss hanno tranquillamente pubblicato sproloqui e monologhi dei capi zona. In primis quelli di Nicolino Sarcone, il quale con un suo fedelissimo commentano la forza del Quarto potere: «È un aggeggio che dove tocca fa male il giornalismo». Per questo è meglio saperlo trattare e controllare. Così come spesso ha fatto la 'ndrangheta emiliana.

Il boss preoccupato dall'inchiesta de “l'Espresso”. Sarcone e Alfonso Diletto, a capo della cosca colpita dall'indagine che ha portato a 117 arresti non avevano gradito l'inchiesta del nostro giornale. Vi si svelavano i contatti politici  e i tentativi di influenzare elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni emiliani, continua Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «Vedi di prendere questi soldi e andiamocene». Nicolino Sarcone è molto agitato dopo l'inchiesta de “l'Espresso” del febbraio 2012 su Brescello diventato il feudo del clan Grande Aracri. Proprio la 'ndrina colpita nell'ultima inchiesta antimafia della procura di Bologna. Il reportage ripreso da Telereggio manda su tutte le furie Sarcone e Alfonso Diletto, entrambi ritenuti a capo della cosca emiliana. Non solo, l'inchiesta giornalistica dà il via a una serie di conversazioni utili alle indagini. Diletto infatti preoccupato dalle notizie riprese da tutti i giornali locali svela il suo contatto politico: un consigliere comunale, Maurizio Dell'Aglio, eletto nella lista Forza Brescello, la stessa in cui era candidata la figlia Jessica Diletto. E anche di questo aspetto parlavamo nell'articolo. «Prendi la Gazzetta di Reggio Emilia, perché mi stanno tartassando, anche a mia figlia per quella lista lì». Allora Dell'Aglio risponde:«Ho letto l'articolo che c'era ieri su “l'Espresso”...tirano in ballo la lista però io mica ho fatto niente di male, nessuno ha fatto niente di male...c'è una lista e basta fanno nomi e cognomi, che non è molto bello, adesso voglio fare sentire anche al maresciallo cosa dice». E Diletto non contento insiste: «Ma il maresciallo di Brescello che cazzo vuoi che dice...ti do il numero dell'avvocato e ci chiami che sta preparando una diffida così la firma mia figlia e poi magari...». E infine: «Loro vogliono far capire come quando che abbiamo preso i voti dalla 'ndrangheta. Dove sono i voti qua della 'ndrangheta?». La risposta del politico è eloquente, dicono gli inquirenti: «Abbiamo preso l'8 per cento capirai, come se sulle altre liste non ci fosse stato nessuno magari con dei problemi». I dialoghi proseguono sull'asse Emilia-Calabria. Poi Dell'Aglio sembra propendere per una soluzione: dimettersi per lasciare il posto alla figlia del capo clan. Ma quest'ultimo non è d'accordo, perché così avrebbe alimentato ulteriori sospetti. Ma per i Carabinieri che ascoltano l'ultima telefonata è quella più significativa: «Dall'Aglio ascoltami. Allora guarda che sei venuto tu da me, tu da me per fare la lista e allora? Non è che tu adesso dai le dimissioni e mi metti come se questa lista l'ho fatta io. Questi fatti, secondo gli investigatori, «costituiscono ulteriore elemento di prova che l'organizzazione cercava di procurare voti a sé o ad altri in occasione delle competizioni elettorali».

Sono sei le competizioni elettorali condizionate dal clan Grande Aracri. Dal 2006 al 2012. Parma, Bibbiano, Brescello, Campegine, Salsomaggiore Terme. E nella città ducale per ben due volte. Per appoggiare candidati da Forza Italia al Pd continua ancora Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso e il procuratore capo antimafia Franco Roberti Sei competizioni elettorali condizionate dal clan Grande Aracri. Dal 2006 al 2012. Parma, Bibbiano, Brescello, Campegine, Salsomaggiore Terme. E nella città ducale per ben due volte, l'ultima, tre anni fa, ha sostenuto, secondo l'inchiesta, il candidato Pd Pierpaolo Scarpino. Nel 2007 invece hanno vinto con il Pdl. «Il Bernini fa tutto quello che gli dico io. Fra due mesi si deve candidare al Comune di Parma, e io voglio che tu mi capisci, ho preso degli accordi con lui. Gli ho detto che ho tanti amici qua a Parma, perché lui mi ha chiesto una mano, mi ha detto: so che qui hai tanti amici, se mi dai una mano io poi da te so cosa fare». Il monologo è di Romolo Villirillo, accusato di far parte dell'associazione mafiosa emiliana. Era il 2007. Le elezioni erano vicine. Il Bernini di cui parla Villirillo è Giovanni Bernini, Forza Italia e Pdl, già consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi. Per lui i pm hanno chiesto l'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa, richiesta rigettata dal gip. Ora i pm faranno ricorso in Appello. Dalle carte dell'indagine “Emilia” emerge una profonda conoscenza tra il gruppo legato a Grande Aracri e alcuni esponenti del centro destra del comune di Parma. Bernini, ma non solo.Tra questi c'è pure Giuseppe Villani, ex capogruppo Pdl in Regione, che, stando agli atti dell'inchiesta, è legato a Giuliano Frijio, “Zio Gino”, imprenditore edile di peso nella galassia dei Grande Aracri. L'altro contatto di Zio Gino sarebbe Paolo Buzzi, ai tempi vice sindaco. Tra le tante intercettazioni riportate nell'ordinanza di custodia cautelare c'è ne una in cui Bernini viene descritto come «persona potentissima», in grado di soddisfare le richieste di chi si è speso per la sua elezione: «Questo qua, si deve candidare a sindaco. Ora noi abbiamo fatto un colloquio ed è una persona disponibilissima». Il politico azzurro avrebbe teso la mano all'organizzazione, scimmiottando Cetto Laqualunque: «Nel senso che mi ha detto “Cos'è che volete?” Io sono sindaco, che cosa è che volete da Parma? Di che cosa avete bisogno? Di lavoro? Venite da me! Di un favore? Dovete mandare qualche... allora ci ha chiesto questo favore, se abbiamo la possibilità, che  con Forza Italia sotto a Berlusconi». E ancora, sempre “Zio Gino” dimostra di conoscere gli equilibri politici: «Paolo Buzzi quell'amico mio dovrebbe fare il vicesindaco. Ma Bernini sicuramente farà sempre il capo di Forza Italia». Nel 2006 invece a Salsomaggiore Terme, la città delle Miss, la cosca ha votato per Massimo Tedeschi. Lo scrive chiaramente il giudice nell'ordinanza di custodia cautelare. Tedeschi all'epoca era esponente dei Ds, poi Pd. Ha governato la città per cinque anni. E per un breve periodo ha sostituito Pierluigi Bersani in Parlamento. E quando c'è in ballo un affare è il momento di farsi avanti. Per questo Romolo Villirillo, lo stesso che ha sostenuto Bernini a Parma, suggerisce al sodale di andare dal sindaco e presentarsi come «il fratello di quello che ti ha fatto dare i voti là». La cosca si è interessata anche alle elezioni di quattro anni fa del piccolo comune di Sala Baganza, nel parmense. In questo caso è Villirillo che viene informato «della bella figura, del bel risultato» riferendosi alla vittoria elettorale. C'è poi la competizione elettorale di Bibbiano, provincia di Reggio Emilia, finita sotto la lente degli inquirenti. Qui a farsi avanti e contattare il capo zona emiliano Nicolino Sarcone è tale Luca Bassi. «Ho bisogno di te nel senso che ti devo portare una persona un mio amico in lista a Bibbiano», chiede Bassi.  Ma il boss vuole sapere di che schieramento è. «Berlusca» risponde l'altro. «Ah! Sicuramente allora, non c'è problema». Così Sarcone viene rifornito di volantini elettorali da distribuire ai suoi. Il candidato a sindaco da sostenere era Paolo Cattelani della coalizione Lega-Pdl. Infine Brescello. Non ci sono né Peppone né don Camillo a fare campagna elettorale, ma stando all'ordinanza di custodia, un emissario dei Grande Aracri. Correva l'anno 2009. E l'inchiesta “Emilia” non era ancora iniziata. Molte di queste intercettazioni fanno parte di vecchi fascicoli. Ripresi e riletti dal Nucleo investigativo dei Carabinieri di Modena e Reggio Emilia. C'è da chiedersi come mai non si è intervenuti prima per bloccare le presunte infiltrazioni nel voto. Chi ha gestito quei fascicoli prima degli inquirenti bolognesi perché ha non ha aperto un fascicolo ad hoc?

Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa.   «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero.  Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool  era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è  Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è  Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è  Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.

Ora in Emilia la 'ndrangheta punta ai politici. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo con Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Adesso che la nebbia si dirada, le immagini diventano nitide. E i sospetti, quelli che “l’Espresso” denuncia da tre anni, si trasformano in provvedimenti giudiziari. Perché la mafia calabrese in Emilia Romagna è una vera potenza, capace di condizionare la vita politica ed economica della regione. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia va in campagna elettorale nel feudo crotonese del padrino. Il sindaco leghista di Verona Flavio Tosi che si siede a tavola con gli emissari della cosca. E ben quattro competizioni elettorali condizionate in soli sette anni a Parma e provincia. Un quadro desolante. Ci sono imprenditori padani che si sentono più forti se protetti dai picciotti calabresi, il clan che fa da banca per il territorio, le mani sulla ricostruzione post terremoto. Le manovre di una autonoma ‘ndrangheta emiliana, che ha impiantato una cellula tra Modena e Piacenza. Una sorte di sede “delocalizzata” della famiglia Grande Aracri di Cutro, tra le più ricche e impunite, che sa essere violenta e spietata quando serve e allo stesso tempo ha dimostrato di avere spiccate doti manageriali e politiche nel sfruttare le occasioni di business.  Il profilo è disegnato nelle migliaia di pagine e intercettazioni che hanno portato all’arresto di oltre cento persone e al sequestro di beni per decine di milioni. La retata scattata all’alba di mercoledì 28 gennaio è il frutto di tre anni di lavoro dei militari dell’Arma del comando provinciale di Modena, Reggio Emilia, Parma e della Direzione investigativa bolognese coordinati dal procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso, dal pm Marco Mescolini di Modena e dal sostituto della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi. Un’indagine, secondo gli investigatori che ne hanno seguito passo passo l’evoluzione, destinata a cambiare la percezione della presenza mafiosa nella terra rossa, che non ha saputo però resistere ai quattrini dei padrini calabresi. Uomini di potere che gestiscono una holding criminale composta da almeno seicento tra picciotti, militari e manager, tra la Calabria e l’Emilia. Con un patrimonio societario e immobiliare che fattura milioni di euro: un «valore aggiunto» per gli imprenditori locali. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». La “mangiata” è descritta nei particolari da Antonio Gualtieri, la mente imprenditoriale, secondo gli investigatori, del clan Grande Aracri. E mentre racconta e si vanta delle sue amicizie importanti, le cimici registrano. Il personaggio, calabrese di nascita, è ormai un padano doc, tanto da riuscire a inserirsi nei salotti che contano. A Bologna così come a Verona. Tra le sue amicizie c’è l’industriale veronese Moreno Nicolis, molto vicino al sindaco Flavio Tosi e all’ex vice sindaco Vito Giacino che ha lasciato la poltrona per una storia di corruzione. Ora Gualtieri è dentro per associazione mafiosa. E Nicolis, che più di un anno fa è stato interrogato dall’antimafia, è coinvolto nell’indagine. Insieme avevano in ballo una speculazione edilizia di diversi milioni di euro. Un progetto che aveva bisogno però dei giusti appoggi politici. Per questo il veronese che di mestiere fa l’imprenditore dell’acciaio crea il link con l’amministrazione leghista. L’affare da 64 milioni di euro è l’acquisizione dei beni della Rizzi Costruzioni, una grande azienda fallita il cui procedimento pendeva al tribunale di Verona. Ebbene, per concludere l’ambizioso investimento la coppia Gualtieri-Nicolis mette in campo una squadra di professionisti, cerca agganci, si spende tantissimo. Sono forti della copertura del grande capo, Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. Il boss dei boss dell’Emilia che segue la vicenda con dedizione. Tanto che gli investigatori sono riusciti a ricostruire un incontro fondamentale per le indagini che si è tenuto a Cutro tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. L’occasione per un pranzo tipico calabrese, per impartire alcune direttive e anche per mettere a punto l’affare del ferro che stava tanto a cuore al padrino e a Nicolis. Già, perché in questa vicenda c’entra pure un altro business, forse il più importante per il gruppo. L’azienda veronese avrebbe dovuto rifornire la cosca del materiale necessario alla realizzazione dei parchi eolici che stavano nascendo come funghi in provincia di Crotone. E che non sono esenti dalle interferenze dei clan. L’industriale di Verona, secondo i detective dell’Arma, è in stretto rapporto con il sindaco Tosi e con l’allora vicesindaco Giacino (che rivestiva in quel periodo anche l’incarico di assessore all’Urbanistica), così «riesce a manovrare degli affari e a conoscere – in anticipo - eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Insomma Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo capitale sociale. E Gualtieri, che il suo mestiere lo sa fare, non spreca occasione per mostrarsi entusiasta dei nuovi amici veronesi. Per questo raccomanda all’amico Moreno di salutargli Giacino «con un bacino». Che Tosi e Giacino - contro i quali non sono state formulate ipotesi di reato - abbiano pranzato con il gli emissari di Grande Aracri lo conferma un’altra indagata, la professionista bolognese Roberta Tattini (ex funzionaria del Banco Emiliano Romagnolo) che ha curato, secondo l’accusa, gli interessi della cosca: dopo aver trattato «l’affare della vita», spiega alla madre, si sono recati a pranzo «dove era presente il sindaco Tosi e altra gente». A maggio 2013 l’affare Rizzi viene accantonato. Nicolino Grande Aracri aveva iniziato a dubitare del suo braccio economico Gualtieri, il quale, visto l’andazzo, si fa da parte e regala alle microspie dei carabinieri continui sfoghi. «Lui dispone di 500 uomini, penso che una novantina ce li ha in carcere», così spiega all’industriale la potenza del suo capo. E di sé stesso, che rappresenta il clan in Emilia, dice: «Io dispongo di 150 uomini». Questi dialoghi, degni di un copione di Martin Scorsese, per gli inquirenti non lasciano spazio ad alcun dubbio sulla consapevolezza dell’imprenditore veneto di stare trattando con affiliati alla mafia calabrese. Quando sei anni fa l’allora sindaco di Reggio Emilia, attuale braccio destro del premier Matteo Renzi, decise di partecipare alla processione del Santissimo crocifisso nel feudo calabrese dei Grande Aracri, non poteva immaginare le conseguenze e le polemiche che ne sarebbero scaturite. E il pool di pm che hanno condotto l’indagine non ha lesinato critiche al comportamento di Graziano Delrio. Lui non è indagato, ma la procura non gli perdona quell’ingenuità: poteva, e doveva, evitare la processione a Cutro durante la campagna elettorale per l’elezione del sindaco di Reggio Emilia del 2009. Su questo episodio, tre anni dopo, i pm l’hanno sentito come persona informata dei fatti. E lui si è giustificato spiegando che ha dovuto farlo perché Cutro e Reggio Emilia sono gemellati. Quindi, sostiene del Delrio, che l’evento coincidesse con il voto è puramente un caso. L’atteggiamento però non piaciuto ai magistrati: un amministratore pubblico, secondo gli inquirenti, non può sottovalutare certe azioni dal forte valore simbolico per chi detiene il potere criminale su un territorio. Certo Delrio non era solo in quella processione. C’erano pure gli altri candidati. Nessuno di loro però sembra essersi reso conto del peso politico di quel pellegrinaggio. A Cutro quel giorno era presente Domenico Olivo, consigliere comunale Pd molto legato all’allora sindaco Delrio che secondo fonti de “l’Espresso” ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. E tra le persone vicine al primo cittadino viene citata Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio Emilia e moglie dell’attuale sindaco democratico Luca Vecchi. I pm l’hanno sentita come teste perché alcuni rapporti di polizia ipotizzano situazioni di favore verso imprenditori sospettati di vicinanza alla ‘ndrina emiliana. Ma nella città le ombre più cupe si sono addensate sul centrodestra: il primo politico arrestato per concorso esterno in Emilia si chiama Giuseppe Pagliani di Forza Italia, primo dei non eletti alle ultime regionali. Se per entrare nei cantieri dell’Aquila le aziende mafiose sono dovute emigrare in Abruzzo, in Emilia non hanno avuto bisogno di traslochi. Per un semplice motivo: qui hanno sede centinaia di società che fanno capo alla ‘ndrangheta. Così il sisma che ha colpito la regione è diventato uno dei business finito in mano del clan. Per rimettere in sesto i centri storici sfigurati dalle scosse del maggio di tre anni fa, la macchina della ricostruzione si è messa subito in moto. A rimuovere le macerie sono stati spesso ditte legate alla ‘ndrangheta. I clan di riferimento sempre quelli: oltre ai Grande Aracri, anche la famiglia Arena è stata coinvolta nell’ultima istruttoria. Se finora il contrasto è stato di tipo amministrativo, utilizzando lo strumento delle interdittive antimafia, questa inchiesta mette nero su bianco le complicità e travolge una storica azienda modenese. La Bianchini Costruzioni srl infatti è un marchio di garanzia. Almeno lo era. Ha lavorato per enti pubblici, privati, ha realizzato strade, ha messo in sicurezza un bel pezzo dell’Emilia riuscendo perfino a inserirsi nell’Expo di Milano. Tutto sembrava filare liscio fino a quando la prefettura stoppa la società, sospettata di legami con i Grande Aracri. I detective già hanno raccolto più elementi inquietanti. Uno in particolare: che ci fa tra i dipendenti il genero del boss Nicolino Grande Aracri? La società è costretta quindi a lasciare i cantieri e cerca sponde politiche. Il primo a schierarsi dalla sua parte è il senatore Carlo Giovanardi. Contesta la decisione del prefetto e l’attività del Girer, il gruppo investigativo sul dopo sisma: «Così uccidono l’economia emiliana». E via con interrogazioni, accuse, richieste al ministero dell’Interno. Ora però l’impresa è finita nell’inchiesta antimafia più importante mai fatta in Emilia. Bianchini, secondo i carabinieri, avrebbe permesso al clan di inserirsi nella ricostruzione e in altri appalti. Inoltre avrebbe ottenuto vantaggi economici attraverso false fatturazioni con ditte della cosca. Per questo gli inquirenti riferendosi al suo caso parlano della ‘ndrangheta come «valore aggiunto per alcuni imprenditori da sfruttare per l’accrescimento delle proprie possibilità di guadagno». E aggiungono: «il fatto di essere un imprenditore rispettato e conosciuto, hanno fatto dell’impresa la sponda ideale per agevolare gli interessi dell’associazione criminale, soprattutto in considerazione degli acclarati “rapporti privilegiati” con alcuni amministratori locali dei comuni del cratere sismico». Ma quanti altri rispettabili imprenditori si sono fatti tentare dai vantaggi offerti dalla cosca emiliana?

Soldi di estorsioni da Cutro a Parma in pullman. Come la malavita faceva affari nel Parmense. Le somme, trasferite su servizi di linea,  riciclate in una rete di aziende edili con sede tra il parmense e il reggiano. Investimenti immobiliari a Sorbolo. Minacce a imprenditore: "Noi le cose le risolviamo alla calabrese", scrive Maria Chiara Perri su “La Repubblica”. Il flusso di denaro sporco arrivava direttamente da Cutro, in pullman. Era frutto di estorsioni e usure perpetrate sul territorio calabrese dall’associazione mafiosa dei Grande Aracri. Compito degli affiliati radicati in Emilia era costruire un impianto societario di aziende edili e immobiliari per ripulire e mettere a frutto tutta quella liquidità. Le somme in contanti da riciclare venivano portate in Emilia grazie ad autisti compiacenti su pullman di linea impiegati sulla tratta Crotone-Parma. Con lo stesso sistema venivano trasportati soldi e titoli in Calabria. Il denaro veniva affidato direttamente da Romolo Villirillo, uomo vicino al boss Nicolino Grande Aracri, a Salvatore Cappa perché lo impiegasse nelle società intestate a prestanome e amministrate da fedeli della cosca. La Aurora Building e la K1 a Reggio Emilia. La Gea Immobiliare Srl costituita nel 2007 a Sorbolo, con soci Giuseppe Giglio e Pallone Giuseppe e amministrata da Francesco Falbo e Cappa Salvatore. Tutti accusati di impiego di denaro o beni di provenienza illecita. Nel mirino degli inquirenti anche la Tanya Costruzioni Srl di Sorbolo, la Medea Immobiliare Srl costituita a Parma nel 2008 con soci Pallone e Giglio Giuseppe e Francesco Falbo vicepresidente. La Pilotta Srl di Reggiolo, intestata a un prestanome di Giglio, Pallone e Cappa. La ‘ndrangheta ha investito a Sorbolo con l’edificazione di complessi residenziali in via Torino (5 condomini per 40 unità abitative) e due palazzi in via Marmolada. Inoltre negli interventi edilizi di Vicomero e Reggiolo sono stati utilizzati materiali edili di provenienza illecita, messi a disposizione da Giglio Giuseppe. La redditività delle imprese immobiliari foraggiate col denaro fornito da Villirillo era di 30mila/40mila euro mensili. Le aziende venivano anche usate per piazzare operai di origine curtense e isolitana, imposti anche se non ne avevano bisogno. Un sistema consolidato, contestano gli inquirenti, che ha continuato a lavorare fino all’inizio del 2014. Sono coinvolti altri importanti nomi di affiliati o professionisti collusi: Alfonso Diletto, Sarcone Nicolino, Sarcone Gianluigi, Michele Bolognino, Giuseppe Richichi, Mario Vulcano, Giulio Giglio, Agostino Donato Clausi e Salvatore Gerace e Luigi Serio. Nel sistema imprenditoriale della cosca cutrese non mancavano minacce ed estorsioni. Un imprenditore di origine calabrese, Francesco Falbo, anch’egli coinvolto nell’indagine, è stato costretto al pagamento di una mazzetta di 100mila euro, una percentuale dovuta a Cappa e Pallone per appalti acquisiti tramite le proprie imprese presso cantieri di Sorbolo. Ha dovuto assumere due operai calabresi segnalati da un affiliato presso la Sorbolo Costruzioni Srl. Per le costruzioni doveva usare materiale fornito dal Giglio, di provenienza illecita. Ha dovuto cedere a un prestanome La Pilotta Srl per sviare un controllo dell’Agenzia delle Entrate, pagando 17mila euro a Giglio per “il disturbo” della gestione della società. Inoltre ha dovuto cedere crediti e immobili delle proprie imprese, in particolare un terreno del valore di 850mila euro della Tanya Costruzioni e un credito di 167mila euro nei confronti di Pallone. Nel marzo 2011 è stato costretto a cedere le quote della Gea Immobiliare e K1 Srl, valutate in 7 milioni di euro. Si è dovuto dimettere da incarichi amministrativi e, dopo essere piombato nell’indigenza, ha dovuto chiedere i fallimenti della Sorbolo Costruzioni e dell’Azzurra Immobiliare srl, dichiarati nel 2011 e nel 2012. Le intimidazioni erano di questo tenore: “Guarda che noi le cose le risolviamo alla calabrese, non pensare che tu te le risolvi alla parmigiana! Stai attento a quello che fai!” “O firmi qua o c’è un problema serio!” “Ma tu vieni con noi o con la legge?” “c’abbiamo tutti delle famiglie! attenzione!” “basta risolvere il problema o si spara…” “attenzione che litighi di brutto con Cappa e Giglio! Basta il primo cazzotto e poi…”. Cappa poi riferiva di aver malmenato persone che gli dovevano dei soldi: “A uno mi è rimasto un orecchio in mano; all’altro gli ho dato un calcio che l’ho ammazzato”. Arrivavano anche telefonate intimidatorie da Cutro per l’imprenditore e per suo cognato. Gli venivano presentati degli sconosciuti che manifestavano l’appartenenza a cosche calabresi, vantando il numero di anni fatti in carcere o le vittime che avevano ammazzato. Persone che facevano spesso, con le dita, il gesto della pistola.

Blitz contro la 'ndrangheta anche nel Parmense: indagato Bernini. Avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa per dei voti presi nel 2007. I nomi degli arrestati. Al setaccio le imprese edili. In manette in 117, tra cui anche un consigliere di FI a Reggio. Fermo per altre 46 persone, scrive “La Repubblica”. L'arresto di Bernini nel 2011 Maxioperazione dei carabinieri contro la 'ndrangheta in tutta l'Emilia. Tra la notte e la mattinata di mercoledì sono state eseguite 117 ordinanze di misure cautelari, di cui 87 in carcere, richieste dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna e sottoscritte dal gip. A queste si aggiungono altri 46 provvedimenti emessi dalle Procure di Catanzaro e di Brescia. L'inchiesta, ramificata in tutto il territorio emiliano e basso lombardo, ruota attorno alle infiltrazioni della cosca cutrese dei Grande Aracri nel Nord Italia. Tra gli arrestati ci sono anche cinque persone di origine calabrese residenti nel Parmense. Non mancano nomi di spicco della politica tra gli oltre duecento indagati. Colpito da un avviso di garanzia anche Giovanni Paolo Bernini, ex assessore del Pdl della Giunta Vignali già arrestato nell'ambito dell'inchiesta Easy Money. Contattato da Repubblica Parma, Bernini ha dichiarato di aver ricevuto l'informazione di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa per voti che avrebbe preso durante la campagna elettorale del 2007 (quella che elesse sindaco Vignali) da elettori parmensi legati alla 'ndrangheta. In cambio il politico avrebbe promesso favori per appalti e pratiche amministrative. "Io non so di cosa stiamo parlando", ha dichiarato. A Parma è stato fermato uno dei "capi" dell'organizzazione, il 47enne di Locri Michele Bolognino, formalmente residente a Montecchio Emilia ma di fatto domiciliato a Parma in via Zanetti. Il suo è un ruolo di spicco nell'associazione mafiosa, viene definito dagli inquirenti "promotore, dirigente e organizzatore" delle attività della 'ndrina nel territorio parmense e in parte della Bassa reggiana. Bolognino garantiva il collegamento tra i membri della cosca e la casa "madre" di Cutro, mantenendo rapporti diretti con il boss Nicolino Grande Aracri. Si comportava da vero "manager" delineando compiti e mansioni di ciascuno e coordinando le azioni, garantendo il rispetto delle gerarchie e degli ordini impartiti. Era lui a decidere ritorsioni verso chi non rispettava le regole della cosca. Numerosi i reati che gli vengono contestati. Oltre all'associazione di stampo mafioso gli vengono contestati numerosi e gravi reati: estorsione, ricettazione, riciclaggio, intermediazione lecita e sfruttamento del lavoro, smaltimento illecito di rifiuti anche pericolosi, evasione fiscale tramite false fatturazioni, subappalto senza autorizzazione, detenzione abusiva di armi da fuoco e munizioni. Tra gli indagati per i quali la Dda aveva chiesto l'arresto, non concesso dal gip, c'è anche il noto faccendiere parmigiano Aldo Pietro Ferrari. Il 70enne è finito sui giornali fin dagli anni Novanta per numerose vicende giudiziarie: truffe aggravate, evasione fiscale, falsificazione di timbri, bancarotte, associazione a delinquere. Lo scorso marzo è finito in carcere per un caso di finanziamenti internazionali mai erogati, per i quali si sarebbe intascato grossi anticipi. Ferrari è finito nell'inchiesta della Dda di Bologna per un caso di tentata estorsione perpetrato tra il 2011 e il 2012: avrebbe pagato con 7mila euro Domenico e Francesco Amato perché minacciassero una coppia di imprenditori per costringerli a consegnare un'autovettura di cui il faccendiere rivendicava la proprietà. Ferrari si sarebbe rivolto agli Amato perché ne riconosceva il prestigio criminale e l'appartenenza alla criminalità organizzata, di cui voleva avvalersi per intimidire le vittime. Il giudice ha comunque ritenuto di non concedere l'arresto di Ferrari perché, per quanto siano "inquietanti" le modalità di risoluzione della controversia non è stato chiarito se effettivamente Ferrari fosse creditore dell'autoveicolo. Anche la politica locale è coinvolta nell'inchiesta. Gli inquirenti hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenzare le elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell'Emilia. Il procuratore Roberto Alfonso ha citato i casi di Parma nel 2002, Salsomaggiore nel 2005, Sala Baganza nel 2011, Brescello nel 2009. In manette per concorso esterno in associazione mafiosa Giuseppe Pagliani, capogruppo del Pdl (ora Forza Italia) al tempo delle indagini nel consiglio provinciale di Reggio Emilia. Mediante una serie di iniziative mediatiche avrebbe favorito il tentativo dell'organizzazione di evitare le verifiche antimafia delle prefettura reggiana. Diversi fermi nelle aziende edili, molte delle quali già colpite da interdittive antimafia. Spicca il nome di Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore campione del mondo, fermato nel reggiano. Coinvolto anche Augusto Bianchini, che ha partecipato alla ricostruzione post terremoto in Emilia, residente nel modenese. L'operazione - definita "storica" dal procuratore di Bologna Franco Roberti - ha interessato imprenditori, giornalisti e membri delle forze dell'ordine. Sequestrati beni per 100 milioni di euro. L'operazione è stata denominata "Aemilia". I carabinieri di Modena, Parma, Piacenza e Reggio Emilia hanno eseguito i provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsione, reimpiego di capitali di illecita provenienza, riciclaggio, usura, emissione di fatture per operazioni inesistenti, trasferimento fraudolento di valori, porto e detenzione illegali di armi da fuoco, danneggiamento e altri reati, aggravati dal metodo mafioso. Contemporaneamente, i militari dei comandi provinciali di Crotone e Mantova hanno eseguito, nelle rispettive province e in quelle di Cremona e Verona, decreti di fermo emessi dalle Direzioni distrettuali antimafia di Catanzaro e Brescia nei confronti di 46 soggetti ritenuti responsabili a vario titolo dei medesimi reati. Le indagini, frutto di una complessa attività investigativa, hanno evidenziato la capacità del  sodalizio criminale di infiltrare il tessuto economico e imprenditoriale, con un'attività ramificata in più settori: edilizia, trasporti, movimento terra e smaltimento dei rifiuti.  Affari condotti tanto nel territorio d'origine, quanto nella regione emiliana, mediante "una sistematica pressione estorsiva - secondo gli inquirenti - esercitata nei confronti di imprenditori locali e finalizzata a imporre, nella fase di esecuzione delle opere, la scelta di subappaltatori e fornitori, tra quelli di riferimento dell'organizzazione criminale". Le indagini hanno messo in luce gli interessi del sodalizio nei lavori collegati alla realizzazione di rilevanti interventi di riedificazione dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia Romagna nel 2012, ai quali le ditte avrebbero avuto accesso anche grazie al ruolo dei titolari di un'importante azienda edile modenese, assegnataria di appalti pubblici per lo smaltimento delle macerie. Dall'inchiesta è emerso come i proventi illeciti del business emiliano venivano in parte trasferiti alla cosca crotonese, mediante il metodico ricorso alla falsa fatturazione per operazioni inesistenti, attuata dalle società calabresi riconducibili ai "Grande Aracri". Le somme sarebbero poi state reimpiegate, almeno una parte, per l'erogazione di prestiti a tassi usurari verso imprenditori e per l'avvio di "considerevoli" iniziative immobiliari, intestate a prestanome nelle province di Mantova e Parma. Tra le attività criminali svolte dall'organizzazione anche la ricettazione di imbarcazioni di lusso del valore di svariati milioni di euro, oggetto di appropriazione indebita in Italia, e poi piazzate sui mercati nautici di Turchia e Croazia. Una vicenda lunga 30 anni come ha ricostruito il numero uno della Dda Roberto Alfonso. "La storia parte dal nove giugno 1982, data in cui Antonino Dragone arriva in Emilia-Romagna,  è allora che viene concepito il gruppo emiliano. In 30 anni, si è sviluppato ed è cresciuto come una metastasi, partendo da Reggio Emilia attraverso Parma e Piacenza fino ad arrivare alle rive del Po a Cremona". Era Reggio Emilia la "capitale" della cosca della 'ndrangheta Grande Aracri stroncata dalla maxi operazione "Aemilia". Ai vertici dell'organizzazione, tra le sei persone individuate come "promotori" dell'associazione mafiosa, c'è Nicolino Sarcone, nome noto e molto discusso a Reggio Emilia, già condannato per estorsioni e associazione di stampo mafioso. Dall'inchiesta emergerebbe anche il sostegno elettorale imposto dalla 'ndrina ad alcuni candidati emiliani nelle ultime Amministrative. Se Sarcone era a capo della zona di Reggio, Michele Bolognino "sovrintendeva" alla zona di Parma e bassa reggiana, Alfonso Diletto alla bassa reggiana, Francesco Lamanna alla zona di Piacenza, Antonio Gualtieri tra Piacenza a Reggio Emilia. Il coordinamento delle diverse zone, poi, era affidato a Romolo Villirillo. Tutti sono finiti in carcere per associazione di stampo mafioso, così come gli "organizzatori" Giuseppe Giglio, Salvatore Cappa, Antonio Silipo, Gaetano Blasco e Antonio Valerio.

Elezioni Parma 2012, i dubbi della cosca: "Sostenere Pd o Pdl?". Affiliati e uomini vicini ai cutresi divisi su chi far convogliare i voti. Da una parte c'è il "compaesano" Pierpaolo Scarpino, del Pd, e dall'altra i candidati di centrodestra Armellini, Buzzi e Moine. Esito inaspettato: "C'è stato un terremoto, i comici si sono presi la città!", scrive Maria Chiara Perri su “La Repubblica”. Con l'avvocato Giuseppe Pagliani, il consigliere comunale di Reggio Emilia finito in manette mercoledì, il sodalizio criminale cutrese aveva stretto un vero e proprio accordo di reciproco supporto. Un caso eclatante, ma non certo l'unico tentativo di influenzare la politica locale e gli esiti elettorali delle consultazioni amministrative. Senza risparmiare il Parmense. Come riporta l'ordinanza di custodia cautelare, la compagnia dei carabinieri di Fiorenzuola ha individuato tentativi della 'ndrangheta di condizionare le elezioni comunali di Parma nel 2007 e nel 2012, quelle di Salsomaggiore Terme nel 2006 e le amministrative di Sala Baganza nel 2011. Per quanto riguarda le consultazioni a Parma del 2012, gli inquirenti osservano che la vittoria di Federico Pizzarotti e del Movimento 5 Stelle segna una rottura delle dinamiche politiche locali. Nell'aprile 2012, in piena campagna elettorale, si registrano una serie di conversazioni telefoniche e ambientali da cui si evince l'interesse di Alfonso Martino (affiliato arrestato ieri a Parma) e di Domenico Olivo (cognato del "capo" Romolo Villirillo, non arrestato) a indirizzare il flusso elettorale della cosca nei confronti del candidato Pd Pierpaolo Scarpino, funzionario della Croce rossa in lista con il candidato sindaco Vincenzo Bernazzoli. In un'intercettazione Martino fa la conta dei voti che riuscirebbe a procurargli. In cambio Scarpino dovrebbe avere un occhio di riguardo per una conoscente ricoverata al Maggiore. Ma non è abbastanza: Alfonso vuole soldi. "Ci deve entrare qualcosa - dice Martino al sodale - non facciamo niente sennò. Non possiamo fargli il prezzo a lui... Lavorano tutti nell'ospedale, non solo lui... Questo vuole una mano? Ci posso parlare libero... Io i voti te li garantisco... Sei disposto a darci mille euro? Che dobbiamo girare noi, per raccogliere ancora voti... se è sì me lo dici adesso, se è no, dimmelo..." Viene coinvolto anche Frijio Giuliano detto zio Gino (non risulta sia stata chiesta per lui alcuna misura cautelare), imprenditore edile di Sala Baganza capace di muovere molti voti. Olivo cerca di farli convogliare su Scarpino, ma zio Gino rifiuta: sostiene candidati del centro destra. In particolare è vicino ad Armellini Gianluca, che sostiene Paolo Buzzi. Frijio si attiva con Brescia Pasquale (in carcere da ieri per associazione di stampo mafioso) per portare voti al Pdl, dicendo chiaramente "Io non mi posso mettere con la sinistra ... perché c'è Scarpino... Il fratello di Franco Scarpino... Che si è candidato con Bernazzoli... e Gigetto (Villirillo Luigi n.d.r.) mi ha chiesto delle gentilezze a me... io non gli ho detto no... ma è un no... non posso andare dietro a loro... no?". E continua: "Lo Scarpino è cugino... E Gigetto me l'ha chiesto a me... (...) io non mi posso cambiare il colore mio... Però lui adesso dice: "Zio Gì gli dobbiamo dare una mano a Pierpaolo!" E io per non deludere lui gli ho detto "Gigè ci sono parecchi amici... No? Che ieri ho fatto tesserare col partito nostro... tant'è vero che ora Buzzi è anche coordinatore del partito no? E Moine? Massimo, no?". Zio Gino prosegue spiegando che sarebbe opportuno convincere Gigetto a portare voti a Moine, Buzzi e Armellini, ma senza fare il suo nome. Le elezioni avranno un esito inaspettato per i cutresi: vinceranno i 5 Stelle. Zio Gino telefona a Brescia e gli comunica la notizia così: "E' andata male qua a Parma! E' grigia... Grigia sì... Gli sbagli si pagano! La città ha risposto agli sbagli". Brescia: "I grillini sono andati su compà! Peppe Grillo è andato su!". Frijio: "Questo comico qua! No ma... Sono tutti voti rubati a loro...". Per zio Gino è stata una gran delusione: "Ci rimani male... hai lavorato tanto.. hai fatto tanto... bordelli in giro... chiedi favori a questo, chiedi a quell'altro... comunque... ora vediamo..." Al ballottaggio Frijio, eliminato il "suo" candidato Buzzi, aveva deciso di appoggiare il candidato compaesano Scarpino. I commenti all'esito delle elezioni, parlando con Luigi Villirillo, sono di questo tenore: "c'è stato un terremoto a Parma allora! (...) I comici! I comici! Si sono presi la città! Sono tanto incazzato guarda... Mi sarebbe piaciuto che ci andasse il Bernazzoli... anche se non sono di quella corrente...". E Gigetto replica: "Ma anche io, anche io... A parte... Avere un assessore in casa è un'altra cosa! Ma veramente... se avesse vinto... la destra, zio Gì". L'ultimo riferimento, annotano gli inquirenti, potrebbe essere per Bernini ma non se ne ha la certezza.

Dall'astensione all' "altra 'ndrangheta". Ecco quant'è malata l'Emilia oggi. Nella regione rossa in crisi d'identità i clan non sparano, ma soffocano l'economia e cercano di infiltrarsi nelle istituzioni. E una vasta zona grigia li difende. Dal caso Brescello ai contatti con la politica. Con il sospetto che il voto locale sia stato condizionato dalle cosche, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. I carabinieri a Brescello durante un sequestro di beni a Francesco Grande Aracri Peppone e don Camillo potevano litigare su tutto, ma c’era un momento sacro per entrambi: il voto. Invece la loro Brescello ora è diventata una delle capitali dell’astensione. Ai seggi per le regionali infatti si è presentato solo il 27 per cento degli elettori, mentre nel 2010 erano stati il 60 per cento. Ma il paesone bagnato dal Po, appollaiato nel cuore della Valpadana, è un ottimo osservatorio per capire il male che si è lentamente diffuso in queste terre, corrodendo il consenso del popolo rosso fino a spegnerne l’entusiasmo o spingerlo nelle braccia della Lega di Matteo Salvini. Il modello emiliano costruito grazie al benessere in mezzo secolo dai sindaci comunisti alla Gino Cervi d’intesa con i prelati democristiani alla Fernandel si è sgretolato. E sulle sue macerie ha messo radici l’impero della ’ndrangheta emiliana, che contribuisce ad alimentare sfiducia e sospetti verso la politica locale. È una realtà criminale cresciuta negli affari, tanti business protetti dalla fitta nebbia che da queste parti rende ogni cosa invisibile. Gli investigatori la chiamano “l’altra ’ndrangheta” per distinguerla dalle cosche calabresi e da quelle che si sono imposte in Lombardia. In Emilia non spara, ogni tanto appicca un rogo dal sapore di ultimatum, ma è soprattutto una holding, che lentamente soffoca l’economia e cerca di contaminare le istituzioni. E ha sede legale proprio a Brescello, con magazzini e centri operativi nelle province di Piacenza, Parma, Modena, Mantova e Verona. Un mostro con artigli affilati che ha arraffato aziende di costruzione, di trasporto, di videogiochi. Ha riciclato montagne di quattrini. E offre una gamma di servizi perfetta per questi tempi di crisi: dal prestito di denaro al recupero crediti, garantendo manodopera a basso costo e soluzioni rapide per lo smaltimento rifiuti. Dopo il terremoto del 2012 si è ritagliata una fetta rilevante della ricostruzione (vedi box a pag. 50). E tutto fa capo a Cutro, comune del Crotonese che ha assunto un peso sempre maggiore nelle dinamiche della mafia calabrese. L’infiltrazione è silenziosa ma devastante. Qui le cosche non conquistano, seducono. Puntano alla «conquista delle menti dei cittadini emiliani», come ha scritto la procura nazionale antimafia nell’ultima relazione. La sintesi perfetta del quadro disegnato dalle inchieste penali, che proprio per questo procedono a fatica. «Trovo maggiore difficoltà a fare indagini in Emilia Romagna che in Sicilia perché è più difficile distinguere il buono dal cattivo che qui si intrecciano», ha detto due anni fa il procuratore di Bologna Roberto Alfonso. Un’estesa zona grigia dove lecito e illecito convivono pacificamente. Il minimo comune denominatore di questa metamorfosi è il denaro. Ne hanno tanto: in pochi mesi carabinieri e Dia hanno sequestrato 13 milioni. La fitta trama di relazioni serve ai clan per incassare di più e per consolidare le fondamenta dell’impero. Le complicità con gli imprenditori locali permettono ai padrini di entrare nel mercato e ai loro nuovi soci di non affogare nei debiti. Ma come accade al Sud, il tavolo della spartizione richiede un terzo interlocutore: gli appoggi politici per accaparrarsi appalti e subappalti. La fede di Graziano Delrio è granitica. Il braccio destro del presidente del Consiglio è un fervente cattolico. Ma c’è una festa religiosa che gli sta creando più di un imbarazzo politico: la processione del Santissimo crocifisso a Cutro, provincia di Crotone. Un rito avvenuto nel pieno della campagna elettorale del 2009 quando l’allora sindaco di Reggio Emilia correva per un nuovo mandato. In città e in tutto il circondario la comunità d’origine cutrese è talmente numerosa da pesare anche alle urne e quella spedizione in Calabria poteva avere un impatto nel voto. Delrio, all’epoca numero due dell’Anci, non è stato il solo a impegnarsi in questa trasferta: tutti gli altri candidati della zona hanno deciso di presentarsi al cospetto del Santissimo. Ma in certe terre i simboli contano più delle parole: la processione dei primi cittadini emiliani è stata interpretata come un segno tangibile di riconoscenza da tutta la comunità calabrese. Anche da quelle persone che in Emilia alimentano i peggiori traffici. La questione è finita all’attenzione della procura antimafia di Bologna, che ha convocato come testimoni gli illustri partecipanti. Anche Delrio è stato sentito come “persona informata dei fatti”. La sua deposizione è ancora segreta, ma le impressioni degli investigatori che hanno partecipato al colloquio confermano la grande difficoltà di fare luce nella nebbia padana. Gli inquirenti sono rimasti colpiti dalla bassa percezione mostrata dall’attuale sottosegretario di Palazzo Chigi, apparso ignaro delle dinamiche che la ’ndrangheta del Terzo Millennio ha messo in atto nel “cuore rosso” d’Italia. Per Delrio quel pellegrinaggio è stato solo un omaggio agli emigranti onesti che con il loro duro lavoro hanno partecipato alla costruzione del modello emiliano. Opposta è la visione del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, che poche settimane fa, proprio a Reggio Emilia, ha dichiarato pubblicamente: «Se un candidato vuole rivolgersi ai calabresi, può parlare a quelli che vivono in Emilia. Se vai in Calabria vuol dire sapere che è là che si decide l’elezione, vuol dire che è da lì che deve venire il via libera al tuo sostegno elettorale». Non tutti i vertici del Pd hanno partecipato alla trasferta. Sonia Masini, che in quel 2009 era candidata alla Provincia, ha detto no: «Perché avrei dovuto? Chi mi vuole votare può farlo senza bisogno che io vada a Cutro. Ero candidata in Emilia, mica in Calabria» ha spiegato a “l’Espresso”. Anche la Masini è stata sentita in procura. Dopo dieci anni alla guida dell’ente locale, la sua carriera politica per il momento si è interrotta: il partito ha preferito non puntare su di lei alle regionali, scegliendo - questa la versione ufficiale - volti nuovi e più giovani, da protocollo renziano. I magistrati hanno voluto ascoltare altre figure chiave dell’entourage dell’allora sindaco Delrio. Come Maria Sergio, dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e ora passata a quello di Modena, originaria di Cutro e sposata con l’attuale sindaco pd della città del tricolore, Luca Vecchi. Un settore strategico quello dell’Urbanistica. E proprio la commissione consiliare Territorio e ambiente per molto tempo è stata presieduta da un altro fedelissimo di Delrio: Salvatore Scarpino. Un punto di riferimento per il sottosegretario nella comunità cutrese, l’unico che ha ottenuto dal partito una deroga per ricandidarsi al terzo mandato in Consiglio comunale. Lui, dicono i ben informati, è il regista della trasferta calabrese. Scarpino oltre a essere un esperto di urbanistica è anche dirigente all’Agenzia delle Entrate di Bologna. La confusione tra legalità e ombre ha il suo epicentro a Brescello. L’erede di Peppone è Marcello Coffrini, diventato sindaco con i voti del Partito democratico. D’altronde ha avuto un grande maestro: suo padre infatti ha guidato la giunta per quasi vent’anni. Per il giovane Coffrini il boss calabrese Francesco Grande Aracri è «un personaggio tranquillo, composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello», come ha risposto al collettivo di giornalisti Cortocircuito autori di una video inchiesta rilanciata dalla Gazzetta di Reggio. Un profilo da libro “Cuore” insomma. Che però dà l’idea della grande strategia di mimetizzazione della ’ndrina, dominata secondo gli inquirenti proprio da Francesco Grande Aracri e dal fratello, il potente padrino Nicolino, detto “Manuzza”. La famiglia d’onore è tra i trenta clan più ricchi della ’ndrangheta. Il cuore a Cutro, il polmone economico a Brescello, da dove irradia la sua influenza fino a Verona e Mantova, restando però ben piantata lungo la via Emilia, da Modena a Piacenza. Una presenza che non fa paura e non crea neppure imbarazzo: il sindaco Coffrini ha reagito con insofferenza alle polemiche nate dalle sue dichiarazioni su Grande Aracri. Qui il clan fa girare i soldi. E lo dimostrano le aziende sospettate dagli investigatori di rapporti con la cosca: due fanno parte della galassia di Confindustria Reggio Emilia. Forse per questo il sindaco di Brescello non è solo nel suo appoggio alla famiglia di Cutro. Anche una parte della cittadinanza difende Grande Aracri e le sue aziende che danno lavoro. C’è persino chi rispolvera motivazioni che neppure al Sud vengono più accettate, sostenendo che «in fondo la mafia è nata per togliere ai ricchi e dare ai poveri». Pure il parroco don Evandro Gherardi si è schierato con Coffrini: durante la processione cittadina ha affermato orgoglioso che Brescello non è mafiosa. Don e sindaco finalmente d’accordo. Ignorando le parole messe a verbale già nel 2007 dal pentito Angelo Cortese: «Brescello rappresenta Cutro, qui vive tutta la famiglia Grande Aracri, e quindi simbolicamente è importante; non che Reggio Emilia sia da meno, ma simbolicamente è Brescello il punto di riferimento». «Quanto è accaduto in quel paese è sintomatico della pervasività della ’ndrangheta emiliana», racconta a “l’Espresso” un investigatore, che aggiunge: «ma i politici che la pensano in quel modo, o peggio che hanno avuto rapporti e si relazionano con il volto pulito della ’ndrangheta emiliana sono numerosi». La procura nazionale antimafia in un’audizione alla Commissione parlamentare ha segnalato un elemento inquietante: «Nel territorio emiliano i contatti con la politica esistono, sono esistiti nel 2007, quando ci furono le elezioni amministrative, e non escludo che ci siano stati anche con riferimento alle elezioni amministrative del 2012». Da quanto risulta a “l’Espresso” la provincia interessata dal sospetto di voto di scambio sarebbe quella di Parma. In particolare nella città ducale i movimenti opachi avrebbero riguardato un gruppo di emissari del clan Grande Aracri e alcuni esponenti del Pdl che si sarebbero mossi per far eleggere nel 2007 il berlusconiano Pietro Vignali, diventato sindaco e poi travolto da un’inchiesta per corruzione. Una notizia sepolta in una vecchia indagine della procura antimafia di Catanzaro, che non ha più avuto sviluppi. Cristallizzata invece in alcuni rapporti dei carabinieri inviati alla prefettura di Reggio Emilia è la cena tra un cartello di imprenditori legato al clan Grande Aracri e tre politici del Pdl. L’incontro avvenuto nel 2012 era stato organizzato nel ristorante Antichi Sapori, di proprietà di Pasquale Brescia, molto in confidenza con questo entourage di uomini d’affari. Alla cena erano presenti Nicolino Sarcone, «referente della cosca a Reggio Emilia e comuni limitrofi» si legge nei documenti inviati al Prefetto, il fratello Gianluigi e Alfonso Diletto, nipote del fratello del boss “Manuzza”. Tra i commensali politici invece viene notato Giuseppe Pagliani: avvocato ed esponente di spicco di Forza Italia in città. Tra un piatto tipico e un bicchiere di vino la discussione è andata a finire sulla frenetica attività della prefettura: le interdittive che stavano lasciando fuori dagli appalti numerose aziende perché indicate come vicine ai Grande Aracri. Una delle imprese colpite è di Giuseppe Iaquinta. E quella sera era presente pure lui. Il costruttore che ha creato un piccolo impero tra Reggio e Mantova è il padre di Vincenzo Iaquinta, l’attaccante della Juve dei record e della nazionale campione del mondo. La passione per il calcio è talmente radicata in casa che due mesi fa sembrava concretizzarsi la scalata di Iaquinta senior al Mantova calcio. Poi non se ne fece più nulla. Nel frattempo papà Iaquinta si è affidato all’avvocato Carlo Taormina: ha denunciato l’ex prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro per abuso d’ufficio. E ha chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di essere sentito per la «opportuna valutazione anche politica del prefetto di Reggio Emilia». I nomi di Pagliani e Gianluigi Sarcone, invece, ritornano in un’altra vicenda. Sono stati ospiti nel talk show di un’emittente locale per parlare ancora una volta degli effetti dei provvedimenti della prefettura. A condurre il programma era il giornalista Marco Gibertini. Era l’11 ottobre 2012. Oggi il conduttore è agli arresti domiciliari per la maxi operazione della procura di Reggio Emilia su un giro di evasione e riciclaggio. E agli inquirenti non sfugge una certa familiarità del giornalista con un imprenditore considerato espressione del clan emiliano, coinvolto nella stessa indagine. Mentre Gianluigi Sarcone si sta difendendo in tribunale perché la Direzione investigativa di Firenze ha messo i sigilli alle sue aziende. Invece il rapporto dei carabinieri su Pagliani non ha intaccato la sua carriere politica: la Lega Nord lo ha sempre difeso nel consiglio comunale e nelle consultazioni regionali di domenica l’esponente berlusconiano ha sfiorato l’elezione, ottenendo un record personale di 2.634 preferenze nella lista che sosteneva il leghista Alan Fabbri, l’araldo di Salvini in terra d’Emilia.

COOP: ROSSE, MA DI VERGOGNA.

Lo scandalo degli ipocriti. Il pozzo nero di Roma. Una Lega trema, un'altra vola, scrive Sandro Vacchi su “Economia Italiana”. E ci stupiamo? No, gente, qualcuno cade dalle nuvole, oppure finge di farlo, alle notizie sulla tratta di denaro, che a Roma soffiano tanto spesso quanto il Ponentino? Da Marziale a Plauto, e poi via via nei secoli, sino a Ennio Flaiano, è stata composta un'enciclopedia più ponderosa della Britannica a proposito dei vizi della capitale; anzi, della Capitale con la C maiuscola, come si picca ancora di scrivere orgoglioso qualche giornale capitolino, mentre la C, di maiuscolo, ha solamente la Corruzione. E torna inevitabile alle orecchie il vecchio "Roma ladrona, la Lega non perdona" di bossiana memoria, che risuonava nella notte fra la prima e la seconda repubblica. La sua attualità non è mai scemata. Anzi. Fingano pure di scoprire, Lor Signori, che il Palazzo è marcio dalle fondamenta; che il vero cancro del Paese non è Napoli, e nemmeno Palermo, e neppure la Calabria, ma la Città Eterna, che di eterno ha i monumenti, ma anche il cinismo, l'amoralità e il "fancazzismo" di torme di suoi abitanti e frequentatori. Tentino anche di insabbiare lo sterco, di nascondere cose inconfessabili, come fanno con le fruscianti banconote (570 mila euro!) murate nelle intercapedini di un'abitazione dei ladri. Si barcamenino finché vogliono per difendere i soci in affari attraverso i giornali amici, per salvare il salvabile, per dire "lui è più ladro di me", per sostenere che il mostro viene partorito adesso ma è stato concepito da altre giunte, da altri politici, da altri faccendieri, da altri cialtroni: "Il primo segno della corruzione dei costumi è il mettere al bando la verità. E la verità di oggi non è ciò che è, ma ciò che si fa credere agli altri" diceva Montaigne cinquecento anni prima di Buzzi e Carminati, Alemanno e Marino, la Metro C (altra C di Corruzione) e il grande affare dell'immigrazione, più o meno clandestina. «È tutto uno schifo!» commenta il premier Matteo Renzi, neanche fosse un pisquano qualsiasi al bar mentre sorbisce il caffè. Eh no! Lei è il presidente del Consiglio dei Ministri, anche se nessuno l'ha eletta, tutto teso a deprecare il populismo strisciante, e si abbandona a considerazioni di tale acutezza politica? Lei è quello che manda la fatina Maria Elena a dare del fascista a Matteo Salvini e non si accorge che da due anni quello sbraita contro il grande e sporco business dell'accoglienza, di Mare Nostrum e delle "zingarate"? Oppure, signor Renzi, finge anche lei di cadere dalle nuvole come una qualunque casalinga di Voghera, ma in realtà non aspettava di meglio per la resa dei conti nel suo partito allo sbando? Se un decimo di quanto è accaduto e sta accadendo nella Capitale Immorale fosse successo a Biella o a Trani, ad Aversa oppure a Ventimiglia, i consigli comunali sarebbero stati non sciolti e commissariati, ma rottamati, inceneriti e dispersi al vento. Ignazio Marino non c'entra, non c'era e se c'era dormiva? Non ha mai visto né sentito parlare di Salvatore Buzzi, nonostante un intero album fotografico dimostri il contrario? Intanto si dimetta, lasciando che l'inchiesta faccia il suo corso, e se non c'entra nulla, la magistratura gli darà senz'altro ragione: non è in fondo sempre così in Italia? O la sedicente sinistra osa nutrire qualche dubbio sulle capacità, l'indipendenza e l'onestà dei giudici, virtù che tanto esalta, invece, ogni qual volta le toghe colpiscono un nemico? Tanto per non far nomi, Silvio Berlusconi. I 5 Stelle sbugiardano da giorni il sindaco più falso di Pinocchio, il multato della Panda Rossa, l'allegro chirurgo che nulla sa ma tutto può. E Matteo Salvini, l'uomo che ha portato in una sola stagione la Lega Nord a scavalcare Forza Italia, prima ha liquidato la candida Boschi dandole del Cappuccetto Rosso che crede alle favole, e l'ha invitata a fare quelle riforme che da tempo promette, invece di sparare banalità, poi ha ricordato alcune opere di Miss PD e di Mister Ercolino Renzi, i quali hanno tolto fondi ai ciechi e ai disabili per dirottarli a non meglio identificati immigrati e varare una Legge di Stabilità che si traduce in tagli e ancora tasse. «Noi l'abbiamo combattuta e ci danno dei fascisti», sbotta il leghista. È l'eterna tiritera dei compagnucci della parrocchietta: chi non è come loro è fascista. «Io farei a cambio fra Putin e Renzi domani mattina» aggiunge Matteo Due, che è già ormai Uno e Mezzo, arrivato al punto di proporre come cura per Roma un sindaco leghista. Fino a poche settimane fa sarebbe stato come nominare Papa Francesco a capo degli integralisti islamici, ma in Italia, signori, la rivoluzione butta tutto all'aria in tempi rapidissimi. Sì, perché se non ce ne fossimo ancora accorti, viviamo in piena rivoluzione: dei costumi, della morale, della politica, dell'economia. Non mi dilungo in analisi, ognuno è in grado di riflettere sui fatti, basta che si guardi attorno. Soltanto una cosa, però: la disaffezione, il disincanto della gente, a che cosa sono dovuti? Non si va più a votare, e Renzi faccia altrettanto, se è vero che giudica tutto uno schifo. Oggi, se si tornasse alle urne, non ho la minima idea di quanti voti prenderebbe chi quello schifo lo denuncia da sempre, e che ancora non c'è finito dentro, ma immagino che sarebbero tanti e tanti ancora. Tutti fascisti, signorina Boschi? Allora lei ha proprio capito tutto dell'Italia e degli italiani. Guardi che a Striscia la notizia si sta liberando il posto di Velina bruna, potrebbe concorrere, ce la manderebbe anche Rosy Bindi, sua compagna di partito che tanto l'apprezza. Nel 1992 la giovane ministra era in quinta elementare, quando un certo Mario Chiesa del milanese Pio Albergo Trivulzio, ospizio (guarda la coincidenza!) fu sorpreso mentre cercava di liberarsi di sedici o diciassette milioni di lire buttandoli nel water. Spiccioli, ma di lì partirono Tangentopoli, Mani Pulite, la fine della prima repubblica e di tutti i partiti eccetto quello comunista che aveva da poco cambiato connotati, come un camaleonte, dopo l'abbattimento del Muro di Berlino e il fallimento davanti alla storia di un sistema che aveva dominato la Russia per settant'anni e l'Europa dell'Est per mezzo secolo. Gli eredi del PCI erano a mezzo passo dalla stanza dei bottoni anche in Italia, quando spuntò un grandissimo rompiscatole con il suo "partito di plastica": Silvio Berlusconi. Per la bellezza di un ventennio li ha stoppati, bloccati, inchiodati, facendoli schiumare rabbia e rendendoli incapaci di far altro che non fosse escogitare sistemi per farlo fuori. Sembravano il Vilcoyote con Bip Bip: patetici ogni anno che passava, invisi ai loro stessi adepti. Ci sono voluti un po' di tanga e di "cene eleganti" per mettere in soffitta il Grande Nemico ormai ottuagenario, ma il Partito si è consumato negli anni. E oggi sta morendo a sua volta: diviso, senz'anima, senza idee. E corrotto. Altroché la superiorità morale di cui cianciava Enrico Berlinguer! Questi sono ladri due volte, e peggio dei "destri": perché rubano ma continuano a sostenere, persino credendoci, di essere onesti. Domandina, compagni: credete davvero che gli italiani siano venuti giù con la piena del Bisagno? Credete che non vedano lo schifo (parole del vostro segretario Renzi) dovuto in primis all'ipocrisia che vi domina fin dalla nascita? E il risentimento e l'invidia che da sempre vi muovono contro il "ricco", l'autonomo, il professionista, per ciò stesso evasori, secondo la vostra vulgata demenziale? Vi stupite che la gente non vi voti più, che non vada più alle urne e che, semmai ci andasse, voterebbe per la Lega? Ma dove sono i vostri rinomati politologi, e sociologi? Legioni di studiosi dell'Istituto Gramsci, e di Nomisma, e del Cattaneo non vi hanno detto niente? Ohibò! Ma non eravate e non siete i migliori, i più intelligenti, i più acculturati, i più svegli a cogliere le occasioni? So io, e tanta gente, quali occasioni siete svelti a cogliere. E lo sa anche Standard & Poor's, agenzia di rating che in concomitanza con lo Scandalissimo ha declassato l'Italia da BB, che non significa Bed and Breakfast, a BBB, che vuol dire invece Bufale Belle e Buone. Quelle che gli amici degli amici si ingegnano a mettere insieme per dimostrare come il marcio romano sia Mafia e Destra, delinquenza comune ed ex picchiatori neri, e come la Sinistra de Noantri sia invece quasi una vittima, sfiorata appena dal venticello malefico. Sveglia! Almeno dai tempi di Giusva Fioravanti (strage di Bologna) il terrorismo nero dei "fasci" romani è sempre andato a braccetto con la delinquenza comune. Banda della Magliana, per intenderci. Oppure qualcuno pensava che i camerati capitolini fossero degli Yukio Mishima, samurai dell'onore e della patria? Ma va'! Chi ha amministrato Roma, però, per decenni? Partiamo da una quarantina di anni fa, ma si potrebbe arretrare quasi a Romolo e Remo. Lo storico dell'arte Carlo Giulio Argan regge Roma dal 1976 al '79: era del PCI. Tocca poi a Petroselli, e dopo a Vetere, entrambi a capo di giunte rosse. Signorello resta in carica fino all''88, con una giunta democristiana, seguito da Giubilo, Barbato e Carraro, stesso colore. Comincia il bello degli anni nostri. Rutelli governa dal 1993 al 2001, Veltroni dal 2001 al 2008, Marino è in carica e ci è andato nel 2013. Fra lui e Veltroni, dal 2008 al 2013, c'è stato Gianni Alemanno, marito di Isabella Rauti, anche lei più nera che non si può, figlia di Pino Rauti. Comunque, cinque anni in tutto per il camerata messo in Campidoglio con uno scandalo almeno pari a quello di Giorgio Guazzaloca a Bologna dopo decenni di amministrazioni rosse. Vabbè, d'altronde Veltroni non era comunista, sosteneva: unico caso di non comunista già a capo dei giovani del PCI. Chissà, forse era un infiltrato dei suoi amatissimi Kennedy, io propendo più per l'ipocrisia di partito.
Possibile che tutto l'ambaradan di questi giorni qualcuno crede che possa averlo montato un uomo solo in così poco tempo? "'A Mandrake!" commenterebbero i romani. Il PD si è reso conto che più di tanto non poteva darla a bere agli elettori (quelli rimasti), così si sono "autosospesi" tre consiglieri: Daniele Ozzimo, Mirko Coratti ed Eugenio Patanè. E tutti a lodarne la lealtà democratica, mentre non è che una mossa per far piazza pulita nelle correnti antirenziane e blindare un sindaco, Marino, che più sputtanato non si può, paradossalmente salvato proprio dallo Scandalissimo. Comunque, gli antirenziani del Lazio adesso rosicano, e il fiorentino fa l'indignato, lontano com'era dagli affaracci del Mondo di Mezzo. La parola d'ordine, certo non palese, ma ovvia, è "Non ne so niente, non li conosco". Chi mai volete che conoscesse Salvatore Buzzi, piddino con tanto di tessera, da anni sulla breccia dopo essersi fatto un bel periodo dietro le sbarre condannato per omicidio? Omicidio, non furto di carrube! Era lui l'anello di congiunzione tra i neri (delinquenti per definizione) e i rossi (delinquenti per aspirazione) amministratori della cosa pubblica. E a nessuno che sia venuto in mente di chiedergli un curriculum, al factotum della cooperativa 29 Giugno? Al galantuomo che assicurava che con gli immigrati e gli zingari (lui li chiama così, madame Boldrini, se ne faccia una ragione) c'è da guadagnare più che con la droga? Eh sì, perché gestire immigrati rende cinquecento milioni l'anno, come a dire mille miliardi di vecchie lirucce. Capito, adesso, perché le nostre (beh, mica tanto nostre) città pullulano di questa gente, Roma in particolare? Facendo la cresta su pasti, schede telefoniche e annessi e connessi, sembra che per ogni immigrato adulto gli intermediari intaschino dieci euro sui trentacinque messi a disposizione dallo Stato, cioè da noi. Se l'"assistito" è minorenne, mamma Italia tira fuori una novantina di euro, e la cresta diventa un cappello piumato, una feluca. Soltanto in quest'anno che non è ancora finito sono sbarcati, da Lampedusa in su, la bellezza di 140 mila migranti, profughi, clandestini che dir si voglia. Sono stati finora più di 2.500 i poveracci toccati a Roma quest'anno: dieci volte più del dovuto, come rivela in un'intercettazione Luca Odevaine, già collaboratore di Walter Veltroni. E 35 milioni abbondanti di euro se ne sono andati finora, nel 2014, per i centri profughi e l'assistenza dei richiedenti asilo sbarcati a Roma. Per i minori immigrati in riva al biondo Tevere si sono spesi in dieci mesi 831 mila euro, e altri 274 mila per assistere gli immigrati disabili. Nello stesso tempo sono stati tagliati i fondi per i disabili italiani, detto per inciso. In pochissimi anni la cooperativa di Buzzi associata alla Lega è balzata da un fatturato irrisorio a quaranta milioni di euro. «Gli utili li facciamo sugli zingari, sull'emergenza abitativa e sugli immigrati» ha spiegato il grande capo, come lo chiamava nelle mail Micaela Campana, responsabile welfare del PD e già compagna di Ozzimo, la quale gli mandava anche tanti baci. Milioni di italiani gli stanno mandando altri tipi di omaggi, con tutto il cuore. E questa gente non saprebbe niente, se c'era dormiva, non ha mai incontrato Buzzi e continua a raccontare la barzelletta della superiorità morale del Partitone? E a negare l'evidenza, come Marino davanti alle fotografie sbandierate dai grillini che lo ritraggono col manovratore del grande ladrocinio? Ma per piacere! Facile tirare in ballo la teppaglia nera dei Massimo Carminati e affini, come l'addetto al "recupero crediti" che minacciava di spezzare i pollici ai cattivi pagatori. Facile scovare la marmaglia che fa ritrovare in un attimo i quattro milioni di euro rubati in casa al cantante Gigi D'Alessio: e tanti complimenti per i gorgheggi, viene da dire. Facile scoprire la burinaggine mafiosa di chi promette protezione al calciatore della Roma, Daniele De Rossi, disturbato al night. E qui ci si attacca subito alla storia altrettanto fresca della ex moglie arrestata per estorsione e minacce di morte a un imprenditore non meglio definito; signora che, peraltro, è figlia di un malavitoso ammazzato anni fa sempre per storie di usura. Ma c'è qualche scemo, o cieco con il prosciutto dell'ideologia sugli occhi, che possa pensare che un Comune rosso da sempre come quello di Roma, se si esclude il quinquennio di Alemanno, possa essere guidato e controllato dai "fasci", dai Nar, dai malavitosi coatti delle periferie? E in Campidoglio le povere innocenti creature della Razza Superiore che cosa facevano? Forse intascavano 117 mila euro come Odevaine, sua moglie e suo figlio. Da chi? Non c'è mica più l'oro del Cremlino. È che qui il superbusiness riguarda maneggioni e ladri di diverso colore, ma di pari delinquenza. Eppure il Partito da un lato nega (Marino), dall'altro si libera di gente non gradita (Renzi) e dal terzo lato nasconde (Bianca Berlinguer ha infilato in fondo alla scaletta del suo TG3 lo scandalo romano appena è emerso il coinvolgimento della Chiesa di cui suo padre fu venerato segretario). E mentre il PD romano viene commissariato, ma il Comune no - per carità, non possiamo mica sputtanarci del tutto! - l'ineffabile Buzzi apre le cateratte e rivela di aver dato soldi a tutti, addirittura a quel vecchio comunistone di Armando Cossutta, un santo per il PCI dei tempi di Togliatti, uno che prendeva ordini direttamente da Mosca e li girava a Roma. Fuochi d'artificio degli indignati, minacce di querele. Ma la declamata onestà va a farsi benedire, perché nell'epoca del web e dei social-network spuntano le fotografie dell'eurodeputata Simona Bonafè accanto all'onnipresente Buzzi prima delle elezioni europee; e quella che ha mandato in bambola l'ex presidente nazionale della Lega delle cooperative, quindi capo del Buzzi stesso, Giuliano Poletti, oggi ministro del Lavoro, seduto a una tavolata di rossi, neri e delinquenti. Gli è venuto un mezzo coccolone, s'è indignato a morte, la candida frangetta gli si è tutta scompigliata e il faccione intristito. Spiega l'ex assessore della giunta di Gianni Alemanno, Umberto Croppi, che quella foto del 2010 fu scattata durante una "magnata" organizzata dal Comune di Roma per procurare una trentina di milioni di euro alle cooperative, comprese quelle sociali. Insomma, per foraggiare le coop rosse da parte dell'amministrazione nera di quegli anni, visto che il Campidoglio era a secco. «Ci si inventò un meccanismo per cui i soldi alle coop venivano anticipati dalle banche con la formula del "pro soluto", con cui il Comune si faceva garante del debito e lo rifondeva con gli interessi». Lo dice Croppi, ex, neo, parafascista in affari con l'ex, vetero, paracomunista Giuliano Poletti da Imola. Domanda: vi risulta che qualche impresa privata, non cooperativa, goda normalmente di simili agevolazioni? Poi hanno il coraggio di dire che non esistono corsie preferenziali per le coop, che sarebbero imprese sociali, in affari per fratellanza e scopi umanitari. Pensate a cosa deve succedere in Emilia-Romagna, dove non si muove foglia che le coop non vogliano; e che cosa poteva accadere a Roma prima e dopo la parentesi nera di Alemanno, all'epoca della quale fu scattata la foto degli allegri mangioni. E siamo ad Alemanno, sbattuto di nuovo e giustamente in prima posizione dal TG3 appena è saltato fuori che avrebbe portato in Argentina dei bei valigioni imbottiti di soldi. Buenos Aires, "buen retiro" da settant'anni di nazifascisti di ogni risma, dai gerarchi di Hitler, agli sterminatori dei lager, al Giovanni Ventura sospettato della strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano, continuerebbe dunque a essere rifugio sicuro anche dei fascisti di oggi, o almeno dei loro quattrini. E poi qualcuno si stupisce che gli italiani, poveracci, continuino a dire che i politici sono tutti uguali? E che le elezioni siano sempre più considerate Cosa Loro? E che il populismo dilaghi? Qui è pieno di gentaglia che incamera denaro a palate sulla pelle di poveri cristi sui quali piovono lacrime ipocrite di giornali e istituzioni. Ma, soprattutto, si arricchisce sulla pelle degli italiani che dovrebbe tutelare e aiutare per primi, e che invece manda alla rovina. Qualcuno si stupisce ancora che, per una Legacoop travolta dal ciclone dello scandalo, ci sia un'altra Lega che prende il volo nelle preferenze degli italiani? Non deve far niente: semplicemente aspettare che i Migliori e i Peggiori, alleati fra loro nel Mondo di Mezzo per taglieggiare, rapinare e scippare chi sta sotto, continuino a farlo. E tanti auguri all'Italia, la solita Italia sputtanata a morte davanti a quell'Europa che non gliene perdona una. Figuriamoci questa.

Tutti gli scandali del sistema di potere sinistro in Emilia Romagna, scrive “Il Fazioso”. Regioni Rosse, queste sconosciute… Dove tutto (politica, economia, giustizia ecc) ha un obiettivo comune: favorire gli interessi della sinistra. Toghe che archiviano in continuazione procedimenti per speculazioni colossali per favorire le casse del partito, sui dipendenti del partito assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps, sui finanziamenti illeciti ai partiti di sinistra, sullo scandalo Coopservice (la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop). Ma anche parcelle milionarie a un solo studio legale, esterno all’amministrazione. Parcelle che tra l’altro oltre a essere spropositate riguardano procedimenti per i quali si poteva agire in modo diverso e che hanno provocato un danno erariale enorme. Insomma una nazione a parte dove tutto si fa in favore della sinistra di nascosto, con la complicità di giudizi, professionisti e dell’economia locale…

Il Pdl denuncia: col governo Errani parcelle milionarie a uno studio legale, scrive “Il Giornale”. La regione Emilia Romagna dispone di un corposo ufficio legale con decine di dipendenti, tuttavia preferisce spendere fior di quattrini in consulenze esterne. In particolare, c'è una colossale parcella di 3.262.139 euro versata a un unico studio legale esterno all'amministrazione nell'arco dei dieci anni in cui è stato governatore Vasco Errani. Lo denunciano il deputato Pdl Enzo Raisi e il consigliere Alberto Vecchi che dopo mesi di insistenze hanno ricevuto dalla regione una corposa documentazione. Due faldoni molto voluminosi «in cui appare sempre lo stesso nome, destinatario di un elenco di oltre duemila pagamenti per altrettante cause sostenute in difesa della regione». Il contenzioso riguarda i destinatari di trattamenti di invalidità civile. «La vicina regione Toscana - spiega Raisi - dopo i primi interventi non si è più costituita in giudizio, risparmiando sulle parcelle e coprendo le spese legali se soccombente. Ma in Emilia non hanno tanto a cuore i soldi dei loro contribuenti. Oltre ai tre milioni abbondanti di euro già versati, che presto saliranno a cinque, hanno pagato il 50 per cento delle spese legali se soccombenti in giudizio. Un danno erariale enorme». Per denunciare questo spreco di risorse pubbliche il parlamentare e il consigliere regionale hanno presentato un esposto alla Corte dei conti. Non è semplicemente una questione di soldi. «Bisogna puntare l'attenzione sull'operato della Direzione generale centrale Affari istituzionali e legislativi - dicono Raisi e Vecchi - sulla quale presentammo una denuncia penale già quattro anni fa. Anche allora emerse una strana gestione delle consulenze, oltre quattro milioni di euro destinati a parenti di funzionari interni. L'esposto fu archiviato con insolita rapidità, ora lo riproporremo». Per inciso, capo della procura di Bologna era il dottor Enrico Di Nicola che adesso, da pensionato, oltre a partecipare a convegni promossi da Pd e Idv, ha ricevuto una consulenza proprio da quella Direzione centrale («un incarico di prestazione d'opera intellettuale per l'elaborazione di uno studio di fattibilità finalizzato all'analisi e al monitoraggio della criminalità economica e mafiosa nella regione Emilia Romagna»). Gli uffici regionali riconoscono che si tratta di «dati aggregati cospicui», ma che tutto dipende dagli effetti della legge Bassanini che scaricò sulle regioni l'onere di attribuire gli assegni di invalidità. La Bassanini però non imponeva di utilizzare la consulenza di studi legali esterni, ai quali invece l'amministrazione Errani ha fatto abbondante ricorso considerata «l'enorme mole delle cause».

In Emilia sentenze creative salva-compagni. Dalle speculazioni per le casse del partito allo scandalo Coopservice: ogni volta che politici e dirigenti rossi finiscono nel mirino le toghe romagnole archiviano tutto. D’Alema fu coinvolto per i finanziamenti illeciti: niente di fatto perché poteva non sapere, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. In questo mondo di regole violate ed eccezioni benedette, c’è un rito che sopravvive a se stesso. È il rito giudiziario emiliano-romagnolo. Una particolare versione dei codici legislativi applicata nella regione più rossa d’Europa agli amministratori pubblici di sinistra. Un’interpretazione non scritta ma assai più in voga di quella autentica, una giurisprudenza «creativa» e a senso unico, impensabile fuori dai confini della regione governata da Vasco Errani dove gli intrecci fra partiti, cooperative rosse, enti pubblici avviluppano anche chi deve amministrare la giustizia. È successo, per esempio, che terreni agricoli acquistati per quattro soldi da prestanomi del Pci-Pds-Ds siano poi stati trasformati dalle amministrazioni rosse in aree commerciali o residenziali con una cubatura moltiplicata a dismisura e guadagni adeguati. Speculazioni colossali per finanziare le bisognose casse del partito. In uno di questi casi (la compravendita dell’area del Campazzo tra Modena e Nonantola) ci furono denunce e processi. Sindaco e assessore furono assolti con una motivazione che lascia di sasso: «La manovra speculativa su aree fabbricabili attuata da un partito politico (indirettamente attraverso l’interposizione di un soggetto economico) alla stregua di privati proprietari può porsi a un severo giudizio di moralità pubblica» ma «non necessariamente implica comportamenti individuali penalmente sanzionati». Speculare per il partito è lecito. Quando la Cassazione le fece a pezzi, la sentenza era ormai prescritta. Altro caso. Negli anni Novanta una legge vietò ai dipendenti dei partiti diventati amministratori pubblici di raddoppiare le indennità di carica e lasciò a carico del partito il versamento dei contributi previdenziali. Una scoppola per i funzionari del Pci-Pds che facevano i sindaci o i consiglieri. Ma la grande famiglia rossa sistemò tutto: i dipendenti del partito furono assunti dalle coop e contestualmente messi in aspettativa (per scaricare sull’ente pubblico i versamenti Inps). Scattarono denunce in tutta Italia. In Emilia Romagna furono indagati 66 amministratori rossi. A Vercelli l’ex sindaco socialista Fulvio Bodo fu condannato a un anno e otto mesi per l’assunzione fittizia; in Emilia tutti assolti: per il gip di Modena «l’assunzione corrispondeva a una opzione professionale» in base a «lodevoli ragioni di opportunità politica». Negli anni di Tangentopoli Nino Tagliavini, manager reggiano presidente del colosso cooperativo Unieco, raccontò di aver portato 370 milioni di lire non dichiarati a Botteghe Oscure e messi in mano del tesoriere Marcello Stefanini. Massimo D’Alema fu raggiunto da un invito a comparire per finanziamento illecito come si usava a quel tempo. Ma il futuro premier fu prosciolto. Tagliavini rivelò di aver partecipato a una riunione con molti presidenti di coop in cui D’Alema fece loro presente i problemi finanziari del partito avvertendo che Stefanini li avrebbe chiamati. Ma per il gip di Reggio Emilia «una richiesta di aiuto finanziario non costituirebbe determinazione o istigazione a commettere falsi in bilancio». Quindi l’allora segretario conosceva e controllava la situazione finanziaria del partito, ma non ha responsabilità nel finanziamento illecito. A differenza che nel resto d’Italia, in Emilia Romagna un capo di partito poteva non sapere. Più recente è lo scandalo Coopservice. In vista della quotazione in Borsa di una società controllata (Servizi Italia), la coop di Reggio Emilia specializzata in servizi alle imprese organizzò un giro di azioni tramite una finanziaria lussemburghese e costituì nel Granducato un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle coop. Nonostante un rapporto della Guardia di finanza segnalasse 46 nomi, il procuratore capo di Reggio indagò soltanto i due personaggi di vertice. Egli riconobbe il marcio nell’operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone», un tradimento pieno dello spirito cooperativo e delle leggi che lo regolano (più favorevoli rispetto alla normativa sulle spa). Tuttavia il Pm ha chiesto l’archiviazione per i due indagati: «Si può parlare di insider trading solo se le società è già stata ammessa alla quotazione in Borsa». Il trionfo del «rito emiliano».

Coop, affari da compagni. Emilia: dal crac di Argenta al caso Errani, scrive Francesco Mura su “Lettera 43”. La vicenda giudiziaria che ha coinvolto il governatore dell'Emilia Romagna, Vasco Errani, accusato di falso ideologico per aver favorito, attraverso un mutuo regionale, il fratello Giovanni - presidente della cooperativa agricola Terremerse - ha aperto un nuovo squarcio sul fianco cooperativistico emiliano romagnolo e non solo. Il presidente si è difeso e ha urlato al mondo intero la sua onestà, il partito si è schierato prontamente intorno all'uomo di punta convinto della sua assoluta innocenza, ma la vicenda ha rinfocolato la polemica, che dura ormai da decenni, sull'asse tra le cooperative emiliano romagnole, conosciute come “coop rosse” e Partito democratico (Pd). Un potere trasversale che detta le regole, soprattutto economiche. In Emilia, Legacoop può contare su oltre 1500 unità, quasi 3 milioni di soci, 145 mila lavoratori e un fatturato che sfiora i 50 miliardi di euro. Solo nella regione, le coop si aggiudicano un appalto ogni quattro e controllano quasi il 70% della grande distribuzione alimentare. Una vera e propria anomalia nel mondo dell'impresa, un intreccio tra economia e politica che garantisce poltrone che contano, un elettorato fedele ma, a volte, qualche guaio. Nel settore non sono mancati, infatti, scandali, bancarotte e intrecci mafiosi. Come nel caso della defunta Coopcostruttori di Argenta. Fallita in un mare di debiti nel 2002, l’ammiraglia di Legacoop è finita sotto inchiesta insieme con il presidente e ad alcuni suoi collaboratori con l'accusa di fare affari con la camorra campana, compresa quella casertana dei Casalesi. Un crac miliardario i cui numeri fanno venire i brividi anche a distanza di anni: 198 milioni di debiti verso i cosiddetti creditori privilegiati, ovvero i lavoratori, le banche e i professionisti; 137 milioni di fatture inevase e 63 milioni di cambiali accumulate nei confronti di migliaia di ditte, artigiani, fornitori; 80 milioni di euro i debiti dei 300 soci sovventori e prestatori. In tutto, 9 mila persone sono finite sulla strada. Vecchie storie, si potrebbe obiettare, se non fosse che sono legate a doppia mandata con le vicende dei nostri giorni. Storie di finanziamenti facili, appalti e tangenti delle quali la vicenda che ha coinvolto Vasco Errani, ancora tutta da provare, non è altro che la punta dell’iceberg. Che unisce, ancora una volta, l’asse Legacoop-Pci-Pds-Pd. Un’alleanza di ferro che ha resistito al tempo e alle inchieste, dal caso Unipol-Bnl fino a Terremerse. «Sebbene siano vicende diverse», ha fatto sapere Alberto Vecchi, consigliere regionale e coordinatore provinciale del Popolo della libertà (Pdl), l'episodio che ha coinvolto Errani è la dimostrazione che le cooperative rosse gestiscono a loro piacimento il mercato e si accalappiano gran parte degli appalti». Non da oggi, naturalmente. Non bisogna dimenticarsi, infatti, che l’intreccio tra cooperative rosse e il Partito democratico della sinistra (Pds) venne alla luce già nel 1993, nella stagione di Tangentopoli. Allora, il pool di Mani pulite non riuscì a dimostrare che le tangenti finite nei conti del 'compagno G', all’anagrafe Primo Greganti, fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti pubblici. Non solo. Dagli interrogatori di Bruno Binasco, allora amministratore delegato della Itinera, risulta che quando Antonio Di Pietro gli chiese se era sicuro di non avere mai versato soldi al Partito comunista, lui rispose semplicemente che i rapporti col Pci prima e con il Pds poi erano mediati attraverso quattro grandi consorzi di cooperative: Ccpl di Reggio Emilia, Cmb di Carpi, Ccc di Bologna e Coopcostruttori di Argenta. Un caso anche questo? A distanza di quasi 20 anni dal “compagno G”, a confermare l’asse Coop-Pd e chiamare in causa alcune cooperative dell’Emilia Romagna, ci ha pensato il “compagno P”, all’anagrafe Filippo Penati. Una carriera folgorante e ricca di soddisfazioni quella di Penati, che prima di accomodarsi sulla poltrona di vice presidente del Consiglio regionale lombardo è stato sindaco di Sesto San Giovanni dal 1994 al 2001, segretario della federazione provinciale milanese dal 2001 al 2004 e presidente della Provincia di Milano dal 2004 al 2009. Fino alle dimissioni e al suo recente De Profundis politico. Anche le vicende legate a Penati, accusato di aver agevolato imprenditori edili e del campo dei trasporti, conducono tutte alle Cooperative rosse dell’Emilia Romagna. Dalle rivelazioni dell’imprenditore Giuseppe Pasini, oltre alle tangenti pagate ai politici democratici, è venuta alla luce anche una pista che porta direttamente al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il Consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita Legacoop. Non solo.
Pasini ha assicurato che circa 2 milioni e 400 mila euro sarebbero stati versati dallo stesso ad altre due cooperative che gli inquirenti identificano nella Fingest di Modena e nella Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza. Intrecci complessi, di fronte alle quali la vicenda che ha coinvolto Vasco Errani è veramente poca cosa. La sua storia sembra assolutamente diversa dalle precedenti e non ha nulla a che vedere con i grossi scandali delle Coop o con le cosche mafiose. Ma di certo, se venisse provata, sarebbe la prova che il tempo, gli scandali e gli arresti avvenuti negli anni non hanno minimamente scalfito l’asse di ferro tra gli ex Pci, ex Pds ora Pd e le cooperative.

Toh, Poletti s'accorge delle coop fuorilegge. Il ministro del Lavoro, ex capo di Legacoop, ammette alla Camera che nel 2014 sei imprese su dieci sono risultate irregolari ai controlli, scrive Francesca Angeli su “Il Giornale”. «Irregolari». Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, finalmente fulminato sulla via di Damasco, scopre l'acqua calda ovvero che nella maggioranza delle cooperative si lavora in nero e la gestione del lavoro non è trasparente. È il deputato leghista Emanuele Prataviera, a rendere note le dichiarazioni del responsabile del dicastero di via Veneto che è stato ascoltato ieri in audizione dalla commissione Lavoro di Montecitorio. Prataviera ha pubblicato uno stralcio del resoconto delle dichiarazioni di Poletti. «Su circa 5.000 cooperative verificate circa 3.200, pari al 64 per cento, sono risultate irregolari. In particolare sono stati rilevati: circa 7.200 di lavoratori irregolari di cui più di mille in nero e oltre 3.300 casi di somministrazione». Affermazioni nuove per l'ex presidente della Legacoop che ha sempre continuato a difendere questo mondo anche dopo l'esplosione dello scandalo di Mafia Capitale. La tesi sua e di tutto il mondo che ruota intorno alle cooperative rosse, che hanno il loro fulcro in Emilia Romagna, è sempre stata quella della mela marcia. Anzi dopo la pubblicazione della foto del ministro, allora ancora presidente di Legacoop, seduto accanto a Buzzi nel 2010, l'autodifesa di Poletti e delle coop si è condita di pesante indignazione. Quella foto non significa nulla, hanno protestato le cooperative. In effetti Poletti non è coinvolto in alcun modo nell'inchiesta, non è indagato e dunque nonostante fossero molti i politici che ritenevano opportune le sue dimissioni o che chiedevano almeno dei chiarimenti sui rapporti la questione si è chiusa così: normale che Poletti come presidente della Legacoop si trovasse a quella cena. Normale anche che in tutti gli anni della sua gestione non avesse mai rilevato niente di irregolare nella complicata rete costruita da Buzzi grazie alle tante complicità? Per la Lega non tanto normale. E per la verità anche per molti iscritti al Pd, Rosy Bindi, ad esempio, che all'indomani dell'esplosione dello scandalo ha ripetutamente chiesto conto a Poletti di quella cena e di quei rapporti. Adesso la Lega riparte all'attacco perché il problema non si limiterebbe alla gestione criminale di personaggi come Buzzi ma a condizioni di illegalità diffusa come quella del lavoro in nero. I controlli, sottolinea il leghista, sono stati eseguiti nel 2014 e confermano una realtà assai poco limpida, una galassia mai monitorata fino in fondo che ha agito come un mondo a parte e nella quale sono potuti fioriti fenomeni aberranti come quello delle cooperative gestite da Salvatore Buzzi senza che nessuno intervenisse. «Il sistema cooperativo è inquinato. Il dato sulle irregolarità è sconvolgente - accusa Prataviera -. Molte coop hanno rapporti border line con vere e proprie associazioni criminali e che molto spesso operano speculazioni sui soggetti più deboli e bisognosi». Per Prataviera la spiegazione è semplice. «Il settore è marcio per troppi anni ha goduto di protezioni politiche da parte di certa sinistra - prosegue il leghista -. Ora la situazione è degenerata. Nel mondo delle coop ci sono troppe metastasi è chiaro che va riformato e che i privilegi anche fiscali di cui ha goduto per decenni si sono rivelati pericolosi incentivi a delinquere». Nelle irregolarità finalmente «scoperte» da Poletti non c'è sicuramente soltanto la questione fiscale ma anche quella dell'inquadramento dei soci dipendenti che, grazie allo status privilegiato delle coop, non godono di tutte le tutele previste dalla legge e possono subire in alcuni casi iniqui trattamenti salariali. E tutto questo proprio sotto gli occhi di chi dovrebbe vigilare ovvero sempre Poletti questa volta nel ruolo di ministro del Lavoro.

Scandalo Coop rosse: si paga per lavorare. Dipendenti costretti a versare 4000 euro per essere assunti da una cooperativa, scrive Giorgio Mottola “Il Corriere della Sera”. Quanto sareste disposti a pagare per avere un lavoro da seicento euro al mese? Non serve arrovellarsi troppo, una cooperativa sociale di Padova ha stabilito la cifra congrua: 4000 euro. Questa è la somma che la Codess, membro della Legacoop sociali, chiede ai propri dipendenti neoassunti. Che, almeno sulla carta, sono molto più che semplici dipendenti. In molti casi, la Codess preferisce infatti che i propri lavoratori divengano automaticamente soci della cooperativa. Anzi, «è la condicio sine qua non per essere assunti», spiega Chiara, che per poco più di 600 euro al mese, fino a poche settimane fa, lavorava come educatrice in un asilo nido pubblico di Modena gestito dalla coop padovana. Ed è diventando soci che il posto di lavoro diventa particolarmente “caro”. A prescindere dall’ammontare dello stipendio, che mediamente si aggira tra i 600 e i 1200 euro al mese, un socio lavoratore deve sborsare innanzitutto 3000 euro per comprare la propria quota sociale (molto salata rispetto a quanto chiedono le altre cooperative), soldi che vengono restituiti solo nel caso in cui il contratto di lavoro venga rescisso e il socio chieda di riavere indietro il proprio denaro. Altri 1000 euro devono invece essere versati alla Codess a fondo perduto (quindi senza possibilità di poterli mai rivedere), a titolo di tassa di ammissione soci. Niente paura, però, i 4000 mila euro non bisogna consegnarli subito e in contanti. La cooperativa li scala in piccole e comode rate mensili dalla busta paga. Non parliamo di piccole cifre. La Codess ha infatti circa 3000 dipendenti di cui oltre l’80 per cento è anche socio. In questi anni la cooperativa è cresciuta molto, diventando una tra le più grandi nel settore sociale, capace di aggiudicarsi appalti pubblici in tutta l’Italia centro settentrionale, dal Veneto al Piemonte, passando per l’Emilia Romagna e la Toscana. Lo scorso anno è riuscita a raggiungere un fatturato che supera gli 85 milioni di euro con un utile di 250 mila euro. Ma non è tutto oro quello luccica, ci tengono a sottolineare i vertici di Codess, che in passato hanno fatto parte del direttivo regionale di Legacoop in Veneto: le amministrazioni locali pagano con molto ritardo e per questo la società è “costretta” a chiedere i soldi ai propri dipendenti, è la spiegazione che ci hanno fornito nella nota scritta che ci hanno inviato. Ai soci lavoratori di Modena il “prelievo” dalla busta paga non è andato giù. Tramite la Cgil modenese, hanno contestato i mille euro della tassa di ammissione soci e, dopo una lunga trattativa, la Codess ha preferito restituire i soldi ai dipendenti, evitando un processo davanti a un giudice. Quello emiliano è tuttavia l’unico caso di restituzione della tassa in Italia. Il prelievo sulla busta paga degli altri lavoratori della Codess, per ora, continua.

Cooperative Rosse: cosa sono e perché sono sempre meno sociali? Si chiede Kati Irrente su “Nano Press”. Con l’ultimo scandalo che riguarda una cooperativa sociale di Padova, per entrare nella quale i suoi dipendenti devono versare una somma di 4.000 euro, tornano alla ribalta le cosiddette Cooperative Rosse, società costituite per gestire in comune un’impresa. Il mondo delle coop rosse è cresciuto nel Dopoguerra per volere del Pci, che ne teneva le redini attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa (come Confindustria), che si è invece rivelata esere una sorta di holding attraverso la quale la politica sceglieva strategie e manager. Ma cosa sono le Coop Rosse, nello specifico? Le cooperative nascono in origine per tutelare gli interessi dei soci, siano essi consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali. In teoria, è bene dirlo, alla base del sistema cooperativo ci sono dunque i principi di mutualità, solidarietà, democrazia. Il fatto che il sistema delle Cooperative sia da lungo tempo al centro di critiche e di polemiche deve fare riflettere. Difatti, con il passare del tempo, le cooperative sociali si sono trasformate in un meccanismo sempre meno sociale, rivolto piuttosto al profitto, al pari di una qualsiasi impresa privata, o di una banca. E a questo punto ci si chiede per quale motivo le cooperative non siano oggetto degli stessi controlli rivolti alle aziende private o agli Istituti bancari. Perchè le cooperative sono sempre meno sociali? Nel mirino c’è la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, talora abbreviata in Lega delle Cooperative o Legacoop, ovvero l’associazione di tutela e rappresentanza delle cooperative ad essa aderenti. Il motivo principale delle critiche verso le coop risiede nel fatto che esse godono di agevolazioni fiscali notevoli rispetto alle normali imprese. Queste agevolazioni vengono riconosciute perché le Cooperative si dichiarano essere senza scopo di lucro e dimostrano di avere scopo mutualistico. Quella che però sembra venire alla luce in questi ultimi anni è una prassi diversa: sebbene molti soci affermino che è normale pagare una cifra (talvolta anche molto alta) per associarsi, il vero problema risiede altrove, ad esempio nei contributi versati al 50%, nella non retribuzione delle ore di malattia, nella gestione non sempre corretta dei giorni sottratti al lavoro a causa di infortuni, e poi le retribuzioni orarie più basse, le 48 ore settimanali di lavoro obbligatorie contemplate dal regolamento di alcune coop, o il pagamento degli stipendi posticipati a 90 giorni. La domanda che sorge naturale a questo punto è: chi comanda le Cooperative? L’assemblea dei soci lavoratori o soltanto alcuni dirigenti? In definitiva, queste aziende mutualistiche (ma solo sulla carta), sono davvero senza scopo di lucro, o servono ad arricchire qualcuno? Dai dati ufficiali del 2009 elaborati dal Centro Studi Legacoop, le cooperative aderenti sono oltre 15000, con otto milioni e mezzo di soci, e sviluppano un fatturato attorno ai 56 miliardi di euro, dando occupazione ad oltre 485.000 persone. Gli scandali più eclatanti. L’ultimo scandalo in ordine di tempo ha coinvolto la Codess, membro della Legacoop sociali, che di norma chiede ai propri dipendenti neoassunti la cifra di 4.000 euro per divenire soci della cooperativa. Il tutto per un lavoro retribuito dai 600 ai 1.200 euro al mese. Inoltre 1000 euro devono essere versati alla Codess a fondo perduto, a titolo di tassa di ammissione soci. Qualche anno fa, invece, la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata costituì, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. Ed è proprio in Emilia Romagna, patria del Pd, e sede anche della Unipol, che l’attività della Legacoop ha il suo fulcro. Ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, facente parte della Legacoop, è naufragata nei debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l’accusa di fare affari col clan dei Casalesi. A Milano, l’affaire EXPO ha evidenziato il ruolo giocato dalle cooperative rosse. Si guardi al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d’asta e utilizzazione di segreti d’ufficio.

La grande torta delle coop rosse tra scandali e soldi dagli amici. La galassia delle aziende legate al Pd è finita spesso nel mirino dei pm per tangenti e appalti sospetti. Ma con le imprese di sinistra le procure chiudono un occhio, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Quasi mezzo milione di occupati e un giro di affari globale vicino ai 60 miliardi di euro». Si presenta così, sotto il titolo «Come coniugare etica e affari», la Legacoop, casa madre di tutte le coop rosse, un sistema di 15mila imprese che fanno affari da nord a sud e in tutti i settori: edilizia, grande distribuzione, servizi, assicurazioni, banche. Una galassia da sempre parallela al partito - prima Pci, poi Ds, ora Pd - con intrecci di vario tipo: nomine, travaso di dirigenti (che diventano sindaci o anche ministri, come il renziano Poletti ex capo di Legacoop), favori, appalti da amministrazioni amiche. Etica e business, ma ogni tanto, e nemmeno raramente, qualche scandalo. Quando scoppia il bubbone, di quelli grossi, scavi e ci trovi dentro una coop. Nel giro di mazzette attorno all'Expo ecco spuntare Manutencoop, colosso bolognese da 1 miliardo di euro l'anno di fatturato (per il 60% arriva dal pubblico), guidato da sempre dall'ex Pci Claudio Levorato, indagato dalla Procura milanese come presunta sponda a sinistra della cricca. Levorato era finito già nei guai a Brindisi, l'estate scorsa, anche lì per una storia di appalti (la Manutencoop si occupa di pulizia), stavolta alla Asl della città pugliese dove «negli anni la cooperativa emiliana di area Ds - scrive la Gazzetta del Mezzogiorno - ha preso 70 milioni di appalti». Quando si scoprono le magagne il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista ad oltranza (vedi Bersani sul Fatto: «Se la magistratura accerta reati trarremo le conseguenze...»). Eppure i buchi neri del sistema sono frequenti, anche se spesso le Procure archiviano. Qualche anno fa la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata ha costituito, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. La Guardia di Finanza ha scoperto tutto e segnalato 46 nomi alla Procura di Reggio Emilia, che ne ha indagati due, riconoscendo la finalità dell'operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone». Condannati? No, perché poi il pm ha chiesto l'archiviazione. Coop rosse anche nel «sistema Sesto», quello che ruotava attorno a Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, capo del Pd lombardo ed ex braccio destro di Bersani. Lì la coop rossa in questione è il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, che avrebbe imposto consulenze fittizie da 2,4 milioni di euro a Giuseppe Pasini, l'immobiliarista proprietario delle aree ex Falck, elargite come «condizione per compiacere la controparte nazionale del partito», racconterà proprio Pasini ai pm. Anche lì coop rosse e lieto fine. Al vicepresidente della Ccc bolognese, insieme ad altri due rappresentanti delle coop, tutti accusati di concussione, è andata infatti bene: prescritti. Affari dappertutto, ma cuore pulsante in Emilia Romagna, vero ombelico della vecchia «ditta» Pd, sede anche della Unipol (a Bologna, Via Stalingrado...), quella della tentata scalata a Bnl per opera di Consorte, finita male («abbiamo una banca?»). Lì le coop si aggiudicano un appalto su quattro e hanno un monopolio di fatto nella grande distribuzione (70%). Ne sa qualcosa Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, che ha ingaggiato una battaglia sanguinosa, a suon di denunce, con Coop Estense, che gli ha impedito l'apertura di due supermercati in provincia di Modena, abusando della sua «posizione dominante». Si è dovuti arrivare al Consiglio di Stato (che ha sanzionato la coop per 4,6 milioni di euro), dopo che il Tar aveva accolto il ricorso della società emiliana. Una battaglia durata 13 anni. Ancora in Emilia-Romagna, ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, una delle corazzate di Legacoop, è naufragata in un mare di debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l'accusa di fare affari col clan dei Casalesi. Fuori dai guai, invece, il governatore piddino Vasco Errani, finito in mezzo al cosiddetto «scandalo Terre Emerse», dal nome della cooperativa agricola che per la costruzione di una cantina vinicola a Imola aveva beneficiato di un finanziamento regionale di 1 milione di euro. Piccolo dettaglio: il presidente della coop è Giovanni Errani, suo fratello. Ma tutto è finito bene per Vasco Errani, accusato di falso ideologico in atti pubblici: assolto dal giudice «perché il fatto non sussiste». Ma il potere coop si ramifica molto lontano dall'Emilia. «Si respira un clima pesante attorno alla struttura di prima accoglienza di Lampedusa» disse il presidente di Legacoop Sicilia dopo lo scandalo suscitato dalle riprese del Tg2 sui maltrattamenti in un centro di accoglienza per i clandestini, a Lampedusa, gestito da una coop. Un «business» da 2 milioni al giorno, in cui non potevano mancare anche loro. E nemmeno nelle grandi opere. Al nodo Tav di Firenze lavora la Coopsette, altro gigante degli appalti pubblici. Anche di loro si sta occupando la Procura di Firenze, che ha messo sotto indagine 36 persone, tra cui l'ex presidente Pd della Regione Umbria, la dalemiana Lorenzetti. Il sospetto è che si siano usati materiali scadenti, in business addirittura con la camorra. E meno male che lo slogan è «coniugare etica e affari».

Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su “Il Fatto Quotidiano”. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.

Le mille zone grigie delle cooperative rosse, scrive Ruben Razzante su “la Nuova BQ”. Già nel 2007 Bernardo Caprotti, patron della catena di supermercati Esselunga, dando alle stampe il volume Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani, provò a scoperchiare il pentolone delle cooperative rosse, ricco di esempi di malaffare, di conflitti di interessi, di appoggi incondizionati da parte delle giunte “rosse”. In quel libro, l'autore raccontò la storia della sua azienda e dei contrasti con le cooperative rosse, criticando il sistema di agevolazioni fiscali e denunciando appoggi politici alle cooperative da parte di amministrazioni locali o istituzioni di centrosinistra. Caprotti documentò in quel volume le scorrettezze messe in atto dalle cooperative che gestiscono i supermercati Coop, in particolare in Emilia Romagna, al fine di impedire l'espansione di un concorrente "scomodo" come Esselunga. L’attacco frontale da parte di Caprotti fu catalogato frettolosamente dalla stampa più influente come una rivendicazione “pro domo sua” e ciò impedì di abbattere quel muro di ipocrisia e di omertà che da decenni avvolge il sistema delle cooperative rosse, ancora pieno di zone d’ombra. Lo scandalo di Mafia Capitale ha evidenziato gli imbarazzanti legami tra il mondo cooperativo di sinistra e la criminalità organizzata e il sistema di diffusa impunità che riguarda le coop. Penoso il ping-pong tra giornali di destra e giornali di sinistra all’indomani dell’apertura di quell’inchiesta, come se dalle carte non fosse nitidamente emerso il carattere trasversale del malaffare. La giunta Alemanno, unica di centrodestra negli ultimi vent’anni di governo romano, si è indubbiamente avvitata su pratiche spartitorie e sulla gestione affaristica dei soldi pubblici, riproducendo dinamiche già collaudate dai governi cittadini precedenti. E le cooperative rosse, come emerge dai trascorsi di Carminati e Buzzi, hanno concluso affari indifferentemente con le giunte rosse o con le giunte nere. Ma anche in altre parti d’Italia, come il Friuli Venezia Giulia di Debora Serracchiani, la governance delle cooperative annaspa; si sono registrati buchi milionari in due cooperative di Udine e Trieste che, attraverso incaute operazioni di prestito sociale (simili ai libretti di risparmio postali), hanno dilapidato i risparmi di 20.000 persone. Se certo giornalismo ha affrontato nelle settimane scorse le notizie su Mafia capitale con le lenti deformanti dell’ideologia e del preconcetto, alcuni esponenti della politica e del management hanno riacceso i riflettori sulle torbide manovre che hanno consentito al mondo delle coop di saccheggiare risorse pubbliche, contando su appoggi politici in tutti i partiti, soprattutto, ma non solo, quelli della sinistra. Sta per uscire un libro di Giovanni Consorte proprio su queste trame oscure. Ex presidente e amministratore delegato di Unipol, realtà di riferimento della finanza rossa, diventato celebre per la famosa intercettazione con l’allora segretario Ds, Piero Fassino, che esultava (“Abbiamo una banca”), Consorte nei giorni scorsi ha rilasciato un’intervista al quotidiano Libero e ha denunciato la mancanza di controlli sulle coop e sulla loro gestione, che ha potuto determinare casi di corruzione come quelli smascherati dall’inchiesta su Mafia capitale. D’altronde, l’attuale sistema, così com’è, non può funzionare: i sistemi di controllo sono affidati alla stessa Lega coop, in una logica di autoreferenzialità e di autarchia non più tollerabili. La revisione dei bilanci non può essere interna. Il ministero del Lavoro dovrebbe intervenire. Consorte ricorda nell’intervista che Unipol ha ristrutturato la situazione finanziaria della direzione dei Ds dal 2002 al 2004, un debito da 300 milioni che i Ds avevano anche sulla base delle fideiussioni rilasciate a favore delle banche, accumulatesi nel tempo da parte dei segretari. Ancora più illuminante in tal senso appare l’edizione aggiornata del volume di Fabrizio Cicchitto L’uso politico della giustizia, che riproduce il profilo assai spregiudicato dei dirigenti coop collusi e dei quali parla sorprendentemente lo studioso comunista Ivan Cicconi ("In essi – si legge nel volume di Cicchitto-  c’è da un lato l’interesse economico di moltiplicare il fatturato della loro azienda senza guardare troppo per il sottile, dall’altro lato la convinzione che un comunista può fare affari anche con il diavolo senza sporcarsi le mani perché in ultima analisi quello che fa porta vantaggi al partito e al mondo cooperativo"). E’ verosimile che un tale sistema di disinvolta gestione del potere sulle spalle dei cittadini si sia perpetuato per decenni all’insaputa dei vertici del maggiore partito della sinistra italiana? Cicchitto si spinge oltre: "E’ possibile che il gruppo dirigente del Pci non si sia reso conto a suo tempo di questa 'spregiudicatezza' affaristica delle cooperative rosse nel rapporto con la mafia e la camorra? O il gruppo dirigente comunista è stato di una straordinaria 'ingenuità' , oppure fra le dichiarazioni di principio dei dirigenti sulla questione morale e la pratica seguita specie sul terreno degli affari c’era un’enorme contraddizione". Queste domande che Cicchitto alimentano un atroce sospetto. Non è che in Italia le strumentali polemiche sui conflitti di interesse più visibili ma, tutto sommato, anche meno pericolosi, sono in realtà la foglia di fico per coprire le commistioni di interesse più gravi e avvolgenti, quelle che hanno provocato sistematiche e infamanti distorsioni sul mercato dei beni e servizi e nella distribuzione delle risorse collettive?

COOPERATIVE. SOLDI E CORRUZIONE. UNA MANGIATOIA IN CUI TUTTI SI DANNO DA FARE. LAICI E CATTOLICI, BIANCHI E ROSSI SPESSO CON UN UNICO INTENTO INCONFESSABILE. (a cura di Claudio Prandini su “Parrocchie”)

INTRODUZIONE. Negli anni Settanta li chiamavano «boiardi rossi», quasi a rivendicare il peso del Pci negli appalti pubblici ai tempi d'oro dell'Italstat di Ettore Bernabei. Poi, con la svolta di Achille Occhetto nel 1989, sono arrivati i primi «cesaristi», i padri-padroni delle coop, che lentamente cominciavano a sfilarsi dal controllo e dall'inquadramento politico di Botteghe Oscure; quindi la lunga stagione di Tangentopoli che ha restituito al Paese un gruppetto di aziende sottocapitalizzate e senza più numi tutelari. Che cosa è rimasto oggi di questo ritratto ingiallito delle coop rosse? Assai poco. Il fil rouge della solidarietà nazionale, i principi mutualistici e il radicamento al territorio hanno resistito negli statuti delle imprese cooperative, così come i nomi dei signori dell'economia sociale. Tutto il resto è una storia ancora da scrivere. A cominciare dai protagonisti e dalle partite che si stanno giocando sul tavolo dei futuri assetti economici in Italia. Da Sesto San Giovanni alla rossa Emilia. Un viaggio non particolarmente lungo, che in queste ore i magistrati, che indagano sul presunto giro di tangenti, che vedrebbe tra i protagonisti il vice presidente del consiglio della Regione Lombardia, Filippo Penati, del Partito Democratico, stanno intraprendendo. Infatti la Procura di Monza ha fiutato una pista che porterebbe direttamente alle coop rosse.
Circa due milioni e quattrocento mila euro sarebbero stati versati da Giuseppe Pasini, indagato, imprenditore edile ed esponente del centrodestra, a due cooperative. Per gli inquirenti si tratterebbero della Fingest di Modena e la Aesse di Ravenna, due piccole società di consulenza. In tutto sarebbe stato fatto attraverso maxi rate. È il 2002: quattro versamenti da 619 mila euro ciascuno, giustificati con delle fatture riguardanti lavori mai compiuti. I due pm, Walter Mapelli e Franca Macchia, stanno ricostruendo il tutto. Partendo proprio dall'area Falk. Pasini,interrogato dai magistrati, avrebbe raccontato che dopo aver comprata l'area, pagando 380 miliardi di vecchie lire, arrivò l'accordo con Penati, che amministrava la "Stalingrado italiana". Non dovevano esserci intralci burocratici sui progetti riguardanti le nuove costruzioni da realizzare nell'ex Falk. Ecco perché sarebbe stata versata una tangente da venti miliardi. Inoltre l'accordo prevedeva l'intervento della Ccc di Bologna per dei lavori nell'area. Infine quei due milioni e quattrocento mila euro, partiti dalla Lombardia e arrivati in Emilia e di cui gli inquirenti vogliono scoprirne la destinazione finale e capire che cosa si nasconde realmente dietro tutta questa vicenda. Ma in questo dossier vedremo anche che lo "sterco del diavolo" fa gola anche ai cattolici della Compagnia delle Opere....

COMPAGNIA DELLE OPERE. DIETRO GLI INTENTI RELIGIOSI, GLI AFFARI DEL DIAVOLO. Fonte “L’Infiltrato”. Centro propulsore del potere ciellino rimane il perfetto connubio con la Compagnia delle Opere, braccio economico di Cl. Ed è proprio questa associazione imprenditoriale che dirotta soldi e favori, gestendo, in questo modo, grosse fette dell’economia nazionale e non solo. Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro,  35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’associazione ha la finalità di “promuovere lo spirito di mutua collaborazione e assistenza per una migliore utilizzazione di risorse ed energie, per assistere l’inserimento di giovani e disoccupati nel mondo del lavoro, in continuità con la presenza sociale dei cattolici e alla luce degli insegnamenti del Magistero della Chiesa” (dall’art. 4 dello Statuto). Ci si ammanta di intenti religiosi, ma in realtà i numeri parlano da soli: 70 miliardi di euro,  35 mila aziende e professionisti, il 69% delle quali opera nel Nord-ovest italiano. L’adesione alla Cdo, inoltre, cresce con ritmi esponenziali: 10% in più ogni anno. Ma è presto spiegato il motivo: chiunque voglia fare affari (soprattutto in quelle aree nelle quali l’organizzazione attecchisce maggiormente) deve entrare nei meccanismi ciellini e, dunque, nella Compagnia delle Opere. Ma, come detto, il controllo economico non avviene solo in Italia: la Cdo ha già uffici in 12 Paesi stranieri e ci si prepara allo sbarco negli Stati Uniti. Non è un caso, d’altronde, che, dopo Vittadini e Raffaello Vignali, l’associazione sia oggi presieduta dal tedesco Bernhard Scholz. L’organizzazione della Cdo è semplice: ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste piccole associazioni fa capo alla setta che le guida e le istruisce. Principali partner sono Bombardier, Finmeccanica, Sai e Intesa Sanpaolo. Insomma, una struttura gerarchica. Massonica dunque. Ma chi sono gli uomini legati alla Cdo? Un ottimo (e attendibile) termometro è l’analisi dei presenti all’ultimo meeting di Rimini: da Cesare Geronzi (Generali) a Corrado Passera (Intesa), a Ettore Gotti Tedeschi (Ior, la banca del Vaticano), mentre mancava all’appello Alessandro Profumo (Unicredit) che, tuttavia, era presente l’anno precedente. Altra questione. Come funziona la Cdo? Ci sono diversi “gradini” tra gli affiliati. Il primo è quello di chi utilizza l'associazione per avere facilitazioni burocratiche in attività che, per le pmi, sarebbero troppo onerose da affrontare. Non è un caso, infatti, che la Cdo svolge anche un ruolo molto spesso di “medium” tra due o più aziende per concludere affari e trattative. E, in questo, si appoggia a partner pubblici. Per esempio, Coexport, il consorzio della Cdo per l'esportazione, è punto operativo della Regione Lombardia in Argentina, Cile, Cuba, Germania, Kazakhistan, Romania e Stati Uniti. Il secondo gradino è invece quello di chi trova nella Cdo occasioni di business, incontrando altre aziende che poi diventano clienti, fornitori, o, addirittura, soci. Ma la Cdo presenta anche un aspetto che rimane, per molti aspetti, ancora oscuro. Cerchiamo di capire meglio. Giorgio Vittadini, quando lascia la guida della Compagnia delle opere, si dedica anima e corpo ad un nuovo progetto: la fondazione per la Sussidiarietà, legata comunque alla Compagnia delle Opere (molti compaiono nello “staff” sia dell’una che dell’altra: lo stesso Schulz è collaboratore nell’Area Formazione della fondazione di Vittadini). Si legge nel sito della fondazione: “La Fondazione è mossa dall’interesse in chiunque desideri cercare la verità e affermare la libertà di ogni singolo uomo. Ha costituito in questo modo un’ampia trama di collaborazioni multidisciplinari a livello nazionale e internazionale”. Ma quanto vale questo “desiderio” che nutre la “Sussidiarietà”? A livello nazionale risulta molto complesso avere una stima precisa perché appalti, delibere, finanziamenti sono divisi tra migliaia di sigle, spesso riferibili alle stesse persone. Sappiamo, però, che in Lombardia otto dei 16 miliardi di euro di spesa sanitaria sono passati ai privati. E pare che di questi otto, una grossa fetta è finita nelle mani di ciellini legati alla “Sussidiarietà” lombarda. Ma Cdo e Cl non sono attivissimi solo in Lombardia: si stanno espandendo con forza anche nel Veneto (dove possono contare sull’appoggio della Lega), in Emilia Romagna (dove c'è un asse con le cooperative rosse), ma anche in Piemonte, in Lazio e sempre di più al Sud. Ed è proprio qui che gli affari economico-politici pare convergano con quelli delle criminalità organizzate. Molti, infatti, sostengono che prospettare un’intesa tra membri del Cdo e mafie non sia affatto una fantasia. Alcuni mesi fa, in piena estate, alcuni imprenditori, potendo contare su un appoggio politico, hanno partecipato ad un convegno sulla “Sussidiarietà”. Per quanto detto sinora si penserebbe: nulla di strano. Ma se l'imprenditore è Ivano Perego della ”Perego General Contractor”, recentemente finita sotto inchiesta per i suoi rapporti con la ‘ndrina capeggiata da Salvatore Strangio, e il politico è Antonio Oliverio, ricoprente, secondo gli inquirenti, un ruolo centrale nei rapporti tra imprenditori e cosche della ‘ndrangheta, allora la questione si fa molto più interessante. Ma d’altronde Cl e Cdo sono finite diverse volte nel mirino degli inquirenti: la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia, scandalo scoppiato all’inizio dell’anno e che ha già interessato diversi politici ciellini vicinissimi al governatore Roberto Formigoni (inchiesta nella quale si accertano anche infiltrazioni di diverse ‘ndrine). Tra questi ricordiamo la moglie di Giancarlo Abelli. E chi è costui? Coordinatore regionale del PDL, deputato ciellino di Forza Italia, già assessore alla Sanità in Lombardia, anche lui è stato toccato da inchieste su possibili rapporti con le criminalità organizzate (i direttori delle Asl di Monza e di Pavia, entrambi coinvolti nella maxi inchiesta dei 300 arresti per infiltrazioni di ‘ndrangheta, spedivano mail con su scritto “votate Abelli“). E ancora Giuseppe Grossi, socio della Signora Abelli, imprenditore legato – chiaramente - alla Cdo, finito sotto inchiesta per presunte dazioni di denaro. Ma di Cdo si parlò anche in “Why Not”: nell’inchiesta che portò alla ribalta Luigi De Magistris, iscritto nel registro degli indagati anche Giorgo Vittadini, di cui abbiamo già ampiamente parlato. Ma, ancora, di ciellini, si parla nell’inchiesta “Oil for food”. Originariamente questo era il nome di un programma inaugurato dall’Onu nel 1996 e avrebbe dovuto permettere all’Iraq di vendere petrolio in cambio di forniture umanitarie, cibo e medicinali. Ma in realtà cosa accadde? Le trattative furono occasione di favoritismi nei confronti di politici e società internazionali ritenute “amiche” del regime. E ciò si verificò anche in Lombardia, dove al Presidente della Lombardia, o meglio, alle società da lui indicate, sarebbero stati assegnati 24,5 milioni di barili di greggio a prezzi decisamente “competitivi” (come riportato nel documento “Report on program manipulation” in cui si dedica un intero capitolo al caso-Formigoni). Tra i “beneficiari” del trattamento privilegiato persone vicine a Formigoni e – neanche a dirlo – a Comunione e Liberazione: una di quelle aziende, la Cogep, faceva capo ai fratelli Catanese, amici di vecchia data del Presidente della Lombardia e, soprattutto, tra i padri fondatori della Compagnia delle Opere. Coinvolto, ancora, Marco Mazzarino De Petro, uomo-chiave della vicenda secondo il rapporto dell’Onu (il suo è uno dei nomi più ricorrenti), e soprattutto, insieme all’amico Formigoni, tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione. Insomma, una fitta rete tra religione, strutture massoniche, interessi economici, rapporti con l’alta finanza senza disprezzare quelli con le criminalità organizzate. Il tutto per arricchirsi e arricchire l’organizzazione, puntando sempre più spregiudicatamente al controllo dei punti nevralgici del potere.

Corsi e ricorsi delle coop rosse. Intanto il coinvolgimento nell’inchiesta del mondo cooperativo fa tornare vecchi fantasmi. Fonte “Europa Quotidiano”. Sono passati quasi quattro anni dalla nascita del Partito democratico, ma il Pd potrebbe dover fare i conti con una delle eredità della fusione fra Margherita e Ds: il collateralismo fra la vecchia Quercia e il mondo delle cooperative rosse. Una cinghia di trasmissione, quella fra Legacoop e Botteghe oscure, che ha funzionato con grande efficienza fino al 2007, scaraventando però più di una volta i vertici diessini sotto i riflettori per diverse inchieste giudiziarie e dando più di un argomento a chi ha sempre attaccato la sinistra evidenziando come la berlingueriana “questione morale” sia più che mai trasversale. Nell’inchiesta della procura di Monza che ha portato alle doppie dimissioni del dem Filippo Penati, emerge una pista che porta direttamente al coinvolgimento del Ccc di Bologna, il consorzio di cooperative di costruzione nell’orbita Legacoop. L’imprenditore edile Giuseppe Pasini accusa l’ex sindaco di Sesto San Giovanni di alcuni fatti precisi: nei primi anni Duemila, per ottenere dal comune una deroga al piano regolatore che gli consentisse di costruire più del previsto nell’area ex Falck, sarebbe stato costretto a dare degli appalti per alcuni lavori proprio alla Ccc bolognese. Inoltre, nello stesso affare, sarebbe stato il vicepresidente del consorzio cooperativo, Omer Degli Esposti, a indicare due società di consulenza per commissioni da due milioni e 400 mila euro, soldi che secondo i pm brianzoli non sarebbero serviti a pagare lavori effettivi ma a finanziare illecitamente i vertici nazionali dei Ds. Il sospetto dei giudici Mapelli e Macchia deve ovviamente essere ancora dimostrato, e nel frattempo Degli Esposti smentisce ogni passaggio della ricostruzione di Pasini, dicendo di non aver mai imposto a nessuno alcuna consulenza e soprattutto di escludere che quei soldi fossero poi finiti ai Ds. In ogni caso, a prescindere da come finirà la vicenda giudiziaria, dal mondo cooperativo arriva un’altra grana per il centrosinistra. E non è un caso che Bersani arriva a minacciare azioni legali contro chi si permette di infangare la trasparenza e la correttezza degli amministratori democratici. La Seconda repubblica ci presenta altre due occasioni in cui l’eccessiva vicinanza fra cooperative e Pds-Ds ha nuociuto e non poco all’immagine del partito e dei suoi leader. Il 2005 è l’anno dei furbetti del quartierino e della doppia scalata bancaria Antonveneta-Bnl. A dicembre salta fuori un’intercettazione telefonica destinata a rimanere impressa nell’immaginario collettivo, quell’«Allora, abbiamo una banca?» con il quale Piero Fassino (allora segretario Ds) si rivolge a Giovanni Consorte, presidente Unipol e deus ex machina della scalata delle coop rosse alla Bnl. Scalata che vuole garantire il salto di qualità nell’economia che conta alla Legacoop, ma che per i magistrati viene portata avanti con metodi tutt’altro che puliti e rispettosi delle regole di Borsa: i pm milanesi hanno chiesto quattro anni e sette mesi per Consorte (già condannato per Antonveneta) e poco meno al suo vice dell’epoca, Ivano Sacchetti, a conclusione della requisitoria nel processo Unipol-Bnl. Come poi dimenticare il coinvolgimento del mondo cooperativo rosso nella stagione di Tangentopoli? Il pool di Mani pulite non è riuscito mai a dimostrare che le tangenti finite nei conti di Primo Greganti, il famoso compagno G, fossero a disposizione del Pds. Tuttavia nelle sentenze di condanna, ormai definitive, si parla di un sistema in cui le coop amiche venivano favorite nell’assegnazione di appalti pubblici.

Coop padane, il buco reggiano della Lega Nord. Fonte di Flavio Maiocco su “Reggio 24 ore”. Lo scandalo delle cooperative padane, il tentativo leghista della fine degli anni '90 di convertire il sistema delle coop “di sinistra” a favore dell’ideale padano, ha prodotto alla fine dei conti solo un buco da diverse centinaia di milioni di lire e una serie di fallimenti a catena, oltre alla scia di delusioni e debiti lasciati in giro che ha lambito anche l’Emilia, e nemmeno troppo marginalmente, avendo toccato in prima persona la stessa militanza reggiana del partito del Nord. La vicenda, raccontata ora dal giornalista Leonardo Facco - ex redattore del quotidiano verde "La Padania" - nel suo ultimo libro “Umberto Magno, la vera storia dell’imperatore della Padania” (edizioni Aliberti) risale all'ultimo scorcio del secolo scorso e coinvolge direttamente i big del Carroccio, a partire dal senatùr e gran capo della Lega Nord, Umberto Bossi, fino all'attuale ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. La strategia delle cooperative leghiste, tra le tante iniziative promosse dal partito con l’obiettivo di finanziarsi, pubblicizzare e dare concretezza al progetto indipendentista padano, ha visto fin da subito nomi illustri: se l'idea viene dallo stesso vertice del movimento politico, infatti, all’atto costitutivo - sottoscrittori di quote per centomila lire - figurano anche i nomi dei parlamentari Davide Caparini e Paolo Grimoldi e di Ludovico Maria Gilberti (amministratore del quotidiano "La Padania" e vicepresidente della prima coop di Paderno Dugnano), Piergiorgio Martinelli (già sindaco di Chiuduno e amministratore della Lega lombarda), Davide Boni (oggi presidente del Consiglio regionale lombardo ed ex presidente della Provincia di Mantova), Andrea Angelo Gibelli (parlamentare e vicegovernatore della Regione Lombardia). Non manca naturalmente Roberto Calderoli, a quel tempo segretario della Lega lombarda, in veste di legale rappresentante e presidente della neonata società cooperativa a responsabilità limitata. 

Falce e carrello. Le mani sulla spesa degli italiani è un libro pubblicato da Marsilio Editori nel mese di settembre 2007, scritto dall'imprenditore Bernardo Caprotti, patron di Supermarkets Italiani (Esselunga). I ricavi dalla vendita del libro sono devoluti in beneficenza.

II Parlamento, il governo, l'Unione Europea, le Corti di giustizia. Non soltanto questi soggetti si sono occupati della Lega delle Cooperative. Anche le Procure della Repubblica, soprattutto negli anni '90. L'inchiesta "madre", per molti aspetti, fu quella condotta dal pubblico ministero veneziano Carlo Nordio. Il magistrato indagò i segretari nazionali del PDS, Achille Occhetto e Massimo D'Alema, e li prosciolse. Dagli atti emerge chiaramente la funzione delle Coop rosse, e delle finanziarie controllanti-controllate, come braccio economico dell'ex Partito Comunista. Il meccanismo fu messo in luce da Giuliano Peruzzi, consulente delle Coop e braccio destro di Primo Greganti, responsabile amministrativo del PDS. Sui rapporti economici tra Coop e PCI-PDS in quegli anni fu alzato un vero fuoco di sbarramento, teso a negare l'esistenza dell'asse tra "partito" e aziende. Nei mesi scorsi, invece, nel turbine dello scandalo Unipol, il giudizio è mutato. Si è detto che «il collateralismo è finito», non che non è mai esistito. Che i legami tra la parte politica e il suo braccio economico si sono allentati rispetto al passato: dieci anni prima, invece, si negava tutto, anche l'evidenza. Ora la linea è cambiata. «Il rapporto era organico, con finanziamenti indiretti ma occulti», ha spiegato il pm Nordio. «Furono raggiunte prove evidentissime del fatto che le Coop rosse finanziassero il "partito", ma per il Codice la responsabilità penale è personale. E io non ho mai accettato il principio secondo cui chi sta al vertice "non può non sapere". Una cosa sono i finanziamenti al "partito", altra cosa la responsabilità penale individuale rispetto al finanziamento clandestino e continuativo delle società cooperative, dimostrato dall'inchiesta». Peruzzi svelò come funzionavano l'economia nascosta del "partito" e gli intrecci tra Finsoe, Finsoge e PCI-PDS. Il magistrato Veneto arrivò a calcolare l'esistenza di un patrimonio immobiliare della Quercia dell'ordine di mille miliardi di lire, ma a Botteghe Oscure non spiegarono come si fosse potuta accumulare una fortuna del genere, che riconduceva a decine di società immobiliari e a intestazioni fittizie: centinaia di prestanome, fedeli militanti del "partito" che ne era il vero proprietario. Era stata la Procura della Repubblica di Milano nel 1993, durante una perquisizione a Botteghe Oscure, a scoprire una stanza piena di fascicoli relativi agli immobili posseduti dalla Quercia, ma la documentazione per un errore non fu sequestrata subito. E il giorno dopo era sparita: un episodio sul quale si aprì un'inchiesta. «Avevamo fatto uno "screening" degli organigrammi di Coop e PCI-PDS verificando come i vertici delle aziende fossero interscambiabili con quelli della Quercia», ha raccontato Nordio. «Poi scoprimmo che le assunzioni fittizie fatte dalle Coop servivano a favorire il trattamento economico-previdenziale dei dipendenti del "partito". Fatti ampiamente confermati ai magistrati inquirenti di Milano, Napoli e Venezia da chi vi aveva lavorato. Il primo canale di finanziamento del PCI era quello che veniva dall'Unione Sovietica, un Paese che teneva i suoi missili puntati su di noi. Inoltre il "partito" incassava provvigioni sul commercio con i Paesi dell'Est». E le Coop? «Esse avevano una riserva rigorosa di appalti pubblici frutto di accordi politici spartitori a livello nazionale e regionale», ha ricostruito il magistrato. «In questo senso non c'era alcuna differenza tra DC, PSI e PCI: si erano divisi equamente tutto, con qualche briciola per gli alleati minori. Democristiani e socialisti sponsorizzavano le imprese amiche, i comunisti le Coop. Ai primi due partiti giungevano contributi in denaro con i quali si pagavano i funzionari e le altre spese; a Botteghe Oscure i funzionari erano pagati dalle Coop, ma lavoravano per il "partito". Risultato identico attraverso strumenti diversi. Anche dal punto di vista penale: la mazzetta integra il reato di corruzione, il sistema del PCI no. Un altro modo di finanziamento era quello della pubblicità inesistente: le Coop pagavano cifre enormi per farsi pubblicità sui giornaletti del "partito". Spesso le inserzioni, pagate, non venivano nemmeno pubblicate». Anche la Procura di Napoli condusse lunghe indagini con i Reparti Operativi Speciali dei Carabinieri. Un'inchiesta sterminata: migliaia di documenti, testimonianze, bilanci, intercettazioni telefoniche; il solo riassunto finale occupa 1.200 pagine. Le carte parlano di bilanci falsi, fondi neri, licenze edilizie "facili", collusioni con la camorra, finanziamenti illeciti, truffe allo Stato, tangenti, società di comodo. «La Lega delle Cooperative», si legge in un passo della relazione conclusiva dei ROS, «beneficiando dell'apporto incondizionato dell'organismo politico, accrescerebbe la propria forza economi coimprenditoriale garantendo ai partiti di riferimento il mantenimento economico e riversando, mediante alcune società, finanziamenti stornati, soprattutto illecitamente, dalle imprese del movimento cooperativo». E più avanti i ROS spiegano così il successo di Unipol: «La compagnia comincia la sua crescita inarrestabile, forte del consenso di tutti i sindacati italiani che senza esclusione partecipano al capitale sociale e garantita dalla protezione politica del PCI che impone a tutte le sue amministrazioni locali di sinistra di stipulare esclusivamente con Unipol qualsiasi polizza assicurativa di loro competenza». Lo scandalo giudiziario più clamoroso che ha investito Legacoop, dopo quello Consorte-Unipol, ha come protagonista un ragioniere di Argenta (Ferrara), Giovanni Donigaglia, finito stritolato negli ingranaggi del "partito" che aveva fedelmente servito per tutta la vita. Un uomo che si accontentava dello «stipendio di un capomastro» (1.500 euro al mese), che per 43 anni ha guidato la Coopcostruttori, quarta impresa nazionale dopo Impregilo, Astaldi e Condotte, che era arrivata a fatturare 680 milioni di euro nel 2001 e a stipendiare 2.518 dipendenti impegnati in decine di cantieri in mezza Italia: i giornali l'avevano battezzata «la perla dell'universo rosso». Poi il crac. Il primo gruppo edilizio del pianeta Legacoop crollò sotto l'insostenibile peso di 870 milioni di euro di debiti. Donigaglia per decenni fu il principale collettore di finanziamenti verso il PCI-PDS-DS. Negli anni di Mani Pulite fu arrestato cinque volte, passò 12 mesi in carcere, subì 32 processi finiti con 32 assoluzioni. Ma la sua creatura era finita: 900 lavoratori licenziati, altri 1.100 in cassa integrazione, senza contare il disastro finanziario per migliaia di famiglie - a cominciare dalla sua - che avevano investito tutti i loro risparmi nella Coop costruttori e li hanno perduti. Tra manifestazioni di piazza, assemblee di "partito", comitati spontanei si creò un clima di forte tensione. A casa di Donigaglia fu recapitato un pacco-bomba. Nel Ferrarese la cooperativa era vista al pari di una banca tale era la sua solidità e l'investimento nel prestito sociale, peraltro ottimamente remunerato, era considerato un punto d'onore. Qualche dipendente confessò che quasi si faceva riguardo a ritirare lo stipendio a fine mese. Chi aveva già raggiunto la soglia massima di deposito investiva attraverso i parenti oppure sottoscriveva le "azioni a partecipazione cooperativa" emesse più volte da Donigaglia per fronteggiare le crisi di liquidità, spesso senza avvertire i risparmiatori che si trattava di capitale di rischio. Nell'aprile 2004 il giornalista Stefano Lorenzetto convinse il ragioniere ferrarese a parlare per la prima volta. L'intervista uscì su Panorama. Donigaglia raccontò che la Legacoop o direttamente il "partito" (il PCI ad Argenta era arrivato al 78%) gli avevano ordinato di salvare per convenienza elettorale, dal 1975 in poi, la CERCOM di Porto Garibaldi, la COPMA, la Felisatti e la GEI di Ferrara, e la CMR (Cooperativa Muratori Riuniti) di Filo d'Argenta, tutte destinate al fallimento. La Costruttori fu obbligata a rilevare perfino la GIR Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei vene-ti, per fare un favore al ministro democristiano Antonio Bisaglia.Questo patto consociativo, aggiunse Donigaglia, spalancò a Coopcostruttori le porte dell'edilizia pubblica: strade, ferrovie, ponti, dighe, viadotti, parcheggi, porti, trafori, scuole, ospedali, municipi, carceri, caserme, musei, centri sportivi, inceneritori, depuratori, opere di difesa ambientale, pozzi, discariche, centrali elettriche e del gas, reti fognarie, mattatoi. La terza corsia dell'autostrada Serenissima, l'alta velocità ferroviaria Roma-Napoli, l'aeroporto di Malpensa 2000, la ferrovia Firenze-Empoli, la Salerno-Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro. La Lega delle Cooperative, riferì ancora l'imprenditore, pretese da lui un obolo cospicuo per l'acquisto del Molino Moretti di Argenta, che aveva tra i suoi pro-prietari il marito dell'alierà sindaco diessino Silvia Barbieri, la quale sarebbe poi entrata nello staff del segretario nazionale Piero Passino e successivamente diventata senatrice e sottosegretario. Per ordine di scuderia Donigaglia nel 1990 dovette persine acquistare la Spal, la squadra di calcio di Ferrara: bisognava dare una mano al Comune, amministrato dal PDS. Su sollecitazione del "partito" distribuiva quattrini a tutti, compresi organi di informazione e parrocchie. «Ero diventato il refugium peccato-rum», spiegò. «E il "partito" come ricambiava?», gli chiese Lorenzetto. «Vigeva il consociativismo. La Lega-coop otteneva la sua bella quota di lavori in ciascuna opera pubblica. Ma per costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le concessioni edilizie arrivino. Serve la politica per questo. E l'amicizia». «Quando ho lasciato», rievocò Donigaglia, che adesso amministra una ditta nel Ragusano, «i debiti verso le banche ammontavano a 327 milioni di euro ma in portafoglio c'erano ordini per 1.086,5 milioni». Se la situazione non era così drammatica, perché la Costruttori fallì? Egidio Checcoli, presidente della Legacoop regionale ed ex sindaco comunista di Argenta (nonché ex dipendente della Coopcostruttori), ha sempre proclamato: «Noi, a differenza delle società di capitali, non abbandoniamo i nostri soci in caso di crac». Eppure nel caso della Coopcostruttori la Lega delle Cooperative si chiamò fuori, limitandosi a puntualizzare che la sua funzione di vigilanza era limitata «alla verifica del rispetto dei requisiti di mutualità», che le banche valutavano la possibilità di intervenire e che era stata avviata «un'azione di solidarietà in due direzioni: verso i lavoratori e verso i soci risparmiatori». «Io ho sempre aiutato il "partito", ma nel momento del bisogno, quando il peso della crisi si abbattè tutto sulle mie spalle, il "partito" non ha aiutato me», è l'accusa di Donigaglia. «Io ho effettuato sottoscrizioni elettorali, sponsorizzazioni, ho comprato pubblicità sul-l'Uni fa e affittato spazi a festival e congressi. Tutto legale, tutte spese fatturate e messe a bilancio». Nel 1997 la Legacoop inizia un'opera di ricostruzione e riorganizzazione delle cooperative uscite ammaccate da Tangentopoli, e tra queste c'era anche quella di Argenta. «Consorte studiò un piano di ristrutturazione finanziaria e organizzativa che fu abbandonato dopo qualche mese», rincara oggi la dose Donigaglia. «Quando la situazione si aggravò, il pool di tre banche era pronto a finanziare il progetto industriale, ma la Lega-coop disse che i soldi sarebbero arrivati a patto che io lasciassi. Obbediente, mi dimisi. Però alla fine l'Unipol negò l'appoggio al piano di salvataggio. E fu il tracollo. Consorte aveva soldi per tutti fuorché per la Costruttori. Noi non fummo aiutati, e poi abbiamo visto che tipo di fideiussioni si scambiava con Giampiero Fiora-ni della Banca Popolare di Lodi... C'è da farsi venire il voltastomaco. Io non ho mai rubato, ho creato posti di lavoro, ho aiutato il "partito". Invece il capo di Unipol trafficava in proprio con l'appoggio della Lega delle Cooperative, che nel frattempo aveva mollato me». L'ultimo scandalo giudiziario ha come teatro sempre il settore delle costruzioni e una regione rossa, ma lo sfondo è diverso: non l'Emilia, bensì l'Umbria. Il 30 maggio 2006 sono finiti in carcere il costruttore perugino L. G. (legato alle Coop) e un architetto di Foligno, Raffaele Di Palma. G. ha costruito gli Ipercoop di Collestrada e di Terni, super-mercati a Spoleto e Chianciano, immobili dell'Unipol, edifici pubblici. Il suo fatturato è "esploso" nel 1997, in coincidenza con gli appalti del dopo terremoto. Secondo le accuse, l'impresario avrebbe messo in piedi un sistema di fondi neri grazie alle sue attività con la Coop Centro Italia, il cui presidente Giorgio Raggi è stato sindaco diessino di Foligno ed è vicepresidente della Banca Popolare di Spoleto in rappresentanza di Montepaschi. L'immobiliare ICC della Coop affidava alla società SG Capital Sri di G. gli studi di fattibilità per la realizzazione di centri commerciali, super-mercati, parcheggi, pagando prezzi superiori a quelli di mercato; poi aziende compiacenti facevano figurare con fatture false spese inesistenti a carico della SG: ed ecco la provvista in nero. Che secondo gli inquirenti serviva anche a pagare tangenti a politici. Il terremoto in Umbria non fu tra i più disastrasi registrati in Italia. A questo punto v'è da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere in passato se le Coop avessero avuto mano libera nel Belice, in Friuli, in Irpinia... È proprio il caso di dirlo: la provvidenza c'è. Un bel quadretto, mai smentito.

Soldi al partito e coop rosse. L’inchiesta Penati punta su Roma. Fonte “Il Fatto Quotidiano”. Il ruolo del Consorzio costruzioni nell'affare Falck. Numerosi imprenditori hanno ammesso di avere versato contributi per il Pd all'ex vice presidente del Consiglio regionale lombardo. Un nome blasonato nel mondo delle coop rosse: Ccc, Consorzio cooperative di costruzioni. Il colosso di Bologna è l’unico operatore sempre presente nell’affare immobiliare delle ex aree Falck di Sesto San Giovanni, che in dieci anni è passato attraverso tre diverse cordate. È un vecchio schema noto fin dall’inchiesta Mani pulite: la presenza di una coop rossa in un grande affare garantisce la quota di interessi del Pci e dei suoi derivati, oggi il Pd. Fu per primo l’imprenditore Giuseppe Pasini, oggi grande accusatore di Filippo Penati, a subire l’imposizione della Ccc come futura protagonista dell’edificazione delle aree Falck quando le acquistò nel 2000. Quando Pasini vendette all’immobiliarista Luigi Zunino, nel 2005, il ruolo della Ccc non fu messo in discussione. E quando l’anno scorso a Zunino è subentrato Davide Bizzi, nella eterogenea squadra dei suoi partner (con Paolo Dini di Paul&Shark e il fondo coreano Honua) si è ripresentata l’immancabile Ccc, stavolta addirittura come socio. L’inchiesta del pm di Monza Walter Mapelli sull’ex sindaco di Sesto, nonché ex braccio destro del segretario del Pd Pierluigi Bersani, punta a Roma. C’è una pista fatta di indizi che induce i magistrati a sospettare Penati di essere al centro di un sistema intrecciato con le esigenze di finanziamento del partito. E infatti tra i reati per i quali è indagato, oltre a concussione e corruzione, c’è anche l’illecito finanziamento ai partiti. L’inchiesta, che ha subito un’improvvisa accelerazione due giorni fa con una raffica di perquisizioni tra cui quelle negli uffici di Penati, sembra destinata a esplodere, come dimostrano i toni quantomeno prudenti, per non dire timorosi, con cui gli esponenti del Pd lombardo hanno dato la solidarietà di rito all’esponente indagato. Questa mattina Penati, accompagnato dal suo difensore Nerio Diodà, si presenterà nell’ufficio di Mapelli per chiarire e spiegare. Sarà un confronto difficile per l’ex presidente della Provincia di Milano. Dallo scorso mese di gennaio, quando l’inchiesta avviata nel luglio del 2010 dalla pm di Milano Laura Pedio è passata per competenza territoriale agli uffici giudiziari di Monza, Mapelli ha interrogato decine di imprenditori. Numerosi tra essi hanno ammesso di aver versato contributi al Partito democratico, non registrati in bilancio, su sollecitazione di Penati o di uomini a lui vicini. Il filo che gli inquirenti stanno seguendo è quello che lega i numerosi reati ipotizzati e la carriera politica di Penati. Si punta dunque a ricostruire i meccanismi di un vero e proprio sistema di potere che partendo da Sesto San Giovanni (Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001) ha proiettato l’ex professore di scuola media verso il ruolo di braccio destro di Bersani. La caratteristica dell’inchiesta di Monza è proprio la molteplicità degli spunti investigativi. Proviamo a elencarli. C’è il costruttore Pasini che accusa Penati di concussione per aver preteso nel 2001 prima il pagamento di 4,5 miliardi di lire (in due tranche da 2 e 2,5) in cambio di un occhio di riguardo nell’operazione di sviluppo edilizio delle aree ex Falck; e poi di ulteriori 1,2 miliardi di lire, con la stessa finalità, per le aree ex Ercole Marelli; i magistrati considerano queste “dazioni” sufficientemente provate. Ci sono poi episodi di corruzione riguardanti altri affari e altri imprenditori. Un troncone dell’indagine attiene all’affidamento dei trasporti pubblici locali, e vede coinvolto il titolare della Caronte, Piero Di Caterina, indagato non solo come presunto corruttore di Penati, ma anche come collettore di tangenti destinate al leader del Pd lombardo. Di Caterina è un personaggio chiave dell’inchiesta. Perquisendo gli uffici della Cascina Rubina, società veicolo per l’operazione Falck ceduta da Pasini a Luigi Zunino, gli inquirenti hanno trovato alcune fatture a fronte di prestazioni inesistenti emesse proprio dal titolare della Caronte. Ci sono due possibili spiegazioni: o Di Caterina fungeva da “cartiera” per consentire a Zunino la costituzione di fondi neri destinati anche al pagamento di tangenti; oppure, come testimoniato nel caso dei 2 miliardi consegnatigli da Pasini in Svizzera, Di Caterina incassava direttamente il denaro destinato al finanziamento di Penati, per il quale fungeva, a quanto ipotizzano gli inquirenti, anche da collettore. Quel che è certo è che proprio Di Caterina è stato protagonista di una rottura piuttosto velenosa con Penati dopo essere stato per anni in squadra con lui. Infine c’è la storia mai chiarita dell’autostrada Milano-Genova. Penati, come presidente della Provincia di Milano, acquistò nella primavera 2005 dal costruttore Marcellino Gavio, un pacchetto di azioni che gli dettero la maggioranza assoluta del capitale. L’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, che con il suo pacchetto di azioni garantiva comunque il controllo pubblico dell’arteria, accusò Penati di aver fatto solo un regalo a Gavio, pagando 8,93 euro l’una azioni che diciotto mesi prima l’imprenditore piemontese aveva pagato 2,9 euro. Albertini, per dare un senso a un’operazione altrimenti inspiegabile, ipotizzò che costituisse la contropartita, voluta da una parte del Pd, per convincere Gavio a partecipare con la Unipol alla scalata della Bnl. Albertini consegnò il tutto a un esposto alla magistratura.

PARMA: UNO SCANDALO TIRA L’ALTRO.

Vi racconto io chi è il compagno G e cinquant’anni di mazzette rosse, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Non so quale sarà la sorte di Primo Greganti nella sua vicenda giudiziaria odierna. Ma vorrei dire una parola in difesa del «compagno G.». Dalla prima Tangentopoli ha ereditato non soltanto una serie di fotografie di se stesso che oggi stanno su tutti i media. Il lascito più pesante è la convinzione che fosse un cacciatore solitario di mazzette a proprio favore. Avvalorata anche dal silenzio di Greganti che, da militante disposto al sacrificio, rifiutava con tenacia di mettere nei guai il proprio partito, il Pci diventato Pds. In realtà il compagno G. è sempre stato una pulce. Chi incassava le tangenti, in pratica chi rubava, erano le Botteghe oscure. Come dimostrerà la storia seguente. La storia ha un protagonista ben più forte di Greganti: Eugenio Cefis, il successore di Enrico Mattei alla guida dell’Eni. Cefis era un friulano di Cividale, classe 1921, un pezzo d’uomo alto un metro e novanta. Nel corso della guerra civile, da partigiano autonomo aveva tenuto testa alle bande comuniste di Cino Moscatelli. Era un manager che amava il segreto, l’oscurità, il silenzio. Una regola di vita che mantenne sempre, tranne in un caso. Quando nell’aprile 1993, durante la Tangentopoli numero uno, venne interrogato come testimone dal sostituto procuratore Pier Luigi Maria Dell’Osso. Sentite che cosa raccontò.

L'affare russo - Si era tra la fine degli anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. L’Eni disponeva di un’ottima rete per la distribuzione del metano, ma stava esaurendo le riserve di gas della Pianura Padana. Mattei incontrò a Roma il vicepresidente sovietico Aleksej Kosygin e apprese che l’Urss possedeva una sterminata quantità di metano, disponibile in Siberia. Mattei dichiarò di essere pronto ad acquistarne una parte, da immettere sul mercato italiano. La trattativa risultò molto complessa e durò qualche anno. Per concluderla, Cefis, succeduto a Mattei nel 1962, si disse pronto a versare una tangente al Pci. L’accordo fu raggiunto nel dicembre 1969. Alle Botteghe Oscure venne riconosciuta una mazzetta colossale: oltre dodici milioni di dollari, come contributo dell’Eni per il buon esito dell’intesa. Poiché il contratto di fornitura del gas aveva una durata ventennale, la tangente fu pagata a rate. Un milione e duecentomila dollari alla firma dell’accordo, il resto in versamenti trimestrali. Il tutto passava per un conto svizzero indicato da Amerigo Terenzi, un burocrate dal pugno di ferro che governava la stampa comunista in Italia. È inutile aggiungere che l’Eni di Mattei e poi di Cefis pagava quasi tutti i partiti, a cominciare dalla Dc, dal Pci e dal Psi. La regola seguita da entrambi i presidenti dell’ente petrolifero aveva quattro punti cardine. Primo: erano i partiti a dover chiedere la mazzetta. Secondo: dovevano domandarla almeno tre volte e l’Eni aveva l’obbligo di rispondere sempre no. Terzo: quando l’Eni si decideva a darla, non poteva superare il 25-30 per cento della cifra richiesta. Quarto: comunque la somma doveva essere proporzionata all’aiuto che il gruppo Eni aveva ricevuto da quel partito. La testimonianza di Cefis basterebbe da sola a smentire tutte le favole sul Pci immacolato. I militanti comunisti ci tenevano molto all’immagine illibata del Partitone rosso. Era un riflesso della vantata diversità genetica del Pci, tanto cara a Berlinguer. Anche Re Enrico sapeva tutto delle tangenti incassate dal suo partito. Però sosteneva che le mazzette rosse erano ben altra cosa dalle mazzette ricevute dalle altre parrocchie. Per un motivo che i militanti più scafati ti spiegavano persino nella più periferica tra le Feste dell’Unità. Il motivo era che le tangenti pretese dalle Botteghe Oscure e dalle tante federazioni provinciali avevano uno scopo ben diverso da quelle agguantate dai partiti borghesi. Queste servivano a finanziare una politica che avversava il proletariato, la classe operaia e gli ultimi della scala sociale. Invece le tangenti incassate dal Pci erano il carburante necessario per far avanzare la democrazia e favorire l’avvento di una società più giusta. Detto in modo più esplicito: anche noi comunisti pratichiamo la corruzione politica, però a fin di bene. Infine su tutto il sistema imperava un principio confermato da un libro di Gianni Cervetti, «L’oro di Mosca», pubblicato nel 1993 da Baldini & Castoldi. L’autore non era un signore qualunque. Cervetti, che in settembre compirà 81 anni, all’epoca di Berlinguer era membro della segreteria nazionale del Pci, il responsabile del settore amministrativo e finanziario. Ascoltate che cosa racconta a proposito di uno scandalo edilizio emerso nel 1975 a Parma, quando la città era governata dalle sinistre, con il Pci in prima fila. Secondo Cervetti, il commento di Berlinguer fu il seguente: «Occorre ammettere che noi comunisti ci distinguiamo dagli altri partiti non perché rifiutiamo finanziamenti deprecabili. Siamo diversi perché, nel ricorrervi, il disinteresse dei nostri compagni è stato assoluto». Il problema, dunque, non era il fango della corruzione politica, un cancro destinato a diventare incurabile, tanto che ci perseguita ancora oggi, a vent’anni da Tangentopoli e a quarantacinque dalla gigantesca mazzetta pagata dall’Eni al Pci per il gas siberiano. A salvare la coscienza del Bottegone erano le mani nette dei compagni impegnati nel lavoro sporco su quel fronte. Un lavoro diventato sempre più massiccio con il crescere degli apparati dei partiti e dei costi generali della politica. Anno dopo anno, tutti i segmenti della Casta, da quelli grandi ai più piccoli, cominciarono a mangiare alla stessa greppia. La loro voracità non conosceva più freni. Al punto che le aziende, dalle maxi alle medie, arrivarono a offrire tangenti senza che venissero richieste. Le regole di comportamento esposte da Mattei e da Cefis per l’Eni finirono nel guardaroba dei cani. Le imprese consideravano le mazzette un costo fisso, indispensabile per concludere un affare od ottenere una commessa, un appalto, una fornitura. Nessuno era più in grado di resistere alle pressioni della Casta. Neppure la Fiat, la Montedison, la stessa Eni.

Il santo rosso - Adesso qualche anima bella si domanda come sia nata l’antipolitica che domina la scena pubblica italiana. L’origine sta nella devastante crescita della corruzione pubblica. Nell’osservare il baratro che sta inghiottendo la Casta dei partiti, mi domando come mai un tribuno pericoloso quale è Beppe Grillo abbia tardato così tanto a farsi strada. Un giorno qualcuno ci spiegherà che i suoi sponsor non sono soltanto i partiti di oggi, ma anche quelli di ieri. Compreso il Partitone rosso guidato da Berlinguer, un santo da vivo e da morto, messo sull’altare dall’ultimo celebrante, il candido Walter Veltroni. In questa guerra civile tra i tanti corrotti e i pochi onesti, il compagno Greganti era davvero soltanto una pulce. Gli avevo parlato a lungo nel 1993, per due volte, quando era appena uscito dal carcere di San Vittore, dopo tre mesi di cella. I nostri colloqui li pubblicammo sull’Espresso di Claudio Rinaldi. Greganti mi parve un soldato di ferro al servizio di un’ideale politico e del super comando installato al Bottegone. Allora il Compagno G aveva 49 anni. Oggi deve stare sui settanta. Si sarà rimesso in pista come consulente delle cooperative rosse interessate ai padiglioni dell’Expo, quelli dei cinesi. Così sento dire, però non so altro. Credo che la Procura milanese non caverà molto da un tipo duro come lui. Comunque non resta che aspettare e vedere.

Parma Calcio, uno scandalo italiano e internazionale. L’esclusione del Parma dall’Europa è uno scandalo dai forti significati. Nasce, come molti arbitrii, dall’inadeguatezza delle istituzioni sportive e dall’incapacità di rendere uniformi le complicate prescrizioni fiscali e regolamentari che intrecciano le peculiarità dei club di calcio agli obblighi generali validi per ogni azienda, scrive Bruno Bartolozzi su “Il Corriere dello Sport”. L’esclusione del Parma dall’Europa è uno scandalo dai forti significati. Nasce, come molti arbitrii, dall’inadeguatezza delle istituzioni sportive e dall’incapacità di rendere uniformi le complicate prescrizioni fiscali e regolamentari che intrecciano le peculiarità dei club di calcio agli obblighi generali validi per ogni azienda. Mentre si chiudono entrambi gli occhi di fronte a clamorose interpretazioni rispetto ad alcune operazioni di Manchester City, Psg e Barcellona, i Ponzio Pilato delle istituzioni sportive locali ghigliottinano società come quella di Tommaso Ghirardi. L’Europa calcistica dimostra di essere forte con i deboli e debole con i forti, in linea con quanto accade in altri settori dell’intero continente. E sfregia la capacità di fare impresa nel mondo dell’intrattenimento, uno di settori più vivi di un’Europa in crisi. Il Parma ha conquistato sul campo la partecipazione alla fase preliminare dell’Europa League. E’ però inciampato in una querelle tributaristica. Non ha versato entro il 31 marzo i 300.000 euro di Irpef relativi (ascoltate bene) al pagamento degli incentivi all’esodo di calciatori finiti ad altre società. Per il Parma sono prestiti richiesti dagli stessi calciatori in attesa del saldo di giugno, spesa non soggetta a ritenuta d’acconto. Per la federazione no. Ieri il terzo giudizio da parte del supremo organo del Coni. Tra il primo e il secondo verdetto sfavorevole (12 e 19 maggio) il Parma senza discutere le proprie ragioni ha pagato l’intera somma. Il tutto in assoluta solitudine: la Federcalcio, infatti, che rilascia le licenze Uefa, non aveva indicato un termine perentorio di questi pagamenti in riferimento al rilascio del lasciapassare per l’Europa. Tutto in spregio ai criteri enunciati nel titolo V del Manuale Uefa che sostengono la legittima posizione di un club che ritiene di essere fiscalmente a posto o che comunque si adegua. L’alta corte del Coni, presieduta da Franco Frattini, un ex ministro degli Esteri (che evidentemente non ha speso nell’occasione le pure acquisite sensibilità internazionali), ha ribadito il massimo della pena per il minimo della colpa. Mentre in Europa il signor Platini fa le sue campagne elettorali in vista delle ulteriori scalate e strizza l’occhio ai potentati e ai padroni, ormai globali, del calcio (dagli sceicchi alle lobbies) favorendo scivoli e lasciapassare a chi poi sarà utile alla (sua) causa. 

IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE. 

Parma, la denuncia di un ex detenuto: «Pugni, calci e costretto in cella in ginocchio». Il racconto shock di un ex detenuto nel super carcere di Parma è finito in un esposto del garante dei detenuti e consegnato alla magistratura. Non sarebbe l'unico caso. Nell'ultimo anno presentate altre tre denunce, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso” il 21 ottobre 2015. Hanno indossato un paio di guanti neri e hanno iniziato a picchiarmi violentemente sferrandomi pugni alla testa, al volto e calci alla schiena. Io ero terrorizzato... Cadevo a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l'altro continuava a colpirmi con pugni in testa e nella schiena... e ancora calci». È il racconto shock di un ex detenuto che “l'Espresso” rivela in esclusiva. Picchiato, costretto a stare nella cella in ginocchio e senza cena. Un incubo durato tre giorni. Una punizione extra per il recluso “infame” del carcere di Parma. Fatti che sono contenuti in un esposto ufficiale consegnato dal garante dei detenuti della città ducale, Roberto Cavalieri, ai magistrati della procura. L'uomo che ha subito il pestaggio è un ingegnere di nazionalità italiana. Era stato arrestato per una presunta violenza sessuale, poi scarcerato e, attualmente, è in attesa di giudizio. Accusato di un crimine che in carcere ritengono infame, e per questo, secondo le regole non scritte del codice della galera, da sanzionare ulteriormente con il castigo corporale. Abusi che demoliscono il principio costituzionale della pena come rieducazione del condannato. Il racconto dei soprusi, firmato e inviato agli inquirenti, è denso di particolari: «Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi "bastardo, pezzo di merda". Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell'anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l'agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno». A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso. Non c'è pace, dunque, per il super carcere emiliano dove, tra l'altro, sono reclusi alcuni dei più importanti mafiosi italiani. Per un'altra storia di pestaggi e violenze sono già indagati 8 agenti incastrati dalle registrazioni pubblicate l'anno scorso da “l'Espresso” e poi acquisite dalla procura. È di questi giorni, poi, la notizia di un'altra indagine che riguarda un poliziotto che avrebbe passato un cellulare a un detenuto comune. Ma a quanto pare non è finita. Perché altri esposti gettano ombre pesanti sull'operato di un gruppo uomini in divisa. L'esposto dettagliato del Garante dei detenuti sull'ingegnere si aggiunge, infatti, ad altri tre casi di presunte violenze a danno di altrettanti reclusi, due italiani e uno straniero, tutti segnalati, nell'ultimo anno, alla magistratura da Cavalieri. Queste denunce però non hanno ancora portato a niente. Tutto fermo. Incluso il rapporto su quest'ultimo caso. Il documento è stato depositato in procura il 2 luglio 2015. In allegato c'è anche il racconto sintetico di quanto avvenuto tra il 4 e 6 aprile di quest'anno: «Sono stato vittima di un pestaggio ad opera di due agenti penitenziari e allo stesso tempo di una tortura durate tre giorni» scrive la vittima. Una versione arricchita di particolari da una volontaria del carcere, che secondo fonti de “l'Espresso” sarebbe già stata sentita dai pm: «Il detenuto mi ha raccontato di essere stato violentemente picchiato da due agenti sabato 4 verso le 13, poi costretto a restare in ginocchio in cella senza cena per molte ore. Mi ha mostrato i grandi lividi nella schiena e sull'occhio sinistro. Io l'ho incontrato verso le 11 e sapeva che alle 13 sarebbe stato trasferito a Piacenza non essendoci a Parma la sezione protetti. La denuncia intendeva presentarla una volta giunto a Piacenza per evitare controdenunce. Il mio stato d'animo era appena “rientrato” per l'altra questione...». La denuncia ricostruisce nei minimi particolari quei giorni: «Improvvisamente alla porta della cella si presentavano due agenti di Polizia penitenziaria, i quali iniziavano subito ad offendermi con frasi del tipo "brutto grassone di merda, vestiti, fai schifo". I due agenti di Polizia Penitenziaria erano uno di statura alta, circa l ,85 cm, con pochi capelli (o rasato o calvo), l'altro di statura medio bassa, circa 1,65 - 70 cm., con capelli scuri e barba, e con fede al dito. Senza fare questioni mi preparavo ed uscivo dalla cella. Entrambi gli agenti sin dall'inizio della vicenda hanno tenuto nei miei confronti un atteggiamento minaccioso e mi hanno reiteratamente ingiuriato, proferendo al mio indirizzo, e ad alta voce, frasi quali "sei un pezzo di merda, bastardo, cosa hai fatto, brutto pezzo di merda, scendi giù"... "non guardare su, testa bassa e cammina rasente il muro, pezzo di merda"». Ecco poi la descrizione del pestaggio: «I due agenti continuavano ad insultarmi pesantemente, in particolare quello più alto con frasi del tipo "pezzo di merda, cosa hai fatto allora eh? Bastardo, io ho una figlia se lo facevi a lei tu qui non ci saresti nemmeno arrivato, ti avrei ammazzato di botte", mentre quello basso diceva "bastardo, ora vedi". Si infilavano poi un paio di guanti neri ciascuno, e dopo avermi spinto nell 'angolo dell'anticamera, a destra rispetto alla porta di accesso al corridoio delle celle, avvicinandosi alla mia persona cominciavano a picchiarmi violentemente entrambi, sferrandomi pugni alla testa, al volto ed alla schiena, e calci alla schiena. Io ero terrorizzato e schiacciato nell'angolo dell'anticamera porgevo loro il lato sinistro del corpo. Cadevo anche a terra ma uno dei due mi rialzava mentre l'altro continuava a sferrarmi pugni in testa e nella schiena ed ancora calci, mentre io cercavo invano di coprirmi dai colpi. Durante il pestaggio entrambi continuavano a chiamarmi "bastardo, pezzo di merda"». Ma l'umiliazione, stando al racconto, prevedeva un ultimo terribile passaggio: «Finito il pestaggio barcollante mi ordinavano di tornare in cella e dopo avermi aperto la porta dell'anticamera, riuscivo zoppicando ad arrivare fino alla mia cella, sedendomi sul letto. Chiusa la cella si avvicinava allo sportello della porta l'agente più alto che mi ordinava di mettermi subito in ginocchio sul pavimento e a testa bassa, dicendomi che sarei dovuto restare in quella posizione fino alle 18.00, ora in cui lo stesso avrebbe terminato il proprio turno». Anche nei due giorni successivi l'ex detenuto è stato costretto a mettersi in ginocchio. Con il corpo pieno di lividi e terrorizzato, il 7 aprile lascia il carcere di Parma. Per lui è previsto il trasferimento a Piacenza. E qui che medici e agenti penitenziari durante la registrazione di ingresso si rendono conto delle sue condizioni. Partono così una serie di accertamenti fatti dallo stesso corpo di polizia del penitenziario piacentino. Verifiche avviate anche dal direttore del carcere di Parma sollecitato con una lettera dal garante dei detenuti. «Visti gli elementi emersi nella Sua missiva si è provveduto a notiziare le autorità competenti a volgere opportuni accertamenti», si legge nella risposta del dirigente del penitenziario. Sono trascorsi sette mesi dalla risposta del direttore e quattro dalla denuncia del garante. Ma la nebbia su questi presunti pestaggi nel carcere più sicuro d'Italia non si è ancora diradata.

A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". La guardia carceraria si lascia andare: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da “l’Espresso”. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Neppure il medico è disposto a intervenire: «Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita». Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che «a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo “alla politica” di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni», dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. «La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare». Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio.

La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», ammetteva un poliziotto. Ecco gli audio in esclusiva acquisiti dalla magistratura, scrive ancora Giovanni Tizian su "L'Espresso". Un'inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l'anno scorso da “l'Espresso”, sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all'abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all'interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da “l'Espresso”, e acquisiti dai magistrati su richiesta dell'avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l'indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. «Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall'ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella». Nell'album fotografico mostrato ad Assarag durante l'interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall'ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c'è l'abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all'interno delle celle esistesse un'unica legge, non scritta: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare.  L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». Assarag è assistito dall'avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Il legale, in una memoria, scrive: «A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani.

C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso". Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento. Il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul “Giornale” scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è “L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti”. Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): «Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo il Giornale, Anselmo «il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica». Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia». Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati “mediatici” avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla “Nuova Ferrara”, Anselmo dice: «senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi» e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce “morti di Stato”, persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio.

Abusi dietro le sbarre, svolta nelle indagini dopo la denuncia dell'Espresso. Il tribunale di Parma acquisisce le carte sui presunti pestaggi denunciati dal detenuto che in carcere aveva registrato le confessioni di alcuni agenti. Ora gli audio, rivelati in esclusiva dalla nostra testata, sono agli atti del processo contro il carcerato accusato di oltraggio da un gruppo di guardie penitenziarie, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Il tribunale di Parma ha acquisito le registrazioni audio dei presunti pestaggi subiti in carcere da Rachid Assarag  rivelate in esclusiva da "l'Espresso". Il detenuto marocchino, che sta scontando una condanna per violenza sessuale, ha registrato, tra il 2010 e il 2011, le confessioni di alcuni agenti all'interno del penitenziario emiliano. Le sue denunce però sono rimaste ferme in Procura, mentre la querela presentata  da un gruppo di agenti contro di lui per oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Così la strategia dell'avvocato Fabio Anselmo (difensore della famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi) è di sfruttare questo giudizio per ribaltare la situazione. E oggi ha incassato un primo risultato. Nell'ultima udienza, il giudice, dopo aver interrogato Assarag, ha deciso far entrare nel processo i documenti della difesa, incluse le conversazioni rubate all'interno del penitenziario emiliano. Non solo. È stata anche disposta la perquisizione urgente della sua cella del carcere di Sollicciano, a Firenze, dove attualmente è recluso. La polizia giudiziaria dovrà recuperare i suoi diari scritti in arabo. Insomma, quello che sembrava un processo dall'esito scontato, si arricchisce di nuovi colpi di scena. La prossima udienza è fissata per il 12 dicembre. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del super carcere - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Così parlava ai microfoni nascosti del detenuto un poliziotto della penitenziaria. E il medico della stessa struttura è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, contattato da "l'Espresso", aveva preferito non rilasciare dichiarazioni. Mentre il rappresentante del Sappe aveva detto di nutrire forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni. La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare» è stata la replica di Enrico Maiorisi responsabile sindacale della struttura emiliana.

Carcere di Parma, un agente: "Così picchiamo i reclusi", scrive “La Repubblica”. Audio esclusivo dell'Espresso, con un servizio di Giovanni Tizian. "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c'eri anche tu". Sono le parole di una guardia carceraria dell'Istituto penitenziario di Parma, registrata di nascosto da un detenuto. Un documento sulla violenza nelle carceri di Parma rivelato da "l'Espresso" in edicola domani, a pochi giorni dall'apertura del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi. Nei nastri anche la voce di un medico che si rivolge ad un detenuto: "Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l'agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? morto per le botte". I nastri verranno depositati dall'avv.Fabio Anselmo, lo stesso che assiste la famiglia Cucchi. A registrarli Rachid Assarag, detenuto marocchino condannato per violenza sessuale: un reato che avrebbe spinto gli agenti a infliggergli un supplemento di punizione, pestaggi durati tutto il 2010. L'apparecchio audio per fare le registrazioni gli è stato fatto arrivare in cella dalla moglie italiana. Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: "Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?". "Sì, ho visto", conferma la guardia. Denunciare però è inutile: "Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, nè avvocati, nè giudici - dichiara un agente - Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...". Il direttore all'epoca in forza al carcere di Parma, anticipa sempre l'Espresso, ha preferito non rilasciare dichiarazioni mentre i sindacati di categoria delle guardie carcerarie hanno difeso la corretta gestione dell'istituto. "Mi sembra davvero singolare che a pochi giorni dall'apertura del processo di appello per la morte di Stefano Cucchi, rispetto al quale i poliziotti penitenziari coinvolti sono stati assolti dall'accusa di pestaggi e lesioni, spunti un nastro su presunte violenze in danno di detenuti nel carcere di Parma - dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato Sappe - Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Come mai spunta solo ora, quel nastro registrato non si sa come e non si sa da chi? Come mai non è stato portato subito ai magistrati? Noi confidiamo nella Magistratura perchè la Polizia penitenziaria, a Parma come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere". "L'autore della denuncia riportata dall'Espresso non posso dirle se è ancora recluso presso il carcere di Parma e, qualora lo fosse, non si è rivolto al sottoscritto", spiega invece all'ANSA Roberto Cavalieri, garante per il comune di Parma delle persone sottoposte a misure limitative della libertà personale. "La mia attività - prosegue Cavalieri - si svolge su richiesta di colloquio da parte dei detenuti reclusi nell'Istituto della città, dei loro famigliari e, più raramente, dei legali dei reclusi. Nel corso del lavoro di quest'anno, circa cento colloqui, mi sono stati rappresentati tre casi di presunta violenza: uno di percosse denunciato alla Procura della Repubblica di Parma dal detenuto stesso e segnalato alla stessa autorità dal sottoscritto congiuntamente alla Garante regionale, dr.ssa Desi Bruno, uno di minacce per le quali sto seguendo la valutazione con la presunta vittima e uno giunto in forma anonima e riguardante frasi ingiuriose contro un detenuto e scritte da un agente della Polizia penitenziaria nel proprio profilo presente in un noto social media". "Manifestiamo piena fiducia nell'operato degli inquirenti ed auspichiamo che sia fatta presto chiarezza sulla vicenda delle presunte violenze nel carcere di Parma. Non si può però mettere in discussione l'immagine di un'intera categoria che da quasi 200 anni svolge un ruolo di alto contenuto sociale". Così in una nota il segretario nazionale dell'Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta l'articolo pubblicato oggi da L'Espresso, aggiungendo che "ci sorprende il tempismo con cui è stata diffusa la registrazione delle conversazioni tra un detenuto ed alcuni operatori di Polizia Penitenziaria su presunti pestaggi, sia perché risalenti al 2010, sia perché riguardanti una delle strutture più sicure ed efficienti d'Italia, dove i sistemi di controllo degli accessi non consentono agevolmente di introdurre supporti tecnologici". "Auspichiamo che anche l'inchiesta interna avviata dal Dap contribuisca ad accertare l'integrità morale ed istituzionale degli agenti. Qualora invece fossero accertate oggettive responsabilità personali  -  conclude il sindacalista  -  riteniamo che ciò non possa comunque ripercuotersi sulle oltre 38mila unità che con professionalità, senso di appartenenza allo Stato e profonda abnegazione, operano quotidianamente tra enormi difficoltà per garantire la sicurezza negli istituti penitenziari del nostro Paese".

"Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi". Tra botte e omertà: ancora abusi in carcere. A pochi giorni dal processo di appello per il caso Cucchi, a Parma un detenuto registra di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella. Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Sono le parole di una guardia carceraria, registrata di nascosto da un detenuto: un documento sulla violenza nei penitenziari rivelato ne “l'Espresso” in edicola domani, a pochi giorni dall'apertura del processo d'appello per la morte di Stefano Cucchi. Nei nastri il personale il medico dell'istituto di Parma è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». I nastri verranno depositati dall'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che assiste la famiglia Cucchi. A registrarli è stato Rachid Assarag, un detenuto marocchino condannato per violenza sessuale: un reato molto grave, che avrebbe spinto gli agenti a infliggergli un supplemento di punizione con pestaggi durati un anno tra il 2010 e il 2011. L'apparecchio audio gli è stato fatto arrivare dalla moglie italiana. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Per cercare di documentare le violenze, il recluso ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi? ». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto. Il rappresentante del Sappe Errico Maiorisi ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato. La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto». La magistratura non si è ancora pronunciata: l'esposto di Assarag giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione grazie alle registrazioni.

L'ispettore Soneri e lo "Scandalo Parma". Nell'ultimo libro di Valerio Varesi "strategia della lucertola" Pubblic Money e il malaffare nella città ducale. Un nuovo giallo che prende spunto dall’inchiesta che travolse la Giunta Vignali. “In città non ci sono state più idee e oggi manca un progetto culturale per il rilancio. La corruzione ha prodotto disastri", scrive  Raffaele Castagno su “La Repubblica”. Un’inchiesta per corruzione. Il sindaco di Parma scomparso, mentre era in vacanza sulle piste da sci. Una città sotto una coltre di neve, dove c’è del marcio, dove ci sono un’insieme di cose, un “contesto” per dirla con Sciascia, che produce disastri e morti misteriose. Ai parmigiani, almeno parte della storia, suonerà in qualche modo famigliare. Non potrebbe essere diversamente, visto che il nuovo giallo di Valerio Varesi - giornalista a Repubblica Bologna - prende le mosse da Public Money e da quei giorni che “sconvolsero” la città, segnando l’epilogo della Giunta Vignali. “Il commissario Soneri e la strategia della lucertola” (Frassinelli, euro 17,50, in libreria dal 26 agosto, anche in ebook) rilegge quegli eventi, imbastendo un giallo sui generis, dove il Maigret parmigiano non ha un killer, o un nome da inseguire, ma quello che Sciascia chiamava appunto contesto. “Sì mi sarebbe piaciuto utilizzare come titolo Il contesto - celebre opera dello scrittore siciliano - ma non è stato possibile. In questo libro non c’è un assassino, manca una faccia, non c’è chi spara, ma un’insieme di cose come direbbe Gadda che provocano morte, inducono a togliersi la vita. Ai tempo di tangentopoli la si definì concussione ambientale. A Parma c’è questo contesto, fatto di corruzione e malaffare che hanno prodotto disastri”. Il titolo richiama la tecnica di sopravvivenza della lucertola che si stacca la coda pur di salvarsi. E’ quello che è successo anche in città? “E’ la metafora del potere che quando è incastrato consegna il pesce piccolo per salvare se stesso. Metafora italiana della malavita politica e criminale dove la testa resta sempre intatta”. Sembra quasi la trama di un altro scandalo parmigiano, quello della Parmalat. “Tanzi fu il primo motore di quella vicenda, ma uno dei pochi capri espiatori. Il sistema politico e bancario è stato lambito solo marginalmente. Anche con Public Money è andata così, dentro il sindaco e qualche assessore, ma i mandanti non sono stati toccati”.

Ma cos’è questo contesto a Parma?

“Prima di tutto sono i parmigiani, che fingono di non conoscere il passato della persone che votano e si fanno abbindolare dal primo pifferaio. Parma si è illusa di vivere spendendo e spandendo. Si costruivano opere inutili, ma andava bene, tutti contenti perché si gratificava l’ego, accumulando debiti su debiti. Ora per la città si profilano 15-20 anni di decadenza. Abbiamo avuto a livello locale una classe politica scandalosa, anche confrontandola con le città vicine. Nessuno è riuscito a spiccare oltre i Paolotti. Prendiamo la stazione medio-padana, doveva arrivare a Parma, si litigò, e oggi è finita a Reggio. Bologna, con Eataly sta costruendo Fico, la vetrina dell’agroalimentare, malgrado Parma abbia tante eccellenze. Tutte occasioni mancate”.

Se dovessimo indagare come il commissario Soneri, mettere insieme i pezzi, perché Parma è arrivata a questo punto? Che cos’è successo? Public Money non è che l’ultimo di una serie di scandali.

“C’è stato uno scollamento tra i ceti produttivi e il ceto politico, con una forte litigiosità interna. A Parma gli scandali sono una specialità. Nel ’75 quello edilizio, nel ’92 il pentapartito, poi la Parmalat, Vignali. In 25 anni di carriera non ricordo mai un sindaco finito in galera. Il potere politico e quello economico - prosegue - si sono saldati, non ci sono più state idee, ci si è crogiolati con l’immagine dell’ancien regime e non si è progettato il futuro”.

C’è una soluzione al caso Parma?

“Abbiamo tante individualità si potrebbe partire da lì, ma sono isolate. C’è possibilità di risalire la china, e che non vedo i migliori al governo. L’Amministrazione Pizzarotti si muove, credo, secondo criteri di onestà, ma al di là di saldare i conti, non colgo emergere alcuna idea di città. Non c’è una cosa eclatante, un cambio di rotta. Ci si aspettava tanto da una forza politica che si era candidata a essere rivoluzionaria. Non faccio altri appunti a Pizzarotti, non conosco bene la situazione, ma ripeto non vedo alcun progetto”.

E’ un libro che fa pensare ad altri giallisti atipici come Sciascia e Gadda che citavi, che cos’è il giallo per Varesi?

“Sì il romanzo si colloca in quella tradizione italiana, ma anche europea, quella di Dürrenmatt o di Simenon, che affonda il bisturi nell’animo umano. E’ il mio obiettivo, per me il giallo non è tanto trama a incastro, tensione verso la soluzione, ma una forma narrativa che mi consente di entrare nelle pieghe dell’animo umano”.

Perché tanti tuoi libri prendono spunto dalla realtà?

“Sento una forte tensione all’impegno civile, che ho manifestato anche coi romanzi a sfondo storico. Questo è un romanzo politico. In piccolo Parma rappresenta quello che succede a livello nazionale. C’è un brodo del malaffare che è italiano”.

Easy Money, richiesta di rinvio a giudizio per Bernini e T.na. Il pm ha chiesto il processo per l'ex assessore e l'imprenditore coinvolti nello scandalo tangenti del 2011. Decisione a novembre, scrive Maria Chiara Perri su “La Repubblica”. L'arresto di Bernini E' arrivato alle ultime battute il procedimento in fase di udienza preliminare dell'inchiesta "Easy Money", quella che nel settembre 2011 portò all'arresto dell'ex assessore ai Servizi per l'infanzia Giovanni Paolo Bernini per una vicenda di presunte tangenti sugli appalti per le mense scolastiche. Nel corso del pomeriggio, davanti al gup Nicola Sinisi, si è conclusa la discussione del pm Paola Dal Monte, dell'avvocato di parte civile e dei difensori degli imputati. Al termine della requisitoria il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio per Bernini per i reati di tentata concussione e corruzione. L'ex politico è accusato, in concorso con quello che all'epoca era il suo segretario Paolo Signorini, di aver fatto pressioni su un amministratore della Camst per il rinnovo di un appalto e di aver intascato una tangente di 8mila euro dall'amministratore della cooperativa di ristorazione Copra, M.ro T.ana. Anche per quest'ultimo il pm ha chiesto il rinvio a giudizio. L'avvocato difensore di Signorini, Luigi De Giorgi, ha presentato un'istanza di patteggiamento. Dovrà essere il gup a ratificare l'accordo raggiunto con la Procura. Una decisione non scontata: Signorini si è già visto rigettare nel 2012 un patteggiamento di un anno e sei mesi per gli stessi reati, poiché il gup Paola Artusi ritenne che l'imputazione di corruzione dovesse essere riformulata in concussione. Sul capo di Bernini pende l'accusa di appropriazione indebita per un prelievo di 16mila euro dal conto corrente delle donazioni per i bambini di Haiti. Anche per quest'imputazione è stato chiesto il rinvio a giudizio. L'avvocato Tiziana Parenti, difensore del politico, ha chiesto il non luogo a procedere per tutte le accuse. Bernini si è sempre dichiarato non colpevole ed è intenzionato a difendersi in un probabile processo dibattimentale. Anche l'avvocato di T.ana, Paolo Fiori, ha chiesto il proscioglimento del suo assistito, che si ritiene vittima di concussione e non corruttore. Il Comune di Parma nell'udienza precedente si era costituito parte civile. Ha chiesto il risarcimento dei danni d'immagine subiti dall'ente, da quantificare nel corso del processo. La decisione è attesa il prossimo 5 novembre.

Bernini, chiesto rinvio a giudizio anche per le donazioni ad Haiti. La Procura non archivia l'accusa di appropriazione indebita nei confronti del politico, che ha sempre sostenuto di non essersi impossessato delle donazioni per i bimbi haitiani, scrive “La Repubblica”. La Procura di Parma ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex assessore ai servizi per l'Infanzia Giovanni Paolo Bernini, al centro dell'indagine Easy Money. Le accuse sono di tentata concussione e corruzione sugli appalti delle mense scolastiche e di appropriazione indebita aggravata e continuata per un prelievo di 16mila euro dal conto corrente benefico dell'associazione "Parma per Haiti", di cui Bernini era presidente. Il politico ha sempre respinto quest'ultima imputazione, che gli è stata contestata in seguito alle dichiarazioni del suo ex braccio destro Paolo Signorini. Bernini sostiene infatti di essere in possesso di prove che attestano la sua non colpevolezza: quei soldi sarebbero stati usati per i bambini di Haiti colpiti dal terremoto. Il pm Paola Dal Monte contesta tre prelievi tramite un assegno di 12mila euro intestato "a me stesso" e di due assegni da 3.500 e 500 euro a favore del suo segretario Signorini, che li avrebbe poi incassati per consegnare il contante a Bernini. Il pm ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione e tentata concussione anche per Paolo Signorini, che aveva tentato la via del patteggiamento ma si era visto respingere l'accordo dal gup. Corruzione l'accusa per M.ro T.ana, amministratore di Parma Multiservizi. T.ana, secondo il pm, avrebbe pagato una tangente di 8mila euro per assicurarsi il rinnovo di un appalto per la ristorazione scolastica. Si è sempre difeso dicendo di essere vittima di concussione, ipotesi sostenuta anche dal gup Paola Artusi. Cadute invece le contestazioni riguardanti Antonio Martelli, imprenditore edile: non avrebbe ricevuto alcun favore dal politico in cambio di un Ipad, come inizialmente ipotizzato. La decisione sul rinvio a giudizio o su eventuali riti alternativi sarà presa dal gup nel corso dell'udienza preliminare, che sarà fissata nelle prossime settimane.

Si avvia verso l’archiviazione la posizione di Antonio Martelli, uno degli imprenditori coinvolti (con l'accusa di corruzione) nell’inchiesta della Guardia di finanza di Parma denominata Easy Money, scrive “24 Emilia”. Secondo il procuratore capo Gerardo Laguardia, infatti, durante l'approfondimento dell'indagine "non è stato evidenziato un rapporto certo tra le dazioni e quelli che sembravano essere i favori" presunti concessi dall’ex assessore alla scuola del Comune di Parma Giovanni Paolo Bernini. La procura emiliana, dunque, sembra ora escludere che il regalo di un tablet iPad da parte di Martelli all’assessore potesse essere direttamente ricollegato all'ottenere in cambio una modifica della destinazione d'uso dell'immobile di via San Donato a Parma che ospita l'asilo Mary Poppins.

Riceviamo e pubblichiamo, scrive “Il Giornale”: "Si precisa che, rispetto a quanto sotto riferito relativamente alla posizione del signor Antonio Martelli, che il Tribunale del Riesame di Bologna il 14 ottobre 2011 ha annullato la misura cautelare in quanto non sussistevano le prove della corruzione. Inoltre il signor Martelli è in attesa del provvedimento di archiviazione in quanto, così come riferito dal Dottor Gerardo Laguardia, Procuratore Capo di Parma, “non è stato evidenziato un rapporto certo tra le dazioni e quelli che sembravano essere i favori” concessi."

“In data 26/09/2011, sul sito www.unita.it è stato pubblicato l'articolo intitolato "Parma, arrestato anche assessore scuola", nel quale il mio Assistito, il sig. Antonio Martelli, viene menzionato in relazione ai fatti dell'inchiesta c.d. Easy Money.- si continua su “L’Unità” - Il sig. Martelli è, però, ora in attesa dell'archiviazione, come riferito dal Procuratore Capo di Parma - Dott. Gerardo Laguardia nel giugno 2012 (evento di cui varie testate giornalistiche hanno dato notizia), in quanto "non è stato evidenziato un rapporto certo tra le dazioni e quelli che sembravano essere favori " concessi. Peraltro già il 14 ottobre 2011 il Tribunale del Riesame di Bologna aveva annullato la misura cautelare per il mio Assistito in quanto non sussistevano le prove della corruzione.

Martelli, l'unico ai domiciliari, è stato ascoltato per oltre un'ora dal gip Maria Cristina Sarli presso il tribunale di Parma, scrive “La Repubblica”. L'imprenditore edile è accusato di corruzione perché, secondo le accuse, avrebbe dato a Bernini un I-Pad e somme di denaro imprecisate per ottenere un cambio di destinazione d'uso per l'immobile di via San Donato che ospita l'asilo Mary Poppins. Accuse, sostiene Martelli, prive di qualsiasi fondamento. “Il signor Martelli ha affermato la propria assoluta estraneità al fatto che gli è stato contestato -  comunicano gli avvocati difensori Michele Dalla Valle e Giulio Moscatelli - Abbiamo provveduto a depositare al giudice per le indagini preliminari, durante l’interrogatorio, la copia degli atti amministrativi che attestano l'assoluta regolarità della pratica edilizia relativa alla edificazione della struttura immobiliare che ospita l'asilo nido. Pratica edilizia che per il suo iter formativo e approvativo ha avuto quale suo unico referente l'Ufficio Urbanistico del Comune di Parma, e non già il Bernini Giovanni, il quale per quanto è di conoscenza del signor Martelli si è unicamente interessato alla vicenda nell’ambito della convezione che il Comune stesso ha stipulato con l’asilo nido,  la cui gestione è totalmente estranea al signor Martelli”. Inoltre, l'imprenditore ha dichiarato di non aver mai regalato né offerto alcunché all'assessore Bernini per chiedere servizi o interessamenti. Gli avvocati hanno così chiesto al gip la revoca immediata degli arresti domiciliari.

La posizione di Antonio Martelli è stata successivamente archiviata con decreto del 12.11.2013 emesso dal GIP dott.ssa Maria Cristina Sarli, così come riportato da Sky.

Quando Martelli diceva: "E' tutto in regola". Il costruttore arrestato amico di Bernini. L'imprenditore, incontrato da Repubblica Parma pochi giorni fa, aveva negato tutto: "Nessuna irregolarità alla scuola Mary Poppins, tutta colpa dell'invidia politica, con il mio nuovo edificio darò lavoro a decine di parmigiani". Poi le miacce di querela. Secondo la magistratura, l'uomo per sbloccare le pratiche passava mazzette all'assessore alle Politiche scolastiche, scrive Marco Severo su “La Repubblica”. Negava tutto Antonio Martelli, l'imprenditore arrestato per corruzione insieme all'assessore Giovanni Paolo Bernini. Appena giovedì scorso, incontrato da Repubblica Parma, diceva: "E' stato fatto tutto in regola, voi giornalisti siete abituati a vedere sempre le cose in negativo. Perchè non parlate degli aspetti positivi". Tipo? "Beh per esempio - aveva suggerito Martelli - del fatto che da oggi Parma ha un nuovo asilo e una nuova scuola elementare, che l'edificio costruito dalla mia ditta darà lavoro a decine di persone". Peccato però che l'edificio, secondo la Guardia di Finanza, sia stato al centro di uno scambio di favori e lusinghe tra Bernini e Martelli. L'imprenditore - parmigiano, classe 1963 - avrebbe regalato persino un iPad all'assessore, tanto per oliare la pratica. C'era infatti da cambiare la destinazione d'uso di uno stabile, renderlo adatto ad accogliere servizi per l'infanzia anche se era stato progettato per usi commerciali. La vicenda è quella della scuola privata Mary Poppins, che appena pochi giorni fa - dopo un blocco del cantiere di 20 giorni - sembrava risolta grazie proprio a Bernini. In conferenza stampa l'assessore aveva palleggiato con palle da cannone: "Se fosse per me - aveva detto proprio sulla Mary Poppins - sarei già andato in Procura a denunciare tutto, qui signori sono stati compiuti illeciti da denuncia penale". Infatti. Poi aveva sminuito: "Macché, robetta, cose che se le facessimo te o io in casa nostra diremmo 'ma chi se ne frega... mentre in questo caso...". Secondo la magistratura Bernini avrebbe ricevuto favori da Martelli, che in cambio avrebbe ottenuto la mutazione di destinazione d'uso dell'edificio: un prefabbricato sorto rapidissimo sulla via Emilia est, in zona ex Salamini in via San Donato 5. Per lo stesso palazzo, nei piani che ospitano il Mary Poppins, risulta un eccesso di superficie pari a 488metri quadrati. "Incongruenza", come l'ha definita Bernini, che sarebbe stata poi risolta con un'autocertificazione da parte di Martelli e col pagamento di ulteriori oneri di urbanizzazione. Anche se Martelli, incontrato davanti alla Mary Poppins giovedì (mentre dava gli ultimi ordini ai suoi operai), in merito continuava a negare: "Falso, non c'è alcuna metratura in eccesso - diceva - quello che avete scritto è assolutamente infondato, sappiate che ho il mio avvocato pronto ad agire". In realtà il testo di una delibera comunale, mai approdato in Consiglio per i maldipancia dell'Udc, parlava chiaramente dei 488 metri quadrati in più. Bernini chiedeva una sorta di sanatoria, ma l'Udc ha risposto picche: "Solo voci, maldicenze frutto di invidie politiche" tagliava corto Martelli. "La città ha nuovi posti di lavoro grazie al mio edificio - insisteva - io mi occupo solo di faccende tecniche". Secondo fonti politiche ben informate, Martelli "è un amico di Bernini e, dopo gli scandali del 24 giugno, nessuno si sentiva più di avallare certe condotte". Non è bastato, insomma, un po' di zucchero per mandare giù la pillola anche se Bernini s'era già prenotato: "Allora - aveva detto - è pronto lo spumante per l'inaugurazione dell'asilo?". Oltre ad ospitare la Mary Poppins, il 5 di via San Donato accoglie la nuova sede del negozio Prenatal. Tra le aule e i banchi, intanto l'agitazione è al colmo. Il timore è che la scuola possa subire conseguenze dopo l'arresto del proprietario dello stabile, a cui la direzione paga un affitto.

Il personaggio Bernini, il componente della giunta in cella. L' ex psdi che cenò con il boss «Ha preteso anche un iPad», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere della Sera”. A tavola con il casalese Le toghe antimafia scrissero di un pranzo tra Bernini e Zagaria dei casalesi. Non più tardi di sabato scorso, abbronzato e imbrillantinato, un occhio alla telecamera più vicina, Giovanni Paolo Bernini giocava a dama sotto i Portici del Grano, iniziativa pubblica nel cuore di Parma, dispensando elogi alla giunta dell'amico sindaco Vignali, di cui è assessore all' infanzia e alla scuola, «che fa bene a resistere - diceva enfatico -, nonostante le difficoltà: vi immaginate che sarebbe di questa città senza un governo?». Non più tardi di sabato scorso, questo quarantottenne che fu avviato al cenacolo della politica da due grandi e discussi vecchi del Psdi che fu, Nicolazzi e Ferri, da cui attinse i primi rudimenti, portando borse e aprendo porte, ha scoperto che in quel maledetto gioco della dama in cui a volte si trasforma la politica, lui, in questo momento, è il pedone che viene mangiato. Letteralmente divorato da un' inchiesta che per il momento non si porta dietro tangenti a sei zeri stile Sesto San Giovanni, ma che quasi è peggio nella sua meschinità: 8 mila euro intascati, questa almeno l' accusa della Procura di Parma, per favorire un' azienda nell' assegnazione di appalti per la ristorazione delle mense delle scuole d' infanzia ed elementari; e a seguire, inaugurando un nuovo filone creativo in materia di tangenti, un iPad in regalo dall' imprenditore Antonio Martelli come anticipo per la costruzione di una scuola privata. Una miseria, se davvero è andata così, per uno che dal bancomat della politica ha estratto un'interminabile teoria di poltrone. Dopo il rodaggio alla scuola del Psdi, Bernini si è infilato nel tunnel dorato di Forza Italia, divenendo uomo di fiducia e consulente di Pietro Lunardi, potente ministro delle Infrastrutture tra il 2001 e il 2006. Anni d'oro per Bernini: indicato a vista come astro nascente, votatissimo alle amministrative del 2007 Parma, premiato con una poltrona nel Cda di «Formez Italia spa», centro di ricerca per la Pubblica amministrazione. Un testimonial perfetto per una giunta, quella di Vignali, che della politica ha sempre voluto afferrare il luccichio a dispetto spesso della sostanza e dei bilanci. Poi però la magia ha cominciato a dissolversi. Le prime nuvole nel 2007 quando l'Espresso, tra le carte con le quali i magistrati antimafia di Napoli ricostruivano le infiltrazioni camorriste nel Nord Italia, si imbattè in un pranzo romano a dir poco imbarazzante per l'astro Bernini: lui a tavola con un imprenditore, un agente immobiliare e Pasquale Zagaria, boss dei casalesi. Nessuna conseguenza penale, ma una brutta ombra. Superata però ora dalle intercettazioni della Finanza dalle quali emerge un Bernini famelico nel pretendere dal suo braccio destro Paolo Signorini un'adeguata mungitura su mense e pasti per bimbi. Signorini, esasperato, dice al telefono con l'imprenditore T.ana: «Devi aiutarmi, devo dargli questa cosa, non mi fa vivere, ogni due minuti mi chiama, è incazzato nero...». Talmente disorientato il povero Signorini da dimenticarsi persino che nel linguaggio in codice tra lui e Bernini la parola «soldi» viene sostituita da «conferenza stampa». E così, quando il superiore gli dice «lunedì ho bisogno di una conferenza stampa», Signorini, equivocando, risponde che «le sale del municipio sono tutte occupate». E Bernini, furioso, minaccia di licenziarlo.

Green Money 2 e Public Money, nuove accuse a Jacobazzi. Notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari alle 11 persone, ex dirigenti pubblici e imprenditori, arrestate il 24 giugno 2011 per peculato e corruzione. All'ex comandante della Municipale contestata la truffa ai danni dello Stato perché non si sarebbe presentato in servizio per 107 giorni. Lui replica: "Accuse infondate, inquirenti non sono imparziali", scrive Maria Chiara Perri su “La Repubblica”. Dopo quasi tre anni da quelli che nella storia di Parma saranno ricordati come "gli arresti di San Giovanni" si è chiusa l'indagine Green Money 2. La Procura di Parma ha depositato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell'articolo 415 bis del codice di procedura penale nei confronti degli 11 indagati finiti in carcere il 24 giugno 2011. Le accuse, a vario titolo, sono di peculato e corruzione per aver lucrato sugli appalti del verde pubblico. Tra gli indagati figurano tre ex dirigenti del Comune: l'ex comandante della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi, l'ex capo dello staff del sindaco Vignali e direttore di Infomobility Carlo Iacovini e l'ex dirigente del settore Ambiente Emanuele Moruzzi. Contestazioni di peculato anche per l'ex dirigente di Enìa Mauro Bertoli e per l'ex presidente di della partecipata per le politiche giovanili Engioi Ernesto Balisciano. Coinvolti anche il presidente e il vice della cooperativa Student work service, Gian Vittorio Andreaus e Tommaso Mori, e l'imprenditore Gianluca Facini. L'investigatore privato Giuseppe Romeo Lupacchini è accusato di aver consegnato a Jacobazzi una mazzetta in cambio di informazioni utili alla sua professione. Gli imprenditori Norberto Mangiarotti e Alessandro Forni, che avevano già patteggiato la pena per Green Money, hanno ricevuto l'avviso per il loro coinvolgimento in Public Money. Anche i nomi di altri indagati come Moruzzi, Bertoli, Balisciano, Iacovini, Andreaus e Mori comparivano nell'indagine che ha portato all'arresto del sindaco, sempre per reati di peculato. Tutte le contestazioni sono state riunite nell'avviso di fine indagini, che di fatto decreta anche la conclusione dell'inchiesta Public Money. Giovanni Maria Jacobazzi deve rispondere di numerosi nuovi capi d'imputazione, oltre a quelli che lo portarono in carcere. Nell'ordinanza di custodia cautelare gli venivano contestate la corruzione, perché avrebbe favorito Forni nell'affidamento dell'incarico per l'area di sgambamento dei cani della Municipale in cambio di un giardino pensile da 5mila euro nella sua casa di Santa Marinella, la tentata concussione di un suo sottoposto che aveva multato il dehor della Sorelle Picchi sotto la gestione di Marco Rosi, la corruzione per aver ricevuto una mazzetta di circa 750 euro e capi d'abbigliamento dall'investigatore Lupacchini e il peculato d'uso per essersi recato a Monza a ritirare la tangente con un'auto di servizio dei vigili. A Jacobazzi nell'avviso di fine indagine viene contestato anche l'abuso d'ufficio perché tra il 2008 e il 2009 avrebbe annullato personalmente o fatto annullare dai vigili dodici verbali di multa per violazioni del codice della strada tutte relative alla sua Smart. Secondo l'accusa avrebbe sottoscritto dichiarazioni mendaci, dicendo di aver violato il codice a causa di improrogabili compiti istituzionali, quando in realtà non era in servizio. C'è poi un abuso d'ufficio in concorso perché avrebbe ordinato a un ispettore di annullare una contravvenzione elevata all'Audi di Forni, nell'aprile 2010. Ma sull'ex comandante pende anche l'accusa di truffa ai danni dello Stato perché, secondo il capo d'imputazione, avrebbe attestato di essere falsamente in servizio a Parma dalle 8 del mattino quando in realtà si trovava a Milano per 107 giorni su 299 di servizio effettivo, dal marzo 2010 al dicembre 2010. Infine, un'ultima imputazione di abuso d'ufficio per Jacobazzi riguarda il famoso dehors del Caffè Garibaldi. L'ex comandante, avvisato telefonicamente dal titolare del bar, avrebbe ordinato a due assistenti di polizia municipale che stavano per procedere a un controllo sul plateatico di rientrare immediatamente al comando di polizia municipale. Avrebbe intenzionalmente fatto saltare il controllo, che avrebbe comportato sanzioni amministrative per l'occupazione del suolo pubblico. La vicenda risale al 23 novembre 2010. Giovanni Maria Jacobazzi ha commentato la notifica dell'avviso di fine indagini con questa nota: "Dopo indagini preliminari durate sei anni (per i reati di mafia e terrorismo il massimo di legge è due anni...), la procura di Parma mi ha oggi notificato le imputazioni (la prescrizione corre, non si dica per ostruzionismo dell'indagato). Oltre alle contestazioni che mi erano già note e sulle quali mi sono in questi anni espresso abbondantemente proclamando la mia innocenza, noto con stupore che l'Inquirente che mi arrestato, il cui marito voleva prendere il mio posto, circostanza su cui sono stato sentito personalmente dal pubblico ministero di Ancona, continua a non astenersi. Non vi è traccia, nella citata conclusione indagini, delle centinaia di multe per le infrazioni più disparate al codice della strada che avrei "abusivamente" annullato ai potenti di Parma ai quali, come dichiarò urbi et orbi il procuratore (indagato dalla procura di Trento per diffamazione, con prossima udienza fissata il 3 giugno 2014 davanti al Gip che non ha archiviato) sarei stato "asservito". Questi potenti possono stare tutti sereni, la procura ha chiarito che era tutto regolare. In compenso vengono contestati, solo a me, otto divieti di sosta elevati alla mia autovettura nelle settimane iniziali del mio insediamento (ottobre 2008) al comando della polizia municipale e annullati con le medesime modalità delle centinaia e centinaia di multe sopra indicate. Nel 2010, su dieci mesi, per ben tre mesi e mezzo, a mia insaputa non sarei andato in ufficio rimanendo a casa a Milano, lasciando il comando nell'auto gestione. Confido che già in sede di udienza preliminare, davanti ad un Giudice realmente terzo ed imparziale, verrà dimostrata l'infondatezza delle accuse mossemi. Infine una domanda. Sono terzi ed imparziali nei miei confronti questi Inquirenti che, a loro volta, sono indagati da Pm di altre procure per circostante che riguardano proprio il loro operato contro di me?". Gli indagati hanno ora 20 giorni di tempo per depositare memorie difensive o chiedere al pm di essere ascoltati. Quindi, la Procura potrà procedere con le richieste di rinvio a giudizio o di archiviazione.

ENRICO CECI E LA FINE PERPETUA.

Vi ricordate di Enrico Ceci, quello che lavorava al Banco di Desio e della Brianza di una filiale di Parma, che nell’agosto 2008, a 21 anni, vi ha scoperto una falla informatica grazie alla quale era possibile imboscare denaro? Quello che l’ha detto ai suoi responsabili, ma siccome non ci sentivano l’ha detto ai suoi capi nella sede centrale, che non ci sentivano nemmeno lì e quindi è andato a dirlo alla Guardia di Finanza? Chiede Gianluca Foglia su “Il Fatto Quotidiano”. Ecco, lui. Enrico era stato subito licenziato e ora nessuna banca lo assume più. Vediamo dunque com’è andata a finire: in nessun modo, se ci si aspetta una fine, perché la fine continua e lo trascina per i meandri inamidati del sistema, gli mostra a che bel risultato l’ha condotto l’essere stato onesto quell’estate di quattro anni fa. Enrico deve sentirsi al sicuro in uno stato il cui primo ministro Monti pone in cima alle priorità della “Agenda Italia” la lotta all’evasione e al riciclaggio, ma se la Procura di Roma lo riconosce parte offesa in un procedimento penale contro il Gruppo Banco Desio, i giudici della Sezione Lavoro del Tribunale di Parma non sono dello stesso avviso: a fronte di una lunga e completa indagine del Gico di Roma (il nucleo della Guardia di Finanza normalmente utilizzato per le indagini sulla criminalità organizzata), a Parma gli danno torto nella causa da lui intentata per licenziamento illegittimo e ritorsivo. “Sono stato privato di ogni mezzo di difesa. Mi sono stati negati tutti i capitoli di prova, sono stati negati tutti i testimoni a mio favore e anche tutte le registrazioni fonografiche, in grado di provare inconfutabilmente come erano andati i fatti, non sono state ammesse. Alla banca i giudici hanno concesso più di 60 capitoli di prova e un numero grande a piacere di testimoni. Tutti questi testimoni sono regolarmente a libro paga della banca in quanto dipendenti della filiale di Parma. In particolare poi i cinque testimoni che il giudice ha ritenuto di ascoltare erano proprio quelli denunciati penalmente dal sottoscritto.”  E’ un fatto sproporzionato per un giovane come Enrico e pure per la città di Parma, minilòpoli implosa nella purulenza dei suoi peccati, in cui può continuare a piovere e, guardando la pioggia, ostinarsi a chiamarla manna. E io? Io che lavoro con la matita, che dovrei farci con questa storia? Come ci entro in questo labirinto? Enrico si era rivolto a me perché della sua storia ne facessi un graphic novel, ma gli avevo spiegato che in Italia i fumetti non sono presi sul serio, che si dice “trama da fumetto” non a caso, come di cosa assurda, da quattro soldi. Ebbene, in questa storia i soldi in ballo sono molti più di quattro e come disegnatore non posso fare molto: la trama da fumetto è già stata disegnata dalla realtà, perfetta e assurda, a lei si dovrebbe credere. Non al disegnatore satirico. L’udienza preliminare è prevista a Roma il prossimo 23 marzo, nuovo episodio della fine di un ragazzo che a 25 anni ne ha già scontati quattro per onestà.

Le due controllate del Banco di Desio - Credito privato commerciale di Lugano e Banco Desio Lazio - dovranno pagare rispettivamente una sanzione di 800mila e 400mila euro, scrive “La Repubblica”. Questo l'ammontare del patteggiamento, chiesto e ottenuto dai due istituti di credito lo scorso gennaio, a processo per reati che spaziavano dall'associazione a delinquere al riciclaggio internazionale. Precedentemente aveva patteggiato due anni e 10 mesi, più 1.400 euro di multa, anche Renato Caprile, ex amministratore delegato di Banco Desio Lazio. Un caso - che ha assunto rilevanza anche internazionale - innescato dal parmigiano Enrico Ceci, che ha pagato la  sua denuncia con la perdita del posto di lavoro. Un licenziamento per giusta causa secondo il tribunale di Parma e per il quale Ceci è ricorso in appello a Bologna. L'ex bancario si trova proprio nel capoluogo, per una manifestazione di protesta in suo favore, indetta dalla Confederazione unitaria di base e Sallca credito e assicurazioni. Ceci considera il patteggiamento un modo per fare calare il silenzio sul caso, tanto più, accusa, che il processo a Roma si è svolto senza parte offesa. "Mi è stato impedito di costituirmi parte civile, e il ministero dell'Economia ha scelto di non costituirsi, pur in presenza di un reato grave quali il riciclaggio internazionale, che significa una perdita finanziaria secca. Mi chiedo a cosa serva l'Avvocatura dello Stato se non la usiamo". Fatto al centro di un'interrogazione dei deputati 5 Stelle, che chiedono proprio chiarimenti sulla condotta tenuta dal dicastero di via XX Settembre.

Il giorno 24 marzo è arrivata la seguente precisazione da parte dell'avvocato Iuri Maria Prado: "Scrivo nell'interesse della mia assistita, Banco di Desio e della Brianza S.p.A., con riferimento all'articolo recante il titolo "Banco Desio multato dopo la denuncia di Ceci", pubblicato il giorno 18 marzo 2014 su La Repubblica, edizione di Parma. L'articolo in questione reca inesattezze gravi, in pregiudizio della mia assistita. In particolare, l'articolo riporta la notizia, falsa, secondo cui il Signor Enrico Ceci, già dipendente di Banco di Desio e della Brianza, sarebbe stato licenziato a causa di denunzie che egli avrebbe svolto a carico della mia assistita, e che il Tribunale di Parma avrebbe ritenuto giustificato il licenziamento: in tal modo lasciando intendere che la magistratura avrebbe considerato legittimo un licenziamento sostanzialmente punitivo e di ritorsione. Ben diversamente, tuttavia, il licenziamento è intervenuto a causa degli accertati, gravissimi comportamenti tenuti dal Signor Ceci nei confronti dei suoi colleghi e della società. E per queste ragioni, che non hanno nulla a che fare con le denunzie svolte dal Signor Ceci, il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Parma con sentenza in data 9/11 gennaio 2012. Il fatto emerge inequivocabilmente dalla lettura della decisione (copia acclusa), e questo significa che l'autore dell'articolo non l'ha letta oppure che, avendola letta, ne ha proposto il contenuto in modo consapevolmente alterato. E nei due casi si tratta di un esercizio indebito, e lesivo, dell'attività di cronaca. I provvedimenti che hanno interessato le controllate della mia assistita (Banco Desio Lazio e Credito Privato Commerciale) intervengono dopo indagini che hanno preso corso senza nessun ruolo di denuncia del Signor Ceci. Mentre nell'occasione in cui il Signor Ceci ha svolto in sede giudiziale le denunzie contro Banco di Desio e della Brianza che in modo disinvolto e infedele ha l'abitudine di proporre alla stampa, l'Autorità Giudiziaria ha potuto accertare con la dovuta attenzione e motivazione l'assoluta infondatezza di quelle allegazioni, provvedendo in conseguenza. In particolare, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, sede in cui il Signor Ceci ha svolto appunto le proprie denunzie, con provvedimento in data 1 gennaio 2012 ha archiviato senza perplessità il relativo procedimento rilevando come si assistesse a un "vuoto probatorio totale rispetto ai delitti ipotizzati". L'articolo del 18 marzo di cui si discute, per i motivi detti, lede in modo pesante e completamente ingiustificato l'immagine e la reputazione della mia assistita, che si riserva dunque ogni iniziativa di opportuna tutela dei propri diritti".

La replica di Enrico Ceci -  "Non sono per nulla meravigliato dai modi e dai toni utilizzati dal legale di Banco Desio, ma intendo replicare allegando alcuni documenti che comprovano la correttezza di quanto sostenuto anche da Repubblica. Credo che la lettera odierna di Banco di Desio e della Brianza S.p.A. a Repubblica rientri in una strategia di "pressione sulla stampa e sulla televisione" che ha raggiunto il suo culmine ad esempio con la recente richiesta di 3 milioni di euro di risarcimento fatta dalla banca nei confronti del giornale "Il Fatto Quotidiano", con la recente richiesta di 3 milioni di euro di risarcimento avanzata dalla banca nei confronti del settimanale "La Voce di Parma" e con la recente richiesta di 100.000 euro di risarcimento fatta dalla banca al sottoscritto. Peraltro, già in occasione della mia intervista a "La Vita in Diretta" - in data 11 dicembre 2013 - l'attuale amministratore delegato di Banco Desio Tommaso Cartone aveva fatto "fuoco e fiamme" per essere in collegamento da Milano (mentre io ero negli studi di RAI1 a Roma) rimediando peraltro una magra figura. Nulla di quanto oggi lamentato da Banco Desio - attraverso il suo legale - corrisponde comunque al vero. Banco Desio inizialmente afferma: "L'articolo in questione reca inesattezze gravi, in pregiudizio della mia assistita. In particolare, l'articolo riporta la notizia, falsa, secondo cui il Signor Enrico Ceci, già dipendente di Banco di Desio e della Brianza, sarebbe stato licenziato a causa di denunzie che egli avrebbe svolto a carico della mia assistita, e che il Tribunale di Parma avrebbe ritenuto giustificato il licenziamento: in tal modo lasciando intendere che la magistratura avrebbe considerato legittimo un licenziamento sostanzialmente punitivo e di ritorsione." Tale affermazione è non corrispondente al vero. L'articolo infatti riporta correttamente i fatti svolti: "Un caso - che ha assunto rilevanza anche internazionale - innescato dal parmigiano Enrico Ceci, che ha pagato la sua denuncia con la perdita del posto di lavoro. Un licenziamento per giusta causa secondo il tribunale di Parma e per il quale Ceci è ricorso in appello a Bologna. L'ex bancario si trova proprio nel capoluogo, per una manifestazione di protesta in suo favore, indetta dalla Confederazione unitaria di base e Sallca credito e assicurazioni". Il Tribunale di Parma ha giudicato che il licenziamento irrogato da Banco Desio fosse effettivamente un licenziamento per "giusta causa". Il sig. Enrico Ceci, non essendo assolutamente d'accordo con tale pronunciamento, ha fatto appello a Bologna sostenendo che il licenziamento era - ad esempio - illegittimo e ritorsivo. Né la Corte d'Appello di Bologna, né la Cassazione si sono mai espresse a tale proposito. Dovrebbe essere noto a Banco Desio che una sentenza di primo grado non è una sentenza definitiva quando essa viene appellata in Corte d'Appello (potendo poi finire addirittura in  Cassazione). Banco Desio, dunque, confonde situazioni completamente diverse per non dire apodittiche:

- le sanzioni pecuniarie irrogate da Banca d'Italia a tutti i membri del CDA di Banco di Desio e della Brianza S. p. A., all'ex amministratore delegato Nereo Dacci, al direttore generale Claudio Broggi, al Presidente Agostino Gavazzi  e persino al Presidente del Collegio dei Sindaci Eugenio Mascheroni sono definitive ed irreversibili;

- le sanzioni amministrative patteggiate al Tribunale di Roma (proc.22698/2008 PM Giuseppe Cascini) da Banco Desio Lazio S. p. A. e da Credito Privato Commerciale SA sono definitive ed irreversibili;

- la condanna a 2 anni e 10 mesi di detenzione ed alla sanzione di 1.400 euro patteggiata al Tribunale di Roma (proc.22698/2008 PM Giuseppe Cascini) dall'ex amministratore delegato di Banco Desio Lazio Renato Caprile per riciclaggio, appropriazione indebita e reati tributari è definitiva ed irreversibile;

- la sentenza del Tribunale di Parma sul licenziamento irrogato da Banco Desio al lavoratore Enrico Ceci non è assolutamente definitiva ed anzi ci sono ancora due gradi di giudizio in Italia (Corte d'Appello di Bologna ed eventualmente Cassazione) e c'è anche la possibilità di adire al Tribunale di Strasburgo (oggi in grado di modificare le sentenze pronunciate in Italia).

Assolutamente diffamatoria e calunniosa è dunque la seguente affermazione di Banco Desio: "Ben diversamente, tuttavia, il licenziamento è intervenuto a causa degli accertati, gravissimi comportamenti tenuti dal Signor Ceci nei confronti dei suoi colleghi e della società. E per queste ragioni, che non hanno nulla a che fare con le denunzie svolte dal Signor Ceci, il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Parma con sentenza in data 9/11 gennaio 2012.".

Fino a che i gradi di giudizio sopra indicati - afferenti il Ricorso presentato da me per contestare la legittimità del mio licenziamento - non saranno conclusi Banco Desio non può e non deve parlare di "accertati, gravissimi comportamenti tenuti dal sig. Ceci nei confronti dei suoi colleghi e della società" e se lo fa commette reato. Non vi è nulla di lesivo e di indebito per converso in quello che è stato scritto da Repubblica che ha fatto chiaramente capire ai propri lettori che il Tribunale di Parma ha dato torto al sig. Enrico Ceci nella causa di lavoro in primo grado e che il sig. Enrico Ceci ha ritenuto di appellare tale decisione del Tribunale di Parma ritenendo che il licenziamento subito fosse illegittimo e ritorsivo. L'ulteriore affermazione di Banco Desio di seguito riportata non ha dunque un reale senso compiuto ed è comunque inveritiera in quanto basata su un giudizio di primo grado che non è definitivo: "Il fatto emerge inequivocabilmente dalla lettura della decisione, e questo significa che l'autore dell'articolo non l'ha letta oppure che, avendola letta, ne ha proposto il contenuto in modo consapevolmente alterato. E nei due casi si tratta di un esercizio indebito, e lesivo, dell'attività di cronaca." Completamente falsa è poi la seguente affermazione di Banco Desio: "I provvedimenti che hanno interessato le controllate della mia assistita (Banco Desio Lazio e Credito Privato Commerciale) intervengono dopo indagini che hanno preso corso senza nessun ruolo di denuncia del Signor Ceci.". Di seguito viene riprodotta la comunicazione ex art.335 c. p. p. che dimostra che nel procedimento 22698/2008 del PM Giuseppe Cascini il sig. Enrico Ceci era Parte Offesa proprio anche per il reato di riciclaggio.  Chiunque conosca minimamente la Legge sa che, se fossi stato considerato meramente come denunciante, non sarei comparso come persona offesa a livello della comunicazione ex art.335 c. p. p.. Inoltre, se non fossi stato effettivamente ritenuto "parte offesa", non avrei mai potuto ricevere dal PM Cascini di Roma tutti gli atti cartacei dell'indagine come invece è puntualmente avvenuto. Infine è evidente come, nel caso in cui io fossi stato meramente il "denunciante", non avrei avuto diritto né di visionare il fascicolo, né di ascoltare le registrazioni fonografiche afferenti il procedimento penale n.22698/08 ed inoltre non avrei avuto di certo il diritto né di avere copia del fascicolo, né di avere copia di alcune registrazioni fonografiche afferenti il procedimento penale n.22698/08 come invece è puntualmente avvenuto. Assolutamente fuori luogo è dunque la seguente ulteriore affermazione di Banco Desio: "Mentre nell'occasione in cui il Signor Ceci ha svolto in sede giudiziale le denunzie contro Banco di Desio e della Brianza che in modo disinvolto e infedele ha l'abitudine di proporre alla stampa, l'Autorità Giudiziaria ha potuto accertare con la dovuta attenzione e motivazione l'assoluta infondatezza di quelle allegazioni, provvedendo in conseguenza.". A proposito della affermazione riferentesi all'indagine asseritamente svolta dalla Procura di Monza per determinare specifiche responsabilità dell'ex amministratore delegato e dell'ex direttore generale della banca e dell'attuale Presidente di Banco di Desio e della Brianza S. p. A., l'avvocato Prado finge di ignorare che:

-  il PM Walter Mapelli di Monza è stato denunciato penalmente alla Procura di Brescia proprio per le modalità con cui ha condotto tale indagine;

- il Movimento 5 Stelle ha presentato, in data 26 giugno 2013, un disegno di legge (Atto Senato n.895) per l'istituzione urgente di una Commissione parlamentare d'Inchiesta sullo scandalo Banco Desio; il giudizio del partito maggiormente votato dagli Italiani nelle ultime elezioni politiche è stato chiaramente espresso dalla senatrice Mussini che ha dichiarato:  "Troppe sono state le anomalie e le irritualità emerse e troppo grande è la differenza di giudizio tra gli Inquirenti del GICO di Roma e la Procura di Roma sulla portata e sulla gravità del coinvolgimento della Capo Gruppo e dei vertici di Banco di Desio e della Brianza S. p. A. nelle attività criminose già accertate". A breve clamorose iniziative a livello europeo potrebbero mettere finalmente in luce cosa è effettivamente successo e cosa ancora oggi sta succedendo in Italia quando di mezzo c'è Banco Desio. Ecco spiegato come anche l'affermazione di Banco Desio di seguito indicata andrebbe esaminata con molta attenzione alla luce di quanto sta avvenendo in Italia e di quanto avverrà a Strasburgo nei prossimi mesi: "In particolare, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, sede in cui il Signor Ceci ha svolto appunto le proprie denunzie, con provvedimento in data 1 gennaio 2012 ha archiviato senza perplessità il relativo procedimento rilevando come si assistesse a un "vuoto probatorio totale rispetto ai delitti ipotizzati".

E' falso che le denunce penali del sig. Enrico Ceci siano state tutte presentate a Monza! Ci sono state due denunce: una esaminata dalla Procura di Roma che mi ha considerato Parte Offesa ed una esaminata dalla Procura di Monza.

E' falso che il PM Mapelli di Monza abbia archiviato in data primo gennaio 2012: la sua richiesta di archiviazione è infatti datata primo settembre 2012 e cioè molti mesi dopo rispetto alla sentenza emessa nella causa di lavoro dal Tribunale di Parma. A proposito del cosiddetto "vuoto probatorio totale" intendo riportare alla lettera cosa ha affermato in un incontro con me proprio il PM Walter Mapelli di Monza in data 13 gennaio 2012: "Io sono innamorato del Banco Desio. Io sono innamorato del Banco Desio. Ciò detto, una banca del territorio che c'ha la filiale in Svizzera e in Lussemburgo, dici, ma che cazzo ti serve?  Se sei qui per lavorare sul territorio non c'hai bisogno, che cazzo c'hai bisogno di fare nelle filiali delle consociate? Quindi, già questo è una roba che uno dice... Io ribadisco, io sono convinto come voi. Una banca del territorio che ha una filiale nel Lussemburgo o in Svizzera non ha senso.  Non ha senso. O meglio, ha senso se la vedi in quest'ottica.". Tale affermazione  - stranamente antitetica rispetto alle risultanze finali - è stata registrata fonograficamente ed è stata allegata alla denuncia depositata alla Procura di Brescia. Da tutto quanto sopra ricordato, risulta dunque evidente che non è vero che: "L'articolo del 18 marzo di cui si discute, per i motivi detti, lede in modo pesante e completamente ingiustificato l'immagine e la reputazione della mia assistita...". Ciò che emerge invece è la volontà di una potente banca non solo di "far chiudere la bocca" ad un giovane considerato da Transparency International Italia come l'unico whistleblower Italiano in ambito privato (vedi All.6 pag.23 e pag.24), ma anche di fare pressioni indebite sulla stampa e sulle televisioni. Del resto io - ed addirittura mio padre - siamo stati denunciati penalmente innumerevoli volte da Banco di Desio e della Brianza S. p. A..

Da tali denunce si sono originati tre procedimenti penali che, trattati inizialmente dalla Procura di Parma, sono infine approdati alla Procura di Ancona per essere poi archiviati definitivamente da GIP del Tribunale di Parma:

- proc. n.585/2012 Procura Ancona art. 595 CP comma 1 e 3 (diffamazione a mezzo stampa);

- proc. n.589/2012 Procura Ancona art. 595 CP comma 1 e 3 (diffamazione a mezzo stampa);

- proc. n.590/2012 Procura Ancona art. 595 CP (diffamazione) e art. 616 comma 2 (violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza).

Inutile dire che tali accuse si sono dimostrate totalmente infondate e sono state archiviate dai GIP del Tribunale di Parma dott.ssa Sarli e dott. Conti. Nella richiesta di archiviazione del PM di Ancona Andrea Laurino afferente il proc. n.589/2012 - depositata in data 2 luglio 2012 - tale magistrato, pur non avendo avuto certo a disposizione alcuno dei documenti oggi disponibili, ha gravemente ammonito Banco di Desio e della Brianza S. p. A. scrivendo: "E' ben vero che gli illeciti penali contestati dal PM romano riguardano formalmente dipendenti di una società diversa dalla querelante, ma lo stesso Banco di Desio e della Brianza s. p. a. nella memoria presentata in data 3.3.2011 (pag.5) afferma che "La banca ha allontanato immediatamente i dipendenti indagati in quanto ha tra i suoi principi quello di combattere il riciclaggio", con ciò dimostrando che seppure formalmente separati i soggetti giuridici, le interconnessioni tra le due società sono ben evidenti". Il PM Laurino in questa circostanza ha utilizzato semplicemente la logica ed il buon senso: come fa il cervello (Banco di Desio e della Brianza) a non essere informato di quello che fanno il braccio sinistro (Banco Desio Lazio) e il braccio destro (Credito Privato Commerciale)? Il PM Laurino, se avesse avuto a disposizione ad esempio la documentazione di Banca d'Italia e le notizie dei patteggiamenti al Tribunale di Roma, avrebbe scritto probabilmente qualcosa di più ficcante rilevando magari che, se ai "principi di combattere il riciclaggio" non seguono risultati fattivi, certe affermazioni risultano essere parole non seguite da alcun fatto. A Banco Desio ed ai suoi innumerevoli avvocati consiglierei di ragionare - da ora in poi - partendo da un famoso assunto: "Fatti, non parole!". Definire le denunce del sig. Enrico Ceci - alla luce di quanto accaduto - come disinvolte ed infedeli oltre che ridicolo appare oggi addirittura grottesco. Del resto cosa ci si può aspettare da una banca che mi ha licenziato quando ero a casa in infortunio sul lavoro? Ha scritto Banco Desio in una memoria della causa di lavoro: "L'infortunio, quindi, è solo asserito dal Ceci, che si è assunto e si assume ogni responsabilità al riguardo. Fino a che Ceci non fornirà prove sull'evento, l'infortunio è, e resterà, legittimamente solo asserito." Si noti che la banca ha scritto ciò fingendo di ignorare che è stato proprio Banco Desio - ed addirittura una sua controllata Chiara Assicurazioni - ad attestare l'avvenuto infortunio e addirittura a riconoscermi il 6% di invalidità permanente.

L'infortunio è stato regolarmente riconosciuto:

a) da Banco Desio che ha attivato le dovute procedure con INAIL;

b) dall'Ospedale San Gerardo di Monza;

c) da un Centro Specializzato;

d) dal medico curante del sig. Ceci Enrico;

e) dall'INAIL che ha riconosciuto oltre all'infortunio anche una invalidità permanente al nostro assistito del 6%;

f) da Chiara Assicurazioni che ha riconosciuto al sig. Enrico Ceci - oltre all'infortunio - anche una invalidità permanente del 6% ed ha pagato l'indennizzo come di seguito mostrato:

Cosa ci si può aspettare da una banca che ha chiesto - in una memoria presentata nella causa di lavoro - ai giudici del lavoro del Tribunale di Parma di "stroncare" il sig. Enrico Ceci?". 

Enrico Ceci: l’uomo che ha sfidato la Banca, scrive Brunella Arena su “Zero Sette News”. Enrico Ceci, dipendente della filiale di Parma del gruppo Banco di Desio, nel 2008 denuncia attività irregolari all’interno dell’Istituto. Dopo 5 anni Bankitalia sanziona con 360mila euro il gruppo riconoscendo quegli illeciti, ne abbiamo parlato con l’interessato.

Nel 2008 lei denuncia delle irregolarità nel gruppo Banco Desio, di cosa si trattava? Come se ne è accorto?

«Ho iniziato a lavorare alla filiale di Parma di Banco di Desio e della Brianza S.p.A., come operatore di sportello, ad inizio maggio 2008 e sono stato licenziato a fine novembre. Dal giugno 2008 ho cominciato a segnalare oralmente irregolarità ed illeciti ai miei superiori, a settembre 2008 ho trasmesso segnalazioni scritte seguendo una procedura interna alla banca fino ad arrivare ai vertici della stessa. Dopo un tentato trasferimento sono stato licenziato mentre ero in infortunio sul lavoro: per una caduta e conseguente trauma alla spalla mi è stato riconosciuto il 6% di invalidità. A gennaio 2009 ho presentato un esposto alla Banca d’Italia e il 19 maggio ne ho presentato uno alla Guardia di Finanza. Nel giugno 2009 sono stato interrogato per circa dieci ore dal GICO (Gruppo Investigativo Criminalità Organizzata) di Roma che svolgeva le indagini sul Gruppo Banco Desio per conto del PM Giuseppe Cascini. L’ irregolarità più eclatante riguardava la presenza di una pericolosa falla informatica, a tal proposito il GICO di Roma rileva che la cosiddetta falla informatica denunciata dal sig. Enrico Ceci <<consentirebbe potenzialmente alla filiale di disporre di liquidità da utilizzare per soddisfare, con anticipo sui tempi di “discesa” dei banchieri elvetici, eventuali urgenti richieste della clientela di Credito Privato Commerciale (la banca svizzera del Gruppo Banco Desio, ndr), successivamente, ripianate con le provviste gestite dai banchieri elvetici in favore dei clienti italiani>>. Esaminando la consuetudine ad effettuare versamenti/prelevamenti direttamente presso il domicilio di Clienti, il GICO di Roma trova conferma <<sulle sistematiche irregolarità nelle procedure interne, con significativi riflessi sulla normativa antiriciclaggio, inerenti il versamento/prelevamento di assegni effettuato direttamente presso il domicilio dei clienti più facoltosi da dipendenti>> di Banco di Desio e della Brianza e conclude: <<dette condotte … rivestono connotati di elevata pericolosità>>. Sulle cassette di sicurezza prive di contratto il GICO di Roma trova conferma di quanto già segnalato al PM Cascini in merito “all’utilizzo delle cassette di sicurezza come temporaneo deposito del contante prima di essere prelevato dai banchieri elvetici, per il successivo trasporto oltralpe”. Il GICO osserva che cassette prive di contratti possono essere anche utilizzate “come una sorta di deposito temporaneo per le così dette compensazioni tra conti diversi, accesi presso il CPC di Lugano”. Di tutto ciò mi sono accorto durante il lavoro alla filiale di Parma del Banco Desio.»

Era il solo ad aver notato queste anomalie? O meglio, erano irregolarità che avrebbero potuto notare anche altre persone? E se sì, perché hanno taciuto?

«La falla informatica e le altre anomalie potevano essere rilevate anche da altri colleghi. La mia prima relazione che segnalava la falla informatica è stata controfirmata dal mio superiore gerarchico diretto. Sono stato l’unico dipendente italiano a collaborare con il GICO di Roma, solamente nel 2012 un dirigente di Brianfid-Lux SA (la fiduciaria lussemburghese di Banco Desio) ha trovato il coraggio di denunciare operazioni sospette alla CONSOB lussemburghese (CSSF). I dipendenti bancari italiani solitamente non collaborano perché sanno che non esiste protezione per chi denuncia; inoltre sono consapevoli che la banca può inventarsi false motivazioni per licenziare chi ha denunciato irregolarità. E’ noto che la Magistratura Italiana non brilla per coraggio nelle azioni contro gli istituti finanziari che spesso non tratta come comuni cittadini.»

Quando si è rivolto ai suoi superiori cosa le hanno risposto?

«La risposta è stata prima un tentativo di trasferirmi in altra sede ed infine il licenziamento.»

Aveva idea della situazione a cui sarebbe andato incontro?

«Immaginavo che Banco Desio mi avrebbe vessato per via giudiziaria, quello che non mi aspettavo era di dover combattere più contro certi magistrati che contro la banca. L’istituto mi ha denunciato penalmente per tre volte e le denunce hanno avuto un iter travagliato: il fascicolo è passato da Monza a Milano, quindi a Parma, poi a Bologna e infine ad Ancona. Dopo questo giro di Procure le denunce sono state archiviate in velocità – su richiesta della Procura di Ancona – poiché completamente infondate. Quello che non ho apprezzato è stato l’atteggiamento della Procura di Parma: alle denunce del Banco Desio se ne sono aggiunte altrettante da parte dei due Giudici del Lavoro di Parma, ovviamente solo dopo avermi incredibilmente dato torto nella mia causa di lavoro contro Banco Desio.»

In seguito ai fatti denunciati lei ha perso il lavoro? Al momento è impiegato? Pensa che sia possibile per lei ritornare al suo vecchio posto?

«Sono rimasto disoccupato per alcuni mesi, poi ho lavorato a tempo determinato per altri istituti bancari. La vicenda con Banco Desio mi ha creato non pochi problemi e anche nell’ultima banca in cui ho lavorato, la Cassa di Risparmio di Cesena, ho denunciato la commissione di gravi illeciti penali all’interno della filiale di Parma. Come da copione sono stato licenziato. Oggi sono in attesa del pronunciamento della Cassazione a proposito di un asserito conflitto di competenza territoriale. Una volta ottenuta tale decisione, sarà il turno della Magistratura del Lavoro che già una volta si è pronunciata in mio favore. E’ evidente che per me trovare lavoro in Italia in ambito bancario sarà impossibile. Al momento il mio sguardo è rivolto ad altri settori ma mi accorgo di quanto le mie azioni con Banco Desio e Cassa di Risparmio di Cesena non siano viste di buon occhio. In Italia l’onestà non paga, ma non mi scoraggio: se per trovare lavoro sarò costretto ad abbandonare il mio Paese lo farò a testa alta.»

Perché, secondo lei, adesso che Bankitalia ha riconosciuto la responsabilità ed è intervenuta con la sanzione, la Magistratura continua a non voler sentire ragioni?

«Il riconoscimento di Banca d’Italia è stato comunque tardivo, ha assegnato un giudizio pessimo a Banco Desio in tema di antiriciclaggio ma è altrettanto vero che si è limitata a sanzionare per 360 mila euro i membri del Consiglio di Amministrazione e del Collegio Sindacale della banca (in carica nel biennio 2008-2009). La punizione corretta per Banco Desio sarebbe stata l’interdizione all’esercizio dell’attività bancaria. Ma la politica di Banca d’Italia è diversa: non ha commissariato Monte dei Paschi di Siena, né la Banca Popolare di Milano e non ha trovato il coraggio di commissariare Banco Desio. Il Tribunale di Roma sta perseguendo alcune società del gruppo Banco Desio e diversi manager delle stesse. A questo proposito, il 28 giugno 2013 è prevista, a Roma, l’udienza preliminare del procedimento: stando alle dichiarazioni stampa del nuovo amministratore delegato di Banco Desio, Banco Desio Lazio S.p.a. e Credito Privato Commerciale SA (la banca svizzera del Gruppo Banco Desio) chiederanno il patteggiamento della pena. A Parma, invece, i Giudici del Lavoro non hanno voluto sentire ragioni: perciò sono stato costretto ad appellare la sentenza a me sfavorevole alla Corte d’Appello di Bologna. Mi auguro così di poter ottenere giustizia e vedere riconosciute le mie ragioni anche dalla Magistratura del Lavoro.»

Soddisfazione personale?

«L’inchiesta di Roma su Banco Desio non è stata insabbiata e, grazie ad una mia richiesta di avocazione delle indagini, il primo agosto 2011 sono state chiuse le indagini preliminari. Il 15 novembre 2011 c’è stata la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di due banche del Gruppo Banco Desio (Banco Desio Lazio S.p.A. e Credito Privato Commerciale SA) e di alcuni manager delle stesse. Credito Privato Commerciale SA, banca svizzera del Gruppo, è stata posta in liquidazione. Brianfid-Lux SA, la cassaforte lussemburghese del Gruppo, è stata posta in liquidazione. Banca d’Italia ha sanzionato per 360 mila euro i membri del Consiglio di Amministrazione e del Collegio Sindacale di Banco di Desio e della Brianza S.p.A. (in carica nel biennio 2008-2009). L’ex amministratore delegato di Banco Desio Lazio S.p.A., Renato Caprile, ha patteggiato una pena di circa tre anni di detenzione. Il 28 giugno 2013, a Roma, due società del Gruppo Banco Desio chiederanno il patteggiamento. Diversi manager delle due società probabilmente dovranno fare lo stesso. Gli esperti calcolano che il Gruppo Banco Desio abbia subito un danno, anche reputazionale, pari a circa due miliardi di euro. Tutto questo senza la mia battaglia non sarebbe accaduto. Dal punto di vista mediatico il mio caso è stato ripreso dai maggiori organi di stampa nazionali, sono stato intervistato da giornalisti italiani e stranieri in programmi come Report e il Nachtjournal, telegiornale serale di una delle più importanti emittenti televisive private tedesche a livello europeo. Sono stato l’unico dipendente italiano del settore privato ad essere citato come “whistleblower” (vedetta civica, ndr) da Transparency International Italia.»

Unico whistleblower italiano in ambito privato, dopo aver toccato “tasti dolenti” all'interno della banca viene licenziato, ma “rifarei tutto”, scrive Miriam Cuccu su “Antimafia Duemila”. A 21 anni Enrico Ceci viene assunto dalla filiale di Parma del Gruppo Banco Desio. Un errore nell'esecuzione di alcune procedure informatiche è il punto di partenza grazie al quale - suo malgrado - scopre una pericolosa falla nel sistema informativo della banca. Attraverso tale falla, si poteva arrivare a nascondere la reale giacenza di valuta estera presente nel caveau delle filiali. Enrico - turbato per tale sconvolgente scoperta - invia immediatamente una relazione all'attenzione dei suoi superiori. Ad un certo punto si rende conto di avere toccato un “tasto dolente” all'interno di Banco Desio: le conseguenze del suo gesto, infatti, non tardano ad arrivare. Il giovane bancario prima subisce un immotivato tentativo di trasferimento verso un’altra filiale - a cui riesce apparentemente a sottrarsi - ed in seguito viene malamente licenziato, addirittura mentre era in infortunio sul lavoro. Dopo il repentino licenziamento, Enrico trova comunque le forze per denunciare - attraverso una serie di esposti - le irregolarità e gli illeciti anche alla Banca d’Italia. Ma non si ferma qui e decide di fornire la propria preziosa collaborazione al Gruppo Criminalità Organizzata (GICO) della Guardia di Finanza di Roma, che nel frattempo stava conducendo un’indagine per conto della locale Procura. In parallelo, Enrico Ceci promuove una causa di lavoro al Tribunale di Parma per vedere riconosciuta l’illegittimità del licenziamento subito da Banco Desio. L'inchiesta della Procura di Roma - dopo varie peripezie - approda finalmente ad un risultato concreto a fine luglio 2011. Due importanti aziende del Gruppo, Banco Desio Lazio S.p.A. e Credito Privato Commerciale SA, e numerosi ex manager vengono infatti rinviati a giudizio con pesanti accuse (riciclaggio internazionale, appropriazione indebita...). Qualche mese più tardi, l’ ex amministratore delegato di Banco Desio Lazio - Renato Caprile - patteggia la pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione. Nel frattempo, Banca d’Italia - attraverso alcune ispezioni - verifica l’esistenza di numerose irregolarità: i manager apicali di Banco di Desio e della Brianza S.p.A. vengono sanzionati per la somma di 360 mila euro. Al Tribunale di Roma, purtroppo, si aggiungono ulteriori ritardi: tra rinvii e difetti di notifica, il processo contro il Gruppo Banco Desio ed i suoi ex manager si aprirà in data 24 gennaio 2014. Quindi, mentre la Procura di Roma e Banca d’Italia confermano - di fatto - la correttezza delle denunce presentate da Enrico Ceci, i Giudici del lavoro del Tribunale di Parma incredibilmente respingono le sue ragioni. Dalla lettura della sentenza, infatti, si evince la nascita di un nuovo principio giuridico: un lavoratore che denuncia - peraltro a ragione - illeciti di rilevanza penale nella banca in cui opera, “lede il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”. Dopo tale ingiusto licenziamento, Enrico Ceci rimane disoccupato per alcuni mesi. In seguito, però, riesce faticosamente ad ottenere un contratto a tempo determinato in un back-office di Banca Intesa. Qualche tempo dopo riceve una proposta da Cassa di Risparmio di Cesena.

Anche come dipendente di Cassa di Risparmio di Cesena si è ritrovato a riscontrare comportamenti poco trasparenti?

«Purtroppo sì. Sono stato assunto in data primo marzo 2010 da Cassa di Risparmio di Cesena nella Filiale di Parma come apprendista, ma sono stato utilizzato fin da subito come cassiere. A fronte delle mie denunce, la Procura di Ancona ha ipotizzato i seguenti reati: art. 595 C.P. (diffamazione), 572 C.P. (maltrattamenti in famiglia), 644 C.P. (usura), 648 BIS C.P. (riciclaggio), 517 C.P. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) e ART. 55 D.lgs 231/2007. Sfortunatamente, c’è una grande differenza tra le indagini condotte su Banco Desio dal GICO di Roma e quelle fino ad ora condotte dalla Procura di Ancona su Cassa di Risparmio di Cesena. Gli Inquirenti del GICO di Roma, che hanno realizzato indagini di alto livello professionale, avevano una grande motivazione che certamente ha avuto una qualche influenza sulle decisioni della Procura di Roma. Non sono invece affatto convinto che la Procura di Ancona abbia agito in modo altrettanto efficace: il Pubblico Ministero, avendo aperto diversi fascicoli, ha infatti spezzato l’unitarietà dell’indagine. Questo, purtroppo, andrà a favorire la banca e non certamente l’ottenimento del migliore risultato in termini di un efficace perseguimento della giustizia. Per quello che ho potuto vedere, lo spirito con cui gli Inquirenti stanno indagando Cassa di Risparmio di Cesena sembra molto diverso da quello espresso dal GICO di Roma: non sono per nulla soddisfatto».

Una volta che si è reso conto della situazione presente nella filiale, come ha deciso di comportarsi?

«Anche in questo caso, ho avvisato immediatamente i miei superiori diretti. Non avendo ottenuto risposte adeguate, ho deciso di attivare una procedura di escalation informando per iscritto il management aziendale e il collegio sindacale».

Quali sono state le conseguenze della sua decisione di denunciare tali condotte poco trasparenti?

«Come al solito, sono stato licenziato. Anzi. Cassa di Risparmio di Cesena mi ha addirittura licenziato per due volte. Nel marzo 2012, infatti, il giudice ha stabilito l’illegittimità del primo licenziamento ordinando il mio immediato reintegro in filiale: un mese più tardi, la banca mi ha licenziato nuovamente. E questa volta, Cassa di Risparmio di Cesena si è pure scelta indebitamente il Tribunale dove andare a discutere la causa: ovviamente, si tratta del Tribunale di Forlì».

Che risposte ha ricevuto dalla magistratura?

«Il primo licenziamento è stato giudicato illegittimo a fronte di un mio ricorso cautelare presentato nel Tribunale del luogo ove prestavo la mia opera, cioè Parma. Per quanto concerne il secondo licenziamento, dopo aver esaminato attentamente quanto accaduto in seguito, devo constatare - mio malgrado - di non riporre alcuna fiducia nel Tribunale di Forlì. Di recente, infatti, ho presentato un ricorso alla Cassazione in cui ho evidenziato tutte le anomalie e le irritualità che mi hanno privato del giudice naturale. Per quanto riguarda la Procura di Ancona, credo che abbia trascurato una circostanza appena denunciata pubblicamente anche da Saviano: “Quando c’è la crisi, camorra e banche si alleano. Non sono più in concorrenza. Alla banca serve liquidità. Alla Camorra, alla ‘Ndrangheta, a Cosa Nostra serve il riciclaggio. Mentre a un imprenditore - per aprirgli una linea di credito - la banca gli fa un’analisi del suo DNA, per i soldi che vengono dal narcotraffico e dalle organizzazioni criminali le banche aprono conti anche a persone a zero reddito.” Nonostante io abbia portato prove circostanziate, tali evidenze non sono apparentemente state prese nella dovuta considerazione da chi di dovere».

Cosa prevede per il prossimo futuro?

«In realtà, non mi aspetto nulla di buono: certi magistrati ed alcune Procure sembrano non voler perseguire le banche con la stessa determinazione con cui perseguirebbero un comune Cittadino. Per quanto concerne il mio futuro lavorativo, credo che difficilmente riuscirò a ricollocarmi in Italia: l’influenza del sistema bancario sul Sistema Economico Italiano è troppo grande. Purtroppo, per il Sistema Italiano rappresento un problema: mi sono ribellato. Transparency International, nel suo Report 2012, mi ha considerato come l’unico whistleblower Italiano in ambito privato. Una sorta di “grillo parlante” degli anni duemila».

Qual è la sua opinione sul sistema bancario italiano, alla luce delle gravissime mancanze da lei evidenziate soprattutto etiche?

«Ritengo che il “connubio malato” tra un sistema finanziario corrotto e certi sedicenti controllori - che in realtà non controllano - sia una delle ragioni principali della decadenza del nostro Paese. Il caso Parmalat e l’esempio di certi Enti Pubblici con deficit enormi, ormai fuori controllo, sono solamente alcuni degli effetti visibili di tale meccanismo perverso».

Con il senno di poi, prenderebbe le stesse decisioni?

«Lei non ci crederà, ma rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Non sarà certo qualche “controllore controllato” a farmi cambiare idea.»

CHE GIUSTIZIA ABBIAMO IN ITALIA. ED A PARMA?

Che giustizia abbiamo in Italia? Si chiede Luigi Tedeschi su “Zerosettenews”. Per capire che tipo di giudici abbiamo in Italia basta vedere la sentenza sul caso stamina; per capire che tipo di giornalisti abbiamo in Italia basta andare a rileggersi e a rivedersi quello che è stato scritto e detto sul medesimo caso. Queste cose succedono soltanto nel Belpaese, dove la giustizia e l’informazione sono solo sommarie, nessun giudice o giornalista fa un minimo di indagine, di investigazione per appurare la verità. Solo “blablabla e bla” e così il casino è fatto, e alla fine a rimetterci sono solo gli interessati coinvolti direttamente: ammalati e familiari. Ma una volta appurata la verità, ci sarà qualcuno che pagherà per aver mal giudicato e male informato? Al Tribunale di Parma, dove la giustizia è al livello dei peggiori paesi del terzo o quarto mondo, la speranza ultima è riposta nel nuovo procuratore (che se vuole può cominciare a far cambiare il corso della giustizia cittadina), ci affidiamo e confidiamo che dia finalmente una svolta, aprendo una nuova pagina, speriamo immacolata, così che i cittadini possano finalmente ritornare ad avere fiducia nella giustizia e in questo Tribunale. Ma per fare questo, certamente, alcuni giudici, decisamente filobancari,e filomassoni dovrebbero andar via in altri luoghi, molto remoti. Ma se poi si vuole cambiare veramente tutto, ci vorrebbe un azzeramento totale, che certamente avverrà. Con gli ultimi avvenimenti che si sono succeduti in città, per le notizie che si pubblicheranno sulla stampa libera, con le intercettazioni che man mano verranno fuori, dalle oltre 25mila pagine di intercettazioni sugli scandali cittadini, faranno certamente in modo che qualcun altro prenderà un’altra aria. E speriamo presto che altri, come il prefetto, decidano di abbandonare o di andare in pensione. Certo è che se a qualcuno è rimasto un minimo di dignità, farà fagotto e lascerà il posto ad altri, speriamo più onesti e meno coinvolti con i poteri forti, politica e massoneria. È ora che si faccia un po’ di pulizia, cosa certamente molto difficile, ma non impossibile, perché quando si esagera, come accade quotidianamente qui a Parma, è veramente troppo. Speriamo che anche il Sindaco di Parma Pizzarotti (presto anche “presidente della Provincia”), che tanto si autoelogia con la sua politica trasparente e “dei fatti”, si muova anche lui con la sua Amministrazione in questa direzione e lavori con la sua politica contro questo cancro che attanaglia la città e le sue principali istituzioni. Speriamo certamente anche nell’opinione pubblica correttamente informata, dove queste anomalie le hanno ben presenti, perché con chiunque parli e a chiunque chiedi, certo nessuno si esima dal dire che qui a Parma si vive una situazione totalmente anomala, sperando che il peggio sia al capolinea. Noi faremo la nostra parte, con la nostra informazione libera e fuori dagli schemi, per raccontare ai cittadini la verità sui fatti (ahimè) devastanti, anche se la fresca legge, appena approvata, sulla responsabilità della magistratura, sembra andare nella giusta direzione, perché anche i giudici che giudicano male, devono essere sottoposti a giudizio, e mi sembra – questa si – una cosa giusta, perché nessuno deve essere al di sopra della legge, altrimenti che legge e giustizia è?

Banca Monte Parma, fine di una storia, continua Tedeschi. Un altro capitolo si è chiuso. Un’altra brutta storia di Parma si è conclusa. Una triste squallida storia della Parma truffaldina è finita. 500 anni e passa di banca, bruciati nell’arco di 4-5 anni di gestione scellerata con colpevoli zero. Questa è la Parma che amano i Parmigiani? La Parma collusa, la Parma truffaldina, la Parma dell’impunità. Banca Monte Parma è morta, mangiata ancora viva da amministratori ladri e nessun giudice, nessun p m, nessun procuratore nessun dirigente o dipendente ha mosso un dito per sapere cosa è successo. Tutto normale. Una banca muore soffocata dai debiti e nessuno è colpevole. Ma chi dovrebbe indagare o doveva indagare: dov’è? Cosa si nasconde nelle viscere di Banca Monte Parma, che nessuno deve sapere, perché a Siena sì e a Parma no? Un misterioso e sporco gioco cela la verità. E ai Parmigiani, a questa città, ai suoi abitanti, a nessuno importa nulla di essere stati derubati di questa realtà, né la gente,  ne la provincia ne il comune né i sindacati, né i giudici, né gli stessi dipendenti hanno fatto nulla e non si sa perché, né la fondazione, , né gli azionisti, è tutto un silenzio tombale. Ma chi riempirà quel buco nero? Quella voragine di debiti che la banca e i suoi amministratori hanno generato? Ma questa città vi sembra una città normale? Come si può vivere in una città come Parma, come si può fare il mestiere di giornalisti e non informare su che cosa è successo in Banca Monte Parma negli ultimi anni? Perché nessuno parla? E’ mai possibile che con i denari rubati si riesce a comprare il silenzio di tutti? Ci sono piccole aziende che per un fallimento di 30-40mila euro vengono sbattute in prima pagina dai giornali locali e poi quando si tratta di una delle più grandi banche cittadine, con ben 500 anni di gloriosa storia bancaria, tutto tace, il silenzio è d’obbligo. Ma in che cazzo di città sono venuto a vivere? E poi si parla di camorra, ‘ndarngheta, mafia. Perché, questo cos’è? Chi copre il silenzio di questo enorme scandalo? Politici, magistratura, stampa, tutti d’accordo. “Ha da passà ‘a nuttata”, ma la nottata si è portata via un pezzo di storia di Parma, di una città senza orgoglio, dove tutto si trasforma ma nulla cambia, tutto si adatta, come la nuova Amministrazione pizzarottiana, assurdamente in linea con le regole già scritte da secoli. A Parma bisogna fare così, esiste una legge segreta che nessuno può cambiare. Perché se ci provi sei finito. Si alzano altre insegne, Intesa Sanpaolo, e tutto continua come prima, come se nulla fosse successo. Ma è successo.

Dare a Cesare quel che è di Cesare… caso Lavagetto, afferma Luigi Tedeschi. Giampaolo Lavagetto, condannato a 18 mesi di reclusione in primo grado per avere usato il telefonino del comune per collegarsi a siti internet porno. 18 mesi!! Già di per se 18 mesi sono una condanna che in Italia non si dà neanche agli assassini, anzi, certi assassini sono tuttora a piede libero. Giampaolo Lavagetto, secondo l’accusa, passava sui siti porno circa 20 ore al giorno e le altre 4 dormiva? Questo non possiamo saperlo. Ora, se anche uno volesse visitare siti porno per qualche ora al giorno, uno un po’ sgamato, come minimo nelle ore che non usa questo collegamento, lo stacca, ma lui è così ingenuo da lasciarlo collegato. Mi sa tanto di “villania” questo comportamento. Ma andiamo avanti. Se uno fa una cosa in maniera abusiva certamente sarà così furbo da non farsi scoprire, no, lui no, è talmente sprovveduto, o sicuro di sé, che dice: “Chissenefrega”, ma voi credete che questo fatto sia credibile? Lo è per il giudice che lo ha condannato a 18 mesi, ora Lavagetto è in attesa di giudizio da ben tre anni, nel frattempo Telecom ha ammesso di aver sbagliato ad addebitare al comune quelle fatture perché c’era stato un errore e che non c’era nulla di vero nel collegamento di 20 ore al giorno ai siti porno. Il Comune ha ammesso che Lavagetto non aveva mai usato quel telefono per i collegamenti alle linee porno. E Lavagetto, ahimè colpevole perché condannato, deve aspettare l’appello nella speranza che un altro giudice, guardando le carte, gli renda giustizia. E intanto lui cosa fa? E’ distrutto, politicamente e professionalmente, e di chi è la vera colpa? A Parma vige la legge del “menga”, chi lo prende in “c…” se lo tenga. I veri colpevoli sono liberi (si fa per dire) e gli ingenui innocenti vanno condannati. Fabrizio Castellini, direttore della Voce di Parma, condannato svariate volte dai giudici di Parma in primo grado, in appello ha sempre vinto e alcuni dei suoi accusatori di ieri oggi sono in galera e qualcun altro presto vi finirà. Per tutti il tempo è galantuomo, speriamo che lo sia anche per Lavagetto. A Parma la giustizia la si vede solo di schiena perché non si sa che faccia ha. E se qualche volta vi capita di vederla è per un puro colpo di c…, non certo per i giudici, ma verrà il giorno in cui la giustizia trionferà anche a Parma. Intanto sulla Voce di Parma di questa settimana sarà pubblicata la lettera che il procuratore Laguardia, con il più clamoroso degli autogol, ha inviato al direttore Castellini. Per chi vuol saperne di più, vi rimando al numero in edicola di questa settimana. A volte si perde la testa, ma solo se la si ha, buona lettura. Ora, tirate le giuste conclusioni e date a Cesare quel che è di cesare. Intanto si consuma nell’arena della politica l’ennesima truffa ai danni del popolo. Ormai spero non più bue ma toro. E c’è da augurarsi che tanti politici e giudici finiscano nelle patrie galere, questi sì, a scontare le loro malefatte.

Giudici venduti, scrive Marcello Valentino su “ZeroSetteNews”. In questa città, in questo Paese, ci sono giudici e avvocati che si vendono l’anima la mente e il corpo per un tozzo di pane, mortificando la giustizia per il loro tornaconto. Ma bisogna dire che questi esseri immondi sono anche coraggiosi che pur vendendosi non hanno paura della resa dei conti e mettono a repentaglio la loro vita e quella dei loro cari per perseguire non i loro sporchi interessi ma quelli di terzi, che li hanno a libro paga, non temendo le eventuali reazioni dell’ingiustizia perpetrata. Un tempo, ma neanche tanto tempo fa, i partigiani fecero giustizia sommaria casa per casa, di tutti coloro che erano stati iscritti nel libro nero dei collaborazionisti o pseudo tali, dei fascisti venduti che avevano infierito sugli inermi con il loro grande potere. Non hanno paura questi esseri che la cosa si possa ripetere in un prossimo futuro? Non hanno paura questi venduti che presto potrebbe arrivare una nuova resa dei conti? E chi saranno i ricercati per dar conto del loro operato? I soldi sono più forti di qualsiasi altra cosa, corrompere è un gravissimo reato, ma chi ha i soldi non bada a queste cose, pur di raggiungere il proprio fine, ma è chi si fa corrompere che commette l’atto più abominevole che possa esistere sulla faccia della terra, perché non solo lo fa per denaro, ma impedisce ad un suo simile di ottenere giustizia. In Italia i più grandi corruttori di giudici e avvocati sono le lobby bancarie. Le banche che comprano i giudici tramite i loro legali negano ai cittadini la giustizia, facendo in certi casi togliere loro la vita, quindi queste lobby, queste banche sono dei veri e propri assassini. E chi li condanna? Le banche hanno le mani sporche di sangue e questo gli avvocati e i giudici corrotti lo sanno, quindi sono complici delle banche perché tramite loro hanno ucciso. In gergo si dice: mandante ed esecutore del crimine. Io mi chiedo cosa fa la politica di fronte a tutto questo? La risposta è: connivenza. Che differenza c’è se questo crimine lo commettono le banche tramite gli avvocati e i giudici con la connivenza dello Stato o se lo commette la mafia. La stessa identica cosa fatta con la legge e senza la legge. Comunque ambedue senza giustizia. Tra le due la peggiore è quella con la legge, ma prima o poi la legge arriverà casa per casa, per fare giustizia contro la legge non legge e contro le mafie senza legge, perché la giustizia comunque alla fine trionferà su tutti. La storia ce lo insegna, nessun dittatore è sopravvissuto alla sete di vera giustizia del popolo, e tutti si dovranno sottoporre ad essa, perché inesorabilmente arriverà. È l’unica bandiera universale che continua a sventolare, gli uomini diventano polvere, gli ideali continuano a vivere per l’eternità, di padre in figlio per il resto dell’umanità. Tanti dovrebbero cominciare ad aver paura per quello che stanno insegnando ai propri figli.

Banche usuraie, Stato connivente, tribunali corrotti, afferma Marcello Valentino. Quando un usuraio ti presta i soldi a strozzo viene condannato dallo Stato, gli sequestrano i beni e va in galera. Se lo stesso reato lo commette una banca lo Stato non fa nulla. La giustizia, il cittadino, la deve andare a cercare nell’aula di un tribunale. E qui viene il bello. Uno su mille ce la faceva fino a ieri. Da oggi a Parma, ma credo anche in altre città, c’è un gruppo di esperti formato da consulenti, periti e avvocati che hanno deciso di fare la guerra alle banche per cui se avete problemi di usura e anatocismo vi potete rivolgere a queste persone che in modo del tutto gratuito vi danno una consulenza sulla vostra situazione. Persone che hanno affrontato il problema direttamente con una considerevole esperienza sia sull’usura che sull’anatocismo, che spiego qui ancora una volta cosa significa. L’anatocismo è semplicemente il ricalcolo degli interessi sugli interessi fatto dalle banche ogni tre mesi. Le banche commettono questi reati di usura ed anatocismo quotidianamente, sia sui conti aziendali sia su quelli personali, ma anche su mutui e leasing. Non c’è una sola banca che non fa questo quotidianamente. Perché lo fanno? Perché sanno matematicamente che solo un cittadino o un’impresa su mille le faranno causa, quindi hanno tutta la convenienza. Lo Stato, poi, in questo è totalmente connivente perché permette alle banche di fare i loro porci comodi. La maggior parte degli usurati non verrà mai a sapere di quello che le banche perpetuano sui loro conti correnti giorno dopo giorno. Uno per l’ignoranza totale, due per una fottutissima paura di perdere i fidi e gli affidamenti. Ora, così facendo, le banche tolgono alle imprese nell’arco di dieci o più anni tanti soldi che potrebbero permettere alle stesse di lavorare meglio, di ingrandirsi, dare lavoro. Oggi cosa è successo in Italia con questa profonda crisi? In primis è venuta a mancare la liquidità perché è stata sottratta a tutte le imprese da queste banche ladre che in maniera sistematica l’hanno sottratta. Due, è venuto a mancare il lavoro. Oggi qualsiasi impresa facesse periziare i mutui e i conti correnti che ha contratto nel tempo scoprirebbe che le banche le hanno rubato cifre mostruose. Oso dire che se tutte le banche restituissero il maltolto alle imprese avremmo sui nostri conti correnti una liquidità impressionante e la nostra situazione attuale sarebbe totalmente capovolta. Vi sembra una favola, eppure è la triste realtà. La nostra ricchezza se la sono mangiata le banche. Voi mi prenderete per pazzo ma tutto questo è dimostrabile in qualsiasi momento. Già decine di migliaia di imprese sono in causa con le banche e a tante è stato restituito il ladrato maltolto. Ma tante sono in attesa di processi lunghi e farraginosi. L’errore comune che si commette quando si inizia un processo contro le banche è quello di affidarsi e di fidarsi di avvocati incompetenti che ti consigliano di fare una causa civile e non penale. L’errore è gravissimo perché il processo civile costa tre volte quello penale e dura più del triplo. Quindi se decidete di fare causa alla vostra banca, e ne avete tutto il diritto, fate periziare i vostri conti, mutui o leasing per usura. Questa è l’arma vincente. Con l’usura si inizia un processo penale nel quale vi costituirete parte civile per i danni subiti. Il processo penale vi darà un grande vantaggio. Intanto perché la banca ha commesso un reato penale e questo per i giudici non è un fatto da poco e poi perché come usurati entrate in un programma protetto dallo stesso Stato e potrete accedere a dei nuovi finanziamenti senza dover ricorrere alle banche per la vostra attività. E veniamo ai tribunali. All’interno dei tribunali ci sono i giudici e alcuni di questi sono totalmente filobancari, cioè sono a favore delle banche: perché? Perché colluse con esse per vari favori, tipo mutui particolarmente agevolati, affitti di comodo in appartamenti di proprietà delle banche e conti correnti particolarmente vantaggiosi e chi più ne ha più ne metta. Il tribunale di Parma con i vari trascorsi e processi vari che non sto qui ad elencarvi, ci ha dato un largo esempio di cosa vuol dire giudici filobancari che comunque non sono gli unici. Anche alcuni periti e ctu alla corte di questo tribunale sono filobancari. Un intreccio di avvocati, giudici e periti fanno sì che il tribunale di Parma vada evitato per queste cause. Ma comunque, anche se la causa si svolgesse nel tribunale di Parma, basta rivolgersi a periti giusti e avvocati competenti che, anche qui, di fronte a prove certe, la giustizia farà il suo corso, volente o nolente. E i giudici filobancari possono essere ricusati e chiedere di spostare il processo ad altro giudice. Questo potrà allungare solo i tempi ma comunque quando la prova dell’usura c’è, la causa sarà certamente favorevole a chi la promuove. Ora, la domanda da porsi è questa: perché quello che dovrebbe essere un sano rapporto tra cliente e banca in Italia si trasforma in un continuo ladrocinio delle banche nei confronti dei loro clienti? E se tutti i soldi che le banche hanno rubato ai loro clienti venisse loro restituito, come andrebbe l’economia italiana? E come mai lo Stato di fronte a questo problema enorme non interviene? Ebbene, sono arrivato ad una conclusione: se le banche non avessero rubato tutti questi soldi dai conti di ognuno di noi, saremmo una delle economie più solide dell’Europa. Mancano all’appello dalle tasche di ogni correntista italiano miliardi di euro, dico miliardi. E i ladri sono le banche colluse con lo Stato ed i tribunali (alias avvocati, periti, giudici). Senza questo meccanismo l’economia, le aziende, il Paese sarebbe un tutt’altra situazione. E lo Stato, i politici, la giustizia, le tv, i giornali, continuano a parlare di altre cose senza occuparsi di questo gravissimo problema che è alla base della nostra economia. L’enorme quantità di denaro che le banche sottraggono a chi l’economia la fa quotidianamente ha ridotto il Paese nella situazione attuale. Urge una legge che restituisca il maltolto. Se quella massa di denaro fosse in circolo nell’economia reale noi non saremmo in questa situazione. Non mi sembra una cosa difficile da capire.

Pupi e pupari, continua Marcello Valentino. Alla luce di quello che stanno rivelando le intercettazioni telefoniche tra Vignali e i vari attori politici e non che inciuciavano in città e cercavano, e hanno fatto, di Parma un vero sistema di poteri corrotti fino al midollo, dove i papabili hanno occupato ed occupano posizioni di potere, cosa c’è da chiedersi? Se questo non era mafia, camorra, ‘ndrangheta o come la volete chiamare? Quando la sera i Parmigiani si accomodano davanti alle tv locali per guardare ciò che mettono in scena nei confronti di un pubblico da addomesticare e da addormentare indottrinandolo con cose così lontane dalla realtà c’è da credere, per chi ci crede, che la truffa si consuma anche, e principalmente, in tv. C’è da credere o non credere anche nella buona fede o mala fede dei giornalisti addetti. Allora perché Pizzarotti e soci si prestano ad andare in tv, quando queste, al pari di tante altre realtà, sono lì solo per deformare la realtà volutamente e dare ai Parmigiani ignari una versione alterata delle cose? C’è da chiedersi chi esercita il vero potere in città e come lo esercita e di chi è prigioniera la cosa pubblica. Dalle intercettazioni si capisce che i politici sono costantemente alla ricerca di prestiti per far fronte alle spese dell’Amministrazione e a chi li chiedono i soldi? E’ facile intuirlo: alle banche. E le banche a fronte di quali garanzie e a quali interessi li prestano? E se l’ex Sindaco Vignali e la sua Giunta era schiavo di questi metodi, in che situazione è l’Amministrazione dell’attuale Sindaco Pizzarotti? Dove li va a prendere i soldi per pagare i debiti arretrati e quelli correnti? Chi glieli dà? (Beppe Grillo o le banche?). E quali banche continuano a foraggiare e sostenere il debito di Parma? In tv si parla di tutto, o per meglio dire: di tantissime cazzate, ma mai di questo problema, che è poi il più grave di tutti, perché senza soldi non si cantano messe. E allora Pizzarotti a chi li chiede e chi glieli dà? A quali porte va a bussare il Sindaco e quali sono le banche che continuano ad elargire soldi al Comune? E in cambio di cosa? A che punto è la tanto strombazzata trasparenza dell’Amministrazione 5 Stelle? Vorrei tanto fare un’intervista a Pizzarotti. Sono quasi due anni che lo chiedo. Ma la risposta è sempre: “Niet”. “Con ZeroSette non parlo, parlo solo con chi certe domande non le fa”. E grazie al cazzo, è così che si fa in politica, alle domande scomode non si risponde mai. E poi, che risposte ci potrebbero essere di fronte alle banche che ti strozzano e ti negherebbero qualsiasi altro prestito se solo osi loro sparare contro? Di fatto anche il Comune di Parma è prigioniero dei giochi dei banchieri: o accetti le nostre condizioni o soldi nisba. La solita storia, con i soliti protagonisti e il solito strozzo. Ma se i politici non hanno il potere di ribellarsi a queste situazioni, che speranza c’è per l’Italia in balìa delle banche, e che speranza può avere Parma con l’enorme debito pubblico che ha e di cui si fa finta di ignorarne l’esistenza? E al Comune cosa può importare di tutto questo, non è mica un debito suo, è di tutti i Parmigiani che hanno permesso e permettono tutto questo. Allontanati e addomesticati come sono dalle varie forme di informazione che regnano in città, che in primis occupano le posizioni di comando e da lì fanno il bello e il cattivo tempo a danno di tutti i Parmigiani. Campa cavallo che l’erba cresce, anche se quest’erba costerà sempre più cara agli ignari Parmigiani. Ma forse dal momento all’altro un bel fallimento arriverà, e anche le banche e i banchieri se la dovranno andare a prendere in quel posto e chi ce li avrà mandati? Chiediamolo ai politici che una volta tanto saranno riusciti a mettergliela in quel posto anche a loro. Vuoi vedere che poi questo Pizzarotti non è così grullo? Ah, volevo dire Grillo. Cari lettori, volendo fare il punto della situazione delle intercettazioni c’è da farsi una domanda: chi è il puparo e chi è il pupo? O chi sono i pupari e chi i pupi? La risposta è abbastanza facile. A chi ha pestato i piedi Vignali? E chi era così potente e chi è così potente a Parma da far muovere altri pupi al suo posto per far fuori Vignali e la sua Giunta più gli altri attori da 4 soldi presenti nella scena in città. Una carrozza della metro, senza binari e senza stazioni ha scaraventato i suoi occupanti nella Parma in piena. Di certo il puparo ha usato i pupi e i pupi non parleranno, ma tutto questo è sotto gli occhi di tutti. Attento Pizzarotti che prima o poi potrebbe toccare anche a te, se si frequenta lo zoppo, prima o poi si impara a zoppicare.

POVERA PARMA. UNO SCANDALO TIRA L'ALTRO.

Bancarotta Parmalat, sotto accusa gli ex campioni del Parma. Quello che negli anni '90 è stato il grande Parma di Calisto Tanzi, rischia di finire nelle aule di un Tribunale a causa del crac Parmalat. Nel filone che riguarda il fallimento della società emiliana, sono finiti anche undici ex giocatori. l pubblico ministero Paola Dal Monte ha chiesto il rinvio a giudizio per 11 campioni del Parma con l'accusa di bancarotta fraudolenta per distrazione, in concorso con Callisto Tanzi e l'ex direttore commerciale del Parma Domenico Baril. Si tratta di Sebastian Veron, Faustino Asprilla, Luigi Apolloni, Enrico Chiesa, Lilian Thuram, Dino Baggio, Hernan Crespo, Hristo Stoichckov, Tomas Brolin, Lorenzo Minotti e Massimo Crippa. Alla base della richiesta della procura la firma di falsi contratti di sponsorizzazione e promozione di prodotti Parmalat, tramite i quali sarebbero stati distratti dalle casse di Collecchio quasi 10 milioni di euro e oltre 11 milioni di dollari tra il 1992 al 2003. Da Crespo a Thuram, da Veron ad Asprilla, 11 ex giocatori della squadra di Calisto Tanzi sono finiti nel mirino deil pm per aver firmato falsi contratti di sposorizzazione per i prodotti della Parmalat, scrive “La Repubblica”. L'accusa è quella di avere firmato falsi contratti di sponsorizzazione e promozione dei prodotti Parmalat, un escamotage per sottrarre dalle casse dell'azienda di Collecchio oltre 11 milioni di dollari dal 1992 al 2003. Formalmente è bancarotta fraudolenta ed è quella rivolta dal pm parmigiano Paola Dal Monte a undici campioni del passato crociato: Hernan Crespo, Sebastian Veron, Faustino Asprilla, Luigi Apolloni, Enrico Chiesa, Lilian Thuram, Dino Baggio, Hristo Stoichckov, Tomas Brolin, Lorenzo Minotti e Massimo Crippa. Per riuscire a garantire gli ingaggi, facendo in modo che non pesassero troppo sul Parma calcio, Calisto Tanzi e l'ex direttore commerciale Domenico Barili avrebbero siglato con i singoli calciatori, o con le società che curavano la loro immagine, contratti di promozione e pubblicità del brand e dei prodotti Parmalat. Prestazioni che in realtà - si legge nella richiesta di rinvio a giudizio - non venivano in alcun modo eseguite o erano del tutto inadeguate all'entità del compenso pattuito. Ed i calciatori, secondo quanto ricostruito dalla Finanza di Bologna, staccavano fatture periodiche attestanti le fittizie prestazioni eseguite. E' questo l'ultimo filone del crac Parmalat che oltre ai giocatori vede coinvolti, sempre con l'accusa di bancarotta fraudolenta per distrazione in concorso, anche 15 ex dirigenti, consiglieri, sindaci e procuratori del Parma Calcio, per un totale di 26 persone. A queste si aggiungono Tanzi e suo figlio, che per questo filone di inchiesta hanno già chiesto di patteggiare due mesi in continuazione con le altre condanne. Di che cosa si tratta nello specifico? Spiega Pietro Razzini su “La Gazzetta dello Sport”. Il grande Parma, che è rimasto per anni ai vertici in Italia e in Europa, poteva usufruire in campo delle prestazioni di atleti che facevano gola alle big del Vecchio Continente. Per garantire loro gli ingaggi, assicurandosi che quelle cifre non pesassero troppo sulla società sportiva, fu usato uno stratagemma, secondo quanto riferito dalla procura. Tanzi e Barili avrebbero siglato contratti di promozione del brand e dei prodotti Parmalat con i singoli calciatori o con società a loro riconducibili. “Prestazioni che in realtà non venivano in alcun modo eseguite ovvero erano del tutto inadeguate all'entità del compenso pattuito”, si legge nella richiesta di rinvio a giudizio. Quindi, riassumendo, Parmalat pagava ma i calciatori, sempre secondo quanto ricostruito dalla Finanza di Bologna, avrebbero fatto fatture periodiche “attestanti le fittizie prestazioni eseguite”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Parma, indagata la comandante dei vigili: “Al lavoro con l’auto blu”. Patrizia Verrusio, a capo della polizia municipale, è stata pizzicata più volte in stazione a bordo di una vettura con autista che l'accompagnava dai binari al comando centrale. Dopo la denuncia del Partito comunista del lavoratori, ora saranno i magistrati a fare chiarezza sulla vicenda. La giunta Pizzarotti aveva sempre difeso la donna: "Azione svolta già in orario di lavoro", scrive Silvia Bia su “Il Fatto Quotidiano”. Saranno i magistrati a fare chiarezza sui passaggi in auto del comandante della polizia municipale di Parma Patrizia Verrusio, pizzicata più volte in stazione a bordo di una vettura con tanto di autista che ogni mattina la accompagna dai binari al comando dei vigili. Il fatto era stato denunciato dal Partito comunista dei lavoratori – Sezione Frida Kahlo e ora la Procura ha aperto un’indagine per peculato. Si tratta di un atto dovuto, come riporta la Gazzetta di Parma, visto che sul comportamento del comandante il Movimento Nuovi Consumatori (già in contrasto con la giunta Cinque stelle per la questione degli autovelox) aveva presentato in Procura un esposto-denuncia. Di certo però la questione rappresenta un nuovo problema per il sindaco Federico Pizzarotti. Era stato il primo cittadino, insieme all’assessore alla Sicurezza Cristiano Casa, a scegliere la Verrusio come guida del corpo di polizia municipale con una selezione indetta dopo non avere rinnovato il contratto all’ex comandante Alessandro Cimino, vincitore di un concorso pubblico indetto in epoca commissariale e ora in causa con l’amministrazione comunale. Senza contare che sempre la Verrusio già nei primi mesi del suo mandato ha avuto diversi contrasti con i sindacati per il suo modo di fare autoritario nei confronti degli agenti ed è stata al centro delle polemiche per aver posizionato due autovelox in tangenziale che hanno mietuto centinaia di multe. Il Comune ha però sempre fatto quadrato intorno al comandante. La denuncia del Pcl documentava per diversi giorni con tanto di fotografie la donna scendere ogni mattina dal treno a Parma e salire a bordo di un’auto civetta guidata da un autista, per poi dirigersi al comando della municipale di via del Taglio. Il caso era scoppiato in consiglio comunale e l’opposizione aveva chiesto di fare chiarezza sul contratto stipulato con il comandante e in particolare di verificare se l’utilizzo dell’auto della municipale fosse compreso come benefit. Ma da piazza Garibaldi era arrivata una sola giustificazione: essendo un pubblico ufficiale, il comandante della municipale è sempre in servizio quando è sul territorio di Parma, e quindi anche quando arriva alla stazione. “Il comandante della polizia municipale è sempre in servizio, ogniqualvolta si trovi sul territorio comunale, con compiti ispettivi e di controllo, anche genericamente intesi, comunque finalizzati al presidio diretto nei luoghi di competenza” avevano scritto dal Comune, che quindi riteneva l’utilizzo dell’auto da parte della Verrusio “un uso di servizio” e non un uso privato. Un’interpretazione dei fatti che ora dovrà passare al vaglio dei magistrati, mentre sul caso e sui Cinque stelle piovono nuove polemiche. “Il caso della Verrusio intendeva sollevare il velo sulla doppia morale dei consiglieri e degli amministratori a Cinque Stelle, che hanno colpevolmente taciuto su un comportamento che richiamava ai principi ritenuti imprescindibili dell’etica – ha commentato il Pcl – Un Movimento Cinque Stelle che adotta una linea legalitaria ad intermittenza: pronta a stigmatizzare manifestazioni popolari di piazza, bollandole come “politiche” (che ai loro occhi deve avere un’accezione negativa, come confermerebbe il loro modo di tenere la nostra “polis”) ed avvallandone una conveniente militarizzazione, ma omertosa nel denunciare i comportamenti moralmente o penalmente eccepibili di un loro componente”. Dopo che il caso è arrivato in Procura, anche il Comune ha avviato un’indagine interna sul comportamento della Verrusio. Lo ha confermato di fronte al consiglio comunale l’assessore alla Sicurezza, che ha anche assicurato che si confronterà con il sindaco per valutare se sospendere temporaneamente il trasporto del comandante dalla stazione a via del Taglio, in attesa che venga fatta chiarezza.

Era partito come uno sbuffo di neve su una montagna il caso dell’auto di servizio della comandante dei vigili urbani di Parma Patrizia Verrusio. Due auto civetta della Municipale con autista, utilizzate quotidianamente per andarla a prendere alla stazione ferroviaria e portarla in ufficio, scrive Simone Aiolfi su “7per 24”. Ma con il passare dei giorni la neve sta diventando valanga, e ormai siamo arrivati all’esposto in procura per appropriazione indebita. Alla denuncia depositata dal Movimento Nuovi Consumatori si aggiungono le richieste di spiegazioni da parte dell’opposizione in consiglio comunale e a un’interrogazione del Pdl alla giunta regionale. Tutto è iniziato con una denuncia del Partito Comunista dei Lavoratori (PcL) di Parma. Con tanto di consistente documentazione fotografica, alcuni esponenti del partito hanno puntato il dito contro quella che sembra una prassi per gli spostamenti della comandante della Municipale di Parma. Nella nota del PcL si legge che “la signora giunge nella nostra città ogni mattina e ritiene etico e morale il farsi venire a prendere alla stazione ferroviaria dalle auto civetta della Polizia Municipale, con tanto di autista. Un comportamento che abbiamo potuto verificare non essere occasionale o estemporaneo ma parte della pratica quotidiana: ogni mattina in cui è in servizio, alle 8 l’auto civetta è lì, con autista annesso”. La vicenda è significativa non tanto dal punto di vista degli eventuali rilievi giudiziari, la cui sussistenza verrà verificata dalla magistratura. E’ un’altra la domanda che molti parmigiani oggi si fanno: è moralmente sostenibile un comportamento del genere da parte del comandante del corpo dei Vigili urbani in una città a guida grillina? Città la cui giunta si è auto decurtata i non elevatissimi emolumenti, tagliate le auto blu e dove il sindaco si fa vanto di viaggiare quasi sempre in bicicletta? Imbarazzata, e per certi aspetti imbarazzante, la risposta dell’assessorato competente. Nella nota, rilasciata qualche ora dopo l’esplosione del caso, si legge infatti che “Patrizia Verrusio riveste la qualifica di pubblico ufficiale e ufficiale di polizia giudiziaria. Tali qualifiche comportano, al di là della presenza in servizio sul luogo di lavoro, l’obbligo di intervento su qualsiasi situazione critica riscontrabile nell’ambito del territorio del Comune. Per questo si può ritenere che il comandante della Polizia Municipale sia sempre in servizio, ogniqualvolta si trovi sul territorio comunale, con compiti ispettivi e di controllo, anche genericamente intesi, comunque finalizzati al presidio diretto nei luoghi di competenza. L’utilizzo della vettura della Polizia Municipale, in questo caso, non è quindi da intendersi come uso privato, ma semplicemente di servizio”. Una replica che non smentisce e, per certi versi, rappresenta una toppa peggiore del buco. Nell’ultimo consiglio comunale la minoranza ha fatto notare infatti che, stando così le cose, tutti i vigili di Parma avrebbero lo stesso diritto all’auto “blu” di servizio. Tutti, infatti, sono pubblici ufficiali. Per tutta risposta, la giunta grillina si è limitata a rileggere lo stesso comunicato di cui sopra. L’ultimo capitolo è rappresentato da un’interrogazione alla giunta regionale del capogruppo del PdL Gianguido Bazzoni, che parla di “vicenda equivoca” dal momento che vi sono stati finanziamenti regionali erogati al Comune di Parma sulla base di un accordo di programma specifico per lo sviluppo del corpo di polizia municipale della città ducale. Secondo Bazzoni i finanziamenti sarebbero stati erogati in particolare per “adeguamento delle strutture e delle attrezzature”, tra cui il “rinnovo parco veicoli in dotazione” con la specifica attività dell’ “acquisto di veicoli idonei a svolgere al meglio le attività di competenza”. A dispetto del periodo estivo, la bufera è appena all’inizio.

L'ira dei legali: basta con la gogna dei pm. Dalle inchieste Pdl al capo dei vigili in manette: il procuratore Laguardia nel mirino per la "spettacolarizzazione mediatica", scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Un ammonimento, due ammonimenti, tre ammonimenti nel giro di poche settimane. Insomma, non è proprio un comportamento di asettico distacco dai fatti e dalle persone. Inevitabile il cartellino rosso della protesta, alzato assieme all'ultima, durissima nota, dagli avvocati di Parma e dintorni, che puntano il dito contro l'operato della locale Procura. Un coro di critiche di cui si è fatto portavoce l'avvocato Paolo Moretti, presidente della Camera Penale, motivate dall'eccesso di spettacolarizzazione mediatica e dalla sistematica fuga di notizie che caratterizzano la gestione del procuratore capo «reggente» (anche se abbondantemente scaduto, secondo la legge), Gerardo Laguardia fin dai primi arresti di due anni fa nell'ambito delle varie operazioni Green Money e Easy Money (coinvolti a torto o ragione alcuni politici e personaggi di centrodestra e quindi non particolarmente amati dalla magistratura locale) e che ha trovato nuove conferme, recentissimamente, nell'inchiesta, pur di tutt'altro tenore, Stolen Tax. La nota dei penalisti di Parma non lascia molto spazio alle libere interpretazioni: «Rilevato che sempre più spesso, nell'ultimo periodo, il cortocircuito mediatico-giudiziario si manifesta in modo patologico immolando sull'altare di una malintesa libertà di informazione i diritti fondamentali delle persone, presunte innocenti per garanzia costituzionale, ritratte in occasione dell'esecuzione di misure cautelari e delle quali vengono diffusi dati personali; che tale deriva trova le sue cause anche in una recente prassi di taluni organi inquirenti di indire conferenze stampa nel corso delle quali vengono riferite risultanze di attività investigative ancora in fase di indagini preliminari e, in taluni casi, perfino i nominativi di indagati del tutto all'oscuro dell'esistenza stessa del procedimento invita il Consiglio direttivo della Camera penale, qualora simili episodi avessero a ripetersi, a valutare l'opportunità di assumere forti iniziative di protesta, anche mediante la proclamazione di giornate di astensione collettiva dalle udienze». Libera gogna in libera Procura, dunque per dirla in altre parole. Come quando, era l'alba del 24 giugno 2011, l'ex comandante dei vigili urbani, Giovanni Maria Jacobazzi venne prelevato a casa e arrestato ma, come dire, al rallentatore, per dare il tempo a fotografi e cameramen avvisati dalla Procura, di arrivare sul luogo. La storia non cambia e certe abitudini della Procura nemmeno, se è vero come è vero, che già allora i penalisti di Parma denunciarono pubblicamente: «Passerelle forzate di arrestati davanti a telecamere e macchine fotografiche, ritardata iscrizione nel registro degli indagati, carcere per convincere gli indagati a collaborare, interrogatori dei fermati fatti passare come sommarie informazioni come alcune delle prassi adottate dalla magistratura e dalle forze di polizia locali di Parma». «Prassi censurabili» rilevate a livello locale. Un riferimento diretto alle indagini sulla corruzione in Comune, Green Money ed Easy Money, che portarono poi, guarda caso, alla demolizione dell'amministrazione comunale di centrodestra. I penalisti contestarono allora pratiche ben precise, al limite della violazione del codice di procedura penale come «la ritardata iscrizione nel registro degli indagati di persone che di fatto già da tempo erano destinate ad assumere tale veste», un escamotage che permetterebbe di prolungare la durata della fase delle indagini preliminari o privare fin dall'inizio delle necessarie garanzie difensive. E ancora la raccolta di dichiarazioni autoindizianti da parte dei fermati, interrogati dalla polizia giudiziaria senza la presenza di un avvocato, «facendo capzioso ricorso alla forma delle dichiarazioni spontanee».

Garantisti a senso unico, niente da dire sulla morte del giudice Scippa? Si Chiede “Nave Corsara. A Parma il 18 gennaio 2013 si è suicidato il giudice Paolo Scippa. Aveva 44 anni, si è sparato un colpo con la sua P 38, lascia due figli. Aveva emesso la sentenza sul caso Bonsu, si era occupato del processo sull’omicidio del camorrista Raffaele Guarino a Medesano. Leggo di lui sulla Gazzetta di Parma di oggi, 19 gennaio 2013: «Diplomato con la maturità scientifica, laureato in Giurisprudenza a Pisa, Scippa era nato a La Spezia. E da La Spezia era arrivato a Parma. Negli ultimi tempi, era stato oggetto di una campagna di stampa portata avanti da un settimanale locale. L’accusa? Aver falsificato la firma di una cancelliera del tribunale della sua città d’origine, perché una sentenza da lui stesso emessa figurasse depositata entro i termini». Dato che non ci piacciono le cacce al tesoro, quando si tratta di informazione, gradiremmo sapere qual è la testata che accusava il giudice Scippa. Chi sa, parli. Invece di giocare agli indovinelli. Dato lo stato di allerta di stuoli di garantisti nelle ore ferali dell’arresto del Quartetto parmigiano, si vorrebbe sapere da costoro se hanno qualcosa da dire al riguardo. Crediamo di no. Probabilmente godranno che giornalisti e magistrati si massacrino fra loro, dentro e fuori metafora: A loro non interessa il trionfo della giustizia, ma l’assoluzione dei loro beniamini. Che non dovevano neppure essere incriminati. Che si scornino tra di loro i magistrati, come le diverse cosche della malavita. I politici ricambiano i loro supporter con favori e sorrisi. Si è mai visto un giudice essere carino con chi è rispettoso della legge. Ecco la differenza. Il valore numero uno del garantista è la gratitudine. Non la giustizia. Il garantista non è una persona giusta. È un sentimentale. Facile alla commozione. Per le sorti dei suoi.

L'ex capo dei vigili di Parma indagato senza sapere perché. Fatto arrestare in diretta tv dal procuratore Laguardia, Jacobazzi dopo quattro anni non ha ancora ricevuto accuse formali. Dalle toghe un fiume di dichiarazioni show, scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Surreale. E anche, per la verità, un tantino poco chiara. È la vicenda che vede protagonista, suo malgrado, Giovanni Maria Jacobazzi l'ex capo della polizia municipale di Parma, arrestato il 24 giugno del 2011, con le accuse di corruzione e concussione nell'ambito dell'oramai famosa inchiesta «Green Money», da cui il terremoto che ha travolto il sindaco pidielleino, Vignali, costretto alle dimissioni. Giusto per riassumere Jacobazzi risulta indagato, leggendo l'ordinanza di cattura, dal 2009 (una tentata concussione per una multa, peraltro come lui ha sempre sostenuto pagata, di 139 euro, e una presunta corruzione, sempre respinta al mittente di 3.000 euro). Viene arrestato con un'operazione decisamente scenografica in diretta televisiva, il 24 giugno 2011. Si fa 40 giorni di carcere, 2 mesi ai domiciliari, a 500 chilometri dalla città e due mesi di obbligo di dimora. Un bel can can, dunque. Peccato però che ad oggi, a quattro anni dai fatti, non essendosi ancora chiuse le indagini, lui non abbia il piacere o il dispiacere di sapere di che cosa in concreto è accusato. Tenuto conto che ciò che il procuratore capo «reggente» Laguardia si è affrettato a dichiarare su di lui in questi anni non ci sembra sostituire, ancora, l'articolo 415 bis del Codice di procedura penale. Quindi perché la Procura di Parma ha deciso di tenerlo a mollo in quello strano limbo delle persone che non hanno diritto a difendersi? Forse perché Jacobazzi non ha amici in Procura e magari potrebbe averne anche lui, come l'ex capogruppo regionale del Pdl, Villani, tra gli altri vertici del partito di Berlusconi, partito non proprio gradito agli autorevoli inquilini di Palazzo di giustizia? E ancora, perché il 2 ottobre del 2012, pur essendo stato abbondantemente interrogato, come persona informata dei fatti, come «vittima» dei presunti soprusi della Procura di Parma, le sue dichiarazioni sembra non siano state tenute in considerazione dei magistrati di Ancona che indagano sulla trasparenza delle mosse dei loro colleghi di Parma, Procuratore capo in testa? Forse è opportuno rileggere alcuni brani della lettera aperta che l'ex comandante dei vigili di Parma, nel frattempo rientrato nelle file dei carabinieri, scrisse appena tornato in libertà: «...Sono stato trattato come Totò Riina - si sfogò Jacobazzi - in un Paese come il nostro, dove vige il processo mediatico, contano solo le indagini preliminari. Il processo (quello vero, in aula), nel contraddittorio delle parti, non interessa a nessuno. Quindi, se nella conferenza stampa svoltasi nella mattinata del 24 giugno 2011, dopo il mio arresto in diretta televisiva, gli inquirenti affermano - condendo il tutto con pesanti giudizi morali - che sono responsabile di reati gravissimi per un pubblico ufficiale (concussione e corruzione), per la collettività quello è un dato acquisito. Nel circo mediatico, la conferenza stampa vale più di una sentenza. Ribadisco, fino allo sfinimento, che non ho concusso né corrotto nessuno... In attesa di potermi difendere in un'aula di giustizia, davanti a giudici realmente indipendenti e terzi, ribadisco che non ho concusso un vigile (ho solo stigmatizzato una incapacità ad esercitare l'attività di comando), non ho mai preso mazzette per dare appalti (tutti affidati nel rispetto delle regole amministrative) né strappato multe a go go (sempre annullate nel rispetto dei principi dell'autotutela e senza che io intascassi un centesimo). In compenso non voglio dire nulla su quanto è stato riportato dagli organi di stampa secondo cui il marito della pm che mi ha arrestato aspirava al mio posto...». Lo ricordiamo noi perché fu decisamente curioso il comportamento della pm Dal Monte il cui marito, Alberto Cigliano, aveva chiesto di concorrere al posto di comandante dei vigili di Parma pochi giorni prima che la moglie facesse arrestare il comandante Jacobazzi per concussione e corruzione. La Dal Monte non fu certamente tenera con Jacobazzi, interrogandolo dopo oltre un mese di carcere e disponendo gli arresti domiciliari il giorno successivo al colloquio sostenuto dal marito per ottenere il trasferimento in città.

PROCURATORI ABUSIVI?

Parma, abusivo il procuratore che indaga sul centrodestra. Succede a Parma. Dopo 8 anni, l'incarico di Laguardia è scaduto ma lui rimane in carica per le carenze di organico. Anche se la legge Mastella lo vieta, scrive Gabriele Villa  su “Il Giornale”. Abusivo? Diciamo che occupa un posto che non dovrebbe più occupare. Ma solo perché, ne siamo certi, il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, non ha ancora avuto tempo di valutare la pratica che lo riguarda e perché il Csm, come al solito, è in tutt'altre faccende affaccendato. Fatto sta che Gerardo Laguardia, dal 2005 alla guida della Procura della Repubblica di Parma, un po' come lo yogurt quando ce lo dimentichiamo in frigorifero, è abbondantemente «scaduto» dopo otto anni (quattro più altri quattro) di onorato servizio. Eppure, imperterrito, continua il suo lavoro. Con quella passione e quella tenacia che ha sempre mostrato in tutto questo tempo, quando si è trattato di indagare, di arrestare e persino di dimenticare in galera esponenti di primo e di secondo piano del Pdl locale. Buon ultimo l'ex capogruppo regionale pidiellino Luigi Giuseppe Villani, di cui recentemente ci siamo occupati su queste stesse colonne, perché lasciato, unico indiziato nell'inchiesta Public Money, agli arresti domiciliari in quanto «amico di Berlusconi e Alfano» e quindi con il loro aiuto, secondo le motivazioni del Tribunale del Riesame, decisamente avvantaggiato nel reiterare il reato di cui è accusato. Ma questo è solo il contorno di una storia curiosa, l'ennesima, che riguarda la Procura di Parma sull'operato della quale, quando nella scorsa legislatura Filippo Berselli era senatore, ha presentato ben otto interrogazioni parlamentari perché si facesse luce e «al Csm si valutasse l'apertura di un procedimento disciplinare, verificando anche la compatibilità ambientale della permanenza di Laguardia nell'ufficio della Procura». Ma intanto il Procuratore capo resta saldamente al comando, come ha spiegato in uno dei suoi soliti settimanali incontri del venerdì con i giornalisti locali, per non «lasciare orfani» i suoi sostituti procuratori e, soprattutto, per «spirito di servizio» e «senso del dovere», dato che l'organico della Procura, risulta sotto di tre unità. Ma come resta? Resta in veste di «reggente» e, dato i tempi lunghi del Csm è molto probabile, per sua stessa ammissione, che la sua «reggenza» si prolunghi fino al 2014. Eppure. Eppure, se non andiamo errati la legge Mastella, una legge, dunque, dello Stato, prevede che, alla scadenza del mandato, il procuratore capo venga rimpiazzato, un minuto dopo, dal sostituto procuratore più anziano. Che, alla Procura di Parma ci risulta essere il pm Lucia Russo. Perché dunque la dottoressa Russo non ha preso il posto di Laguardia? E così le perplessità sull'imparziale figura del monarca della Procura di Parma crescono. «Perplessità», che, dopo le molteplici interrogazioni parlamentari del senatore Berselli, hanno spinto la procura di Ancona a indagare per abuso d'ufficio il procuratore Laguardia e la pm Paola Dal Monte. Berselli ha ripreso la notizia della stampa locale secondo cui Laguardia «ha effettuato più viaggi gratuiti all inclusive al seguito del Parma Calcio nelle trasferte di coppa». «Non è chiaro - ha denunciato Berselli - per quale ragione il procuratore Laguardia abbia usufruito di viaggi gratuiti, né se tale condotta integri una fattispecie di reato del pubblico ufficiale e/o una responsabilità disciplinare, tenuto conto della mancata astensione dello stesso dalla trattazione delle indagini sul crac Parmalat ed, in specie, della posizione dell'imputato Calisto Tanzi». Poi c'è la conduzione dell'inchiesta Public Money. Un'iniziativa, secondo il senatore, giudiziaria ma soprattutto politica. Dove «nell'ordinanza c'è un attacco a un gruppo politico con insinuazioni su politici tirati in ballo in modo improprio». Nomi come quelli di Letta, Alfano, Berlusconi, Ghedini che «non rientrano nel contesto indagatorio» nomi pronunciati nel corso della conferenza stampa tenuta dal procuratore capo. Una conferenza stampa, quella a seguito degli arresti di Vignali, Villani, Buzzi e Costa, in cui in un video «sembra a Berselli che Laguardia legga stralci dell'ordinanza». Peccato però che esista l'articolo 684 del Codice penale che vieta la pubblicazione di atti, anche non coperti da segreto istruttorio, prima della chiusura delle indagini preliminari. Che dire? Disinvolto il procuratore, no?

Ed ancora. Abusi e viaggi gratis: il procuratore di Parma è indagato da un anno. Laguardia, che ha messo sotto accusa il Pdl cittadino, è nel mirino dei colleghi di Ancona. Il fascicolo contro di lui però si è arenato, scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Non decidono. È passato un anno ma ancora non decidono. Eppure di «argomenti» su cui decidere ce ne sono. C'è la condotta, non proprio super partes, del procuratore capo di Parma, sì quel Gerardo Laguardia, specializzato nel dar la caccia ai pidiellini, che ha deciso di rimanere al suo posto nonostante (dopo otto anni di «governo») il suo mandato sia ampiamente scaduto. E ci sono anche certi comportamenti, non proprio cristallini, di uno dei suoi sostituti, Paola Dal Monte. Condotta e comportamenti che, oltre un anno fa, suscitarono l'indignazione del senatore del Pdl, Filippo Berselli. Che, davanti ad un certo odore di ingiustizia si sentì in dovere, per amore di giustizia, di presentare otto interrogazioni e un esposto alla procura generale della Cassazione perché venisse fatta chiarezza sulla «gestione» della Procura di Parma. Arrivarono gli ispettori ministeriali e arrivò anche l'inchiesta, aperta, per competenza, dalla Procura di Ancona. Inchiesta della quale, un anno dopo, non si sa ancora nulla. Perché? Perché non si vuole arrivare a delle conclusioni? Perché «per approfondimenti» sono state chieste dalla Procura marchigiana due proroghe, la seconda scadrà a giugno, e probabilmente ne verrà chiesta una terza? Perché il 2 ottobre del 2012 è stato abbondantemente interrogato, come persona informata dei fatti, come «vittima» dei presunti soprusi della Procura l'ex comandante dei vigili di Parma, Giovanni Maria Jacobazzi che, immaginiamo, abbia raccontato dettagliatamente l'atteggiamento della Procura di Parma nei suoi confronti e quelle sue dichiarazioni non sono state apparentemente tenute in considerazioni dei magistrati di Ancona? Forse perché, azzardiamo, il caso Parma ha determinato una vera e propria spaccatura in seno alla Procura di Ancona che vede da un lato il procuratore capo uscente Elisabetta Melotti che, in quanto uscente, non vuole grane prima di lasciare la Procura e dall'altro il suo sostituto, Irene Bilotta che invece vorrebbe andare a fondo con le indagini? Eppure i fatti meritano un approfondimento giudiziario. Vediamoli in rapida sintesi. Se è vero che lo stesso Laguardia ha, a suo tempo pubblicamente confermato che l'accusa che gli è stata mossa dalla Procura di Ancona è quella di abuso d'ufficio è altrettanto vero che restano ancora da chiarire per esempio quei viaggi gratuiti all-inclusive al seguito del Parma calcio nelle trasferte di Coppa, offerti dalla società sportiva a Laguardia e peraltro confermati dallo stesso Tanzi il 27 maggio 2012 sulla Stampa quando, raccontando la vita in carcere attraverso la voce del compagno di cella, l'ex patron di Parmalat, ebbe a dire testualmente: «Sull'aereo della squadra ho portato anche il procuratore che mi ha fatto rinchiudere qui dentro». Condotta quella di Laguardia che, aveva ipotizzato Berselli nella sua denuncia «potrebbe integrare una fattispecie di reato del pubblico ufficiale e/o una responsabilità disciplinare, tenuto conto della mancata astensione del procuratore capo dalla trattazione delle indagini sul crac Parmalat». Quanto al fatto che oltre a Laguardia sia indagata anche la pm Dal Monte titolare dell'inchiesta «Green money 2» (presunte tangenti e ammanchi nel bilancio comunale) che portò all'arresto di 11 tra amministratori e funzionari del Comune di Parma: tra cui appunto l'allora comandante dei vigili urbani, Giovanni Maria Jacobazzi, ufficiale dei carabinieri in aspettativa. Berselli, allora alla commissione Giustizia del Senato eccepì una lunga serie di irregolarità. Tra cui il fatto che Laguardia avrebbe violato il segreto istruttorio nella conferenza stampa in cui rivelava particolari dell'operazione «Green money». Mentre è decisamente curioso il comportamento della pm Dal Monte il cui marito, Alberto Cigliano, aveva chiesto di concorrere al posto di comandante dei vigili di Parma pochi giorni prima che la moglie facesse arrestare il comandante Jacobazzi per concussione e corruzione. La Del Monte non fu certo tenera con Jacobazzi, interrogandolo dopo oltre un mese di carcere e disponendo i domiciliari (a 500 chilometri da Parma) il giorno dopo il colloquio sostenuto dal marito per ottenere il trasferimento in città.

PARMA ED IL CASO PARMALAT.

Lo chiamano il processo del secolo. E gli ingredienti ci sono tutti: il denaro (una massa ingente, oltre 14 miliardi di buco), i numeri ( 32 mila persone che hanno fatto richiesta di risarcimento danni), i personaggi (Calisto Tanzi il re del latte, e poi manager, banchieri e via dicendo coinvolti a vario titolo nei filoni delle inchieste). E’ una dinasty internazionale che affonda le radici a Parma, a Collecchio più precisamente. Un paese che si è ingrandito, ha portato alle stelle il proprio tenore di vita attorno ad una importante realtà industriale , la Parmalat che negli anni è diventata un gigante, in ogni parte del globo non solo con il latte e gli yogurt ma anche coi succhi di frutta dei prodotti da forno. E un bel giorno una delle più belle “favole” italiane si è interrotta. Il marchio che sfidava la velocità con la Formula Uno o con gli sci di Gustav Thoeni è uscito di strada. Roba da non crederci. Al punto che quando il 26 dicembre del 2003 Calisto Tanzi venne arrestato sotto la luce delle telecamere a Milano , moltissima gente credette ad una finzione. Eppure quell’uomo distinto, noto ed invidiato, era in manette perché ritenuto al centro di una delle più colossali macchinazioni della storia italiana. Una marea di carte taroccate, bilanci falsificati, di tutto e di più visto che per questa vicenda venne addirittura coniato il termine “finanza creativa”. Misteri , intrighi, ritmi e colpi di scena da libro giallo.

Parmalat, l'analisi di Sapelli: "Roba da Totò e Peppino". L'economista a Teatro Due per un confronto tra Enron e crac dell'Impero del latte. "Due mondi lontanissimi. La vostra? Una truffa fatta in casa", scrive Alessandro Trentadue su “La Repubblica”. Capire il crac Parmalat? Basta guardarsi il film "La banda degli onesti", dove Totò e Peppino si mettono a stampare banconote false. Fine. Lapidaria l'analisi di Giulio Sapelli su uno dei maggiori crac finanziari del secolo scorso, partito da Collecchio. L'economista, a Teatro Due, la espone davanti a un pubblico che non sa se sorridere o aspettarsi una lunga spiegazione finanziaria. Che invece non arriva. Invitato dai sostenitori del teatro, l'associazione Amici di Teatro Due, per fare un confronto tra il crollo dell'Impero del latte e il fallimento della Enron, Sapelli torna a parlare del grande bluff di casa nostra. Perché qui da noi, dici crac e pensi alla Parmalat. Ma il confronto è presto fatto. "Non c'è nessuna analogia, sono due mondi totalmente diversi", esordisce l'ospite. Che elabora: da una parte, quella americana, un "raffinatissimo stratagemma di ingegneria finanziaria, truffa colossale di un capitalismo evoluto ad altissimo rischio". Dall'altra, quella parmigiana, una truffa fatta in casa alla Totò e Peppino. "Una truffa di campagna e di povera gente - argomenta - portata avanti con la complicità dei dipendenti, del paese, delle banche, del collegio sindacale:  almeno 300-400 persone che sapevano tutto ma non dicevano niente. E questo perché l'Emilia ha una popolazione molto mafiosa". Mafiosa in senso antropologico. "Una mentalità omertosa, di collusività clientelare - prosegue - pensate a quando si usava tessera del pane. La stessa mentalità presente nel Suditalia e in aree poco avanzate, che invece è ampiamente diffusa anche al nord in zone ad alta produttività". Ma è sul metodo di confezionare la mega truffa che il crac Parmalat è tutto italiano. Altro che i cavilli legali sfruttati dai manager della Enron per non consolidare il debito che finiva accumulato in società fittizie. Nella "tipografia di Collecchio" si stampavano bilanci visibilmente falsi. "Falsificavano materialmente i bilanci, e anche male - racconta Sapelli - ma la segretaria di Tonna non si chiedeva perché ogni settimana dovesse stampare falsi bonifici della Bank of America?". Per concludere il quadro, una scena da film. Da un lato l'inganno perpetrato da trader "fighetti" che giocano a golf al Washington Club - immagina l'economista - dall'altro, alla Parmalat, un gruppo di "ragionieri dalle mani umidicce con la forfora". Tra il pubblico, spiazzato dalle provocazioni sapelliane, applaude Giancarlo Braccini Squeri, lo "007 parmigiano", che consegna all'ospite una copia del suo libro sul crac Parmalat. Poi si arriva all'attualità e allo scandalo Monte Paschi di Siena, che per Sapelli è figlio di Enron e Parmalat insieme. "La causa è stata la massoneria, il conflitto tra logge - rivela - il Pd non c'entra, spero che Bersani lo sappia". E da lì il passo alla situazione politica nazionale è breve. Sul boom del Movimento 5 stelle: "Un movimento populista di sinistra - tratteggia lo storico - che si è già accordato con Cittadinanza attiva per fare un corso di formazione politica ai neoeletti. Una volta disinnescata la miccia diventerà un partito come gli altri: la nostra democrazia non è in pericolo". Né tantomeno lo sono gli effetti dell'ingovernabilità del Paese sui mercati. Perché, conclude Sapelli citando l'economista Federico Caffè, "i mercati non esistono".

“Crack Parmalat Corruzione giudiziaria”. Prestiti e intrallazzi nel libro di Braccini Squeri. In un volume i documenti che attestano i rapporti dei magistrati Panebianco, Brancaccio e Padula con il mondo bancario locale, strettamente legato a Parmalat. Il crac Parmalat poteva essere scongiurato un decennio prima del default del 2003? Si chiede “La Repubblica”. Sì, se le inchieste non fossero state viziate da conflitti d’interesse di certi magistrati della Procura e del tribunale di Parma, legati alle banche locali e quindi al gruppo di Collecchio grazie a prestiti e agevolazioni finanziarie. E’ quanto sostiene Giancarlo Braccini Squeri nella prima parte del libro “Crack Parmalat – corruzione giudiziaria”, una raccolta di documenti bancari e atti di procedimenti disciplinari provenienti soprattutto dal Consiglio superiore della magistratura. Reperiti in due anni di lavoro, sono ora disponibili in un volume del costo di 30 euro. Giancarlo Braccini, lo “ 007 parmigiano molto noto negli anni Novanta, fu l’animatore del “Giornale di Parma”, il settimanale degli scandali chiuso all’inizio dello scorso decennio. Venne coinvolto in vicende giudiziarie per i suoi “scoop” aggressivi e finì in carcere per estorsione proprio su richiesta di uno dei magistrati attaccati nel suo libro, Francesco Brancaccio. Ora è tornato, gira la città con la sua valigetta di pelle piena di libri per piazzarli personalmente, in attesa di una proposta editoriale. Tutto inizia il 2 dicembre 1993, spiega Braccini Squeri, quando quattro senatori del Pds (prima firmataria Giovanna Senesi) presentano un’interpellanza parlamentare per denunciare l’esposizione di Parmalat e il controllo del ceto bancario locale da parte di Calisto Tanzi. Nel mirino Cariparma e Banca Monte, grandi finanziatrici del gruppo di Collecchio nonostante il conflitto d’interessi dei rispettivi presidenti: Luciano Silingardi amico e commercialista di Tanzi, Franco Gorreri direttore finanziario di Parmalat spa. Un riassunto dell’interrogazione finisce sulla scrivania dell’allora procuratore capo di Parma, Giovanni Panebianco, che l’affida al sostituto Francesco Saverio Brancaccio. Viene aperto un fascicolo sulle esposizioni del gruppo Parmalat, la procura chiede a Cariparma e a Banca Monte i documenti sui prestiti erogati e sugli sconfinamenti delle società del gruppo. Una perizia sullo stato debitorio affidata al ragionier Mario Valla evidenzia, il 4 aprile 1997, che “la situazione debitoria verso le banche sia di per sé eccessiva e caratterizzata da incrementi sproporzionati”. Parmalat è già in una spirale critica che va verso il fallimento. Il pm però non ravvisa elementi di reato e chiede l’archiviazione del procedimento, disposta dal gip Adriano Padula 27 giugno 1997. E qui, spiega Braccini Squeri, entra in gioco quella che lui definisce “corruzione legalizzata”. Perché il pm Brancaccio, nel corso delle indagini e negli anni successivi, avrebbe ottenuto da Cariparma prestiti per circa 465 milioni di lire, tra cui un fido di 300 milioni rinnovato di anno in anno. Si chiudono senza condanne anche altre due inchieste per reati finanziari a carico di Tonna e Tanzi (assolti) e a carico di Franco Gorreri (indagine archiviata), trasferite alla procura di Parma rispettivamente da Firenze e da Milano. Il libro riporta anche documenti che attestano l’erogazione di un mutuo di 350 milioni di lire da Cariparma alla figlia di Panebianco e di un mutuo chirografo da 140mila euro da Banca Monte a Brancaccio. Nel settembre 1997 viene ideata una convenzione riservata ai magistrati del tribunale di Parma (il libro pubblica la lista dei nominativi degli aderenti). In seguito a un’ispezione ministeriale presso la Procura di Parma nel 2005 vengono riscontrati debiti per oltre 12mila euro del giudice Padula con Parmatour, a cui il magistrato si era rivolto fin dal 2001 per effettuare numerosi soggiorni e anche per trasferimenti con autista privato (servizio “limousine”). Sottoposto a sanzione disciplinare del Csm nel 2006, Padula sarà trasferito d’ufficio, così come era stato disposto per Panebianco nel 2004, anche per i suoi rapporti con Silingardi. Il libro si conclude citando una recente sentenza della Corte europea di Strasburgo del 24 novembre 2011, che condanna lo Stato al risarcimento dei danni in caso di dolo o colpa grave degli organi giudiziari nell’esercizio delle proprie funzioni. Visto il comportamento dei magistrati citati, si chiede Braccini Squeri, i risparmiatori truffati dal crac Parmalat potrebbero chiedere il risarcimento allo Stato italiano?

Eppure Vittorio Malagutti  a pagina 15 (26 marzo 2001) de “Il Corriere della Sera” dava un’altra immagine dell’autore del libro. «Una banda, una vera banda di estorsori». Non usa giri di parole il sindaco Elvio Ubaldi. Adesso che un blitz della magistratura ha messo fine all'avventurosa esistenza del Giornale di Parma, il primo cittadino della città emiliana, alla guida di una giunta di centrodestra, tira molti sospiri di sollievo e spara una mitragliata di parole contro quel settimanale «di ricattatori e di professionisti della menzogna». Quella banda, come la chiama il sindaco, per più di due anni ha scaricato su Parma e dintorni tonnellate di voci e indiscrezioni. Una marea di presunti scoop che, di volta in volta, mettevano alla berlina politici locali, banchieri, industriali e anche magistrati. Alla fine però sono arrivati i carabinieri. E per l'eterogenea compagnia che animava il Giornale di Parma sono scattate le manette. Sono finiti agli arresti Giancarlo Braccini (ancora in carcere), indicato come lo spregiudicato ispiratore degli articoli più aggressivi, e il suo amico Armando Dall'Asta, costruttore fallito che avrebbe finanziato l'impresa. Ma nell'inchiesta sono coinvolti anche tre imprenditori con base a Roma: Carmelo Pellitteri, Rosario Cognetti e Davide Ghinelli. L' accusa formulata dai magistrati (i pm Francesco Saverio Brancaccio e Vincenzo Picciotti) è la stessa per tutti e cinque gli arrestati: estorsione. Brutta fine, brutta fine davvero per un giornale che ne ha scritte veramente di tutti i colori. Quanto bastava per nutrire all'infinito le chiacchiere dei pettegoli salotti cittadini. E così l'opulenta Parma, la patria dei Tanzi e dei Barilla e di mille aziendine famigliari, per mesi si è appassionata a scandali e scandaletti locali, compresi gli affari di letto, cresciuti all'ombra dei potentati economici e politici della città. A dire il vero, confessa adesso qualche cultore del genere, molte storie di quel giornale apparivano già a prima vista inventate di sana pianta. Oppure traboccavano di allusioni e messaggi trasversali. Eppure, o forse proprio per questo, il Giornale di Parma si era conquistato un folto pubblico di lettori. Non ci sono cifre ufficiali, ma c' è chi parla di cinque-seimila copie di tiratura per i numeri più venduti. Un record per una provincia dove da sempre domina incontrastata una sola voce, quella della Gazzetta di Parma. Braccini e compagni però forse hanno corso un po' troppo. Tra uno scoop e l'altro avrebbero infilato anche minacce e ricatti. Questa almeno è la tesi dei magistrati, che in mesi di indagini sono convinti di aver ricostruito la vera storia e i veri scopi degli animatori del giornale. In estrema sintesi la Cns, un'azienda romana gestita da Pellitteri e Ghinelli, si sarebbe servita del giornale come arma di pressione per ottenere favori economici da banche, aziende o dall' amministrazione pubblica. I magistrati hanno usato la mano pesante soprattutto contro Braccini, l'unico che a 5 giorni dal blitz resta ancora in carcere, mentre gli altri indagati sono tutti agli arresti domiciliari. Braccini, a modo suo, era una piccola celebrità. Sedicente investigatore privato, si era dato un look in linea con il personaggio. Corpulento, occhiali fumè, sigaro perennemente in bocca, l'animatore del Giornale di Parma rincorreva le storie più incredibili. E, qualche volta, riusciva anche a centrare il bersaglio di una fuggevole notorietà. Come quando, alcuni anni fa, finì in tv al Maurizio Costanzo Show con una foto del mostro di Loch Ness. Oppure quando mise un'inserzione sui giornali alla ricerca di una colf «di pura razza ariana». Un'altra sua passione era il caso Caretta, quello della famiglia di Parma scomparsa nel nulla per 10 anni a cui Braccini diede la caccia sfornando articoli presunti esclusivi. Il fantomatico investigatore, che qualcuno descrive come un collaboratore della polizia locale e, si dice, anche dei servizi segreti, si era calato fino in fondo nel personaggio. Non per niente amava firmare i suoi rocamboleschi articoli con lo pseudonimo di 007. Il Giornale di Parma sembrava la palestra adatta per un tipo come lui. Uno dei bersagli preferiti del settimanale era Luciano Silingardi, il banchiere più noto della città, presidente della Fondazione Cassa di Parma, nonché membro del consiglio di amministrazione di Banca Intesa. E proprio l'operazione che portò la banca parmense a confluire nel grande gruppo bancario milanese fu oggetto per mesi di una violenta campagna del settimanale, che adombrava il sospetto di un vero raggiro ai danni dei piccoli azionisti emiliani. Anche il sindaco e l'amministrazione comunale hanno subito a più riprese gli attacchi del Giornale di Parma. «Fino a quando - spiega il sindaco - ci siamo accorti che gli articoli più violenti erano scattati dopo l'esclusione di un'azienda romana da una gara d'appalto per il nuovo centro direzionale». L'impresa in questione era la Cns, una sigla che sta per Costruzioni nord sud. Una piccola società, con soli 50 milioni di capitale sociale, troppo piccola per concorrere a un appalto da decine di miliardi come quello messo all'asta quasi un anno fa dalla giunta guidata da Ubaldi. A ben guardare, però, si scopre che la Cns aveva assorbito i resti della Sigeco, un'azienda di Parma fallita nel 1997. E chi gestiva la Sigeco? Proprio Dall'Asta, ovvero l'uomo d'affari indicato come il finanziatore del Giornale di Parma. Insomma, c'è un filo diretto che da Parma porta all'impresa romana, di cui ufficialmente il socio più importante risulta Pellitteri, un siciliano di Agrigento. E proprio il collegamento tra Cns e Sigeco sembra un elemento importante su cui adesso indagano carabinieri e guardia di finanza. Nei prossimi giorni sono attesi nuovi interrogatori dei protagonisti di questa complicata vicenda. Gli investigatori sono certi di poter dimostrare un legame diretto tra gli articoli e i presunti ricatti degli animatori del settimanale. Nel frattempo sembra improbabile che il Giornale di Parma, travolto da questa bufera, possa riprendere le pubblicazioni.

QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.

L'ex sindaco di Parma Pietro Vignali (Pdl) è stato arrestato, scrive “Il Corriere della Sera”. L'imprenditore ed ex primo cittadino è tra i quattro destinatari di altrettanti provvedimenti di custodia cautelare per peculato e corruzione disposti dalla Procura della città emiliana. Gli altri arrestati ci sono il consigliere regionale del Pdl e vice presidente di Iren Luigi Giuseppe Villani, Andrea Costa, ex presidente del cda e consigliere delegato di Stt Holding e Alfa Spa, Angelo Buzzi, editore, consigliere e presidente del cdA della società Iren Emilia. Non sono stati portati in cella: a tutti e quattro sono stati concessi gli arresti domiciliari. Ma l'inchiesta non riguarda soltanto loro: ci sono al momento altri 17 indagati. Tra questi anche il presidente del Parma calcio Tommaso Ghirardi che però ha negato un suo coinvolgimento nella vicenda. Secondo le indagini della procura Ghirardi avrebbe ottenuto uno sconto sull'affitto dello stadio dal Comune in cambio della cessione di un addetto stampa all'ex sindaco Pietro Vignali. Nell'inchiesta anche il patron di Parmacotto Marco Rosi che, in qualità di proprietario di un ristorante della città, avrebbe fatto pressioni per posizionare un dehors del suo locale in una via del centro storico. Il procuratore Laguardia ha riferito ai giornalisti che Rosi, indagato per corruzione, avrebbe poi ricambiato Vignali «con vari favori tra cui un soggiorno a Forte dei Marmi in un hotel di lusso». Tra gli altri indagati molti inoltre sarebbero dipendenti del Comune o di società partecipate. Secondo le indagini, i quattro arrestati si sarebbero appropriati di fondi pubblici del Comune, utilizzandoli per spese elettorali, per effettuare assunzioni pilotate nelle strutture pubbliche, per garantirsi l'appoggio di organi di informazione e anche distribuendoli a parenti e amici. L'operazione della Guardia di Finanza denominata «Public Money», ha portato al sequestro di 3,5 milioni di euro: 1,9 milioni a Vignali, 1,3 a Costa, circa 100mila a Villani, 160mila a Buzzie. Nel corso delle indagini i finanzieri hanno appurato che gli indagati hanno tenuto costantemente, nel corso di più anni, «una condotta fraudolenta finalizzata ad accumulare ingenti ricchezze da destinare ad usi strettamente privati», quali tra gli altri - secondo la ricostruzione dei finanzieri del comando provinciale di Parma - il finanziamento della campagna elettorale per le elezioni amministrative di Parma del 2007, la fidelizzazione della popolazione parmense e non ad un particolare movimento politico anche al fine di una eventuale candidatura alle successive elezioni politiche nazionali, il controllo della stampa locale». Il riferimento in questo caso è al ruolo di Buzzi che attraverso la Iren editava Polis, all'inizio con linea editoriale contraria alla giunta guidata da Vignali. Un'inchiesta precedente a questa, denominata «Green Money 2», nell'estate 2011 aveva portato agli arresti sempre per corruzione di alcuni funzionari comunali e assessori della giunta Vignali e l'allora capo della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi. A causa di questo scandalo, dopo diverse manifestazioni in piazza, e dopo la sfiducia in Consiglio comunale, il sindaco - eletto con una lista civica di centrodestra - si dimise il 28 settembre 2011. Per il procuratore della Repubblica di Parma, Gerardo Laguardia, sindaco, amministratori e manager avevano costituito «un gruppo di potere costruito con l'uso della cosa pubblica per interessi privati, anche utilizzando dipendenti pubblici compiacenti per creare provviste di denaro liquido».

Arrestati ai domiciliari il consigliere regionale del Pdl Luigi Giuseppe Villani, l'ex sindaco di Parma Pietro Vignali, l'ex presidente della società partecipata comunale Stt Andrea Costa e l'editore del quotidiano Polis e presidente del cda di Iren Emilia Angelino Buzzi, scrive “La Repubblica”. Dalle prime informazioni risulta che i quattro "hanno tenuto costantemente, nel corso di più anni - scrivono le Fiamme Gialle - una condotta fraudolenta finalizzata ad accumulare ingenti ricchezze da destinare ad usi strettamente privati", tra cui il "finanziamento della campagna elettorale per le elezioni amministrative di Parma del 2007", il "controllo della stampa locale" e la "fidelizzazione della popolazione parmense e non ad un particolare 'movimento' politico anche al fine di una eventuale candidatura alle successive elezioni politiche nazionali". Diciannove indagati. Sequestrati beni per circa 3,5 milioni di euro e disposto dal giudice per le indagini preliminari Maria Cristina Sarli il sequestro di beni mobili ed immobili intestati e riconducibili agli arrestati. Le ordinanze sono state richieste questa estate e firmate solo oggi dal gip: un lasso di tempo giustificato probabilmente dai numerosi atti di indagine. Nuovi arresti clamorosi a Parma, dunque, dopo la bufera di Green Money 2, l'inchiesta anti-corruzione della Procura, datata giungo 2011: arrestati diversi dirigenti comunali molto vicini all'allora sindaco Vignali, tra cui il capo della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi. A settembre era stata la volta dell'operazione Easy Money e in manette era finito l'assessore alla Scuola Giovanni Paolo Bernini, per tangenti legate alle mense scolastiche. Gli arresti avevano scatenato una rivolta popolare tra i parmigiani, che in centinaia erano andati a manifestare indignati sotto il municipio, portando l'ex Giunta di centrodestra alle dimissioni e spianando la strada al trionfo del Movimento 5stelle. Luigi Giuseppe Villani è l'indiscusso ras del centrodestra di Parma e provincia. Capogruppo del Pdl in consiglio regionale da anni, coordinatore del Pdl provinciale fino al febbraio 2012 (quando venne nominato il suo successore Paolo Buzzi, numero due dell'ex sindaco Vignali ora tra i banchi dell'opposizione in Giunta comunale) nonché vicepresidente di Iren, la multiutility dell'energia contestata per la costruzione del famigerato inceneritore. Pietro Vignali è stato sindaco di Parma dal 2007 al 2011, costretto a lasciare l'incarico prima della fine del mandato abbandonato da tutti, compreso il partito, a causa delle inchieste giudiziarie che hanno travolto la sua Giunta di centrodestra. Ora ha raccontato di essere tornato a fare il commercialista per 500 euro al mese. Anche Andrea Costa è stato costretto a dimettersi. Era presidente della più grande società partecipata del Comune di Parma, la Stt. Ha lasciato l'incarico nel novembre del 2010 dopo un avviso di garanzia per abuso di ufficio: il manager era stato anche presidente della Tep, l'azienda di trasporti pubblica di Parma, che aveva investito circa otto milioni di euro nella banca Mb, commissariata dalla Banca d'Italia, e nel cui cda sedeva lo stesso Costa. Infine Angelo Buzzi imprenditore immobiliare, "boss" della squadra di calcio locale Crociati Noceto, editore del quotidiano Polis e poi presidente del cda di Iren Emilia, accusato in passato di aver "svenduto" il suo giornale al centrodestra locale. I 19 INDAGATI - Pietro Vignali, Luigi Giuseppe Villani, Emanuele Moruzzi, Mauro Bertoli, Ernasto Balisciano, Carlo Iacovini, Alessandro Forni, Gian Vittorio Andreaus, Tommaso Mori, Norberto Mangiarotti, Angelo Buzzi, Andrea Costa, Alfonso Bove, Marco Rosi, Tommaso Ghirardi, Alberto Monguidi, Aldo Torchiaro, Lara Ampollini, Riccardo Ragni, Antonio Cenini, Danilo Cucchi, Tiziano Mauro ed Emanuela Iacazzi.

IL SISTEMA PARMA.

Public Money, "Sistema di potere finanziato con i soldi pubblici". La Guardia di Finanza ha spiegato tutti i dettagli sugli arresti di Villani, Vignali, Costa e Angelo Buzzi per corruzione e peculato. "Vignali ha cercato di contattare Berlusconi tramite la escort Nadia Macrì per ostacolare le indagini" , scrivono B. Pintus, R. Castagno e M.C. Perri su  “La Repubblica”. Dopo Green Money ed Easy Money ecco Public Money, l'ennesima inchiesta giudiziaria sul giro di tangenti tra i vertici di potere di Parma. L'ultima operazione, scattata stamattina all'alba, ha portato a quattro arresti illustri con le accuse di corruzione e peculato: sono finiti in manette il capogruppo del Pdl in consiglio regionale e vicepresidente della multiutility Iren Luigi Giuseppe Villani, l'ex sindaco di centrodestra Pietro Vignali, il manager ed ex presidente della società comunale Stt Andrea Costa e l'imprenditore ed editore del quotidiano locale Polis Angelo Buzzi. La conferenza stampa al comando della Guardia di Finanza, tenuta dal capo procuratore di Parma Gerardo Laguardia e il colonnello Guido Mario Geremia, ha rivelato l'esistenza di un sistema di potere "pernicioso e incancrenito nella cosa pubblica" con "la collaborazione di numerosi dirigenti pubblici". Ravvisate "interferenze nelle nomine di prefetto, commissario prefettizio, questore e dirigenti della società partecipata Stt". Tra i fogli dell'inchiesta spuntano tanti nomi illustri tra cui quello di Silvio Berlusconi: per ostacolare le indagini della Procura Pietro Vignali avrebbe cercato di contattare l'ex premier attraverso la escort Nadia Macrì. La ragazza, coinvolta nell'indagine sull'ex esponente del Pdl e narcotrafficante Perla Genovesi, aveva dichiarato ai magistrati di Palermo di aver fatto sesso per soldi con l'ex sindaco, il quale aveva negato: "L'ho conosciuta davanti a un hotel, ma non ci ho mai fatto sesso. Ho scambiato soltanto poche chiacchiere con lei". Per cercare di interrompere il lavoro della magistratura si sarebbero cercati contatti anche con Angelino Alfano, Gianfranco Fini, Gianni Letta, Niccolò Ghedini e Filippo Berselli, coordinatore regionale del Pdl. Le sue interrogazioni parlamentari contro la Procura di Parma e le conseguenti ispezioni sarebbero state "studiate a tavolino", dicono gli inquirenti. Oltre agli arrestati, sono indagate altre 19 persone, molte delle quali coinvolte nelle precedenti inchieste sulla corruzione della Procura, altre pagate dal Comune o dalle società partecipate: Emanuele Moruzzi, Mauro Bertoli, Ernasto Balisciano, Carlo Iacovini, Alessandro Forni, Gian Vittorio Andreaus, Tommaso Mori, Norberto Mangiarotti, Alfonso Bove, Marco Rosi, Tommaso Ghirardi, Alberto Monguidi, Aldo Torchiaro, Lara Ampollini, Riccardo Ragni, Antonio Cenini, Danilo Cucchi, Tiziano Mauro ed Emanuela Iacazzi. Confiscati dalla Guardia di Finanza beni mobili e immobili per 3,5 milioni di euro, tra cui anche automobili, terreni, appartamenti, conti correnti. A Vignali sequestrati beni per 1,9 milioni di euro, a Costa per 1,3 milioni, 163mila euro a Buzzi e 98mila euro a Villani. Ancora da verificare l'esistenza di possibili "beni occultati". Gli arrestati avrebbero goduto per anni di un sistema di potere finanziato da soldi pubblici. Dalle intercettazioni è stato scoperto che la prima campagna elettorale di Vignali e il mantenimento del consenso elettorale nel corso del suo mandato sono stati finanziati con denaro che veniva prima "riciclato" attraverso appalti pilotati per alcune società partecipate del Comune (l'ex Enia - poi confluita in Iren - Alfa e Infomobility) e poi fatto confluire in una cooperativa che fungeva da "bancomat", la Sws, decapitata dall'inchiesta Green Money 2 con l'arresto dell'ex presidente Gian Vittorio Andreaus e del suo vice Tommaso Mori. Vignali, primo cittadino di Parma dal 2007 al 2011 - quando fu costretto a lasciare l'incarico prima della fine del mandato abbandonato da tutti, a causa delle inchieste giudiziarie che hanno travolto la sua Giunta di centrodestra - ha di recente raccontato di essere tornato a fare il commercialista per 500 euro al mese. Ma nelle intercettazioni veniva chiamato "il papa", colui che era a capo dei traffici tra Sws e società partecipate. La sua prima campagna elettorale e la preparazione a quella successiva era stata sovvenzionata da Enia per un ammontare di oltre 600mila euro, sempre tramite la cooperativa Sws. "Tutte le spese elettorali - ha dichiarato il colonnello Geremia - sono state pagate da società operanti nel verde pubblico. Enia dal 2007 al 2011 ha fatturato 4,5 milioni per prestazioni inesistenti. Si potava per pagare i manifesti elettorali". Sempre con soldi pubblici fu pagato Klaus Davi, incaricato di promuovere l'immagine dell'aspirante sindaco. La consegna a domicilio dei bidoncini per la raccolta differenziata nel 2007, quando Vignali correva per la poltrona di sindaco ed era assessore all'Ambiente, è stata organizzata da Sws e pagata sempre con i soldi dei parmigiani. Le dipendenti della cooperativa che li consegnavano erano state "addestrate" da impiegati pubblici a nominare tre volte il nome di Vignali per raccogliere consenso e tastare le preferenze dei cittadini. Il sistema diede i suoi frutti, Vignali venne eletto, ma dopo quattro anni di mandato il suo obiettivo era quello di candidarsi di nuovo per rimanere ai vertici della città. Dalle indagini risulta che anche la campagna elettorale di Vignali sui social network è stata pagata con i soldi pubblici. Una persona - comunicano gli inquirenti - era pagata appositamente dal Comune per curare la pagina Facebook del sindaco e creare profili fittizi per lasciare commenti positivi e creare consenso. Dalle intercettazioni risulta che anche il tentativo di fermare il cantiere dell'inceneritore fu una trovata per cercare il consenso elettorale. Il quotidiano Polis era considerato "una spina nel fianco", ma viene trovato un accordo con Angelo Buzzi, il quarto arrestato. Imprenditore immobiliare, "boss" della squadra di calcio locale Crociati Noceto, Buzzi viene convinto a cambiare il direttore del suo giornale. Il denaro per l'operazione - 98mila euro - viene erogato da Andrea Costa, attraverso la partecipata Stt, di cui al tempo era presidente. La cifra comprendeva anche gli stipendi dei giornalisti, pagati direttamente dalla società. Buzzi, successivamente, è stato anche nominato consigliere di Iren Emilia. Ci fu poi un tentativo di raggiungere un altro quotidiano locale, L'Informazione, che però nel 2012 ha chiuso i battenti. Attraverso i soldi pubblici di Stt Andrea Costa, proprietario di tenute vinicole in Piemonte e in Toscana, si faceva anche fare analisi sul vino, per una cifra di 19mila euro. Avrebbe anche distratto fondi da un'altra partecipata di cui era presidente, Alfa, in favore dell'ex presidente della società comunale di trasporti pubblici Tep Tiziano Mauro. Costa ha lasciato la guida di Stt nel 2010 dopo un avviso di garanzia per abuso di ufficio: era stato anche presidente della Tep, l'azienda di trasporti pubblica di Parma, che aveva investito circa otto milioni di euro nella banca Mb, commissariata dalla Banca d'Italia, e nel cui cda sedeva lo stesso Costa. Vignali e Costa sono accusati anche di aver distratto una somma complessiva di 900mila euro dalle partecipate Metro Parma e Alfa per pagare una penale per la rescissione anticipata di un contratto di concessione tra il Comune e la società Macello di Parma. Mezzo milione è stato preso da Metro Parma per rifornire Stt, ma la somma non è poi stata utilizzata per quello scopo perché trattenuta da un istituto di credito a copertura dello scoperto di conto corrente. Quattrocentomila euro sono invece transitati da Alfa a Stt per poi essere erogati al legale rappresentante di Macello di Parma, nel maggio 2010. A dirigere il sistema e "decidere tutto" secondo la Procura era Villani, finito in manette. Vignali - è stato scoperto tramite le intercettazioni - si incontrava con lui di continuo e lo informava su ogni dettaglio della gestione comunale. Le riunioni non si svolgevano solo in Comune ma anche in locali pubblici. Indiscusso "ras" del centrodestra di Parma e provincia, capogruppo del Pdl in consiglio regionale da anni, coordinatore del Pdl provinciale fino al febbraio 2012 (quando venne nominato il suo successore Paolo Buzzi, numero due dell'ex sindaco Vignali ora tra i banchi dell'opposizione in Giunta comunale) Villani fu poi anche nominato in quota comunale vicepresidente di Iren, la multiutility dell'energia contestata per la costruzione del famigerato inceneritore. Oggi in Regione il suo arresto ha portato sconcerto, sorpresa e qualche imbarazzo tra le fila del Pdl. I consiglieri hanno tenuto un summit sul caso Villani, ma pare che non verrà eletto subito un nuovo capogruppo. "Finora risultano fatti riferiti a vicende parmensi già note, Villani in tanti anni non ha mai dato adito a dubbi, sorprende che capiti proprio in questo momento politico particolare, quando siamo già in piena campagna elettorale", ha commentato il vice capogruppo Pdl Galeazzo Bignami, a margine dei lavori dell'aula. "Ci auguriamo che il particolare momento sia del tutto ininfluente, attendiamo come tutti i chiarimenti della Procura". Tommaso Ghirardi è indagato per peculato in concorso con l'ex addetto stampa del Comune Alberto Monguidi e con l'ex sindaco Vignali. Sono accusati di aver distratto dalle casse del Comune di Parma una somma di 21.293 euro per mandare a buon fine il passaggio di Monguidi dalla società calcistica al Comune di Parma quale responsabile dell'ufficio stampa. Monguidi infatti per l'incarico aveva chiesto una retribuzione dirigenziale, pari o superiore a 85mila euro. Non potendolo nominare dirigente per non violare la normativa in materia, Vignali si sarebbe accordato con Ghirardi perché una parte della somma che il Parma calcio doveva al Comune andasse direttamente a Monguidi, di fatto rinunciando a un diritto di credito dell'amministrazione pubblica. "Il Parma Fc - comunica la società tramite una nota stampa - intende sottolineare l’assoluta estraneità del suo legale rappresentante e della società a qualsivoglia attività illecita. I rapporti con il Comune di Parma si sono limitati alla gestione delle attività istituzionali che legano i due enti per l’utilizzo dello stadio Ennio Tardini. Si ribadisce comunque che il Presidente non ha ricevuto alcun avviso di garanzia e quindi non è al momento in grado di entrare nel merito di accuse che non si conoscono". Tra gli indagati per corruzione anche Marco Rosi, imprenditore proprietario del marchio Parmacotto, che negli anni passati ha avuto problemi con l'Amministrazione per la realizzazione di un dehors fuori da un suo locale. La struttura era risultata poi abusiva, perché non conforme alle normative comunali in materia. Per far cambiare il regolamento al sindaco, Rosi avrebbe fatto regali a Vignali pagandogli il soggiorno in un hotel di lusso a Forte dei Marmi. Questa nuova indagine arriva dopo la bufera di Green Money 2, l'inchiesta anti-corruzione della Procura, datata giungo 2011: arrestati diversi dirigenti comunali molto vicini all'allora sindaco Vignali, tra cui il capo della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi. A settembre era stata la volta dell'operazione Easy Money e in manette era finito l'assessore alla Scuola Giovanni Paolo Bernini, per tangenti legate alle mense scolastiche. Gli arresti avevano scatenato una rivolta popolare tra i parmigiani, che in centinaia erano andati a manifestare indignati sotto il municipio, facendo dimettere Vignali e spianando la strada al trionfo del Movimento 5stelle. E proprio il sindaco grillino di Parma, Federico Pizzarotti, ha lasciato oggi il suo commento alla nuova ferita della città, scrivendo un post sul suo blog sull'Huffington Post: "A Parma è finita un'epoca. Di quando la politica faceva quello che voleva al servizio di interessi particolari e non si pensava al bene comune. Non siamo preoccupati, ma noi tutti, i cittadini, la città, è frastornata. Non ci aspettavamo che l'incubo che gravava su di noi fosse di queste proporzioni. Ora non abbiamo altra strada che rifondare l'etica pubblica".

Soldi, favori, sesso: era il sistema Parma, scrive “24Emilia.net”. Vignali e Villani arrestati, 17 indagati.

Operazione Green Money 1 e 2 (2010-2011) La guardia di finanza di Parma, che l'11 giugno del 2010, aveva arrestato il funzionario dell'allora Enìa Nunzio Tannoia e tre imprenditori (i 42enni Gian Luigi Allodi e Francesco Borriello e il 41enne Alessandro Forni) con l'accusa di corruzione per aver alimentato un sistema di pagamento di tangenti al dirigente della multiutility per indirizzare alcuni affidamenti di lavori per la manutenzione del verde e per le opere di competenza dell’ufficio Enìa coinvolto nell'inchiesta, venerdì 24 giugno 2011 ha eseguito altre 11 ordinanze di custodia cautelare per corruzione e reati contro la pubblica amministrazione. Tra questi, il comandante della polizia municipale ducale Giovanni Maria Jacobazzi e i dirigenti del Comune di Parma Carlo Iacovini (direttore del marketing ed ex numero uno dello staff del sindaco Vignali e direttore generale del Comune) ed Emanuele Moruzzi del settore ambiente, direttore dell'area benessere e sostenibilità. Il comandante della Municipale è accusato anche di concussione per aver fatto pressione - arrivando a minacciarlo di trasferimento - su un agente allo scopo di costringerlo a cancellare una sanzione elevata dal poliziotto a uno degli imprenditori arrestati. Assieme a loro anche un secondo dirigente di Iren, Mauro Bertoli, l'investigatore privato Giuseppe Lupacchini, al quale Jacobazzi avrebbe passato (al prezzo di 4mila euro ciascuna) informazioni riservate su aziende e cittadini conservate nei database ministeriali a cui aveva accesso in funzione del suo pubblico ruolo, e sei imprenditori coinvolti nel pagamento delle mazzette, accusati a vario titolo di corruzione e peculato: si tratta di Ernesto Balisciano (presidente di Engioi), Gianvittorio Andreaus (dirigente di Sws), Alessandro Forni (già coinvolto nella prima tranche dell'inchiesta), Tommaso Mori, Gianluca Faccini e Norberto Mangiarotti. In alcuni casi, inoltre, sarebbe emersa la costituzione di società al solo fine di creare i soggetti economici in grado di rapportarsi illecitamente con la pubblica amministrazione della città e sui quali poter convogliare i flussi di denaro pubblico.

Operazione Spot Money (2011) La guardia di finanza di Parma ha arrestato con l'accusa di concussione due alti dirigenti di Stt, la principale società partecipata (e piena di debiti) del Comune. In manette la 40enne parmigiana Stefania Benecchi e Ivano Savi, funzionario pubblico classe 1964. L'indagine, coordinata da Paola Dal Monte, ha preso avvio dall'esame della documentazione contabile ed extra contabile, anche di natura bancaria e tecnica, di Stt. Secondo gli inquirenti, gli indagati avrebbero "posto in essere molteplici condotte fraudolente inficiando, così, la correttezza di gare pubbliche già eseguite e ancora in corso di esecuzione, tenutesi per la realizzazione di importanti opere infrastrutturali". Tra le opere in questione, il mega centro anziani, il tanto contestato Welfare Community Center (Wcc). I due funzionari arrestati utilizzavano una società di comodo a loro direttamente riconducibile ma schermata da una fiduciaria milanese. Hanno così percepito somme di denaro al solo fine di favorire imprenditori costretti a versare queste somme camuffate da consulenze per garantirsi l'aggiudicazione di appalti per decine di milioni di euro. Le Fiamme Gialle hanno sequestrato due appartamenti in località sciistiche della val di Fassa del valore di circa un milione di euro intestati a società di comodo riconducibili ai due. Gli appartamenti erano stati acquistati con il provento dell'attività illecita.

Operazione Easy Money (2011) L'inchiesta ha coinvolto l'assessore comunale di Parma alla Scuola e ai Servizi per l'infanzia Giovanni Paolo Bernini, accusato di corruzione e tentata concussione, e i due imprenditori M.ro T.ana e Antonio Martelli. Quest'ultimo avrebbe dato a Bernini un I-Pad e denaro per ottenere un cambio di destinazione d'uso per l'immobile di via San Donato che ospita l'asilo Mary Poppins. T.ana è accusato di aver pagato all'assessore una tangente da 8mila euro per ottenere il rinnovo di un appalto di ristorazione scolastica.

La giornata del 16 gennaio 2013

Ore 9 - Dalle prime ore dell'alba, la guardia di finanza, per conto della Procura, sta eseguendo alcuni arresti di spicco. Ai domiciliari sono finiti il consigliere regionale del Pdl e vicepresidente di Iren Luigi Giuseppe Villani, l'ex sindaco di Parma Pietro Vignali, l'ex presidente della società partecipata comunale Stt Andrea Costa e l'editore del quotidiano Polis Angelino Buzzi. I quattro sarebbero coinvolti in un caso di tangenti legato all'informazione locale. Altri provvedimenti sarebbero in corso di esecuzione. Le ordinanze sono state richieste quest'estate e firmate oggi dal gip Maria Cristina Sarli. Dopo l'inchiesta Green Money 2, inchiesta che ha portato all'arresto di diversi dirigenti comunali molto vicini all'allora sindaco Vignali tra cui il capo della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi, e Easy Money, nell'ambito della quale era finito in manette l'assessore alla Scuola Giovanni Paolo Bernini per tangenti legate alle mense scolastiche, stavolta tocca a Villani, capogruppo del Pdl in consiglio regionale da anni, coordinatore del Pdl provinciale fino al febbraio 2012 (quando venne nominato Paolo Buzzi), nonché vicepresidente di Iren, e a Vignali, primo cittadino di Parma dal 2007 al 2011, costretto a lasciare l'incarico prima della fine del mandato a causa delle inchieste giudiziarie che hanno travolto la sua giunta di centrodestra.

Ore 11 - Sono 17 in totale le persone indagate nell'ambito dell'inchiesta della Finanza che sta eseguendo ordinanze di custodia cautelare per conto della Procura di Parma. Ai domiciliari con le accuse di peculato e corruzione Villani, Vignali, Costa e l’editore Buzzi. Stando alle prime informazioni, che verranno approfondite durante una conferenza stampa del Procuratore Gerardo Laguardia alle 11, l’operazione è stata denominata "Public Money" e ha visto anche il sequestro di beni per 3,5 milioni di euro, mobili e immobili intestati e/o riconducibili agli arrestati. Gli indagati, scrivono in una nota le Fiamme Gialle, “hanno tenuto costantemente, nel corso di più anni, una condotta fraudolenta finalizzata ad accumulare ingenti ricchezze da destinare ad usi strettamente privati, quali tra gli altri il finanziamento della campagna elettorale per le elezioni amministrative di Parma del 2007; la fidelizzazione della popolazione parmense e non ad un particolare 'movimento' politico anche al fine di una eventuale candidatura alle successive elezioni politiche nazionali; il controllo della stampa locale”.

Ore 12 - "Le investigazioni hanno fatto emergere la propensione a delinquere dei soggetti coinvolti, che hanno distratto somme di danaro pubblico a proprio beneficio ed a beneficio di imprenditori e professionisti compiacenti, che hanno lucrato, grazie a tale metodologia di gestione/utilizzo fraudolento, sulle risorse della pubblica amministrazione - si legge nel comunicato della Gdf - Le indagini hanno appurato che gli indagati avrebbero tenuto costantemente, nel corso di più anni, una condotta fraudolenta finalizzata ad accumulare ingenti ricchezze da destinare ad usi strettamente privati". Gli inquirenti stimano danni all'erario per milioni di euro. Le indagini hanno permesso di ricostruire quelli che sarebbero stati gli intrecci "tra alti dirigenti del Comune di Parma (tra i quali l'ex sindaco), le aziende municipalizzate e partecipate, alcune società di servizi, imprenditori, professionisti e politici". L'inchiesta ha accertato che il presunto "sistema illecito di gestione di parte delle società pubbliche, in commistione con alcuni noti imprenditori e professionisti, era consolidato fino ai suoi vertici". I soldi sarebbero stati utilizzati per il controllo della stampa locale e sarebbero state favorite le assunzioni di parenti e amici in aziende pubbliche. "Con gli arresti di Vignali, di Villani, di Costa e di molti altri, effettuati dalla Guardia di Finanza nelle prime ore di questa giornata, si hanno ulteriori conferme di ciò che abbiamo sempre urlato nelle nostre proteste, anche se siamo ancora convinti che questo sia solo un piccolo tassello nel mondo del malaffare portato avanti nella nostra città - scrive il Popolo Viola - Le accuse a carico dell'ex sindaco e del consigliere regionale smascherano in maniera lampante il sistema messo in atto, sistema che abbiamo più volte denunciato pubblicamente insieme a tantissime altre associazioni e cittadini parmigiani già ben prima delle inchieste Green Money. Abbiamo ancora impressi nella nostra mente i molteplici insulti ricevuti nei giorni delle proteste sotto i portici del Grano e continuati durante la campagna elettorale per le scorse amministrative; sapevamo che il tempo si dimostra sempre 'galantuomo' e oggi possiamo, con gioia, rispedirli ai mittenti. Oggi, come un anno fa, siamo fieri delle nostre lotte al Berlusconismo, delle proteste messe in atto sotto i Portici del Grano con costanza e determinazione e sempre più orgogliosi di aver contribuito, insieme a tantissimi altri cittadini, alla caduta della passata amministrazione".

Ore 14 - C'è anche il patron di Parmacotto Marco Rosi tra gli indagati per corruzione dalla procura di Parma nell'ambito dell'inchiesta "Public Money" che ha portato agli arresti domiciliari l'ex sindaco della città ducale Pietro Vignali, il consigliere regionale del Pdl e vicepresidente di Iren Luigi Giuseppe Villani, l'imprenditore Angelo Buzzi (consigliere e presidente del cda di Iren Emilia) e l'ex presidente di Stt Andrea Costa. La vicenda è legata alla costruzione di un dehor nella centralissima via Farini per il ristorante di Rosi. Secondo il procuratore di Parma Gerardo Laguardia, che ha condotto l'indagine, la normativa che regola le disposizioni in materia sarebbe stata rifatta su misura proprio per favorire gli interessi dell'imprenditore parmigiano.

Ore 14.30 - Nella lunga lista di indagati dell’operazione "Public Money" è spuntato un altro nome importante: è quello di Tommaso Ghirardi, il presidente del Parma Fc, accusato di peculato in concorso con l’ex sindaco Pietro Vignali e Alberto Monguidi, ex addetto stampa del Comune. I tre, secondo l'accusa, avrebbero sottratto circa 21mila euro dalle casse comunali per spostare lo stesso Monguidi dalla società di calcio di serie A allo stesso Comune ducale. Ghirardi e Vignali, in particolare, si sarebbero accordati per dare direttamente all'interessato una parte della somma richiesta da Monguidi, pari a 85mila euro, per ricoprire l'incarico di responsabile dell’ufficio stampa comunale. In una nota della società sportiva, però, si legge che “il presidente Ghirardi ha appreso solo tramite gli organi di stampa di essere in qualche modo coinvolto in una vicenda penale relativa ai rapporti intrattenuti tra il Parma e l’amministrazione del Comune di Parma. Il Parma intende sottolineare l’assoluta estraneità del suo legale rappresentante e della società a qualsivoglia attività illecita. I rapporti con il Comune di Parma si sono limitati alla gestione delle attività istituzionali che legano i due enti per l’utilizzo dello stadio Ennio Tardini. Si ribadisce comunque che il presidente non ha ricevuto alcun avviso di garanzia e quindi non è al momento in grado di entrare nel merito di accuse che non si conoscono”. Gli altri indagati, oltre a Ghirardi, Monguidi e Rosi, sono gli ex dirigenti del Comune di Parma Emanuele Moruzzi e Carlo Iacovini, il presidente di Enìa Mauro Bertoli, l’ex presidente di Engioi Ernesto Balisciano, gli imprenditori Alessandro Forni e Norberto Mangiarotti, gli amministratori della società Sws Gian Vittorio Andreaus e Tommaso Mori, Alfonso Bove, l'ex ufficio stampa del Comune di Parma Aldo Torchiaro, l’ex ufficio stampa di Stt Lara Ampollini, Riccardo Ragni, Antonio Cenini, Danilo Cucchi e il presidente di Tep Tiziano Mauro.

Ore 15 - Nelle indagini relative all'inchiesta "Public Money" che ha portato all'arresto di 4 persone e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre 17 persone a Parma è entrato anche il nome di Nadia Macrì, l'ex escort reggiana che oltre 2 anni fa salì agli onori delle cronache dopo aver raccontato ai magistrati di Palermo cosa avveniva durante le feste a casa di Silvio Berlusconi a Villa Certosa, in Sardegna. Durante la conferenza stampa con il procuratore della Repubblica di Parma Gerardo Laguardia e il comandante provinciale della Guardia di finanza Guido Maria Geremia la donna è stata definita come lo "strumento" del quale l'ex sindaco di Parma Vignali si servì per riallacciare i rapporti con l'allora presidente del consiglio del Pdl. Secondo Geremia "c'è stato un forte tentativo di ostacolare le indagini sia a livello locale che nazionale". A tale scopo Vignali avrebbe cercato di contattare l'allora premier proprio attraverso la Macrì, per altro già coinvolta nell'indagine sull'ex esponente del Pdl e narcotrafficante Perla Genovesi. Macrì, tra le altre affermazioni, all'epoca aveva anche dichiarato di aver fatto sesso a pagamento con Vignali, che però aveva respinto ogni addebito: l'ex sindaco, infatti, aveva negato la circostanza ammettendo semplicemente di aver conosciuto la Macrì davanti a un hotel di Parma ma di aver solo scambiato due chiacchiere con la donna, senza andare oltre.

Public money, ex sindaco di Parma Vignali patteggia due anni per corruzione. Deve risarcire il Comune. La pena è stata sospesa. Dieci mesi a Tiziano Mauro, ex presidente dell’azienda di trasporto locale Tep accusato di avere ricevuto benefit non dovuti da una partecipata comunale. Prosciolti l’ex presidente del Parma Tommaso Ghirardi e Alberto Monguidi, ex addetto stampa del Comune e della società sportiva, scrive di Silvia Bia il 17 novembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A quasi tre anni dall’arresto, per l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali si chiude con una condanna a due anni e la sospensione della pena l’inchiesta Public Money. Il giudice Paola Artusi nell’udienza preliminare del 17 novembre ha ratificato l’accordo di patteggiamento raggiunto tra la difesa e il pm Paola Dal Monte. Vignali era accusato di otto capi di imputazione di peculato e corruzione per avere usato decine di migliaia di euro di fondi pubblici del Comune e di Enìa (Iren) per la sua campagna elettorale e per promuovere la sua immagine di sindaco, e anche per aver messo a tacere il giornale d’opposizione Polis pagando gli stipendi dei giornalisti e affidando incarichi al suo editore. L’ex sindaco non farà nemmeno un giorno in carcere, ma dovrà risarcire il Comune di Parma, che si era costituito parte civile, per il danno arrecato. La cifra ufficiale non è stata resa nota, ma l’avvocato Marco Zincani si è detto “soddisfatto” del risultato raggiunto. Un anno fa la Guardia di finanza aveva messo sotto sequestro conservativo un appartamento di proprietà di Vignali del valore di circa 500mila euro, che potrebbe rientrare nell’accordo. Era gennaio 2013 quando l’ex sindaco eletto nel 2007 finì ai domiciliari insieme al consigliere regionale Pdl Luigi Giuseppe Villani, l’imprenditore Angelo Buzzi e il manager Andrea Costa. Con loro finirono indagate a vario titolo per corruzione e peculato in tutto 17 persone tra consulenti, giornalisti e imprenditori che facevano parte del “sistema Parma”, che in pochi anni ha generato un buco di oltre 800 milioni di euro nelle casse comunali lasciato poi in eredità alla giunta Cinque stelle di Federico Pizzarotti. “La decisione di patteggiare non è dettata da un’ammissione di colpa, ma dall’esigenza per me vitale di voltare pagina, chiudendo un periodo di grande dolore fisico ed emotivo – ha commentato l’ex sindaco in una nota inviata agli organi di stampa – Avrei voluto affrontare il processo ma questo avrebbe significato ingenti spese legali e ulteriori anni di attesa e sofferenza prima di arrivare alla sentenza finale”. Nella lettera Vignali ha difeso la sua attività di quattro anni alla guida del Comune, nei quali spiega di essersi trovato a gestire “progetti faraonici ereditati” o “discutibili”, o a bloccarne altri come quello della metropolitana. L’ex primo cittadino ha parlato anche delle nuove progettualità introdotte per Parma, dalla Carta sulla sicurezza al Festival Verdi. “Nel 2012 con riferimento al 2011 Il Sole 24 Ore si è occupato spesso della nostra città perché Parma guidava le classifiche delle città più vivibili e meglio servite d’Italia – ha concluso – Purtroppo la gogna mediatica a cui sono stato sottoposto ha messo in secondo piano tutto questo: ciò non fa giustizia né alla verità né alla città”. Insieme a quella dell’ex primo cittadino, si chiudono anche altre posizioni. Il giudice ha accolto il patteggiamento per Tiziano Mauro, ex presidente dell’azienda di trasporto locale Tep, che era accusato di avere ricevuto benefit non dovuti, tra cui un appartamento, da una partecipata del Comune. Il danno era stato in seguito risarcito e la condanna per lui è di dieci mesi con pena sospesa. Riccardo Ragni, agente di commercio, ha patteggiato un anno e sei mesi, pena sospesa. Stessa condanna ratificata anche per il consulente commerciale Danilo Cucchi. Entrambi erano accusati di avere ricevuto denaro di società partecipate a fronte di prestazioni fittizie. Sono stati prosciolti invece l’ex presidente del Parma Fc Tommaso Ghirardi e Alberto Monguidi, ex addetto stampa del Comune e della società sportiva, accusati di peculato in concorso con Vignali: per entrambi il gip ha disposto il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Otto i rinvii a giudizio, tra cui figurano anche il proprietario di Parmacotto Marco Rosi, accusato di avere pagato a Vignali una notte in un albergo di lusso di Forte dei marmi in cambio del permesso per l’installazione di un dehors del suo locale. Con lui il manager e amministratore della società partecipata Stt Costa, accusato di avere distratto somme dalle società del Comune, per cui la Procura aveva disposto un sequestro conservativo di oltre un milione di euro in quote della sua società Cnc, e l’imprenditore ed editore Buzzi. A giudizio andranno anche Antonio Cenini, collaboratore che avrebbe dovuto garantire a Vignali i rapporti con Roma, Alfonso Bove, che lavorava nella gestione di Polis, il giornalista Aldo Torchiaro, nel mirino per presunte consulenze fittizie, il rappresentante legale della società Macello Parma Mirko Dolfen, accusato di peculato per distrazioni, ed Emanuela Iacazzi, addetta alle Relazioni esterne del Comune che secondo le accuse avrebbe invece fatto da supporter all’immagine dell’ex sindaco. La prima udienza è fissata il prossimo 7 marzo 2016, e il processo si dovrebbe unire a quello del consigliere regionale Villani, per cui la Procura aveva disposto il giudizio immediato per concorso in corruzione e peculato. A commentare l’esito dell’udienza anche il Comune di Parma, che ha espresso soddisfazione per la conclusione di questa prima fase. “Siamo di fronte ad una svolta storica per la città – ha detto il sindaco Pizzarotti alla notizia del patteggiamento – che, pur non dimenticando la ferita subita nella dignità e nell’immagine, può voltare pagina e guardare al futuro. E’ probabilmente uno dei primi casi in Italia in cui chi ha causato danni economici alla pubblica amministrazione commettendo reati, sarà chiamato a risarcire il Comune, e quindi i cittadini. Da oggi possiamo tornare ad avere più fiducia nelle istituzioni e nella politica”.

Public Money, l'ex sindaco di Parma Vignali patteggia due anni con pena sospesa. L'ex primo cittadino: "Mai intascato un euro". Pizzarotti: "Città risarcita, svolta storica". Ghirardi, non luogo a procedere. Rinvio a giudizio per Rosi, Costa e Buzzi, scrive Maria Chiara Perri su "La Repubblica" il 17 novembre 2015. L'ex sindaco di Parma Pietro Vignali ha patteggiato due anni di reclusione con pena sospesa per il suo coinvolgimento nell'inchiesta Public Money, l'ultima di una serie di indagini sulle malversazioni nelle partecipate del Comune di Parma che hanno portato al crollo della precedente giunta. Il verdetto del giudice per le udienze preliminari Paola Artusi è arrivato alle 15, dopo un paio d'ore di camera di consiglio. L'accordo sull'applicazione della pena era stato raggiunto tra il pm Paola Dal Monte e la difesa di Vignali nei mesi scorsi, subordinato a un cospicuo risarcimento per il Comune che si è costituito parte civile con le partecipate Alfa ed Stt. L'avvocato del Comune Marco Zincani, esprimendo "massima soddisfazione" per il risultato la trattativa, dichiara che i termini dell'accordo economico sono riservati. Già nei prossimi giorni si procederà ai passaggi di proprietà. Secondo quanto emerso da indiscrezioni, al Comune spetterebbero le quote delle proprietà immobiliari di Vignali già poste sotto sequestro conservativo dal gip, tra cui l'appartamento in cui abita nel centro storico, per un valore complessivo di 550mila euro. L'ex sindaco ha così chiuso oggi la propria posizione per otto capi d'imputazione per peculato e due per corruzione. Non farà un giorno di carcere, ma uscirà da questo intreccio di politica e malaffare decisamente alleggerito nel portafoglio. Il giudice ha anche disposto che gli siano confiscati mille euro già posti sotto sequestro su un conto corrente per il caso di corruzione da parte dell'ex patron di Parmacotto Marco Rosi, che avrebbe pagato all'ex sindaco un soggiorno di lusso a Forte dei Marmi (del valore appunto di un migliaio di euro) per ottenere in cambio una variazione "ad personam" nel regolamento dei dehors. "La decisione di patteggiare non è dettata da un'ammissione di colpa ma dall'esigenza per me vitale di voltare pagina, chiudendo un periodo di grande dolore fisico ed emotivo. Avrei voluto affrontare il processo ma questo avrebbe significato ingenti spese legali e ulteriori anni di attesa e sofferenza prima di arrivare alla sentenza finale". L'ex sindaco di Parma affida a una nota diffusa via mail le sue parole a commento del patteggiamento, difendendo il proprio operato come amministratore e dichiarando di essere stato sottoposto a una gogna mediatica. "Il Comune di Parma - si legge in una nota - esprime la massima soddisfazione per il risarcimento del danno previsto nell'accordo raggiunto con l'ex sindaco Pietro Vignali, reso possibile anche per effetto dei tempi celeri di definizione della vicenda giudiziaria. I contenuti dell'atto non sono ora rivelabili, in quanto si resta in attesa della definizione delle procedure in fase esecutiva". "Ora possiamo dirlo: siamo di fronte ad una svolta storica per la città - commenta il sindaco Federico Pizzarotti - che, pur non dimenticando la ferita subita nella dignità e nell'immagine, può voltare pagina e guardare al futuro.  E' probabilmente uno dei primi casi in Italia in cui chi ha causato danni economici alla pubblica amministrazione commettendo reati, sarà chiamato a risarcire il Comune, e quindi i cittadini. Da oggi possiamo tornare ad avere più fiducia nelle istituzioni e nella politica". Il gup ha ratificato i patteggiamenti anche per altri tre imputati. Dieci mesi, pena sospesa, per l'ex presidente di Tep Tiziano Mauro accusato di peculato per benefit ricevuti da Alfa. Anche lui ha interamente risarcito il danno. Hanno patteggiato entrambi un anno e sei mesi di reclusione Danilo Cucchi e Riccardo Ragni, due consulenti che avrebbero ricevuto denaro rispettivamente da Enìa e da Alfa per prestazioni mai rese. Soltanto a Ragni è stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena. Esce dal procedimento con la fedina penale immacolata un nome molto noto alle cronache, Tommaso Ghirardi. L'ex presidente del Parma Calcio è stato prosciolto dall'accusa di peculato così come l'ex responsabile dell'ufficio stampa del Comune Alberto Monguidi. Entrambi erano coimputati con Vignali per un presunto caso di peculato che riguardava un'integrazione dello stipendio del giornalista con denaro che sarebbe stato "scontato" dall'affitto del Tardini. Il gup Artusi ha dichiarato che allo stato degli atti aveva l'assoluta certezza dell'insussistenza del reato. Ha disposto il non luogo a procedere per Monguidi e Ghirardi con formula piena, perché il fatto non sussiste. "Abbiamo fornito una diversa lettura degli atti d'indagine e prodotto documenti dai quali emerge univocamente che il fatto così come contestato non è mai avvenuto - spiega l'avvocato Stefano Delsignore, codifensore di Ghirardi insieme a Guido Bontempi del foro di Brescia - Monguidi non ha avuto nessuna integrazione stipendiale da parte di Ghirardi né c'è mai stato alcun esborso da parte del Comune a favore del Parma Calcio". Per tutti gli altri imputati, accusati a vario titolo di peculato e corruzione, è stato disposto il rinvio a giudizio davanti a un collegio di tre giudici. La prima udienza è stata fissata per il 7 marzo 2016. Il processo dovrebbe riunirsi con quello di Giuseppe Luigi Villani, da tempo fermo in fase dibattimentale in attesa della decisione sul destino giudiziario dei coimputati. Affronterà il processo l'ex numero uno di Stt Andrea Costa, accusato di aver drenato centinaia di migliaia di euro dalle casse della holding comunale e dalla controllata Alfa tramite consulenze, incarichi e utilizzo della carta di credito aziendale per scopi personali. Tra le varie imputazioni in capo a Costa ce n'è anche una che riguarda la commissione di uno studio da oltre 19mila euro sulla tracciabilità isotopica dei vini, che sarebbe stato utilizzato a favore delle Tenute Costa che ancora oggi producono vini tra le Langhe e la Maremma toscana. Nei giorni scorsi il Comune ha chiesto e ottenuto dal gup Artusi il sequestro conservativo delle quote della società Cnc, controllante attività vitivinicole dell'imprenditore. Complessivamente sono stati bloccati un milione 150mila euro, già oggetto di sequestro preventivo all'epoca degli arresti. La difesa di Costa ha già impugnato il provvedimento in sede di Riesame. A giudizio andrà anche il quarto imprenditore che finì agli arresti nel 2013, l'ex editore di Polis Angelo Buzzi. Processo anche per Alfonso Bove, coinvolto nel tentativo di Vignali e Villani di controllare il quotidiano tramite erogazioni di denaro di Stt. Marco Rosi dovrà rispondere a dibattimento dell'accusa di aver corrotto Vignali per ottenere l'autorizzazione al dehors davanti alle Sorelle Picchi, di cui all'epoca era proprietario. Mirko Dolfen, ex legale rappresentante di Macello di Parma, deve rispondere di un'accusa di peculato per distrazioni (non tutte andate a buon fine) fino a 900mila euro da Stt e Alfa per pagare la rescissione anticipata della concessione tra Comune e il macello di via del Taglio. Sono stati rinviati a giudizio anche Aldo Torchiaro e Antonio Cenini, professionisti accusati di aver ricevuto denaro per consulenze fittizie in realtà legate ad attività di interesse personale di Vignali. La stessa accusa pende su Emanuela Iacazzi, dipendente del Comune che avrebbe svolto attività d'immagine e pubbliche relazioni per l'ex sindaco. Tutte le contestazioni di Public Money riguardano fatti avvenuti tra il 2009 e il 2011. Questo significa che il rischio di prescrizione è assolutamente concreto, visti i lunghi tempi del processo dibattimentale con i successivi gradi di giudizio. Se quindi due anni e nessun effettivo giorno di pena per l'ex sindaco Vignali sembrano pochi, d'altra parte bisogna considerare che finora è stato l'unico a pagare con le sue proprietà i danni provocati alla cosa pubblica.

IN TREDICI ANNI MAI PRESO UN EURO (AGENZIA DIRE): Cala il sipario sulla vicenda giudiziaria dell'ex sindaco di Parma Pietro Vignali, travolto nel 2011 dall''inchiesta "Public Money" sulla corruzione dalla Procura di Parma. Oggi il Gup del Tribunale di Parma, Paola Artusi, ha infatti accolto la richiesta di patteggiamento del legale di Pietro Vignali, Nicola Mazzacuva, ad una pena di due anni che è stata sospesa. Vignali esce quindi dalle inchieste che lo hanno coinvolto per i presunti reati di corruzione e peculato. "La decisione di patteggiare non è dettata da un'ammissione di colpa - sottolinea con forza Vignali - ma dall'esigenza per me vitale di voltare pagina, chiudendo un periodo di grande dolore fisico ed emotivo. Avrei voluto affrontare il processo, ma questo avrebbe significato ingenti spese legali e ulteriori anni di attesa e sofferenza prima di arrivare alla sentenza finale". Vignali, che ha ceduto a titolo di risarcimento l'appartamento in cui viveva e due quote in due case ereditate dal padre, difende il suo operato: "In 13 anni di attività politica, prima come assessore e poi come sindaco di Parma, non mi sono intascato nemmeno un euro". Ora che la vicenda processuale può dirsi chiusa e dopo aver scelto il silenzio per anni "per non intralciare il corso delle indagini", l'ex primo cittadino intende però iniziare a fare chiarezza su quanto è successo. "Sono state dette molte cose non vere su di me e sul mio operato, poi tardivamente rettificate, come il buco di 800 milioni che avrei lasciato nelle casse del Comune senza distinguere fra indebitamento del Comune che era di 165 milioni (quando sono diventato sindaco nel 2007 era già di 151 milioni)", spiega, e indebitamento delle società partecipate. In particolare, il debito del Comune, "era una cifra di molto inferiore alla media dei Comuni secondo i dati del ministero dell'Interno con una cassa positiva di oltre 55 milioni di euro a cui vanno aggiunti gli oltre 70 milioni di fondi ex metropolitana che ho ottenuto dal Governo e che ho lasciato in eredità alla nuova amministrazione". Rispetto all'indebitamento delle società partecipate "che per oltre il 90% facevano riferimento a scelte progettuali di società costituite prima del mio arrivo come la Stu stazione, la Stu authority, la Stu Pasubbio, la Stu metropolitana e la Spip", Vignali precisa invece: "Mi sono trovato con i cantieri già avviati e con imponenti operazioni immobiliari, come nel caso della Spip già effettuate". Infine l'ex sindaco sottolinea la vicenda di "un mio presunto tesoretto che poi si è dimostrato non essere mai esistito, e sono stato inoltre ingiustamente costretto agli arresti domiciliari, senza che vi fossero i presupposti di legge, come riconosciuto per ben due volte dal tribunale del riesame di Bologna". Vignali fu eletto sindaco di Parma nel giugno 2007 e si è dimesso nel settembre 2011. "Nei quattro anni in cui sono stato sindaco tutta la mia attività è stata dedicata ad affrontare e gestire progetti faraonici ereditati (come il primo progetto della ghiaia e il primo progetto così detto degli scatoloni del ponte a Nord), a finanziare progetti discutibili già avviati al mio arrivo, ma non completamente finanziati (come il centro congressi interrato al parco ex Eridania, l'arena estiva del teatro due, il teatro dei dialetti), a completare opere importanti per la città (come i due sottopassi della tangenziale, la complanare che ha salvato Cibus, la riqualificazione del palazzo del Governatore) e a bloccare inutili e dispendiosi progetti faraonici (l'annullamento del progetto per la metropolitana che ha comportato un saldo positivo per le casse comunali di 200 milioni di euro)". A tutto questo, spiega, "ho aggiunto una nuova progettualità innovativa, in particolare nel campo della sicurezza che è stata utilizzata da tutti i sindaci, della famiglia (il quoziente familiare è stato preso ad esempio in 49 città, compresa Roma), dell'ambiente, e della cultura con la realizzazione della prima edizione del Festival Verdi nell'ottobre del 2007". E ancora cita: risultati nel sport e nei servizi alla persona "che hanno portato benefici a Parma e ne hanno fatto un modello a livello nazionale senza mai aumentare le tasse". Parma spesso guidava le classifiche delle città più vivibili e meglio servite d'Italia. Purtroppo, conclude Vignali, "la gogna mediatica a cui sono stato sottoposto ha messo in secondo piano tutto questo: ciò non fa giustizia nè alla verità nè alla città". (Cai/ Dire)

PARMA E LA MAFIA. LA MAFIA NON E' UNA ENTITA' ASTRATTA A CUI DARE LA COLPA NEL MOMENTO IN CUI NON SI PUO' O NON SI VUOLE TROVARE IL RESPONSABILE DI UN REATO. LA MAFIA E' UN ATTEGGIAMENTO.

Al sud Italia ci sono organizzazioni mafiose italiane: "Cosa Nostra" in Sicilia; "Ndrangheta" in Calabria; "Sacra Corona Unita" in Puglia; "Basilichi" in Basilicata; "Camorra" in Campania. Nonostante l'evidenza dei fatti, con la cronaca che ci parla di continui arresti per associazione mafiosa con infiltrazioni in appalti pubblici e nel tessuto economico locale in tutto il territorio nazionale, qualcuno si ostina a relegare il fenomeno "Mafia" solo nel territorio del Sud Italia.

La camorra a Parma? "Continuo affiorare dei segnali di pericolose contaminazioni criminali del territorio regionale (con riferimento, soprattutto, alle province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza) e all'influenza sia di gruppi mafiosi originari del crotonese e della provincia di Palermo sia, soprattutto, del potente cartello dei Casalesi". E ancora: "Ai protagonisti di tali insediamenti criminosi, attivi soprattutto nella zona di Modena, Reggio Emilia e Parma è risultata riconducibile la pressione estorsiva esercitata sul mercato dell'edilizia privata, attraverso l'esportazione dei moduli operativi tipici delle zone camorristiche, ormai non soltanto nei confronti di imprenditori edili provenienti dalla medesima area geografica, ma anche locali. L'obiettivo rilievo di tale pressione estorsiva di matrice mafiosa appare in sé dimostrato in plurimi ambiti investigativi, in ragione della loro obiettiva connessione con la struttura originaria dei Casalesi". Ci sono cose che un prefetto non può non sapere. Ci sono cose che il massimo rappresentante dello Stato in una provincia non può ignorare. Le frasi che descrivono la penetrazione camorristica nella provincia di Parma provengono dal più ufficiale dei documenti: la relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, la superprocura che coordina e dirige la lotta alla criminalità organizzata. Un prefetto come Paolo Scarpis, che è stato questore di Milano e ha passato una vita in polizia può ignorare queste cose? Il prefetto di Parma con due interviste ha attaccato e insultato Roberto Saviano. Scarpis ha dichiarato: "Non mi risultano indagini di nessun tipo che riguardino mafia, camorra e 'ndrangheta a Parma". E ha aggiunto, riferendosi allo scrittore campano: "Sono sparate di una persona che sta a ottocento chilometri di distanza, che ha visto Parma di passaggio. Il tentativo di allarmismo è fuori luogo e se qualcuno è così convinto di saperne di più dei professionisti del settore, si faccia avanti facendo nomi e cognomi". Nomi e cognomi sono stati scritti in 'Gomorra' e negli articoli che Saviano ha firmato su 'L'espresso'. Sono stati scritti in un'inchiesta di copertina del giornale dedicata alla colonizzazione camorristica dell'Emilia Romagna che ha causato la perquisizione della redazione. Sono stati scritti in quattro libri pubblicati nell'ultimo anno. Ma soprattutto sono stati scritti nella sentenza di primo grado che ha condannato imprenditori parmensi come affiliati al clan dei Casalesi. Come poteva il rappresentante dello Stato a Parma ignorarli? Scarpis si è difeso sostenendo di avere prima chiesto informazioni alla Procura di Parma. Una dichiarazione che aumenta i dubbi sulla sua competenza: dal 1992 il codice affida le indagini di mafia e camorra nella regione esclusivamente alla Direzione distrettuale di Bologna. Quella che ha firmato la relazione citata e ha smentito pubblicamente il prefetto con una dichiarazione del procuratore Silverio Piro: "Sono sorpreso per quelle parole, le infiltrazioni ci sono e continuano". Infatti quello che viene descritto dalla Procura nazionale nella sua relazione è solo l'aggiornamento: i fenomeni registrati nel corso del 2008, non la storia dello sbarco delle cosche lungo la via Emilia. Mentre nello stesso dossier si parla delle indagini su alcune grandi imprese di Parma accusate di avere fatto accordi con Cosa nostra per gestire gli appalti nel Sud. Può un prefetto ignorare tutto questo e insultare chi rischia la vita per averlo invece scritto e ribadito? Da Parma il Siulp, il più importante sindacato di polizia, si è rivolto al ministro Roberto Maroni chiedendo le dimissioni di Scarpis: ha ricordato un illustre precedente, quello di Claudio Scajola che lasciò il Viminale dopo le frasi ingiuriose nei confronti di Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle Br. Saviano invece è ancora vivo, grazie anche alla scorta che lo Stato gli garantisce, quello stesso Stato che permette ancora a Scarpis di rappresentarlo.

A riguardo anche Lucarelli dice la sua su “La Repubblica” in riferimento a tre immobili confiscati alla mafia: "Parmigiani, sveglia". Sono due a Salso e uno a Langhirano gli edifici sequestrati alla criminalità organizzata. In Regione 66 in tutto. Più 22 aziende. Lo scrittore noir: "L'esistenza della mafia al Nord provoca fastidio ai settentrionali. Ricordo quando a Parma il Prefetto mi disse che ero un rinnegato che parlava male della sua città". Tre immobili, due a Salsomaggiore e uno a Langhirano. Sono questi i beni confiscati alla criminalità organizzata nella provincia di Parma fino al giugno 2009 secondo i dati diffusi dall'agenzia del Demanio sul proprio sito. Dove si scopre che la città ducale, quando si parla di mafia, in Emilia Romagna è in buona compagnia: altri 25 edifici sono stati sequestrati a Forlì-Cesena, 16 a Bologna, otto a Ferrara, sette a Ravenna, cinque a Piacenza e due a Rimini. A cui si aggiunge la confisca di 22 aziende, di cui 10 nel bolognese. Numeri importanti, comunicati stamattina nel capoluogo di regione durante la presentazione della rassegna culturale "Politicamente scorretto", incentrata sulla lotta alla mafia. Un fenomeno che nel Nord Italia esiste ma viene sottovalutato. Parola dello scrittore parmigiano Carlo Lucarelli, che a margine della conferenza stampa ha ribadito:"Al Nord Italia ci sono i mafiosi più pericolosi, quelli che fanno affari. Infatti quelli che hanno contatti con l'alta finanza li hanno arrestati a Milano". Eppure parlarne non è facile. La presenza della criminalità organizzata, afferma lo scrittore, "è presa con fastidio". L'ha potuto constatare di persona quando per 'Blunotte' ha realizzato una puntata sull'argomento. "Tutte le volte che ti metti a parlare di un posto del Nord e parli di mafia - spiega - c'è sempre qualche sindaco che ti chiede perché e ti accusa di offendere l'immagine del posto". Ad esempio a Parma, sua città natale. "Un po' di gente compreso il Prefetto - ricorda - avevano detto 'guarda un po' questi scrittori rinnegati che stanno parlando male della loro città'". E' un atteggiamento, dice Lucarelli, che "al Sud non c'è più, nessuno si permette più di dire 'la mafia non esiste'". "Parmigiani, sveglia". Ritornando alla sua città lo scrittore ha commentato: "La realtà di Parma di adesso non la conosco, ma due o tre esiti giudiziari per imprenditori, anche molto noti, che sono finiti in galera per aver fatto affari con i Casalesi ci sono stati. Quindi attenzione, è quello che vorrei dire ai miei fratelli parmigiani, 'sveglia'". La mafia al Nord. L'Emilia-Romagna, in quanto a confische mafiose, è la quarta regione del Settentrione, dopo la Lombardia con 655 beni, il Piemonte con 121 e il Veneto con 78. Dati di fronte a cui, secondo lo scrittore, bisogna fare "attenzione". La nostra regione, dice infatti, "normalmente non la associ alla mafia, sbagliando, perché molte cose passano di qui, poi invece vai a vedere i numeri e pensi 'Se qui erano così tante le cose in mano alla mafia, allora la mafia c'è". Anche se, precisa, no bisogna "fare allarmismi" e pensare che adesso la mafia gestisca l'Emilia-Romagna. "Non è così, è chiaro". Poi Lucarelli ricorda la vicenda di Modena, dove lo scenario di una recente inchiesta, dice, rispecchia "uno schema tipico di Corleone e invece siamo a Modena", dove una recente inchiesta contro i Casalesi portò a scoprire di "persone che se ne stanno in galera condannati per mafia, danno ordini alla cosca che sta fuori, gestiscono due locali pubblici gestiscono gli appalti e, quando c'è un imprenditore che non ci sta, lo fanno gambizzare. Tutto questo dove avviene? A Locri? No, a Modena".

Emilia, le mani della mafia.

Un’inchiesta di Lirio Abbate  de “L’Espresso”. Da Piacenza a Rimini, da Parma a Ravenna, la criminalità organizzata sta conquistando anche questa storica 'regione rossa'. Attraverso una rete di politici, imprenditori, professionisti. Che rispondono ai clan e alle 'ndrine. Si sono insediati e infiltrati. Con calma, lentamente, in poco più di un decennio hanno fatto dell'Emilia Romagna l'ultima terra di conquista. Qui le mafie non hanno usato le armi, anzi hanno evitato delitti clamorosi: si sono radicate nel territorio grazie ai soldi, senza bisogno di sparare. L'immagine choc del revolver sul piatto di tagliatelle è lontana dalla realtà: i boss si sono infilati tra la via Emilia e il West sfruttando la crisi di un tessuto economico fatto di coop e piccole imprese mettendo sul tavolo quattrini e collusioni. Così nella nebbia padana hanno creato una zona grigia dove si incontrano professionisti bolognesi e capi siciliani, politici parmensi e padrini casalesi, medici romagnoli e killer calabresi, imprenditori modenesi e sicari campani: uniti per corrompere, riciclare, investire, costruire. Una mano lava l'altra, in un circuito che diventa sempre più ricco, sempre più sporco ed irresistibile. Eppure tantissimi negano l'evidenza o la minimizzano: "La mafia qui non esiste" è uno slogan ripetuto soprattutto da politici e imprenditori, ma che nasce anche da una cultura dell'onestà che non riesce ad accettare il contagio criminale. C'è chi non vuole vedere, per interesse o calcolo. Ma tanti non riescono ad aprire gli occhi, con casi clamorosi di prefetti che ignorano la realtà e persino di magistrati che respingono nelle sentenze l'ipotesi di un radicamento mafioso in questa terra. Una miopia che regala ai boss l'habitat perfetto per alzare il tiro. Lo dimostra la vicenda di Paolo Bernini, ex assessore di Parma e consigliere del ministro Lunardi, che discuteva di affari con Pasquale Zagaria, fratello del re dei casalesi: "Non immaginavo chi fosse, mi è sembrato solo un imprenditore". Bernini è rimasto sulla sua poltrona in municipio nonostante le rivelazioni sulle sue relazioni pericolose: nessuno si è indignato, ma cinque anni dopo è finito in manette mentre intascava tangenti sulle mense degli asili. "Qui le attività illecite delle organizzazioni criminali non creano allarme sociale perché non riflettono il loro "disvalore" direttamente sulla popolazione", spiega un investigatore della polizia di Stato che conosce bene il territorio, "anche se in realtà sono per certi versi ancor più pericolosi sotto il profilo della "contaminazione" del tessuto sociale.

E il procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso sintetizza il problema: "Trovo maggiore difficoltà a fare indagini antimafia in Emilia Romagna che a Palermo, Napoli o Reggio Calabria. Qui è più difficile distinguere il buono dal cattivo, perché qui si intrecciano". E il magistrato, responsabile dell'inchieste sui clan in tutta la regione, fa la diagnosi delle metastasi criminali: "La presenza della camorra e dei casalesi a Bologna, con amici e parenti del padrino Zagaria. La certezza della presenza della 'ndrangheta, sia lungo il percorso che va da Bologna verso Parma, Reggio Emilia e Piacenza, sia a Bologna stessa, dove abbiamo presenze molto significative e importanti in forte espansione. E poi Cosa nostra, con i catanesi. Insomma, non ci manca nulla". I narcos calabresi hanno messo le tende fra il capoluogo e Reggio Emilia. A Bologna, oltre a trascorrere gli arresti domiciliari nella suite del più lussuoso albergo - come faceva Vincenzo Barbieri poi assassinato nel Vibonese - tiravano fuori dal bagagliaio della Maserati "Gran Turismo" sacchi stracolmi di banconote: i banchieri di San Marino venivano a prelevarli in città per trasportarli nei caveau del Titano. O che dire del primario di Imola che con la complicità di infermieri ha certificato il falso facendo evitare la cella ad un boss catanese che doveva scontare l'ergastolo al carcere duro. E poi geometri e ragionieri, uno di questi iscritto al Pd bolognese, al servizio delle cosche per occultare gli investimenti in immobili di pregio. C'è persino un maresciallo delle Fiamme Gialle che con il denaro sporco di un conoscente calabrese voleva finanziare una squadra di calcio a Rimini.

Quando i quattrini non bastano a garantire il risultato, si ricorre alla violenza ma dosandola con cura: attentati e intimidazioni si registrano quasi ogni giorno nei cantieri o negli uffici delle imprese ma restano nelle cronache cittadine. Tanto che il presidente di Confindustria Emilia Romagna, Gaetano Maccaferri di mafia in questa regione non ha mai sentito parlare. E' di altro avviso, invece, Matteo Richetti, presidente del parlamento regionale, il quale sostiene che "la politica non può avere l'atteggiamento di chi attende l'esplosione di un fenomeno e alza la guardia per respingerlo solo con i comunicati stampa. Serve la capacità di contrastarlo". E' quasi paradossale notare come la denuncia più importante sia venuta da due imprenditori campani trapiantati nel Modenese: hanno fatto arrestare il nucleo locale dei casalesi, incluso il padre del grande capo Zagaria. Peccato che gli emiliani sembrino non aver gradito. Quella di Raffaele Cantile e Francesco Piccolo è una delle tante storie di collusione e contraddizioni che "l'Espresso" ha trovato lungo la via Emilia. Partendo da Nonantola, il centro a dieci chilometri da Modena dove vive una comunità che si è trasferita da Casapesenna: un paesino casertano che si è imposto nell'atlante mafioso come feudo di Michele Zagaria, il superlatitante catturato lo scorso 7 dicembre. I suoi uomini a Nonantola imponevano il pizzo e prendevano il controllo delle aziende. Ma solo i due costruttori campani hanno avuto il coraggio di andare dalla polizia.  Raffaele Cantile e Francesco Piccolo hanno 35 e 36 anni: dopo il diploma si sono impegnati nell'edilizia, senza vizi né protezioni. Da più di dieci anni sono residenti in provincia di Modena e su di loro garantiscono gli atti firmati dalla procura di Napoli. "I pm partenopei ci convocarono subito: volevano capire se eravamo dei matti", racconta a "l'Espresso" Raffaele Cantile.

Nel 2007 Michele Zagaria, all'epoca latitante, gli aveva chiesto un incontro. Il giovane costruttore si presentò all'appuntamento e dopo aver affrontato gli scagnozzi del boss, li denunciò. "I tre magistrati di Napoli durante l'interrogatorio mi chiedevano: perché fate gli imprenditori a Modena? E perché denunciate? E come mai due giovani riescono a fatturare 20 milioni? Spiegai tutto il percorso imprenditoriale che per più di un decennio, da quando avevamo 19 anni, ci aveva portato in giro per l'Italia a partecipare a centinaia di appalti pubblici e che per un gioco del destino professionale, ma anche per un fattore sentimentale, siamo rimasti a Nonantola. Secondo Cantile "in Emilia Romagna molti vogliono sottacere il fenomeno delle mafie per tenere pulito il nome del territorio o per dimostrare la buona amministrazione. Nessun sindaco vorrà mai ammetterlo, ma la mafia qui c'è". Denunciare i casalesi ha portato Cantile e Piccolo ad essere isolati dalla gente. Vengono tenuti lontani come se fossero loro i camorristi. "Dopo le intimidazioni e le bombe che ci hanno messo nei nostri uffici, e dopo le denunce contro Zagaria, non abbiamo ricevuto alcuna solidarietà dall'amministrazione pubblica. Solo Confindustria Modena, l'Ance e la polizia ci sono stati accanto". Anzi, amministratori locali e dirigenti di banca hanno cominciato a calunniarli, a marchiarli come "camorristi", a revocare fidi sulla base di voci false creando un danno alla loro impresa più forte degli attentati. Oggi seduto alla scrivania del suo ufficio a Nonantola, Cantile appare mortificato, ma capace di sferrare attacchi contro chi non fa seguire le azioni alle parole: "I politici organizzano convegni sulle mafie, con tante belle parole per combatterle, ma nei fatti non si concretizzano". L'Emilia Romagna è rimasta indietro rispetto alla Sicilia dove gli imprenditori che si ribellano vengono sostenuti dalla società civile, dalle associazioni di categoria, dalla Federazione antiracket e da Confindustria. "Attenzione a non sottovalutare ciò che avviene nella regione", avverte il presidente onorario della Federazione antiracket italiana, Tano Grasso: "Ciò che si sta verificando nelle aree del Centro-nord è quello che è accaduto agli inizi del Novecento negli Usa, con un'attività estorsiva che aveva un orizzonte di protezione etnica tra gli immigrati, che ha portato alla grande Cosa nostra americana".

Pina Maisano, la vedova di Libero Grassi che con il suo sacrificio vent'anni fa animò la prima rivolta contro il racket, da un mese è diventata emiliana. Conosce bene questi posti, dove vivono alcuni suoi familiari, e dopo aver ricevuto la cittadinanza onoraria di Casalecchio di Reno, ha detto: "Proprio al Settentrione è oggi fondamentale diffondere il messaggio di Libero per combattere contro l'omertà di tutti coloro che tacciono di fronte alle infiltrazioni malavitose, nascondendosi dietro il luogo comune secondo cui le mafie sono solo una questione meridionale".

Cantile ha compreso subito che il vero obiettivo dei camorristi non è il pizzo: "Quando Zagaria ci ha fatto contattare dalla latitanza abbiamo capito che lo scopo non era imporci la semplice estorsione ma appropriarsi dell'azienda. Perché una volta che mettono la valigetta con i soldi sul tavolo e ti dicono riciclali, in quel momento metti la tua vita nelle loro mani e finisce lì. Finisce da un punto di vista morale ed etico, oltre che professionale, perché diventi al servizio di questa gente. Abbiamo detto no. E siamo andati per la nostra strada con le nostre gambe. Denunciando tutto alla polizia". Altri invece cedono alla tentazione della scorciatoia, per cupidigia o perché strozzati dalla crisi: "I casalesi avvicinano gli imprenditori che lavorano al Nord e gli dicono: cosa ti serve? Vuoi fare la bella vita senza problemi? Vuoi le porte spalancate? Moltissimi dicono di sì. E diventano loro schiavi".

E' con questi metodi, come sostiene il procuratore di Bologna, Roberto Alfonso, che i mafiosi si sono "radicati" nella regione fino a diventare una "presenza stabile e definitiva sul territorio degli affiliati alle organizzazioni mafiose" e tutto ciò "genera una sorta di colonizzazione da parte delle organizzazioni criminali". E' ovvio che non è come la Sicilia, la Calabria o la Campania, perché le mafie "non hanno il controllo militare del territorio", però "è certo che vi svolgono attività illecite e vi fanno affari illeciti". Tutto ciò è provato da decine di indagini avviate in tutte le province. E nuove inchieste toccano anche la politica. Fonti qualificate confermano a "l'Espresso" che "è in campo l'ipotesi investigativa che segnala una significativa e importante presenza di Cosa nostra in primarie attività economiche della regione". Indagini che potrebbero riservare sorprese clamorose. Da mesi gli inquirenti sono anche impegnati ad accertare la natura dei rapporti fra Calisto Tanzi, l'ex patron di Parmalat, l'imprenditore campano Catone Castrese, arrestato dai pm di Salerno a giugno per bancarotta, e alcuni soggetti legati alla camorra: il sospetto è che stessero organizzando un grande riciclaggio.

Da quando il procuratore Alfonso ha iniziato a dare impulso alle attività antimafia sul territorio, adottando una strategia che privilegia l'aggressione ai patrimoni illeciti, molti risultati stanno arrivando. Seppur tra mille difficoltà. Perché sono tantissime - ed è anche fisiologico che lo sia - le domande di sequestro di beni bocciate dai giudici. Vengono respinte pure molte richieste di arresto per persone accusate di aver aiutato la mafia. Nella maggioranza dei casi il ricorso alla Cassazione ha poi dato ragione alla procura. I tribunali locali spesso sono apparsi quasi immaturi nel valutare le prove raccolte dalle forze dell'ordine. Se in Sicilia, Calabria o Campania un primario falsifica un certificato per tirar fuori dal carcere boss, il medico finisce sotto processo anche con l'aggravante di aver avvantaggiato l'organizzazione mafiosa. Se accade in Emilia Romagna, i giudici non riconoscono l'aggravante. Ed ecco un altro paradosso: anche l'antimafia viene importata. In Emilia Romagna contro i delitti associativi, ossia i crimini più gravi, intervengono spesso le procure di Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria con arresti e sigilli ai tesori. Ai pm bolognesi, che collaborano quasi sempre con i colleghi, rimane il compito di punire solo i reati dei singoli boss sul territorio. E le loro complicità, con un coinvolgimento crescente dei colletti bianchi.

Il penalista bolognese Manlio Guidazzi era l'avvocato del narcotrafficante calabrese Barbieri. Per gli investigatori il legale avrebbe ricoperto un ruolo che andava "ben oltre a quello del difensore", perché, si legge negli atti, Guidazzi "è perfettamente consapevole che Barbieri effettuava investimenti immobiliari e commerciali utilizzando fittizi intestatari". E Guidazzi "appare connivente nella realizzazione di tali progetti di investimento". A Modena un altro avvocato, Alessandro Bitonto, per punire due persone dalle quali aveva subito un torto, ha fatto ricorso a clienti "casalesi". Le vittime, convocate nel retrobottega di un bar sono state picchiate a sangue davanti al legale. Quest'ultimo, soddisfatto, il giorno dopo ha chiamato uno degli aggressori: "Devo ringraziarti personalmente perché ieri ho avuto una lezione di vita, nel modo di ragionare".

PARMA E LA MASSONERIA: E spunta la pista massonica a Parma un dossier su Mutti, così come raccontato da Luca Fazzo e Marco Mensurati su “La Repubblica” (15 febbraio 2004 — pagina 13 sezione: ECONOMIA). Mancava solo l'impronta della massoneria, per rendere il pasticcio della Parmalat un riassunto quasi perfetto della italian way alla criminalità economica. Ed ecco la tessera che mancava. Sta in un plico partito a metà della scorsa settimana dalla Procura della Repubblica di Milano per Antonella Ioffredi e Silvia Cavallari, i due pm emiliani titolari dell' indagine sul gruppo di Calisto Tanzi. Nel plico, il resoconto di una perquisizione eseguita nell' abitazione e negli uffici di un personaggio che finora nelle cronache sul crac Parmalat era entrato solo di striscio: Mario Mutti, imprenditore di lungo corso, già direttore generale della Federconsorzi, buon amico di Silvio Berlusconi (che lo piazzò nel 1989 alla guida della Standa e poi lo inviò in Spagna come proconsole del gruppo Fininvest) e oggi patron di un'azienda finita gambe all'aria, la Tecnosistemi. Mutti è indagato per bancarotta fraudolenta da due pm milanesi, Laura Pedio e Luigi Orsi. Ed è dalla perquisizione a suo carico che saltano fuori documenti di impronta inequivocabilmente massonica. Mutti è un "grembiulino", come si dice in gergo. E non solo. Il suo nome compariva nelle liste di Stay behind, ovvero della rete Gladio, l'organizzazione segreta creata dall' Alleanza atlantica negli anni Sessanta per scatenare la guerriglia in caso di presa del potere comunista in Italia. La Guardia di finanza, quando perquisisce la casa di Mutti, trova anche documenti di Gladio, e anche questi finiscono insieme alle carte del Grande oriente nel plico inviato a Parma. Ma non si tratta solo di folklore o di curiosità. Perché tra le carte sequestrate a Mutti ce ne sono alcune che documenterebbero con dettagli preoccupanti l'intreccio tra i due capitomboli finanziari. Un dettaglio, su tutti, unisce i dissesti di Parmalat e Tecnosistemi all'altro grande buco di questi anni, l'affare Cirio. Un dettaglio il cui senso è ancora tutto da interpretare. Sia Cirio sia Parmalat sia Tecnosistemi hanno robusti interessi in Brasile. E tutte sono rappresentate in Brasile dalla stessa persona: Giampaolo Grisendi, il manager indicato da Fausto Tonna, nelle sue confessioni, come il regista delle operazioni che segnarono l'inizio dei guai di bilancio per il gruppo di Collecchio. Oggi le filiali locali delle tre società sono andate gambe all'aria, e un magistrato di San Paolo, Carlos Henriques Abrao, ipotizza che dietro a questo scenario di finanza allegra e di fallimenti ci sia un corposo flusso di riciclaggio di denaro sporco. In Italia, d'altronde, le piste del massone Mutti e del cattolicissimo Tanzi hanno iniziato a incrociarsi già anni fa, quando Parmalat decise di sbarcare in Borsa: l'operazione passò attraverso una società di Mutti, la finanziaria Centro Nord, che si fuse con Parmalat. Mutti è stato fino al 1998 consigliere d'amministrazione di Parmalat. Parmalat ha posseduto una quota di Tecnosistemi. Partecipazioni incrociate che denotano, se non altro, sintonia d'intenti. E anche dopo l'uscita dal Cda di Parmalat Mutti ha continuato a fare affari con Tanzi: insieme i due detengono una parte delle azioni della Aranca, una società palermitana che produce succo di agrumi, sui motivi reali della cui acquisizione hanno parlato con i pm alcuni ex collaboratori di Tanzi. La Tecnosistemi di Mutti - che oggi è in amministrazione straordinaria, cioè tecnicamente fallita - era finita sui giornali, quando Mutti aveva realizzato una joint venture assai chiacchierata con l'Enav, l'ente pubblico di assistenza al volo. Intercettando i telefoni dei vertici Enav (nell'ambito dell' inchiesta sulla strage di Linate) la Procura milanese aveva scoperto che Mutti era legato a filo doppio ai vertici lombardi di Forza Italia. Ne erano nate una serie di interrogazioni parlamentari e l'affare era naufragato.

TOGHE, POLITICA E VELENI.

Toghe, politica e veleni. Da “Il Giornale” si viene a sapere che il ministero manda gli ispettori dai pm per il "Parma-gate". Il ministero indaga sul caso della pm che ha fatto arrestare il capo della polizia locale concorrente del marito. Lo scandalo ha spianato la strada al sindaco grillino. Il ministero della Giustizia manderà gli ispettori in Procura a Parma, città appena conquistata dai grillini sulla scia di un’inchiesta della magistratura che mostra parecchi lati oscuri. I tempi della giustizia italiana sono quelli che conosciamo, le prime denunce sull’operato degli inquirenti parmigiani (tra cui interrogazioni parlamentari e un esposto al procuratore generale presso la Corte di Cassazione firmati dal senatore pdl Filippo Berselli) risalgono a quasi un anno prima. Nel frattempo sono cambiate un po’ di cose: l’amministrazione è stata terremotata dagli arresti, il sindaco Pietro Vignali (centrodestra) ha dovuto abbandonare, Grillo ha piantato la bandierina su un municipio importante. Intrighi, favori, fughe di notizie, conflitti di interesse sono lo scenario descritto da Berselli che gli ispettori di Via Arenula dovranno verificare. Varie vicende si intrecciano tra le carte dell’inchiesta che portò all’arresto di 11 tra amministratori e funzionari del Comune, tra cui un assessore e il capo dei vigili, Giovanni Maria Jacobazzi, che finì in cella giusto un anno fa, alle 5 del 24 giugno 2011, con spiegamento di forze degno di un’operazione antimafia. Poche ore dopo il procuratore Gerardo Laguardia tenne una conferenza stampa in cui - secondo Berselli - rivelò particolari coperti da segreto, come i nomi di alcuni politici indagati, prima che arrivasse l’avviso di garanzia. Pochi giorni prima Alberto Cigliano, funzionario in servizio a Bergamo, aveva presentato domanda per concorrere al posto di comandante dei vigili di Parma. Cigliano è il marito della dottoressa Paola Dal Monte, la titolare dell’inchiesta, che aveva chiesto al Gip l’arresto di Jacobazzi. Il 27 giugno Jacobazzi si dimette ma il magistrato si oppone alla richiesta degli arresti domiciliari fissando l’interrogatorio per il 28 luglio. La scarcerazione arriva il 2 agosto: per Jacobazzi è una sorta di confino, visto che sconterà i domiciliari nella residenza del fratello a Santa Marinella (500 chilometri da Parma). Il 1˚agosto il marito del pm Dal Monte aveva sostenuto il colloquio per la poltrona di capo dei vigili. Purtroppo per lui il 29 settembre la sua candidatura viene bocciata. È un giorno importante per Parma, quello delle dimissioni del sindaco. Sottolinea Berselli, coordinatore Pdl in Emilia Romagna, che la pm Dal Monte avrebbe dovuto astenersi dall’inchiesta per le «gravissime ragioni di convenienza» e la «commistione di ruoli che ha visto l’accusatore aspirare al ricongiungimento familiare a spese di un suo indagato e arrestato». Il procuratore Laguardia con il suo «assordante silenzio» avrebbe «clamorosamente violato i propri doveri di vigilanza e controllo sui suoi sostituti». Nella vicenda si mescolano altre situazioni. Il pm e il procuratore avrebbero ottenuto il trasferimento da Parma a Reggio Emilia di due sottufficiali dei carabinieri per aver intralciato le indagini: in dicembre la Commissione disciplinare presso il ministero della Giustizia avrebbe invece prosciolto i due militari da ogni addebito perché «il fatto non sussiste». C’è anche un’altra sospetta incompatibilità, perché la figlia di Laguardia, Maria Anna, fa l’avvocato proprio a Parma. Un caso non isolato: è avvocato anche la figlia del presidente del tribunale Roberto Piscopo, Ambra, la quale ebbe una «love story» con Jacobazzi. Su questo intrico di interessi dovranno fare luce gli ispettori del ministero, secondo quanto comunicato dal sottosegretario Salvatore Mazzamuto. Sotto esame finiranno la «gravissima fuga di notizie apparentemente ascrivibile al procuratore», il trasferimento dei due carabinieri, gli «eventuali profili di incompatibilità del procuratore» per il lavoro della figlia e «la mancata astensione del sostituto Dal Monte». 

Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-02888, presentata da FILIPPO BERSELLI,  mercoledì 30 maggio 2012, seduta n.733

BERSELLI - Al Ministro della giustizia - Premesso che:

in data 30 maggio 2012 sul settimanale "La Voce di Parma" n. 23/2012 viene pubblicata con ampio risalto la notizia secondo cui il Procuratore della Repubblica di Parma dottor Gerardo Laguardia, anteriormente al crac Parmalat e all'arresto di Calisto Tanzi (all'epoca patron del Parma Calcio) "ha effettuato più viaggi gratuiti all-inclusive al seguito del Parma Calcio nelle trasferte di coppa";

in particolare, il settimanale locale si limita a riprendere la notizia (già oggetto di un suo precedente scoop), in quanto in data 27 maggio 2012 il quotidiano nazionale "La Stampa" di Torino - nel raccontare della vita in carcere dell'ex patron di Parmalat, Calisto Tanzi, attraverso la voce del compagno di cella - riferisce nell'intervista che Tanzi ha confermato che il Procuratore Laguardia ha effettuato viaggi al seguito del Parma Calcio: "Sull'aereo della squadra ho portato anche il procuratore che mi ha fatto rinchiudere qui dentro";

nel citato articolo pubblicato su "La Stampa" si legge: «Vero. Il procuratore capo di Parma, Gerardo Laguardia, conferma: "Sì, sono andato con molti altri per vedere una finale di Coppa. Ma non ho mai cenato con Calisto Tanzi"»;

inspiegabilmente, fra i filoni di indagine inerenti al crac Parmalat, quello relativo al Parma Calcio ha visto la notifica degli avvisi di chiusura delle indagini agli indagati solo ad inizio 2012 (a quasi dieci anni dal default, mentre il processo per bancarotta è già stato giudicato anche in appello) quando lo stesso Laguardia aveva assicurato alla Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) che lo interrogava sul punto, che "entro il 2007 avrebbe concluso le indagini" ("La Voce di Parma");

considerato che a giudizio dell'interrogante non è chiaro per quale ragione il Procuratore Laguardia abbia usufruito di viaggi gratuiti in occasione delle partite di Coppa europee all'epoca d'oro di Calisto Tanzi, né se tale condotta integri una fattispecie di reato del pubblico ufficiale e/o una responsabilità disciplinare tenuto conto della mancata astensione dello stesso dalla trattazione delle indagini sul crac Parmalat ed, in specie, della posizione dell'imputato Calisto Tanzi, quanto meno per gravi ragioni di opportunità,

si chiede di sapere quale sia il complessivo giudizio del Ministro in indirizzo su quanto sopra e se non ritenga opportuno, come già ripetutamente chiesto in occasione di precedenti interrogazioni, disporre con urgenza una indagine ispettiva sulla Procura della Repubblica di Parma, al fine di valutare l'opportunità di chiedere al CSM l'apertura di un procedimento disciplinare per l'accertamento di eventuali responsabilità in capo al Procuratore della Repubblica di Parma Gerardo Laguardia, verificando altresì la compatibilità ambientale della sua permanenza nell'ufficio della Procura di Parma.

Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-02759, presentata da FILIPPO BERSELLI, mercoledì 28 marzo 2012, seduta n.700

BERSELLI - Al Ministro della giustizia - Premesso che:

in data 20 febbraio 2012 sul "Corriere della Sera" a pagina 12 e 13, veniva riportata con ampio risalto una lunga intervista al Procuratore della Repubblica di Parma dottor Laguardia sulle indagini pendenti relative, tra gli altri, agli indagati dottor Jacobazzi GM e Forni; il Procuratore riferiva in maniera particolareggiata dell'interrogatorio reso dal dottor Jacobazzi e riportava testualmente al giornalista le domande e risposte di Jacobazzi. In specie, Laguardia dichiarava, di avergli «chiesto conto dei giri in macchina a fianco di Forni, che guidava la sua Aston Martin con la patente scaduta: "Ma lei non lo sapeva?". "Certo che lo sapevo: sono il capo dei vigili". "E perché gli consentiva di guidare senza patente?". "Beh, non ero mica in servizio"»;

l'interrogatorio a cui fa riferimento Laguardia è quello del luglio 2011 al quale lo stesso Laguardia non era presente, essendo lo stesso interrogatorio stato condotto esclusivamente dal sostituto Dal Monte; in particolare l'interrogatorio de quo su ordine del sostituto Dal Monte veniva contestualmente secretato e messo a disposizione della difesa del predetto indagato solo in data 22 marzo 2012;

inspiegabilmente ed in modo del tutto irrituale il verbale dell'interrogatorio veniva quasi integralmente pubblicato sulla stampa locale della sera dello stesso 22 marzo 2012 (si veda l'edizione on line di Parma del quotidiano "la Repubblica" e "Il Nuovo di Parma" del 23 marzo 2012 a pag. 1, 6 e 7);

considerato che a giudizio dell'interrogante non è chiaro per quale ragione il Procuratore Laguardia, nel corso dell'ennesima esternazione alla stampa su questa indagine e sull'indagato Jacobazzi, abbia ritenuto di violare il segreto disposto dal sostituto Dal Monte in sede di interrogatorio dell'indagato nel corso dell'intervista in data 20 febbraio 2012 al "Corriere della Sera" e se tale violazione integri una fattispecie di reato del pubblico ufficiale,

si chiede di sapere:

se risulti al Governo che siano state adottate, all'interno della Procura della Repubblica di Parma, tutte le procedure a tutela della riservatezza e segretezza degli atti giudiziari, specie di quelli relativi a procedimenti ancora pendenti nella fase delle indagini preliminari ed avuto riguardo in particolare agli atti oggetto di secretazione;

quale sia il complessivo giudizio del Ministro in indirizzo su quanto sopra e se non ritenga opportuno, come già ripetutamente chiesto in occasione di precedenti interrogazioni, disporre con urgenza una indagine ispettiva sulla Procura della Repubblica di Parma, al fine anche di valutare l'opportunità di chiedere al Consiglio superiore della magistratura l'apertura di un procedimento disciplinare al riguardo.

Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-02543, presentata da FILIPPO BERSELLI, mercoledì 14 dicembre 2011, seduta n.645

BERSELLI - Al Ministro della giustizia - Premesso che:

con precedente interrogazione 3-02433 si faceva presente che il 22 settembre 2011 sul sito Internet de "la Repubblica" di Parma era stato pubblicato un articolo riguardante un retroscena che gettava ombre sulla inchiesta delle mazzette sul verde pubblico denominata Green money che portò a due diverse ondate di arresti, la prima il 10 giugno 2010 e la seconda il 24 giugno 2011, nel contesto della quale sono stati arrestati funzionari e imprenditori molto vicini al Sindaco di Parma. Secondo tale articolo il sostituto procuratore della Repubblica Paola Dal Monte avrebbe ottenuto, con la copertura del procuratore della Repubblica Gerardo Laguardia, il trasferimento a Reggio Emilia del maresciallo Giampiero Ferri e del luogotenente Roberto Furnari, due esperti sottufficiali dei Carabinieri nei ruoli della polizia giudiziaria, perché avrebbero intralciato le indagini consentendo ad uno degli indagati di trovare l'appiglio giuridico che l'avrebbe poi portato ad ottenere la scarcerazione dal Tribunale del riesame, provvedimento poi confermato dalla Cassazione. La scarcerazione fu disposta ritenendosi l'indagato Alessandro Forni, imprenditore del verde, non colpevole di corruzione, come invece sosteneva la Procura, bensì vittima di concussione. L'impianto accusatorio della Procura veniva quindi smontato e la Dal Monte, sempre con l'avallo del procuratore della Repubblica Laguardia, cercò di scaricare le proprie evidenti responsabilità sui due poveri sottufficiali dell'Arma. Lo smacco era sotto gli occhi di tutti e la Dal Monte dichiarò ai giornalisti di voler chiedere una sanzione disciplinare per i due carabinieri. L'apposita Commissione presso la quale fu poi avviato un procedimento disciplinare nei confronti dei due carabinieri, a seguito delle contestazioni della Procura, a quanto risulta all'interrogante concluse non aderendo all'asserzione che i comportamenti consapevolmente irrituali tenuti dagli incolpati abbiano avuto significativi riflessi sul lamentato infortunio cautelare e sull'immagine pubblica esterna ad opera dei mezzi di comunicazione. Per la Commissione dunque la colpa dei carabinieri non fu di aver causato la scarcerazione degli indagati, ma solo di aver tenuto comportamenti pervicacemente irriguardosi delle disposizioni in materia di coordinamento e di subordinazione della polizia giudiziaria all'autorità giudiziaria. I due incolpati, esperti e capaci ispettori, non potevano non capire che, andando oltre, senza attivare il necessario coordinamento investigativo, accettavano il rischio di sovrapposizioni e di ingerenze in altra attività investigativa;

nei giorni scorsi la stampa locale ha dato ampio risalto del fatto che in appello la Commissione presieduta dal dottor Piercamillo Davigo ha dichiarato che il fatto non sussiste, così come chiesto dallo stesso Procuratore generale. Nessuna interferenza nelle indagini, nessun danno alle inchieste, nessun comportamento scorretto;

la battaglia legale tra carabinieri e Procura all'ombra di Green money si è quindi conclusa con una pronuncia che scagiona da ogni accusa il maresciallo Giampiero Ferri e il luogotenente Roberto Furnari, come si è già visto, entrambi ritenuti inaffidabili dal pubblico ministero Paola Dal Monte che aveva chiesto ed ottenuto il loro trasferimento da Parma a Reggio Emilia;

la Commissione giudicante ha ritenuto valida la tesi della difesa sul fatto che i due militari venutisi a trovare davanti al Forni, che peraltro li aveva cercati autonomamente, e che era deciso a riferire notizie di reato, non poterono che assumere le condotte adottate, stabilendo che, in assenza di una disposizione sul punto che indicasse una diversa strategia investigativa, i due sottoufficiali non avrebbero potuto comunque esimersi dallo svolgimento dell'attività procedurale conforme al modello legale. In altre parole i giudici riconoscono che Ferri e Furnari hanno fatto il loro dovere e nient'altro;

quando il fatto non sussiste, come nella specie, vuol dire che chi l'ha rappresentato ha sbagliato perché ha descritto un fatto inesistente. A volte può succedere di inquadrare un reato in maniera non perfetta, ma quando uno sbaglia (come nel caso la Dal Monte) non si va a cercare le responsabilità da altre parti, soprattutto dove non ci sono,

si chiede di sapere:

quale sia il pensiero del Ministro della giustizia in merito a quanto sopra e se non ritenga, alla luce di quest'ulteriore interrogazione, di intraprendere con urgenza le più opportune iniziative di competenza per tutelare l'immagine della magistratura di Parma, gravemente compromessa dai censurabili comportamenti della locale Procura, disponendo un'indagine ispettiva e promuovendo l'azione disciplinare nei confronti sia del procuratore Laguardia che del sostituto Dal Monte;

se Ministro della difesa non ritenga di assumere iniziative di competenza affinché al più presto sia Ferri che Furnari, vittime di una vera e propria persecuzione da parte della locale Procura, ritornino a svolgere i propri incarichi a Parma.

Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-02484, presentata da FILIPPO BERSELLI, venerdì 11 novembre 2011, seduta n.636

BERSELLI - Al Ministro della giustizia - Premesso che:

il 5 maggio 2011 la Giunta comunale di Parma delibera l'attivazione della procedura di mobilità fra enti per la copertura del posto di comandante della Polizia municipale;

il 25 maggio 2011 si ha la pubblicazione del relativo bando, con scadenza per la presentazione delle domande il 20 giugno successivo;

entro giugno 2011, il sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma dottoressa Dal Monte richiede la misura cautelare in carcere per il dottor Giovanni Maria Jacobazzi, allora comandante della Polizia municipale di Parma, coinvolto nell'inchiesta denominata "Green Money";

entro il 20 giugno 2011 Alberto Cigliano, marito della dottoressa Dal Monte, presenta domanda per diventare comandate della Polizia municipale di Parma;

il 23 giugno 2011 il giudice per le indagini preliminari deposita l'ordinanza di custodia cautelare in carcere anche per il dottor Jacobazzi (fra i restanti indagati funzionari e dirigenti del Comune di Parma), cui si riconosce, a differenza degli altri indagati, la sola esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato;

il 24 giugno 2011 alle ore 5,15 circa il dottor Jacobazzi viene arrestato nel proprio domicilio su ordine di esecuzione del sostituto dottoressa Dal Monte con notevole spiegamento di forze per un soggetto assolutamente incensurato che si sarebbe alle ore 8 recato regolarmente in ufficio e lì si sarebbe potuto arrestare nel rispetto dei normali tempi previsti;

il 24 giugno, alle ore 11 circa, si svolge la conferenza stampa del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Parma dottor Gerardo Laguardia che, come riportato da tutti gli organi di stampa, definisce il dottor Jacobazzi, tra l'altro, come "asservito ai poteri forti della città";

il 27 giugno 2011 il dottor Jacobazzi rassegna le proprie dimissioni (accettate dal Comune, essendo egli indagato per reati contro la pubblica amministrazione) che esibisce al Gip nel corso dell'interrogatorio di garanzia ed in funzione di ciò il suo difensore ne chiede la scarcerazione o comunque una misura meno afflittiva;

il 2 luglio 2011 il sostituto procuratore dottoressa Dal Monte esprime parere contrario alla scarcerazione ed agli arresti domiciliari per il dottor Jacobazzi;

il 2 luglio 2011 il giudice per le indagini preliminari, dando atto del parere contrario della dottoressa Dal Monte, respinge le richieste della difesa del dottor Jacobazzi che resta pertanto in carcere;

il 20 luglio 2011 il Comune di Parma, dopo aver valutato i curricula, comunica che Alberto Cigliano, marito della dottoressa Dal Monte, è uno dei due canditati selezionati fra i diversi aspiranti e ammessi al colloquio per diventare comandante della Polizia municipale di Parma;

il 21 luglio 2011 il Comune di Parma comunica che il colloquio di Alberto Cigliano è fissato per il 1° agosto presso il Palazzo municipale;

il 22 luglio 2011 l'assessore alla sicurezza del Comune di Parma dichiara alla stampa che entro settembre dovrebbe essere nominato il nuovo comandante che rimarrà in carica a tempo indeterminato;

il 28/29/30 luglio 2011, dopo lunga attesa, viene fissato dalla dottoressa Dal Monte l'interrogatorio richiesto dal dottor Jacobazzi, che si tiene in Procura (presidiata da uno stuolo di giornalisti non certo avvisati dall'indagato - sempre in carcere - o dal suo difensore);

il 30 luglio 2011 viene presentata istanza di scarcerazione del dottor Jacobazzi da parte della sua difesa;

il 1° agosto 2011 Alberto Cigliano sostiene il colloquio in Comune per diventare comandante della Polizia municipale di Parma;

il 2 agosto 2011 il dottor Jacobazzi viene collocato agli arresti domiciliari in Santa Marinella presso la residenza del fratello (pur essendo l'indagato residente da anni a Milano), con divieto assoluto di colloqui con persone diverse dai genitori e dal fratello (e ciò nonostante, come detto, all'indagato non si addebiti il pericolo di inquinamento probatorio nell'ordinanza applicativa);

il 5 agosto 2011 sul sito www.parma.repubblica.it esce la notizia, già pubblicata dal quotidiano locale "La Sera", che il marito della dottoressa Dal Monte vuole diventare comandate della Polizia municipale: "è possibile che Cigliano ambisca a quell'incarico a Parma anche per ricongiungersi alla famiglia. Certo, se dovesse vincere…. ironia della sorte". Non risulta che il procuratore Laguardia abbia mai smentito la circostanza del rapporto di coniugio fra la Dal Monte e Cigliano;

il 28 settembre 2011, dopo oltre tre mesi di custodia cautelare (in carcere e domiciliare), la difesa del dottor Jacobazzi presenta istanza di revoca della stessa;

il 29 settembre 2011 Alberto Cigliano viene dichiarato inidoneo dal Comune di Parma a ricoprire l'incarico di comandante della Polizia municipale in esito al colloquio motivazionale;

fra il 29 settembre 2011 e il 5 ottobre 2011 la dottoressa Dal Monte esprime parere contrario alla revoca tout court della misura degli arresti domiciliari per il dottor Jacobazzi, pur essendo pacifico che il medesimo si era dimesso fin dal 27 giugno 2011, esprimendo invece parere favorevole all'obbligo di dimora presso il Comune di Santa Marinella (mentre alcuni arrestati nella medesima indagine, imprenditori di Parma, sono sottoposti fin dalla metà di settembre alla sola misura dell'obbligo di firma sempre a Parma);

il 5 ottobre 2011, in conformità al parere della dottoressa Dal Monte, il giudice per le indagini preliminari revoca la misura degli arresti domiciliari, sostituendola con l'obbligo di dimora a Santa Marinella;

l'11 ottobre 2011 il quotidiano "Libero" scrive "il pubblico ministero Paola Dal Monte che ha fatto arrestare il comandante dei vigili urbani ha un marito, ma non è questa la notizia, la notizia è che il marito è uno dei due candidati a prendere il posto di colui che la moglie ha arrestato. Nulla di illegale, chiaro, solo una curiosa coincidenza";

la notizia viene poi ripresa da "Il Corriere della Sera" e da "Il Giornale",

considerato che a giudizio dell'interrogante appare inspiegabile che:

alla luce dell'art. 52, comma 1, del codice di procedura penale la dottoressa Dal Monte non si sia astenuta, sussistendone gravissime ragioni di convenienza in funzione di una vera e propria commistione di ruoli che ha visto l'accusatore (Dal Monte) aspirare al "ricongiungimento famigliare" (come ha scritto "La Repubblica" nel passo di cui sopra) a spese di un suo indagato e arrestato (il dottor Jacobazzi);

al dottor Jacobazzi sia stata applicata la misura più afflittiva della custodia cautelare che conosca il codice di procedura penale, ovverosia il carcere (40 giorni), seguita, pur dopo le proprie immediate dimissioni, da oltre due mesi di arresti domiciliari con tutti i divieti di comunicazione possibili, e poi seguita dall'attuale "confino" a Santa Marinella (500 chilometri circa da Parma);

quanto sopra sia avvenuto nell'assordante silenzio del Procuratore della Repubblica Laguardia sui rapporti Dal Monte-Cigliano, avendo egli clamorosamente violato i propri doveri di vigilanza e controllo sui suoi sostituti, dopo la dovizia di esternazioni di cui si era reso nella specie protagonista nei giorni dell'arresto,

si chiede di sapere se, così come richiesto nelle tre precedenti interrogazioni 3-02433, 3-02455 e 3-02471, non ritenga indifferibile procedere ad una indagine ispettiva avente ad oggetto la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma, promuovendo altresì presso il Consiglio Superiore della Magistratura un procedimento disciplinare nei confronti della dottoressa Paola Dal Monte per lo sconcertante comportamento da essa pervicacemente tenuto nella circostanza e per l'indubbio discredito da lei arrecato all'immagine della magistratura in generale ed a quella di Parma in particolare.

Atto Senato. Interrogazione a risposta orale 3-02489, presentata da FILIPPO BERSELLI, venerdì 11 novembre 2011, seduta n.636

BERSELLI - Al Ministro della giustizia - Premesso che:

nelle interrogazioni 3-02433 e 3-02455, si lamentava che, a notevole distanza dal giorno in cui la stampa aveva pubblicato le dichiarazioni del Procuratore della Repubblica di Parma in ordine all'indagine sulla riqualificazione del locale "Ospedale Vecchio", specificando i nominativi degli indagati e le ipotesi di reato (abuso d'ufficio e violazione del codice Urbani), nessuno degli indagati aveva ancora ricevuto la prescritta informazione di garanzia;

in data 4 novembre 2011 la "Gazzetta di Parma" dava notizia di ulteriori dichiarazioni del loquacissimo Procuratore Laguardia secondo cui l'interrogante ben avrebbe dovuto sapere che il sequestro preventivo non prevedeva l'invio dell'avviso di garanzia;

è costante la giurisprudenza di legittimità in ordine alla non necessità di previo inoltro dell'informazione di garanzia alla persona sottoposta alle indagini in caso di esecuzione di sequestro preventivo (ex plurimis Cassazione n. 2889/1997): tale fattispecie in ogni caso è diversa da quella inerente "l'Ospedale Vecchio", ove si era in presenza della sola richiesta di sequestro preventivo al giudice per le indagini preliminari allorché il Procuratore informò la stampa dei nominativi degli indagati e del relativo titolo di reato;

la questione, infatti, si focalizza sulla comunicazione alla stampa dei nominativi degli indagati e del titolo di reato al di fuori dei presupposti di legge. In particolare: 1) al di fuori dei presupposti di cui all'art. 335, comma 3, del codice di procedura penale secondo cui, come è noto, le iscrizioni sono comunicate - a domanda - alla persona alla quale il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori; 2) al di fuori del momento esecutivo della misura che, comportando la conoscibilità della stessa da parte dell'indagato che la subisce, fa venir meno, ai sensi dell'art. 329, comma 1, del codice di procedura penale, il segreto sulla notizia: (si veda tra le altre, in fattispecie analoga, Cassazione 1853/1995 secondo cui la diffusione della notizia dell'arresto di persona indagata non integra il reato di rivelazione di segreto d'ufficio perché l'arresto, nel momento in cui viene eseguito, è conosciuto dall'indagato che lo subisce e quindi, ai sensi dell'art. 329, comma 1, del codice di procedura penale, non può essere coperto dal segreto;

considerato che a giudizio dell'interrogante:

comunicare alla stampa (che provvede alla relativa pubblicazione) i nominativi degli indagati ed il titolo di reato senza che gli indagati medesimi abbiano previamente ricevuto informazione di garanzia e sul diritto di difesa di cui agli artt. 369, 369-bis del codice di procedura penale, costituisce: 1) violazione dell'obbligo di segreto sancito dall'art. 329, comma 1, del codice di procedura penale fino alla chiusura delle indagini preliminari; 2) violazione dell'art. 335 del codice di procedura penale sulla comunicazione delle iscrizioni contenute nel registro delle notizie di reato (Re.Ge.);

in particolare, quanto a quest'ultimo aspetto non si comprende come possa esser consentito ai Procuratori della Repubblica di comunicare alla stampa il contenuto delle iscrizioni contenute nel Re.Ge. nella fase delle indagini preliminari ed in assenza dei citati presupposti di esecuzione di misura, creando così una sorta di "doppio binario" sul conseguente possibile differente regime di responsabilità (penale e disciplinare: si vedano anche gli artt. 114 e 115 del codice di procedura penale) nei riguardi degli avvocati e del personale di cancelleria da un lato, e dei Procuratori della Repubblica dall'altro,

si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo non ritenga di disporre un'indagine ispettiva sulla Procura di Parma, già ripetutamente richiesta in altri atti di sindacato ispettivo, e quali ulteriori conseguenti iniziative intenda intraprendere ai fini disciplinari.

C'ERA UNA VOLTA PARMA.

L'inchiesta di Aldo Cazzullo su "Il Corriere della Sera". Rubavano tutti, di tutto, su tutto. Tutti, secondo l'accusa: dal capo dei vigili al capo dello staff del sindaco. Di tutto: le tangenti venivano pagate non solo in denaro - spesso sul conto di mogli e fidanzate -, ma con assunzioni e favori, lavori in giardino e nelle case al mare, e anche un iPad, un impianto a gas sull'auto dell'anziano genitore, una moto da trial per il figlio. Su tutto: i pasti dei bambini nelle mense scolastiche, le rose per le fioriere sul torrente - 180 mila euro di rose -, le luminarie di Natale, costate solo 15 mila euro; peccato che nessuno le abbia viste. Fino a quando non è arrivato il Di Pietro di Parma, Gerardo Laguardia, a scoperchiare il sistema, far dimettere il sindaco, indagare undici assessori su tredici; il dodicesimo, Giovanni Paolo Bernini, è stato direttamente arrestato; il tredicesimo, Roberto Ghiretti, ex giocatore di volley, è il prossimo candidato sindaco.

Il parmigiano e il Parmigianino, il prosciutto di Parma e «La Certosa di Parma», «Sangue a Parma» di Ferrata e Vittorini e il profumo Acqua di Parma, «La Favorita del Duca di Parma» e «Gialloparma», il Parmacotto e il Ris di Parma; per tacere di Parmalat. Parma medievale, dove Benedetto Antelami scolpì la fatica dell'uomo mese per mese, luglio miete, settembre vendemmia, novembre ammazza il maiale. Parma francese, con il suo modo di arrotare la erre, un accento tutto suo diverso da quello emiliano; le vie del centro non si chiamano vie ma strade e borghi, al mare non si va a Rimini ma alle Cinque Terre. Parma capitale, del Granducato e della musica: nel giro di qualche chilometro sono nati Paganini, Verdi, Toscanini, Renata Tebaldi. Ognuno dei 180 mila parmigiani avrebbe il suo motivo per sentirsi orgoglioso di una piccola patria dalla forte personalità, così importante per definire l'identità italiana. Proprio per questo sono così arrabbiati nel vedere la città degradata a capitale degli scandali. Non era ancora sanata la grande truffa Parmalat, che è esploso lo scandalo del Comune.

Il viaggio a Parma comincia nella procura della Repubblica. Tra un interrogatorio e l'altro, il procuratore Laguardia racconta come tutto è cominciato. Ad accendere la scintilla del rogo fu un negoziante, che vide il vicino gettare nella spazzatura un vecchio computer, e i camion dell'Enia, la municipalizzata, portarlo via come se non fosse un rifiuto speciale, da smaltire a parte. Il procuratore cominciò a indagare. Era il 2009. Trovò un ex funzionario, «mi pare si chiamasse Ferrari, il ragionier Ferrari», disposto a parlare. Fece nascondere nella sede dell'Enia le telecamere, che filmarono il pagamento di una tangente. Ordinò i primi arresti. L'operazione fu chiamata Green Money: fatture gonfiate per lavori di manutenzione del verde pubblico, inutili o mai eseguiti. Poi l'operazione ha cambiato nome: Easy Money. I magistrati hanno prima pescato i pesci piccoli, funzionari comprati per pochi euro o qualche favore. Sono stati loro ad accusare i veri beneficiari, i padroni del Comune. Così sono finiti in carcere i principali collaboratori del sindaco Pietro Vignali, l'ex capo di gabinetto Carlo Iacovini e il responsabile del settore ambiente Manuele Moruzzi. La procura ha poi indagato l'intera giunta, per la delibera che doveva stravolgere l'antico ospedale del '400 con una serie di lavori, compresa l'apertura di un albergo. Alla seduta mancavano gli assessori Bernini e Ghiretti e il sindaco Vignali, non indagato ma ribattezzato «Vignavil» per l'ostinazione con cui è rimasto attaccato alla poltrona sino al settembre scorso, e anche «Svignali» per le fughe precipitose dal palazzo comunale assediato da centinaia di parmigiani inferociti.

Il procuratore Laguardia è un milanese arrivato a Parma a 15 anni. Fu lui, appena entrato in magistratura, a smascherare lo scandalo edilizio del '75, il primo dell'Italia consociativa. Anche allora - racconta - rubavano tutti: la giunta socialista e comunista, e l'opposizione democristiana. Però rubavano per il partito. A un certo punto Psi, Pci e Dc decisero di costruire il centro direzionale e di intestarselo: crearono così una società in cui ognuno aveva il suo prestanome. Adesso, spiega Laguardia, si ruba per sé e per i propri cari. Il capo dei vigili, per esempio: Giovanni Maria Jacobazzi, ex tenente dei carabinieri, chiamato in città dopo lo scandalo del 2008, quando un ragazzo africano di nome Bonsu, scambiato per uno spacciatore, fu picchiato e umiliato dai vigili. Per rimediare, il Comune contribuì a finanziare un film riparatore, «Baciato dalla fortuna», con Vincenzo Salemme nei panni di un vigile di Parma, ovviamente buono. E si affidò a Jacobazzi. Accusato ora di aver venduto informazioni riservate per 4 mila euro a un investigatore privato di Monza. C'è poi un'intercettazione in cui si scusa con il signor Parmacotto, Marco Rosi, per una multa da 150 euro - occupazione abusiva di suolo pubblico, colpa dei tavolini del suo locale -: «Signor Rosi, sono mortificatissimo e incazzatissimo, lavoro con un branco di imbecilli...». In carcere è finito anche un imprenditore, Alessandro Forni, con l'accusa di aver comprato l'appalto per un'area addestramento di cani poliziotto, mai realizzata. Il procuratore Laguardia ha chiesto conto a Jacobazzi dei giri in macchina a fianco di Forni, che guidava la sua Aston Martin con la patente scaduta: «Ma lei non lo sapeva?». «Certo che lo sapevo: sono il capo dei vigili». «E perché gli consentiva di guidare senza patente?». «Be', non ero mica in servizio...».

Piccole cose. Segni di uno stile, di un costume, come le «attrici» che comparivano alle prime del Regio accanto al sindaco, una sera Rossella Brescia, un'altra Sara Tommasi (quando però i giornali ipotizzarono che avesse portato lui Nadia Macrì ad Arcore, il sindaco ebbe un moto di ribellione: «Ma vi pare che Berlusconi abbia bisogno di me per conoscere belle donne?»). L'inchiesta ora punta sulle grandi opere, sui veri affari. Il ponte a Nord, opera faraonica per scavalcare un torrente, fortunatamente incompiuta (il progetto prevedeva una copertura con i negozi). Il cantiere infinito della stazione, degno di una metropoli. Lo Stu-Pasubio, un intero quartiere tipo Vele di Scampia da ridisegnare. Non si faranno invece la metropolitana, il Palasport, il centro anziani. Il procuratore sospetta che fossero pretesti per lucrare sul denaro pubblico. Il Comune è gravato dai debiti - l'opposizione dice 630 milioni -, e non poteva spendere. Così costituiva società miste, per potersi permettere consigli d'amministrazione ben retribuiti e consulenze da scambiare con altri favori. Le indagini sono talmente numerose che Laguardia non ha più uomini. E incombono i processi per l'altro grande scandalo: Parmalat. Tre sostituti se ne sono andati. Ne restano quattro. A maggio arriva un uditore. Ma il processo contro Deutsche Bank e Morgan Stanley dovrebbe cominciare il mese prossimo, e rischia di saltare.

Calisto Tanzi, almeno lui, ha pagato. Trentasette anni e 11 mesi di carcere. Dovesse farli tutti, uscirebbe a 111 anni (ne ha 73). Ora è ricoverato in ospedale, nel reparto detenuti, accanto a un pensionato che ha strangolato la moglie. Rifiuta il cibo, lo nutrono con una sonda. I suoi avvocati sostengono che sta morendo e chiedono i domiciliari; il tribunale deciderà il 6 marzo. Finora ha sempre detto no, anche a causa della collezione d'arte su cui Tanzi ha investito sino all'ultimo, lasciando l'azienda al proprio destino. Il genero Stefano Strini, marito di Laura Tanzi, la terzogenita, avrebbe confessato alla procura di aver nascosto lui i quadri, nel 2003; ora ha cambiato vita, fa il kebabbaro. La collezione Tanzi è stata anche recensita da Sgarbi: il «Ritratto di donna» di De Nittis vale 600 mila euro, il «Ritratto di contadina» del Favretto può arrivare a 800 mila; l'«Autoritratto» di Antonio Ligabue è tra i 500 e i 700 mila, la «Ballerina di Degas», matita su carta, non più di 200 mila. Poi ci sono i disegni di Severini e Modigliani, l'incisione di Grosz, l'acquerello di Cezanne, il pastello di Pizarro, la gouache di Utrillo. I pezzi forti sarebbero i due Van Gogh, il Manet, il Gauguin, il Picasso: roba da decine di milioni. Secondo Sgarbi, però, sono falsi. A Parma preferiscono pensarli autentici. Qualcuno racconta che le perle della collezione sarebbero tuttora nascoste nei sotterranei di una chiesa. Per il resto, i Tanzi sono stati disconosciuti da tempo: non sono neppure di Parma, ma di Collecchio. Parmalat nel frattempo è diventata francese, e la città non ha certo alzato barricate per difenderla. I veri signori qui sono i Barilla: 7 mila dipendenti in Italia, 2 mila sul posto. Dice Elvio Ubaldi, sindaco per nove anni dal '98 al 2007, che «i Barilla si fanno i fatti propri». In realtà anche loro sono dispiaciuti per quel che è successo alla città. Capita ad esempio di incontrare per strada Paolo Barilla, che racconta con un sorriso amaro della rotonda sotto casa, trasformata dalla giunta in un tripudio di aiuole tipo giardino dell'eden.

Ubaldi governò senza Lega, con i centristi e le liste civiche. Racconta che la città è sempre stata politicamente moderata, né reazionaria né rivoluzionaria, poco fascista e non troppo comunista. La sinistra cercava il compromesso con la borghesia e candidava ingegneri o notai. La destra ha candidato lui, un democristiano. Le grandi opere sono iniziate con la sua giunta, però. E Vignali è stato per nove anni suo assessore. «Non avevo capito chi fosse davvero» assicura Ubaldi. Si vota a maggio. Alle primarie qui il Pd ha vinto, con l'ex presidente della Provincia, Vincenzo Bernazzoli. Il Pdl punta su Ghiretti. Ubaldi non ha ancora deciso se candidarsi: «È come se una vena di pazzia avesse colto gli amministratori. La protervia del potere, l'abisso della corruzione. Dobbiamo uscirne».

In passato è accaduto di peggio. Parma giunse ad accusare la sua sovrana, Maria Luigia, di zooerastia, l'amore innaturale per un animale, il cavallo Alexandre. Alberto Bevilacqua ha scritto un libro di 300 pagine su «Parma degli scandali», dal crac Salamini al giro di tangenti scoperto dal giovane Laguardia: uno degli accusati si chiamava Giuseppe Verdi, quando il suo nome rimbombava in tribunale erano tutti a disagio, anche il giudice. Poi venne il caso di Bubi Bormioli, industriale, amico dell'attrice Tamara Baroni, marito della marchesa Maria Stefania Balduino Serra. Sulla vetreria Bormioli scrissero: «Bubi, non tamareggiare». Dell'omicidio di un altro industriale, Carlo Mazza, fu accusata una ballerina dell'Est, Katharina Miroslava.

Racconta Bevilacqua che la città sa essere feroce. Quando nel 1734 vi entrò l'armata tedesca, subito fu ammazzato l'attendente del comandante, poi il principe di Wirtemberg al seguito delle truppe, infine il comandante in persona. Quando arrivarono i fascisti di Italo Balbo, Guido Picelli nascose i suoi uomini sui tetti dell'Oltretorrente, e mise in fuga le squadracce dopo una battaglia sanguinosa. Qui, nel quartiere popolare, si stabilirono Dickens, Leopold Mozart e Byron, che si calava zoppo al lume di una lanterna nella Camera del Correggio. Oltretorrente viveva Francesco Mazzola detto Parmigianino, prima di abbandonare la pittura per l'alchimia. Il professore di storia dell'arte di Bevilacqua era Attilio Bertolucci, il poeta, padre di Bernardo, il regista. Pure il negozio del genero di Tanzi - Pfk: pizza focaccia kebab - è nell'Oltretorrente, in borgo Coccone; ma anche lui deve passarsela male, le serrande sono sempre chiuse.

Poi ci sono le cose che funzionano. L'Authority sull'alimentare. Il collegio europeo. Le cucine Scic, il gruppo chimico Chiesi. L'università si considera la più antica d'Europa (discende dallo studio fondato nel 960 dal vescovo Oddone), la Gazzetta di Parma è in edicola dal 1735. Ma la vera forza della città è la commistione tra spirito e carne, la cultura della musica - Parma Lirica, il Club dei Ventisette, il Circolo Falstaff - e quella del cibo. Il culatello di Zibello, il salame di Felino, la spalla cotta di San Secondo, la culatta di Fontanellato, e poi gola, pancetta, gambetto, gambettino, fiocco, fiocchetto, strolghino, coppa, prete, ciccioli, e ovviamente il prosciutto di Parma: 4.781 allevamenti, 9 milioni di prosciutti, un miliardo e mezzo di fatturato. Il vero miracolo, però, è il parmigiano. Un distretto che comprende anche Reggio, Modena, la provincia di Mantova a Sud del Po, quella di Bologna a Ovest del Reno. Foraggi e latte solo della zona, 383 caseifici, 3.500 stalle, 244 mila mucche, un consorzio che porta in tribunale chiunque si azzardi a chiamare un formaggio «parmesan», «parmeso», «parmetta». Il parmigiano quello vero ormai lo fanno i sikh, guidati dal casaro, che di solito è ancora italiano. Ma adesso c'è anche il primo casaro indiano, Singh Sarabjit, 42 anni. Non porta il turbante ma il cappellino con la scritta «consorzio parmigiano reggiano». Nato in Punjab, dove i contadini hanno dimestichezza con le mucche, qui ha imparato a rompere la cagliata, coagulare il latte con lo «spino», raccogliere con la pala la massa caseosa, lavorare le forme, farle invecchiare, marchiarle a fuoco, dar seguito alla fatica secolare dei parmigiani, che né le bizzarrie di Maria Luigia, né gli imbrogli di Tanzi, né i latrocini comunali potranno mai interrompere.

Comune, 4 arresti per le mense scolastiche. In manette l'assessore Giovanni Bernini. In manette quattro persone per corruzione e tentata concussione nel campo delle mense scolastiche. Tra loro anche l'assessore ai Servizi educativi Bernini, un funzionario comunale suo braccio destro e due imprenditori. Eseguite perquisizioni in città in provincia e altre località. Da “La Repubblica”. Tanto tuonò che piovve. A tre mesi dagli 11 arresti di San Giovanni un nuovo ciclone si abbatte sul Comune di Parma e sulla città. Arrestato l'assessore ai Servizi educativi Giovanni Paolo Bernini, già assistente dell'ex ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi. Eseguiti altri quattro provvedimenti: fra gli arrestati Paolo Signorini, già coordinatore di Forza Italia e attualmente funzionario comunale: era il braccio destro di Bernini, da lui voluto come capo della segreteria tecnica del suo assessorato. In manette anche gli imprenditori M.ro T.ana e Antonio Martelli. I quattro avevano architettato un sistema di corruzione e concussione nel campo delle mense scolastiche.La complessa vicenda delle mense è stata ricostruita dalla Finanza grazie alle intercettazioni. Al centro dello scandalo ci sono l'assessore Bernini e l'imprenditore T.ana della Copra di Piacenza (ristorazione - appalti per mense asili e scuola dell'obbligo) . Tutto parte a febbraio 2011 quando l'amministratore della Camst denuncia alla Finanza una richiesta da parte di Signorini, braccio destro e segretario di Bernini, di denaro. Soldi in cambio di una proroga del contratto mense. "Se ci paghi e assumi una persona vi faremo avere la proroga del contratto con il Comune", questa in sunto la richiesta. C'è il reato, concussione, e la denuncia: partono le intercettazioni per Bernini, Signorini e T.ana. A questo punto si scopre che la ditta Copra di T.ana paga somme di denaro (corruzione) per avere una proroga del contratto della fornitura di mense scolastiche per la scuola dell'obbligo. La Copra doveva dare i soldi a una piccola società sportiva ignara di tutto, poi questa società che faceva da sponsor avrebbe girato dei contanti - circa 8 mila euro - a Signorini e Bernini. Il sistema con cui i pagamenti illeciti venivano coperti dalla Copra era dunque quello di un contratto di sponsorizzazione con una società sportiva che a sua volta tratteneva il 50% della somma e versava l'altra al segretario di Bernini e quindi all'assessore. Dalle intercettazioni si scopre che Bernini faceva pressioni fortissime al suo segretario Signorini perchè mandasse in porto la cosa con la Copra. Bernini e Signorini sapevano di essere nei guai e sapevano di rischiare: tant'è, come confermano le intercettazioni, che il denaro veniva chiamato "conferenza stampa". "A che punto siamo con la conferenza stampa?" chiedeva Bernini al suo uomo. A seguito di questo affare andato in porto l'assessore ci riprova. Fa un altro tentativo legato al ristorante del Duc, che doveva nascere al 4 piano dell'direzionale unico del Comune. Nella busta chiusa della gara di appalto la Copra però sbaglia qualcosa nel bando. Un errore non tollerabile dato che Bernini voleva affidare alla Copra la ristorazione. Così l'assessore prova a fare rifare il bando ma la cosa non va in porto. Un secondo episodio riguarda invece Antonio Martelli, costruttore. Quest'ultimo stava costruendo un edificio e Bernini si è interessato della cosa. L'assessore fa sì che venga mutata la destinazione d'uso per metterci così asili e scuole, come l'asilo Mary Poppins di cui Repubblica Parma aveva dato nei giorni scorsi una anticipazione. Un cambio di destinazione che costa denaro a Martelli: i soldi non sono ancora quantificati, ma come primo grazie Martelli (ai domiciliari) regala a Bernini un I pad. Martelli è accusato di corruzione ed è ai domiciliari. Bernini è detenuto a Forlì, Signorini a Rimini, T.ana a Bologna. Su Bernini pesano anche le accuse di una consulenza data ad un'amica ed il tentativo di fare annullare 90 multe ad un parente. Durante la conferenza, il procuratore capo Gerardo Laguardia non le ha mandate a dire: "C'è la responsabilità dei partiti (Bernini è Pdl, ndr) nell'ascesa degli uomini che li rappresentano: trovo particolarmente grave, per non dire indecente, che si lucri su pasti di bambini della scuola elementare e materna. L'assessore che deve controllare che il servizio sia efficiente come può farlo se riceve soldi da un imprenditore? Eppure di Bernini nel '97 si parlò già per i rapporti che aveva con il boss Pasquale Zagaria e con l'ex assessore Stocchi, allora condannato per correzione e concussione... la cosa doveva mettere in allarme.

Clamoroso da “La Repubblica” del 24 giugno 2011: Corruzione, undici arresti. In manette tre dirigenti comunali. Secondo atto dell'operazione sulle tangenti del verde pubblico. La Finanza ha arrestato il comandante della polizia municipale, i dirigenti del Comune Moruzzi e Iacovini, un dirigente Iren, sei imprenditori e un investigatore privato. Undici persone sono state arrestate dalla guardia di finanza nel corso del secondo atto dell'operazione "Green money" sulle tangenti nel verde pubblico. Tra queste tre dirigenti del Comune: il comandante della polizia municipale Giovanni Maria Jacobazzi, il direttore marketing - già capo dello staff del sindaco e direttore di Infomobility - Carlo Iacovini (adesso responsabile del progetto Zero Emission City) e Manuele Moruzzi del settore Ambiente, legati a filo doppio al sindaco Pietro Vignali fin dai tempi dell'assessorato all'Ambiente. In manette anche sei imprenditori, un investigatore privato e un dirigente della multiutility Iren, ex Enìa. Dalle prime indiscrezioni potrebbe trattarsi di Mauro Bertoli. Le Fiamme gialle stanno compiendo perquisizioni in municipio, negli uffici comunali del Duc e nel comando della polizia municipale. E' stato accertato il pagamento di tangenti per diverse centinaia di migliaia di euro. Distratta la stessa cifra di soldi pubblici. Eseguite perquisizioni in città, nel Parmense e in altre località italiane. In attesa della conferenza stampa il comandante della Municipale è stato portato nel comando di via del Taglio, dove i finanzieri stanno effettuando perquisizioni nel suo ufficio. Martedì prossimo si sarebbe dovuto presentare in aula nel corso del processo contro i vigili che nell'ottobre del 2008 aggredirono e insultarono il giovane ghanese Emmanuel Bonsu, scambiato per il palo di un pusher, che attendeva l'inizio delle sue lezioni serali nel parco Falcone e Borsellino. Jacobazzi entrò in servizio a Parma poco dopo l'accaduto.

Sbalorditi davanti agli schermi dei computer, di fronte a quella prima notizia lanciata dai giornali online della città: il comandante della Municipale in manette. Sono rimasti senza parole i vigili urbani in servizio questa mattina al comando di via Del Taglio. Qualche click per carpire le poche informazioni già disponibili - corruzione per centinaia di migliaia di euro - poi via al tam tam. Il comandante Jacobazzi oggi non verrà al lavoro, è stato arrestato. In pochi minuti la notizia si diffonde in tutto il comando. Chi è in servizio fuori viene raggiunto dalle telefonate e dagli sms dei colleghi. E la novità viene accolta con più sconcerto che incredulità. "Be', detto fra noi, qualcosa doveva accadere - è il commento di un agente che desidera rimanere anonimo - qui abbiamo avuto ispezioni della Finanza, anche per il verde di questi benedetti cani. C'era da aspettarselo...". L'agente si riferisce allo spazio verde che doveva essere predisposto per Paco e Ax, i due "vigili a quattro zampe", dalla ditta di Alessandro Forni, l'imprenditore già indagato nel primo stralcio dell'inchiesta Green Money. E poi monta l'indignazione: "Io mi chiedo: dove stiamo andando? Dopo il caso Bonsu, ci mancava anche questa. E' una vergogna. Io onoro la divisa che porto da tanti anni. Ora la gente che penserà? Dobbiamo chiudere il comando?".

Intanto l'ufficio stampa dell'Amministrazione comunale ha annunciato che tutte le conferenze in programma per oggi sono state annullate. L'atmosfera in municipio è glaciale. "Siamo sconcertati - ha commentato un dipendente - nessuno si aspettava niente del genere. Aspettiamo la conferenza stampa per scoprire cosa è successo. Per ora anche noi siamo al buio sulla vicenda".

C'era una volta Parma, racconta Gianfrancesco Turano su "L'Espresso". Il Comune affonda nei debiti. I progetti megalomani sono fermi. Le inchieste si moltiplicano. Ecco come è entrato in crisi il modello del buongoverno emiliano.

A Parma sotto il portico del Grano, accanto alla sede del Comune, un maxischermo trasmette da Busseto la prima dell'Attila per una quarantina di melomani. Gli altoparlanti diffondono la musica per le vie del centro e i loggionisti del Regio, i più severi del mondo, annuiscono con soddisfazione. Qui Attila significa Giuseppe Verdi e il suo festival, che occupa tutto il mese di ottobre.

Nella città di Maria Luigia, l'avatar finanziario di Attila ha le sembianze gentili di Calisto Tanzi, nonnino bancarottiere che va a prendere i nipoti a scuola salutato con cortesia dai concittadini. Oppure di Matteo Cambi, il creatore del marchio Guru, affidato ai servizi sociali dopo il carcere per il crac della sua azienda. Sfortunatamente, i metodi degli avventurieri privati hanno contagiato anche i conti pubblici. "Se certe cose succedessero a Catanzaro, farebbero scandalo su tutti i giornali nazionali. Succedono a Parma e nessuno ne parla". Lo dice Elvio Ubaldi, ex sindaco di centrodestra per nove anni, e oggi picconatore indefesso del suo successore Pietro Vignali.

Il catalogo è questo. Quattro inchieste della pur mite magistratura locale (tangenti Enìa, metropolitana, Stt-Tep e riqualificazione Pasubio). La Guardia di finanza ai lavori forzati per sequestrare e studiare montagne di carte. Una situazione debitoria delle casse municipali che nessuno conosce. La Lega Nord parla di 250 milioni di euro per le sole spa controllate dal Comune attraverso la holding Stt. Il Pd parla di 400 milioni di euro. La Stt ne ammette 175. L'esposizione totale della città (170 mila abitanti) sarebbe intorno ai 600-700 milioni. Dall'inizio dell'anno i fornitori ricevono i pagamenti con il contagocce e le gare per i servizi pubblici vanno spesso deserte. "In diciotto mesi sono stati emessi 30 milioni di euro di Boc", dice il capogruppo democratico in Comune Giorgio Pagliari. La Stt, invece, aveva studiato un'emissione obbligazionaria da 100 milioni di euro niente meno che negli Stati Uniti attraverso Armonia sim di Fabio Arpe.

In ordine di tempo, è il caso più recente. E minaccia di far saltare gli equilibri, non solo locali. La storia, nella sua torbidezza, è lineare. Tep è l'azienda di trasporto pubblico, a lungo presieduta da Andrea Costa. Costa è un ex dirigente Barilla, come non pochi da queste parti, con una spiccata vocazione al risparmio. Anzi, come ha detto lui, ai risparmi di una vita che gli sono serviti per comprare tre tenute vitivinicole da oltre 20 milioni di euro complessivi. Ex uomo di Ubaldi, Costa continua l'ascesa con il sindaco Vignali che crea e gli affida la Stt, holding di partecipazioni comunali. Alla Tep è nominato Tiziano Mauro, consulente e vicino di ufficio di Costa. A maggio del 2009 Mauro prova l'irresistibile impulso di versare 8,5 milioni di euro della Tep sui conti di Banca Mb, creatura di Fabio Arpe. Azionista ed amministratore di Mb è Costa che ha investito 3,6 milioni nell'istituto. Alla girata degli 8,5 milioni Mb ha un'ispezione di Bankitalia in corso. Due mesi dopo il versamento, la banca viene commissariata per gravi irregolarità. La Tep prova a riprendersi i soldi ma ottiene soltanto 1 milione. Il resto viene bloccato dai commissari e chissà per quanto. Mauro si è dimesso, Costa no e la Procura indaga sia sul versamento sia sul prestito milionario che Costa ha ricevuto dalla stessa Mb dopo l'arrivo dei soldi della Tep.

Insomma, Parma come Catania e Taranto, con un tocco di megalomania in stile Dubai. "È stato proprio l'ex sindaco Ubaldi a dare il via a questo sistema", dice Arrigo Allegri, animatore di comitati civici e censore della grandeur che voleva trasformare la città di Maria Luigia in un nuovo agglomerato da 400 mila persone.

Le tracce della Parma in stile Emirati Arabi sono ancora visibili nei quartieri a sud della città, verso via Traversetolo, dove una foresta di gru realizza case, uffici, mall e quei capannoni insensati che si stanno mangiando terreni agricoli di pregio lungo tutta la via Emilia. "Qui si parla di Food Valley e di eccellenza alimentare", dice Nicola Dall'Olio, autore del documentario "Il suolo minacciato", "ma gli ultimi dati di espansione urbana per la pianura parmense parlano di oltre 3 mila ettari fra il 2006 e il 2008, al ritmo pazzesco di quattro ettari al giorno".

Ma i danni non si limitano alla periferia. Basta scendere alla stazione Fs, civettuolamente ribattezzata temporary station (10 milioni di debiti comunali accertati), oppure andare poco oltre la ferrovia verso la zona di trasformazione urbana via Pasubio (50 milioni di debiti comunali accertati). O infine guardare l'orrore della Ghiaia, la storica piazza del mercato trasformata in una stazione astronavale grazie a una tettoia in vetro che, d'estate, diventa uno specchio ustore per i palazzi vicini.

Ubaldi dice di essersi pentito ed è giusto credergli, com'è giusto prevedere che nel 2012 si ricandiderà sindaco. Il suo progetto di metropolitana (due linee per 30 chilometri e 320 milioni di euro di investimenti messi da Stato e Comune) è stato accantonato. Non serve. Peccato che le spese dell'appalto mancato, del progetto e dell'utile ipotetico andranno pagate ai vincitori della gara, il binomio di ferro fra il costruttore parmigiano Paolo Pizzarotti e le cooperative rosse. Il conto totale dell'operazione è di 35 milioni di euro. "Tutto questo", insiste Ubaldi, "senza che le imprese abbiano mosso cazzuola. Come mai? Lo Stato affamato di soldi risparmia circa 150 milioni ma rinuncia alla sua programmazione". La metro parmense nasce sotto l'ombrello della legge Obiettivo del 2001, la mappa dei sogni infrastrutturali berlusconiani. E oggi chi si appella alla legge Obiettivo? La rossa regione Emilia Romagna che è favorevole alla metropolitana e ha presentato ricorso alla Corte costituzionale contro lo stop all'opera dato da Gianni Letta e Giulio Tremonti.

Il sindaco Vignali non si è opposto. Parte degli industriali, che controllano l'informazione locale attraverso la "Gazzetta di Parma" e "Parma tv", continua a sostenerlo. Primo fra tutti, Marco Rosi, il proprietario di Parmacotto. E non è appoggio da poco. Guido Barilla è un po' meno contento. Il nuovo inceneritore sorgerà vicino al suo stabilimento, a fianco dell'Autosole. Ma l'inceneritore sarà più difficile da bloccare della metro. La multiutility Iren, dove si è fusa Enìa, ci ha già investito 100 milioni di euro ed è quotata. Con l'ex municipalizzata emiliana c'è poco da scherzare.

Il più arrabbiato con il sindaco sembra proprio Pizzarotti, che voleva costruire la metropolitana per rafforzare il curriculum in vista di gare internazionali. Ma il costruttore si può consolare, oltre che con l'indennizzo, con un'altra struttura avveniristica. È il Ponte a Nord sul torrente Parma, una sorta di Ponte Vecchio di Firenze che nel rendering ricorda il Terminal 3 dell'aeroporto di Dubai. Un'altra navicella spaziale, insomma, alla ricerca di un'immagine modernista di cui pochi a Parma sentono il bisogno.

Ma il look è centrale nelle preoccupazioni dell'amministrazione. In via Farini, o meglio Strada Farini perché nel centro di Parma le vie si chiamano tutte Borgo o Strada, c'è la movida tre giorni a settimana (mercoledì, venerdì e sabato). Sono state approvate sanzioni per chi fa pipì e si droga in pubblico. Molto ben strutturata anche la comunicazione. "L'espresso" ha parlato con una mezza dozzina di addetti stampa nel tentativo fallito di avere un appuntamento con il sindaco (500 mila euro l'anno il costo della struttura). All'ufficio stampa si deve aggiungere la consulenza di Klaus Davi, il public relation man svizzero che propaganda in grande stile il quoziente Parma, un modello matematico applicato alle tariffe sui servizi pubblici, e l'alto tasso di integrazione degli immigrati in città. Non mancano le soubrette. Questo mese il sindaco si è esibito alle prime dei Vespri siciliani e del Trovatore in compagnia delle showgirl Rossella Brescia e Sara Tommasi, della scuderia di Lele Mora, mentre ha appena levato le tende la produzione del film "Baciato dalla fortuna", girato in città.

Passa attraverso l'immagine anche lo sforzo di rilanciare la zona dell'Oltretorrente, la città vecchia che subisce le tensioni della convivenza con gli extracomunitari e la chiusura progressiva dei negozi di via Bixio. In estate è stato inaugurato lo Hub café. È costato 500 mila euro al Comune che l'ha lanciato come "caffè o hub della creatività". L'apporto creativo del locale consiste in un angolo per il book crossing e in qualche foto d'arte appesa alla vetrata. Il resto è cappuccini e brioches o, secondo l'orario, patatine e mojito. Si direbbe un bar come un altro, salvo che il proprietario è il sindaco e lo ha affittato al panificatore Castagnoli per 6 mila euro all'anno (500 al mese). Un canone forse creativo, di certo poco adatto a sostenere le casse municipali.

Le stesse banche con base in città hanno le loro difficoltà a foraggiare la politica scintillante della giunta. Cariparma fa parte del gruppo francese Crédit Agricole, che ha imposto criteri di affidamento poco teneri con la dolce vita finanziaria locale. Banca Monte, dopo essere stata coinvolta nei crac Tanzi e Burani, ha appena evitato di giustezza il commissariamento con l'arrivo dei nuovi padroni di Intesa Sanpaolo. Nel più grande istituto di credito italiano le magagne locali si vedranno meno e si potranno sistemare più in fretta.

Del resto, è già in arrivo la prossima genialata della finanza creativa che sostituirà i danni causati ai Comuni dai derivati con danni nuovi di zecca. Si chiama leasing in costruendo. La città ducale se ne vuole servire per realizzare un nuovo palazzo dello sport da 45 milioni di euro nella zona nord. Funziona così. Il Comune decide di costruire. Non ha i soldi. Bandisce una gara fra banche. La vincente realizza l'opera attraverso i suoi costruttori di fiducia, poi la dà in leasing al Comune. Vantaggi per la banca: il leasing rende più di un mutuo. Vantaggi per il Comune: il taglio del nastro inaugurale e il pagamento dilazionato. Perché poi una banca debba fare il contractor per conto del Comune non è chiaro. Né è chiaro a che cosa serva qui un palazzo dello sport da 45 milioni di euro dato che non ci sono squadre in grado di riempirlo e che persino ai tempi del grande Parma di Tanzi, con in campo Buffon, Crespo, Cannavaro e Asprilla, lo stadio Tardini faceva il tutto esaurito tre volte all'anno, sì e no.

Erano i bei tempi delle plusvalenze fasulle. Nel calcio sono state eliminate. Nell'immobiliare, no. Alfa, controllata da Stt ossia dal Comune, ha comprato sempre dal Comune l'ex mercato del bestiame per 21 milioni di euro. L'area vale, ad andar bene, la metà. Anche la Spip, pure controllata dalla spa pubblica Stt, è carica di immobili sopravvalutati. E con quelli non si vincono neanche le partite.

PARMA E LA MALAGIUSTIZIA

Lo strano caso della giudice che lavora "troppo". Jacqueline Monica Magi, magistrato del tribunale di Prato, è finita nelle cronache per una vicenda che, nell'Italia degli assenteisti, pare surreale, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama” del 27 ottobre 2015. Jacqueline Monica Magi, giudice della sezione penale del Tribunale di Prato, è finita sulla prima pagina del Corriere della Sera perché trascinata nelle polemiche in quanto "magistrato che lavora troppo". Jacqueline Magi per mesi ha macinato udienze perché, a quanto si legge sulle cronache, le erano stati attribuiti circa 1.800 fascicoli e ha cercato (doverosamente) di smaltirli. Con il suo convocare pubblici ministeri, imputati, parti civili e cancellieri a un ritmo superiore alla media, la giudice ha però infastidito un po’ tutti. Si legge così che il presidente del Tribunale di Prato, Nicola Pisano, una volta scoperto che nel mese di ottobre la giudice Masi aveva fissato 46 udienze contro una "previsione tabellare" di 36, abbia cominciato ad annullarne un po’. Sulla porta della sezione penale, il dottor Pisano ha poi affisso una circolare per ricordare che tutte le udienze, ordinarie e straordinarie, devono essere sottoposte alla sua autorizzazione preventiva, anche "in relazione alle risorse di cancelleria effettivamente disponibili". Pare che il presidente Pisano abbia anche aggiunto una postilla quasi minacciosa: "Eventuali inottemperanze saranno valutabili anche sotto il profilo disciplinare, nell’ottica della leale e corretta cooperazione con la gestione dell’Ufficio". A buon intenditor, poche parole…Ora, io non conosco Jacqueline Monica Magi. Con un po’ di ricerche ho scoperto che prima di arrivare a Prato è stata sostituto procuratore a Pistoia (dove si è occupata con grande attivismo di gravi reati ambientali) e giudice del lavoro nel Tribunale di Piombino (dove su Internet si trova traccia di una polemica, tra il surreale e il paradossale, che le attribuiva "un abbigliamento sgargiante"). Di lei, su Internet, c’è qualche foto: pare una donna simpatica. Non ho idea se sia una piantagrane o soltanto una che vuole fare il suo lavoro. È il caso che comunque sorprende e interessa. Al Consiglio superiore della magistratura se n’è accorto il consigliere laico Pierantonio Zanettin: ha subito chiesto venga dato "ogni supporto a magistrati zelanti, che non si rassegnano alle disfunzioni del pianeta giustizia". Ha fatto bene. E avrà sicuramente le sue ragioni il presidente Pisano, che nel suo Tribunale lamenta una pianta organica "molto sottodimensionata" e critica recenti "riduzioni del personale del 35%", per di più in una città complicata dove vivono 127 diverse etnie, la falsificazione dei marchi è una piaga, fallimenti e sfratti sono a livelli record. Però il risultato della sua circolare "anti-stakanovismo" non è positivo. Sempre secondo le cronache, la giudice Magi avrebbe reagito chiedendo il trasferimento a Firenze o a Pistoia: ufficialmente per motivi familiari, ma forse un po' anche per il trattamento ricevuto. "Io proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni" avrebbe dichiarato, la magistrato, aggiungendo di sentirsi "come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro". Ecco, quella campanella oggi rintocca in modo triste. Anzi, sembra proprio campana a lutto. E mi piacerebbe che chi può intervenga tempestivamente per zittirla: perché una giustizia che in omaggio a logiche burocratico-sindacali arriva a frenare il lavoro di un magistrato è una giustizia destinata a soccombere. Tra i sacrosanti fischi dell’opinione pubblica. 

Ne racconta a "Il Giornale" il magistrato-imputato: "La Giustizia lumaca". Procuratore a Parma poi travolto dalle accuse. Dopo sei anni l'assoluzione e la richiesta di risarcimento allo Stato. Giovanni Panebianco in una intervista giudica lo stato di salute della giustizia italiana. L'ex procuratore di Parma, Giovanni Panebianco, chiede in base alla legge Pinto un risarcimento allo Stato di circa 70.000 euro per i danni morali e patrimoniali subiti a causa di un processo per corruzione (assolto con formula piena) e per falsità ideologica (prosciolto per intervenuta prescrizione). Panebianco, assistito dallo studio associato De Filippi, sostiene che il processo, durato 6 anni, gli ha causato notevoli danni d'immagine e l'impossibilità di concorrere al posto di procuratore generale a Bologna, oltre alla perdita del suo incarico. La vicenda è stata per anni al centro delle cronache del settimanale "La voce di Parma". Come si ricorderà la procura di Firenze nel 2001 avviò un'inchiesta nel quale erano coinvolti oltre a Panebianco, Luciano Silingardi, potente presidente della Cassa di Risparmio di Parma e un imprenditore, Antonio Rizzone. Nei documenti dell'accusa c'era scritto che "la Cassa di risparmio di Parma, per attivo interessamento di Silingardi nel periodo tra il 1994 e il 1997 avrebbe concesso affidamenti bancari gravemente anomali a soggetti legati da particolare vincolo al procuratore Panebianco". Insomma il procuratore avrebbe intercesso presso il banchiere per favorire l'imprenditore al quale era legato da antica amicizia. Panebianco ha sempre respinto l'accusa e nel novembre 2007 il tribunale di Firenze lo ha assolto (per sopraggiunta prescrizione per il reato di falsità ideologica e perchè il fatto non sussiste per corruzione) assieme a Silingardi. Poi la notizia che Panebianco a 76 anni ha  chiesto i danni allo Stato per 70 mila euro e minaccia di  chiedere il reintegro nel ruolo (a seguito della vicenda ha lasciato il posto di procuratore a Parma e rinunciò alla procura di Bologna).

Panebianco un magistrato dall'altra parte della barricata, nel ruolo di imputato, sei anni. Che giudizio ha della magistratura italiana?

Che ci sono problemi, che le cose non funzionano. Credo che in civile bisognerebbe snellire le procedure introducendo la motivazione eventuale, quella che viene fatta solo in caso di appello. Bisogna evitare certi magistrati che fanno notte fonda per fare i Proust nelle sentenze.

E per il penale?

E' stata una sciocchezza l'abolizione delle preture, un ufficio giudiziario veramente vicino al popolo, alla gente. Con le sole procure si è tutto complicato ulteriormente.

Lei per una volta nei panni del povero cittadino, sei anni di attesa per una sentenza di primo grado, a che ritmo viaggiano le toghe in Italia?

A un ritmo che non ha eguali, è quello delle tradotte del dopoguerra.

L'hanno definita il magistrato amico dei potenti...

Piano con le offese, e questa è la peggiore che può essermi rivolta. Ricordo che ho querelato ed ho avuto ragione  ad Ancona col periodico di "La voce di Parma" mentre è stata archiviata a Milano la mia querela presentata nei confronti del Corriere della Sera,(perché gli imputati non sono tutti uguali di fronte alla legge ndr).

In sei anni di assenza dalla Procura c'è stato un terremoto a Parma, anche nelle persone che lei conosceva…

Sì da Tanzi a Guru un vero terremoto. Io sono un ottimista di natura e credo che nonostante tutto la magistratura funzioni, anche nel mio caso l'ho potuto constatare. (Non si sa se si riferisse alla prescrizione).

Altra testimonianza sempre su "Il Giornale". Ha indagato su 140 delitti con Giovanni Falcone: "La giustizia? Una piovra!". Marco Morin è uno dei più autorevoli periti balistici al mondo. Ha fatto scarcerare un inglese condannato all’ergastolo per l’omicidio di Jill Dando, conduttrice della Bbc. Ma ora rifugge i tribunali italiani. È uno dei più autorevoli esperti - appena una dozzina in tutto il mondo - di balistica, esplosivistica e residui dello sparo. Quindi se il professor Marco Morin dice che nel nostro Paese le sentenze dei processi per omicidi, attentati e altri reati, in cui c’entrano le armi da fuoco o le bombe sono quasi sempre frutto di investigazioni fatte alla carlona, c’è da preoccuparsi. Se poi la conferma arriva da Edoardo Mori, che, oltre a essere giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bolzano, è anche titolare del sito Earmi.it, «dedicato a coloro che amano lo studio delle armi e della balistica e sono interessati ai problemi giuridici connessi», c’è da spaventarsi. Scrive Mori, osannando, e non certo per consonanza anagrafica, una relazione di Morin: «È esemplare nel dimostrare quale deve essere la buona preparazione di un perito, ben informato su tutta la più recente letteratura scientifica, capace di comprenderla nelle lingue straniere e capace di usare strumenti di analisi. Tutte cose che non si possono pretendere da un poliziotto o un carabiniere, addestrati alla bell’e meglio in base “alla prassi dell’ufficio” o “a ciò che si è sempre fatto”». Elevata competenza professionale, fu consulente di fiducia del compianto Giovanni Falcone per le indagini su 140 delitti di mafia, a cominciare dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Morin s’è occupato anche dei casi Aldo Moro, Luigi Calabresi e Marta Russo, delle efferatezze del mostro di Firenze, delle stragi di Peteano, Bologna e Ustica. Ma oggi guai a dargli del perito balistico: «Faccio solo consulenze di parte. Non voglio più aver nulla a che fare con magistrati e tribunali. Lo vede questo tomo di 637 pagine? È il manuale che i giudici federali statunitensi devono studiarsi per essere in grado di valutare la bontà delle prove scientifiche portate alla loro attenzione. Da noi? Prendono per oro colato qualsiasi bischerata. Basta che provenga dai laboratori istituzionali». Fino a pochi anni fa il professor Morin era l’anima del più attrezzato di questi laboratori, il Centro indagini criminali, costruito a propria immagine e somiglianza presso la Procura di Venezia. A un certo punto gli impedirono di accedervi, nonostante le rimostranze di Falcone. «Come? Facendo passare me per un criminale», allarga le braccia.

Come mai non collabora più con la giustizia italiana?

«Mi hanno fatto fuori professionalmente. Mi risulta che l’ordine sia partito da Palermo. Me l’hanno confidato alcuni alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. I miei rapporti con Falcone erano strettissimi, si fidava soltanto di me. Una volta, a cena qui a casa mia, dove ora è seduto lei, mi raccontò d’aver scoperto un traffico di droga fra Bulgaria e Italia favorito da personaggi legati al Pci: gli stupefacenti finivano in mano alla mafia. Mi mangiai due diottrie al microscopio per esaminare i proiettili dei delitti di Cosa nostra e scoprii che a sparare erano sempre le stesse Smith & Wesson calibro 38. Le mie perizie balistiche avevano consentito a Falcone di risalire a insospettabili connessioni fra le cosche di Palermo e Catania. Per la mafia ero diventato un pericolo».

In che modo l’hanno fatta fuori?

«Con l’accusa di peculato. Mi sarei appropriato di 30 o 40 cartucce da caccia del costo di 100, massimo 150 lire l’una, pensi un po’. Se a Venezia ci fossero state le pecore, m’avrebbero accusato di abigeato. Ma l’accusa più grave fu quella formulata dal pubblico ministero Felice Casson, oggi senatore del Partito democratico, che m’incolpava d’aver fatto sparire dell’esplosivo. Dopodiché saltò fuori un documento, controfirmato dallo stesso Casson, dal quale risultava che quell’esplosivo era stato consegnato alla direzione di artiglieria. Presentai un esposto al Consiglio superiore della magistratura e l’accusa cadde subito».

Cogne, Garlasco, Perugia, e prim’ancora l’Olgiata e via Poma: tanti toponimi per indicare altrettanti delitti in cui dalla guerra di perizie e controperizie non emerge mai una verità credibile. Di chi è la colpa?

«Di chi compie le prime indagini. Com’è possibile che nel caso di Meredith Kercher siano state trovate tracce di sangue su una borsa a tracolla a quattro mesi e mezzo dal delitto? Nella mia carriera ho visto cose da far paura. Prenda la tragedia del Moby Prince, che costò la vita a 140 persone. Il gabinetto di polizia scientifica della Criminalpol individuò sul traghetto tracce di ben sette diversi tipi di esplosivo».

E invece?

«A bordo non ve n’era nemmeno uno, di esplosivo! Così come non vi erano residui dello sparo sul davanzale della Sapienza di Roma, da dove sarebbe partito il colpo che uccise la studentessa Marta Russo. Peggio ancora fu quello che accertai come consulente di Pietro Pacciani. I periti di fiducia del giudice dovevano rilevare eventuali tracce di polvere da sparo su un baby-doll e su un pannolino da neonato che avrebbero avvolto armi da fuoco usate dal mostro di Firenze. Conclusero per la presenza di antimonio, elemento chimico attribuito alla miscela d’innesco delle cartucce Winchester calibro 22 Long Rifle. Ebbene, chiunque s’interessi seriamente di munizioni sa che quell’innesco non contiene antimonio. Appare grave che dei periti d’ufficio abbiano disposto la ricerca strumentale dell’antimonio in cartucce che ne sono notoriamente prive. Ma ancora più grave è che l’antimonio sia stato addirittura individuato negli inneschi esaminati. Risultato: Pacciani assolto, giustizia svergognata».

Che conclusioni devo trarne?

«Domina la pressoché generale ignoranza della criminalistica, di quel complesso di discipline che si definiscono scienze forensi. Il giudice non è onnisciente, deve per forza rivolgersi al consulente tecnico. Ma se il secondo è più ignorante del primo? Tutto ciò rende aleatoria la giustizia penale in Italia. Adesso lei sa quali rischi corre il cittadino innocente quando viene afferrato dai tentacoli di questa piovra. Se sarà fortunato, potrà riavere la libertà a prezzo della salute, della rovina economica, dell’onore».

Tesi confermata da eventi inimmaginabili: Luciano Garofano lascia la guida dei Ris di Parma.

La notizia arriva dopo l'annuncio del Tg1 di un suo probabile coinvolgimento diretto nelle indagini della procura di Parma, scaturite da una denuncia dell'avvocato Carlo Taormina, in merito a presunte irregolarità compiute dal reparto per lo svolgimento di consulenze tecniche su importanti e controversi casi giudiziari degli ultimi anni. Le accuse sarebbero di truffa ai danni dello stato, abuso di ufficio e falso ideologico. Il colonnello dei carabinieri, per 14 anni comandante del Reparto investigazioni scientifiche, dopo essersi occupato dei delitti più noti degli ultimi anni, dall’omicidio di Garlasco alla strage di Erba, dal caso Cogne all’assassinio di via Poma, ha presentato congedo al comando generale dei carabinieri. La sua richiesta è stata accolta. Comunque soddisfatto Taormina: "Ciò che ha costituito oggetto delle mie indicazioni ha trovato riscontro.”

Ma non finisce qui. Unabomber: Condannato a due anni Ezio Zernar, il poliziotto accusato di aver alterato una “prova principe” nel processo contro il bombarolo del nordest. C’é una condanna nella vicenda Unabomber, ma non è a carico dello sconosciuto bombarolo del nordest, bensì per un poliziotto, Ezio Zernar, del laboratorio di indagini criminalistiche di Venezia, accusato di aver alterato quella che poteva essere una “prova principe”, che sarebbe stata data dalle striature trovate su un lato del lamierino e compatibili con i segni lasciati da una forbice che era nelle disponibilità di Zornitta.

PARMA E LA SICUREZZA: VIGILI URBANI NEL MIRINO.

Vigili accusati, non solo Bonsu. Violenze e minacce a tre minori. Botte non solo per Bonsu, quella sera. Minacce e violenza anche nei confronti di tre minorenni, perquisiti al parco ex Eridania e portati al comando a forza. Per i vigili sotto accusa, arrivano altri guai giudiziari.

Da “La Repubblica”. Meno di cinque ore in camera di consiglio. Poi, puntuale, alle 17.30 del 3 ottobre 2011 il giudice Paolo Scippa ha letto la sentenza di primo grado per gli otto vigili accusati del pestaggio e del sequestro del giovane ghanese Emmanuel Bonsu. Per la città di Parma, l'atto conclusivo di uno scandalo dai gravi risvolti razzisti. Ad ascoltare il verdetto, nell'aula affollata da toghe e telecamere ma non dal pubblico, c'erano solo due imputati. Curiosamente, quelli che hanno ricevuto la pena più alta e quella più lieve.

LE CONDANNE -

Pasquale Fratantuono, l'agente che si è fatto immortalare col ragazzo e gli ha consegnato una busta con sopra scritto "Emanuel negro", è stato giudicato responsabile di tutti i reati e dell'aggravante di discriminazione razziale. La pena, 7 anni e 9 mesi di reclusione. Il pm Roberta Licci aveva chiesto 9 anni e tre mesi. "Ho scelto di non partecipare al processo perché non sarei stato in grado di sopportare la pressione psicologica - aveva dichiarato davanti al giudice con la voce rotta dal pianto - ho superato questa difficoltà perché volevo che lei sapesse che la violenza e il razzismo non appartengono alla mia cultura. Sono fermamente convinto di aver fatto il mio dovere nella prima operazione antidroga della mia vita. Mi è molto difficile parlare in questa aula e mi rammarica sapere che qualcuno ha sofferto come oggi soffro io nella convinzione che ho agito per fini diversi da quelli istituzionali".

L'altro agente in Descrizione: http://oas.repubblica.it/0/default/empty.gifaula, Graziano Cicinato, è stato assolto da tutti i capi di imputazione tranne che per il sequestro di persona, "limitatamente al trattenimento in cella di Bonsu e alla conseguente indebita costrizione". Concesse le attenuanti generiche, prevalenti sulle aggravanti, è stato condannato a due anni di reclusione, pena sospesa e non menzione della condanna sul casellario giudiziale. Per lui, quindi, nessuna ipotesi di reclusione. Ma l'aspettativa era l'assoluzione: anche Cicinato farà ricorso in appello.

Pena pesante per l'ex vicecomandante Simona Fabbri: ritenuta responsabile di tutti i reati e delle aggravanti, senza concessioni di attenuanti, è stata condannata a 7 anni e sei mesi di reclusione. Come Fratantuono, è stata interdetta in perpetuo dai pubblici uffici. "Anche se la ricostruzione dell'accusa fosse corrispondente alla realtà dei fatti, cosa che contestiamo, questa pena è eccessiva e non proporzionata" è stato il commento del difensore Noris Bucchi.

Mirko Cremonini, l'altro vigile che doveva rispondere dell'aggravante della discriminazione razziale, si è visto concedere le attenuanti: per lui, 3 anni e sei mesi di reclusione e l'interdizione di cinque anni dai pubblici uffici.

Nessuna concessione all'ispettore Stefania Spotti, condannata per tutti i reati a sei anni e 8 mesi di reclusione e interdetta in perpetuo dai pubblici uffici. Andrea Sinisi e Giorgio Albertini sono stati condannati rispettivamente a 4 anni e 9 mesi e a 4 anni e 7 mesi di detenzione. A entrambi sono state riconosciute le attenuanti equivalenti alle aggravanti. Anche per loro, l'interdizione di 5 anni dai pubblici uffici. Infine, Marco De Blasi è stato condannato a 3 anni e 4 mesi, con attenuanti prevalenti, e all'interdizione di 5 anni. I due imputati presenti hanno lasciato l'aula in silenzio, senza rilasciare dichiarazioni.

Colpo di scena, poi, riguardo al risarcimento dei danni alla parte civile. Alla famiglia Bonsu è stata riconosciuta una provvisionale immediatamente esecutiva di 135mila euro (ne avevano chiesto 500mila), che gli imputati dovranno pagare in solido ma senza il responsabile civile, il Comune di Parma, giudicato estraneo ai fatti. "Sarei soddisfatto se non si fossero verificati i fatti - il commento dell'avvocato dell'Amministrazione, Pierluigi Collura - quello che è successo quel maledetto giorno ha danneggiato tutti, la città, il Comune, il corpo dei vigili urbani. Nelle due condanne precedenti è già stato riconosciuto un risarcimento all'Amministrazione e in questo processo abbiamo mantenuto la stessa linea. Il giudice ci ha dato ragione. In ogni caso, è una sentenza che lascia l'amaro in bocca per quello che è successo". Oltre ai 135mila euro, gli imputati dovranno pagare 23mila euro di spese legali alla famiglia Bonsu. L'avvocato di parte civile Lorenzo Trucco si è invece detto "perplesso" per questo inaspettato rigetto della richiesta "aspettiamo però di leggere la motivazione. In questo processo comunque l'impianto accusatorio ha tenuto". Il giudice depositerà le motivazioni della sentenza entro 45 giorni.

Preso d'assalto dai taccuini e microfoni, il protagonista della vicenda, Emmanuel, è rimasto chiuso dietro a un muro di sorrisi cortesi, sguardi fuggenti e silenzio. Il papà Alex ha dichiarato che per lui è importante che si sia trovata la verità "soprattutto sul fatto che mio figlio è innocente, non c'entra niente con droga o altro. Si è chiarito chi è colpevole e chi no". Per la famiglia Bonsu è stato un processo lungo e pesante. Dopo tre anni, "non è cambiato niente". Emmanuel soffre ancora delle conseguenze di quelle botte e quelle umiliazioni. Studia a Milano Scienze politiche, "ma per lui è difficile - dice il padre - non so cosa farà in futuro".

Vista la gravità delle pene, tutti gli imputati faranno ricorso al Tribunale d'Appello e, se in secondo grado non ci saranno stravolgimenti assolutori, probabilmente il processo finirà in Cassazione. L'unico vigile che non rischia il carcere o altre misure detentive è Graziano Cicinato, a cui è stata concessa la sospensione della pena. Gli altri, invece, per ottenere l'affidamento in prova ai servizi sociali dovranno vedersi scontare la pena definitiva a un massimo di tre anni. Altrimenti, come è successo a Calisto Tanzi, per gli agenti del caso Bonsu fra qualche anno potrebbero spalancarsi le porte di una cella.

L'avrebbero chiamato "scimmia" e "negro", per poi prenderlo a pugni, calci e schiaffi. Ma l'avrebbero anche spogliato e costretto a fare piegamenti con una bottiglia di plastica sulla testa: sono dieci i vigili - otto agenti, un ispettore capo e un commissario capo della polizia municipale - ad essere indagati per il presunto pestaggio di Manuel Bonsu, il ragazzo ghanese di 22 anni scambiato erroneamente per il 'palo' di un pusher in una operazione antidroga avvenuta a Parma. Le accuse per i vigili sono pesantissime e vanno dalle percosse aggravate alla calunnia, dall'ingiuria al falso ideologico e materiale, passando per la violazione dei doveri d'ufficio con l'aggravante dell'abuso di potere. Secondo la ricostruzione della pm Roberta Licci, Bonsu non ha nemmeno reagito quando è stato fermato dagli agenti, che erano in borghese e non si sarebbero qualificati. Il ragazzo è scappato: subito ripreso gli è stata puntata una pistola in faccia da uno dei vigili e poi è stato ammanettato. Durante il trasporto al comando e poi in cella sono piovute le botte. Fin qui l'inchiesta penale. Ma sono stati annunciati provvedimenti anche dal sindaco di Parma, Pietro Vignali, che ha promesso iniziative disciplinari nei confronti dei dieci vigili. Gli agenti coinvolti nel presunto pestaggio, peraltro, sono già stati trasferiti dal nucleo investigativo ad un altro incarico. Il sindaco ritiene però che il caso Bonsu sia un "fatto episodico". E ribadisce di avere "assoluta fiducia nella polizia municipale". Violenza privata e perquisizione arbitraria ai danni di tre minorenni. Sono indagati anche per questo gli otto agenti, il commissario capo e l'ispettore capo che comandarono, coordinarono ed eseguirono l'operazione antidroga del 29 settembre, quella  terminata con il fermo di Emmanuel Bonsu Foster. Il ragazzo, scambiato per il palo di uno spacciatore palestinese, non è stata l'unica presunta vittima dei vigili urbani. Quel pomeriggio al parco c'erano anche tre ragazzini, tutti minorenni, che sono stati portati al comando e che poi sono stati ascoltati dalla Procura. Nell'avviso di garanzia notificato agli agenti si parla anche di loro, si scrive che sono stati portati in caserma "con violenza e minaccia". Per fermarli gli agenti gli avrebbero "puntato una pistola contro", gli avrebbero requisito gli scooter e poi li avrebbero fatti salire in auto a forza, "trattenendoli per le braccia". Uno degli adolescenti, che probabilmente si divincolava, è stato colpito "con un pugno al petto". E una volta in via Del Taglio, mentre Emmanuel veniva costretto a spogliarsi e a fare flessioni, insultato con parole quali "negro" e "scimmia", i tre ragazzini venivano perquisiti. Nei loro confronti sarebbero volate anche parole grosse, insulti come "figlio di puttana". Probabilmente gli agenti pensavano di avere di fronte i clienti dello spacciatore o comunque ragazzi che avessero a che fare, in qualche modo, con il palestinese e il suo presunto palo. Poi sono stati rilasciati, ma la perquisizione viene considerata arbitraria, il pugno, il trasferimento al comando e gli insulti una violenza privata. Altre ipotesi di reato su cui indagare, altre accuse da cui, in caso di rinvio a giudizio, gli agenti dovranno difendersi e che già delineano i contorni di un'operazione antidroga singolare. Non solo nel suo svolgimento, ma anche nel suo preludio e nel suo epilogo. Innanzitutto perché prima di entrare in azione gli agenti si erano appostati al parco da qualche giorno e poi perché, una volta fermato Bonsu senza darne comunicazione all'autorità giudiziaria, le note successive erano incomplete o "false" come ipotizza la procura al fine di coprire una serie di errori commessi.

PARMA E LA GRANDE TRUFFA

Parmalat, via al processo del secolo. Migliaia di risparmiatori parti civili. Così come raccontato da "La Repubblica". Il 14 marzo 2008, a quattro anni e tre mesi dall'arresto di Calisto Tanzi, ex patron della società, prima udienza nel centro congressi dell'auditorium Paganini di Parma. Alla sbarra gli uomini di punta della multinazionale del latte che secondo i pm avevano costituito una 'cabina di regia' di tutte le operazioni illecite. Quattordici miliardi di euro di 'buco' accertato, 200.000 risparmiatori danneggiati di cui 33.000 probabili parti civili, 56 imputati, 125 udienze previste e circa 10 milioni di pagine di documenti. Sono alcuni dei numeri del "processo del secolo", quello per il crac Parmalat che è cominciato oggi nel centro congressi dell'auditorium Paganini di Parma. Cinque i tronconi d'inchiesta: Parmalat (23 imputati, alcuni dei quali a giudizio anche in altri procedimenti paralleli), Parmatour (32 imputati), Ciappazzi (8), truffa alla società Emilia Romagna Factor (2), Ributti (1).

Gli albori. Sono passati quattro anni e tre mesi da quando Calisto Tanzi, ex patron della multinazionale di Collecchio, fu arrestato all'aeroporto di Malpensa di ritorno da un misterioso viaggio in Sudamerica. Erano gli albori dell'inchiesta che la procura di Parma ha cercato in questi anni di dipanare. Uno scandalo finanziario che, secondo molti, non ha precedenti nella storia e che vede oggi alla sbarra tutto il 'sistema' Parmalat, fatto di bilanci truccati ma anche di dubbie coperture finanziarie.

Le accuse. Almeno questo sostengono i pm Vincenzo Picciotti, Paola Reggiani e Lucia Russo, che hanno chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio tanto degli ex amministratori e sindaci della società di Collecchio, quanto di revisori contabili ed esponenti del mondo bancario e finanziario italiano. Due le accuse principali mosse agli ex 'ragionieri' del gruppo dirigente di Calisto Tanzi: il concorso in bancarotta fraudolenta e l'associazione per delinquere.

Il buco. Lo stato d'insolvenza della Parmalat fu dichiarato il 22 dicembre 2003. Secondo Enrico Bondi, non ancora commissario straordinario, ma chiamato al capezzale dell'azienda di Collecchio dallo stesso Calisto Tanzi per un disperato tentativo di salvataggio, dalle casse della multinazionale mancavano quattro miliardi di euro. Era un conto ottimistico. Qualche tempo dopo, il 'buco' fu stimato con maggiore precisione intorno ai 14 miliardi di euro. Il 26 dicembre Tanzi fu arrestato.

Gli arresti. In manette finirono anche Francesca e Stefano Tanzi, i figli dell'ex patron, che nell'azienda di famiglia avevano rivestito incarichi direttivi (direttore commerciale e amministrativo lui, dirigente Parmatour lei), Fausto Tonna, ex direttore finanziario e il suo successore Luciano Del Soldato, Franco Gorreri, presidente di Banca Monte e per anni tesoriere della Parmalat, Domenico Barili, ex direttore marketing.

La cabina di regia. Secondo la procura, Tanzi e gli uomini di punta della multinazionale del latte avevano costituito una 'cabina di regia' di tutte le operazioni illecite. Di questa, sempre secondo la procura, facevano parte, oltre allo stesso Tanzi, l'ex direttore finanziario Fausto Tonna, l'ex direttore marketing Domenico Barili e l'ex presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Parma, Luciano Silingardi, il fratello di Calisto, Giovanni, l'ex revisore della Grant Thornton Lorenzo Penca. E poi gli avvocati Sergio Erede, 12 anni nel cda di Parmalat Finanziaria, e Paolo Sciumè, per 13 anni sulla stessa poltrona. Renato Trauzzi, invece, è stato il vice di Franco Gorreri, il tesoriere di Collecchio, mentre Enrico Barachini entrò nel cda della Coloniale, società cassaforte del gruppo. Il problema, messo in evidenza anche dal gup Domenico Truppa nelle motivazioni al rinvio a giudizio, è quello di tracciare i confini della 'cabina di regia'. Tra gli altri a processo Camillo Fiorini, ex dirigente del settore turismo, e Giovanni Bonici, numero uno della società spazzatura del gruppo Bonlat e della Parmalat venezuelana.

Le banche. Tre i banchieri rinviati a giudizio: Cesare Geronzi, presidente di Capitalia, è accusato di usura e concorso in bancarotta nell' ambito del “filone” Ciappazzi, relativo alla cessione delle omonime acque minerali siciliane da Ciarrapico a Tanzi. Un affare 'sospetto' secondo la Procura, che ipotizza l'esercizio da parte di Geronzi di pressioni illecite sull'ex patron Parmalat perché si accollasse l'azienda in dissesto dell' imprenditore romano ad un prezzo 'gonfiato'. Coinvolto nella vicenda anche l'ex amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe, a cui si contestano alcune ipotesi minori di concorso in bancarotta. Gianpiero Fiorani, ex numero uno della Banca Popolare di Lodi, è accusato di concorso nella bancarotta Parmatour, una sorta di crac nel crac.

L'udienza preliminare. Il 5 giugno 2006, di fronte al gup Domenico Truppa, partì l'udienza preliminare del processo al crac (con 64 imputati a cui si aggiungeranno quelli degli altri 'filoni' d'inchiesta), che si concluse il 25 luglio dell'anno successivo con 56 rinvii a giudizio, cinque condanne in rito abbreviato (tre anni di reclusione a Luca Baraldi, ex componente del cda Parmatour ed ex dirigente del Parma calcio, sette anni e 10 a Giampaolo Zini, il creatore del Fondo Epicurum, nove anni a Maurizio Bianchi, ex revisore Grant Thornton) e 16 patteggiamenti.

L'inchiesta svizzera. Intanto anche la giustizia svizzera continua ad occuparsi del caso. Recentemente Berna, che sta indagando su circa 100 milioni di franchi di transazioni sospette, ha fatto arrestare in Slovenia Luca Sala, ex consulente del gruppo italiano. Dopo il fallimento di Parmalat, il pubblico ministero della Confederazione (MPC) aveva aperto due inchieste. Due persone sono sotto accusa per truffa e riciclaggio. Nella Confederazione sono stati sequestrati beni e immobili per un valore di 7 milioni di franchi.

 

Descrizione: TUTTO PARMA.jpg