Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

LA SICILIA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

TUTTO SU PALERMO E LA SICILIA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I PALERMITANI ED I SICILIANI

SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai voluto leggere. 

(*Su Messina c'è un libro dedicato)

di Antonio Giangrande

 

SOMMARIO I PARTE

 

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.

ANTIMAFIOSO SI NASCE O SI DIVENTA?

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

 

SOMMARIO II PARTE

 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

A PALERMO, TRA NUOVI PROCURATORI E VIADOTTI NUOVI CROLLATI: ARIA NUOVA O QUASI!

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAFIA VECCHIA E NUOVA……

L'ANTIMAFIA DELLE BUFALE?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

MARCELLO DELL’UTRI. LA VERA STORIA.

LA SICILIA DEGLI SPRECHI.

SPRECHI ESATTORIALI.

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

GIOVANNI FALCONE "ROVINAVA L'ITALIA".

MATTEO MESSINA DENARO: LATITANTE DI STATO?

MAFIA DEMOCRATICA.

MARCO BOVA, I PM E GLI ATTI D'INDAGINE SECRETATI TROVATI IN CASA DELL'INDAGATO.

GIANNI IENNA, MAFIOSO PER FORZA.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

MAFIA E FALLIMENTI. AZIENDE SANE IN MANO AI TRIBUNALI. GESTIONE CRIMINALE?

IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?

MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.

LEZIONE DI MAFIA.

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

MAFIA. SCARANTINO. TORTURATO PER MENTIRE.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

IL VENTO DELLA SECESSIONE GRADITO A COSA NOSTRA ED ALLA MASSONERIA DEVIATA.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

TRATTATIVA STATO-MAFIA. PROCESSO ALLO STATO.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

USURA E MAGISTRATURA.

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

MAFIOSO A CHI?

ANCHE I GIORNALISTI RUBANO?

PARTINICO. QUANDO I LEGALITARI VIOLANO LA LEGGE.

IL PROBLEMA DELLE CATTIVE FREQUENTAZIONI.

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. DELL'UTRI: LA MAFIE E’ POTERE.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

CIANCIMINO: FIGLIO DEL MAFIOSO CHE NON SI FA I CAZZI SUOI.

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'.

PALERMO: MAFIA E POLITICA.

BRUNO CONTRADA E MARIO MORI.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

UNA NUOVA VERITA' SULLE STRAGI MAFIOSE.

IL DIRITTO CHE SI ROVESCIA E GLI INNOCENTI IN CARCERE.

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO.

MAGISTRATI PARTIGIANI.

CASO DE MAGISTRIS: ULTIMA FERMATA, VIA D'AMELIO.

MISTERI DI STATO. MISTERI DI CASA (O COSA) NOSTRA.

C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA: PALERMO, I GIUDICI CANNIBALI.

CASO MAURO DE MAURO.

STORIE DI INGIUSTIZIA.

STORIE DI SPRECHI ED ABUSI.

CONCORSI TRUCCATI.

MALASANITA' E TRUFFE.

PARLIAMO DI AGRIGENTO

ACQUA PAZZA.

AGRIGENTO: GLI STAKANOVISTI DELLE COMMISSIONI.

AGRIGENTO: LA CAPITALE DELL'ASSENTEISMO.

AGRIGENTO ED I SUOI EROI: ROSARIO LIVATINO.

AGRIGENTO E LA MASSONERIA.

MAFIA E MASSONERIA.

MAFIA E CHIESA.

LAMPEDUSA, L'ISOLA DEGLI ABUSI.

PORTO EMPEDOCLE. MAI DIRE MAFIA, MAFIOSI E MAFIOSITA'.

PARLIAMO DI CALTANISSETTA

GIUSTIZIA PER MIRKO RUSSO.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

GELA COME TARANTO. MORTE ANNUNCIATA?

CALTANISSETTA MASSONE.

CALTANISSETTA MAFIOSA.

CALTANISSETTA. LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. DI CHI CI SI PUO' FIDARE?

DIPLOMIFICIO.

MAGISTROPOLI. EDI PINATTO: 8 ANNI PER SCRIVERE LE MOTIVAZIONI.

PARLIAMO DI CATANIA

IL RACKET TOGATO. L’OMBRA DEL MONOPOLIO NELLE DIFESE D’UFFICIO.

IL CALCIO TRUCCATO.

NICOLE DI PIETRO E LORIS ANDREA STIVAL: STORIE DI MALASANITA’ E DI MALAGIUSTIZIA?

LA VICENDA MAJORANA.

ABUSI DI POLIZIA. LA STORIA DI PAOLO RINO TORRE.

LA NEGLIGENZA DEI PM. MARIANNA MANDUCA E LE ALTRE O GLI ALTRI.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

INTERROGAZIONE PARLAMENTARE CONTRO LA COMMISSIONE DI ESAME DI AVVOCATO.

CATANIA MASSONE.

CATANIA MAFIOSA.

MALAGIUSTIZIA ED IMPUNITA’.

MAGISTROPOLI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. LA VICENDA DI VALENTINA SALAMONE.

FISCO E SPRECHI, OSSIA MALAMMINISTRAZIONE.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO.

CATANIA, 850 MILIONI DI EURO SPRECATI.

CATANIA: COMUNE AL DISSESTO, MA I DIRIGENTI RICEVONO PREMIO DI UN MILIONE.

CATANIA È TUTTA UN BUCO.

TRUFFOPOLI. TRUFFA AL SERVIZIO SANITARIO, SCOPERTI 21MILA PAZIENTI "MORTI".

PARLIAMO DI ENNA

MAFIOPOLI.

ENNA: MAFIA E MASSONERIA.

MALAGIUSTIZIA.

PARLIAMO DI RAGUSA

LA “SVIZZERA” OMERTOSA DELLA SICILIA.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GIOVANNI GUARASCIO. MORIRE DI DEBITI O DI ASTE TRUCCATE?

MAFIOPOLI

MAGISTROPOLI

MODICA. PARADISO DEGLI ASSENTEISTI.

PARLIAMO DI SIRACUSA

MALAGIUSTIZIA.

LA MASSONERIA A SIRACUSA.

MASSONERIA E MAFIA.

LA STORIA DELLA MAFIA SIRACUSANA.

GIUSTIZIA: IN CHE MANI SIAMO MESSI.

PARLIAMO DI TRAPANI

LA GUERRA DEI VESCOVI.

PIU' ADDETTI CHE VISITATORI, MA IL MUSEO RESTA CHIUSO.

IL PARADOSSO DELLA BUROCRAZIA. LAVORARE UN MINUTO A SETTIMANA.

TRAPANI, BOSS E MASSONI.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? DENISE PIPITONE E PIERA MAGGIO. VITTIME DI UNO STATO MALATO.

STORIE DI INGIUSTIZIA. GIUSEPPE GULOTTA, INNOCENTE IN CARCERE. UNO DEI TANTI.

STORIE DI MALA AMMINISTRAZIONE.

CAMPOBELLO DI MAZARA. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. 

CALATAFIMI: MAI DIRE ANTICORRUZIONE.

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Roberto Vecchioni: “La Sicilia è un’isola di merda”. Io siciliano sto con Vecchioni, scrive Domenico Ferrara “L’Indignato Speciale” su “Il Giornale” il 4 dicembre 2015. Ma come si permette? Chi è stato a dire una castroneria del genere? La mia prima reazione è stata questa. Poi, mi sono fermato un attimo a riflettere e mi sono chiesto: “Ma se questa frase l’avesse detta un palermitano, avrebbe destato lo stesso scalpore?”. E ancora: “E se invece di un cantautore brianzolo l’avesse pronunciata – che ne so – uno Sperandeo di turno?”. Difficile immaginarlo. Perché l’orgoglio siculo è preponderante, sovrasta ogni cosa come Monte Pellegrino. Ma la verità è che Vecchioni ha ragione. Punto. Ci rode il culo soltanto perché l’ha detto uno del Nord, uno di quelli che viene in Sicilia solo per farsi le vacanze estive, godere delle nostre spiagge, degustare le nostre prelibatezze culinarie e osannare il nostro senso di ospitalità, salvo poi una volta rientrato al Settentrione criticare l’immondizia disseminata lungo le strade, il cemento selvaggio, il traffico disordinato, la mancanza di civiltà e via dicendo. Ma non è forse tutto vero? L’unica differenza è che Vecchioni ha avuto l’ardire di spiattellare in faccia la realtà mentre si trovava in Sicilia davanti a una platea che invece di interrogarsi ha preferito puntare il dito contro l’invasore e alzarsi e andar via dall’aula magna della facoltà di Ingegneria di Palermo. Ma cosa ha detto il cantautore di Carate Brianza? “I siciliani sono la razza più intelligente che esiste al mondo, perché si buttano via così, mi dà un fastidio immenso che l’isola non sia all’altezza di se stessa. Credete che sia qua soltanto per sviolinare? No, assolutamente. Arrivo dall’aeroporto, entro in città e praticamente ci sono 400 persone su 200 senza casco e in tutti i posti ci sono tre file di macchine in mezzo alla strada e si passa con fatica. Questo significa che tu non hai capito cos’è il senso dell’esistenza con gli altri. Non lo sai, non lo conosci. È inutile che ti mascheri dietro al fatto che hai il mare più bello del mondo. Non basta, sei un’isola di merda. La mia è una provocazione d’amore. La filosofia e la poesia antiche hanno insegnato cos’è la bellezza e la verità, la non paura degli altri, in Sicilia questo non c’è, c’è tutto il contrario. E mi sono chiesto, prima di arrivare qui, se dovevo dirle queste cose a voi ragazzi. Non amo la Sicilia che rovina la sua intelligenza e la sua cultura, le sue coste, quando vado a vedere Selinunte, Segesta e altri posti di questo tipo non c’è nessuno. Non amo questa Sicilia che si butta via, che non si difende”. Parliamoci chiaro, se non avesse usato la parola “merda”, non staremmo manco a parlare di Vecchioni. E della Sicilia. Anzi forse avremmo davvero apprezzato il suo atto d’amore. Invece è proprio grazie alla parola “merda” (ricordate la montagna di merda di cui parlava Peppino Impastato?) che si dovrebbe partire. E non si parla solo di mafia, ma di piccoli dettagli che costruiscono la famigerata montagna. Il casco non si usa (non lo usavo nemmeno io) perché ti distingue dalla massa, perché ti fa sentire “potente” in una terra avara di legalità. E se ti ferma la polizia, lo stronzo è l’agente di turno che vuol comminarti la multa. La macchina si mette in doppia, tripla fila, perché il parcheggio non si trova e perché tanto chi se ne fotte se blocchi una strada e se lo sfortunato di turno deve suonare il clacson dieci volte prima di vederti uscire dal bar dove stai prendendo serenamente il caffè. A volte finisce pure in rissa perché lo sfortunato si è permesso di turbarla, questa serenità. L’euro al posteggiatore abusivo lo si dà. Per paura che ti graffi l’automobile o semplicemente perché “puru iddu ava a campari” (pure lui deve mangiare). È una sorta di pizzo anche questo. Così come è altrettanto vero che le forze dell’ordine poco fanno per arginare questo fenomeno. La tolleranza, ecco. C’è un velo di laissez-faire, del lasciare le cose come stanno perché sono così da decenni. O peggio ancora di non fare nulla quando le strade crollano o quando l’acqua non arriva da mesi. Senso dell’esistenza, dice Vecchioni. Come dargli torto quando non c’è una fila che sia una che venga composta ordinatamente in un luogo pubblico o che venga rispettata. O quando si entra in un ufficio comunale e ci si scontra con l’ignavia, il menefreghismo e la maleducazione dei dipendenti. O quando ti rubano il motorino e ti rivolgi all’amico dell’amico che conosce il capo del quartiere e che se ti va bene ti fa riavere quello che ti han tolto a un prezzo simbolico: il simbolo dell’estorsione travestita da favore. Non ti rivolgi allo stato perché semplicemente latita. Ha abdicato alla sua funzione da decenni. È vero: anche noi siciliani abbiamo lasciato il posto alla paura più che alla ribellione. Ecco: forse su quest’ultimo punto mi sento di dissentire con Vecchioni. Perché parlare di una realtà che non si conosce e non si vive quotidianamente è facile. Sicuramente più facile di ribellarsi al quotidiano. Perché alla fine si deve pure andare avanti e provare a vivere. O a tirare a campare.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

Criminalizzazione di un territorio con normativa razzista a scopi politici. Il fallimento delle aziende del meridione d’Italia voluto dalla politica di sinistra a favore delle imprese del Nord Italia. Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi e la gestione criminale dei beni confiscati.

A proposito di interdittive prefettizie.

In premessa un esempio di come una notizia può venir data in modi diversi in base al grado di sinistrosità e di giustizialismo della penna, inserita o meno in quel sistema di antimafia interessata, al fine di influenzare il lettore profano di cose di giustizia.

La parola non deve mancare ad un credente ortodosso filo sistema…

L’interdittiva antimafia è prevenzione indispensabile. I tabù, i pregiudizi e la (dis)conoscenza, scrive Giuseppe Larosa il 6 maggio 2017 su "Approdo News". “L’interdittiva antimafia” è uno strumento importante, necessario e fondamentale ai fini della prevenzione per le infiltrazioni della criminalità mafiosa nell’economia produttiva nazionale. E al di là di tutto, è un punto fermo che dimostra che lo Stato esiste ed è vigile e sensibile per questo cancro in metastasi definito mafia. Quando si leggono interventi del genere come “Le interdittive vengono assunte d’imperio dai Prefetti e stanno letteralmente massacrando gli imprenditori e, di conseguenza, la stessa economia dei territori dove essi operano. Basta un ‘si dice’, un ‘sembra’, o avere un lontano ‘parente’ con problemi di mafia e, in men che non si dica, si diventa destinatari della scelta del Prefetto che decreta la chiusura di qualsiasi attività”, si apre uno spiraglio pericoloso e un forte dubbio sulla credibilità delle istituzioni. Diversamente invece, se si aprisse un dialogo di revisione e di miglioramento della normativa vigente (senza colpire bersagli prefettizi), forse e dico forse, si potrebbe iniziare un reale approfondimento di confronto. C’è molta ignoranza in merito alla questione, molti si sentono giuristi “di grido”, altri “portatori di verità” e poi ci sono quelli che sanno tutto e sono legittimati a sparare a zero su ogni cosa. Cerchiamo di fare un po’ di ordine. Il Dlgs n. 159/2011, ovvero, il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”, al Capo II del Libro II del decreto stabilisce alcune prescrizioni ai fini della prevenzione di condizionamenti mafiosi e consegna potere ai prefetti, dopo una serie di accertamenti mirati con diversi “accessi” a emettere una documentazione antimafia che può essere anche un’interdittiva per serie condizioni di mafiosità di alcuni soggetti stabiliti dal decreto in questione e principalmente negli ambiti dei contratti pubblici. Ora, ultimamente (e non solo perché è una questione che dura da quando è entrato in vigore questo istituto) si è aperto un dibattito su alcune interdittive antimafia perché hanno colpito un personaggio noto qual è il presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea, si è alzata in alcuni una levata di scudi e hanno criticato questo provvedimento prefettizio. Non entrando nel merito della questione perché farlo significherebbe affrontare un meccanismo cavilloso e occorrerebbe conoscere bene pure i fatti, però quello che più emerge nella condizione in essere, è la facile critica alle istituzioni e la carenza di conoscenza del fenomeno stesso. Innanzitutto non bisogna ridurla né paventarla come una situazione politica, sarebbe un gravissimo errore di metodo e di valutazione serena, ma bisognerebbe iniziare a capire, osservando il resto d’Italia che è uno strumento ampiamente adoperato anche al Nord e non solamente al Sud, come si vuol far credere. A tutto questo si aggiunge anche il controllo e le varie condizioni ispettive che riguardano la prevenzione alla corruzione che in un certo qual modo sono contigue in alcune realtà, basta vedere i rapporti Anac da quando è stata istituita con la soppressione della’Avcp (Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), la anch’essa aveva parlato di infiltrazioni, interdittive e aveva un settore ispettivo efficiente il quale procedeva al controllo territoriale e nemmeno in quel caso la piaga era solamente al Sud, tale è senza ogni dubbio un falso storico e statistico.

Ultimamente il Tar Sicilia con una sentenza (n. 1143 del 26 aprile 2017), ha sancito una “scrematura” attuando un metodo “elastico” per le interdittive asserendo che le “legittime destinatarie di interdittive negative solo quando la Prefettura indica atti idonei diretti in modo non equivoco a conseguire lo scopo di condizionarne le scelte gestionali” e inoltre, “che i legami di natura parentale non possono essere ritenuti idonei a supportare autonomamente un’informativa negativa”e che tali possono assumere un rilievo solo con una reale concretezza di controllo e condizionamento della impresa con intrecci pericolosi economici e familiari che giustificano una reale infiltrazione mafiosa nell’impresa.

Il discorso andrebbe approfondito con più spazio e condizioni di approfondimento e non in un semplice scribacchio da tastiera, ma si potrebbe ad esempio iniziare un dialogo di confronto partendo da quanto pronunciato dal Consiglio di Stato in materia di interdittiva antimafia con una minuziosa ricostruzione normativa dell’istituto. La Terza sezione con la sentenza n. 17343 del 3 maggio 2016. In particolare, nella sentenza della Terza Sezione del 3 maggio 2016 n. 17343, i Giudici di Palazzo Spada hanno individuato i principi ai quali si devono attenere le Prefetture in sede di emanazione delle informative antimafia, sia individuando gli elementi oggettivi rilevanti in materia sia evidenziando i criteri per la motivazione di tali misure. Magari leggendo, documentandosi e soprattutto studiare la reale forma legislativa associandola alla condizione sociologica del contesto, forse renderemmo un servizio in più sia alla conoscenza che alla buona fede.

Bari, infiltrazioni mafiose nell'azienda dei rifiuti Ercav: 20 comuni a rischio paralisi. La prefettura ha disposto l'interdittiva antimafia per la società della famiglia Lombardi che gestisce la raccolta di rifiuti. Nelle carte della Dia i nomi di esponenti dei clan Parisi e Zonno fra i dipendenti, scrive Antonello Cassano il 29 novembre 2017 su "La Repubblica". La prefettura di Bari ha disposto l'interdittiva antimafia per la Ercav, società della famiglia Lombardi (di Triggiano) che gestisce la raccolta di rifiuti in decine di comuni pugliesi. La notizia è riportata dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Il provvedimento cautelare pesantissimo prende spunto da un rapporto della Dia, la Direzione investigativa antimafia, in cui emerge che la società Lombardi Ecologia srl (fallita nel giugno 2016) e la Ercav Srl "hanno un oggettivo e incontrovertibile legame che le accomuna". La decisione della prefettura nasce dall'inchiesta della Procura di Milano (uno stralcio di un'altra indagine partita dalla Procura barese, ma poi archiviata) per falsità ideologica, lottizzazione abusiva e truffa aggravata. Nelle 15 pagine del provvedimento vengono elencati i procedimenti a carico di alcuni rappresentanti della famiglia Lombardi e viene ricordato che la società omonima era finita in concordato preventivo già due anni fa, con la successiva nomina dei commissari giudiziali. Non solo: il documento della prefettura cita anche un'indagine condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri di Lecce. Da questa indagine emerge che il pregiudicato Gianluigi Rosafio e Tiziana Luce Scarlino (genero e figlia di un boss della Sacra corona unita, Giuseppe Scarlino, in carcere con condanna a ergastolo) "sarebbero stati costretti a versare all'ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, la somma di 560mila euro quale parte di una tangente di un milione di euro per il tramite di Rocco Lombardi", amministratore della Lombardi ecologia, proprietaria unica delle quote della Ercav. Quella somma, secondo le indagini, era finalizzata all'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta rifiuti nell'Aro06 dell'Ato Lecce 2. Nell'interdittiva vengono elencati altri dipendenti dell'Ercav (ex dipendenti della Lombardi), pregiudicati o vicini ai clan baresi. Fra le 321 unità della società ci sono anche Gaetano Bellomo, contiguo per parentela al boss Savino Parisi, Gaetano Cassano (figlio del pregiudicato Biagio Cassano, sodale del clan Parisi) e Tommaso Parisi (figlio di Giuseppe, alias Mames, e nipote di Savino Parisi). Fra i dipendenti anche personaggi legati al clan bitontino Zonno, come Domenico Cavalieri Foschini, pluripregiudicato per spaccio di stupefacenti (condannato in primo grado a 16 anni con l'accusa di tentato omicidio) e Biagio Campanale. Non a caso nell'interdittiva si fa notare che "sussistono concreti e attuali elementi indicatori di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società Ercav e di collegamenti della medesima con la criminalità organizzata". Questo il motivo che ha spinto la prefettura a far scattare l'interdittiva. Un provvedimento che potrebbe avere conseguenze nella raccolta rifiuti soprattutto in provincia di Bari e Lecce. Sono più di 20 i Comuni che hanno affidato la raccolta rifiuti alla Ercav: il rischio è che si possa paralizzare la gestione del sistema in queste amministrazioni. 

Rifiuti, altro stop antimafia. «Nella Ercav ci sono i clan». Infiltrazioni della criminalità. Interdittiva della Prefettura per l'azienda della famiglia Lombardi Commissariati 30 appalti in tutta la Puglia, niente più nuove gare, scrive il 29 Novembre 2017 Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un procedimento penale a Milano per truffa allo Stato, falso ideologico e lottizzazione abusiva. Un’indagine a Lecce su una presunta tangente. Le solite assunzioni di pregiudicati, a dimostrare «tentativi di infiltrazione mafiosa». Non conta che Ercav, la «newco» nata dal fallimento della Lombardi Ecologia, sia oggi di fatto gestita dal Tribunale: i legami con la famiglia Lombardi sarebbero ancora molto forti. Per questo, ieri sera, la Prefettura di Bari ha emesso una interdittiva antimafia. È il terzo provvedimento del genere che riguarda un’azienda del settore rifiuti, dopo quello di gennaio su Camassambiente e quello su Avvenire. Ercav gestisce la raccolta e lo smaltimento a Mola, Toritto, Capurso, Valenzano, a Castellaneta, e in numerosissimi centri del Salento: in base alla legge gli appalti in corso verranno commissariati, e l’azienda non potrà partecipare a nuove gare. Il provvedimento parla di un «incontrovertibile legame» tra la fallita Lombardi e la Ercav e di una «evidente connessione» (Ercav è controllata al 100% dalla Lombardi, il consigliere delegato è Rocco Lombardi, classe ‘86, figlio di Vincenzo proprietario del 33% della Lombardi) ritenuta «rivelatrice della totale cointeressenza e della presenza di intrecci di interessi economici». A giugno 2016, quando Lombardi è fallita, i servizi di raccolta sono rimasti alla Ercav, la «newco» costituita nell’ambito di una proposta di concordato preventivo poi bocciata. I vertici di Ercav, che era destinata a essere venduta, sono di nomina giudiziaria: la scelta di Rocco Lombardi si spiega con la necessità di garantire il know-how tecnico della gestione dei circa 30 appalti in piedi. Nell’interdittiva la Prefettura valorizza l’indagine aperta a Milano nei confronti di alcuni membri della famiglia a seguito dello stralcio di un procedimento aperto a Bari. Ricorda poi le accuse emerse a Lecce in una indagine dei carabinieri, secondo cui la Lombardi nel 2009 sarebbe stata costretta a pagare una tangente da 560mila euro all’ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, per aggiudicarsi un appalto. Quindi elenca i carichi pendenti dei componenti della famiglia Lombardi. E riporta infine quanto già emerso in altre circostanze, ovvero che alcuni dipendenti della Ercav (transitati dalla Lombardi) o risultano pregiudicati o sono ritenuti contigui ai clan. È il caso di Tommaso Parisi, incensurato, figlio di Giuseppe alias «Mames», nipote del boss Savino Parisi. Ma anche di Domenico Cavalieri Foschini, pregiudicato, condannato in primo grado a 16 anni per un tentato omicidio del 2013.

BARI, IL CASO ERCAV. Servizio di Telenorba Online del 30/11/2017 tg delle 13,30. La legge non ammette interpretazioni, e la prefettura di Bari l'ha applicata alla lettera. Parliamo delle norme antimafia, una vera e propria trappola per aziende che operano in settori di bassa manodopera come, per esempio, la raccolta dei rifiuti. In questa trappola è finita l’Ercav. Azienda nata sulle ceneri della Lombardi ecologia, fino a qualche anno fa una delle più importanti aziende del settore in Puglia. Travolta dallo scandalo ambientale della discarica Martucci, la Lombardi è fallita, ma con una intelligente manovra di chirurgia societaria, da una sua costola nacque la Ercav. Società pulita, nuova e giovane con, nel portafoglio, una trentina di appalti da gestire in tutta la Regione e soprattutto con uno scopo sociale: salvare trecentocinquanta posti di lavoro. Purtroppo però, tra quei lavoratori che la Ercav non ha scelto, ma ha dovuto assumere, c’è qualcuno con un bagaglio penale pesante, non consentito dall’antimafia, secondo cui, evidentemente, gli ex carcerati non possono redimersi, lavorando. Così la prefettura di Bari ha interdetto la Ercav, bloccandogli ogni attività: troppi legami col passato e qualche persona sospetta al lavoro di troppo. Adesso anche Ercav rischia di fallire senza colpe, se non quella di aver ereditato qualche errore. La società dei figli dei Lombardi per il momento, però, non si arrende. Farà ricorso, ma gli appalti saranno commissariati e forse in venti comuni pugliesi la raccolta dei rifiuti entrerà nel caos.

“Non credono alla mia buona gestione degli affari. Perché sono straniera”, scrive Lidia Zitara Domenica 15/10/2017 su "La Riviera On Line". Durante l’estate scorsa la società di cui Mariorara Cenusa è amministratrice è stata accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. “Ho ragione, e voglio che sia riconosciuta”, così dice Mariorara Cenusa quando riepiloga con sgomento la vicenda che l’ha vista al centro di un episodio di cronaca reggina, la chiusura del suo locale, il “Sireneuse” proprio nella zona più accorsata del Lungomare di Reggio. Durante l’estate scorsa la società di cui è amministratrice, la “Mr. Zuppa” è stata infatti accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente il 2 agosto, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. Marioara, una sottile donna di trent’anni, si fa chiamare Mary dagli amici, e tutti in città la conoscono con questo nome. Dopo sette anni di vita in Italia, venuta via dalla Romania per trovare un lavoro e garantire sostegno alla famiglia e a sua madre malata, il suo accento si sente ancora forte, mescolato a quello forse più pervasivo e inconfondibile della Città dello Stretto. Mary parla benissimo l’italiano e non dà certo l’idea di essere una persona priva di capacità imprenditoriale e voglia di lavorare in quello che è il settore delle sue competenze. Afferma infatti di avere due titoli di laurea, conseguiti in Romania e validi a livello europeo: uno in Economia e un altro in Amministrazione. Legittimo pensare che Mary si sia costruita da sé, passando attraverso i lavori “standard” degli emigrati in Italia: badante, colf, donna delle pulizie, cameriera. Infine, perché no, amministratrice e titolare di una società che ha in gestione uno dei locali più centrali di Reggio. Ma sembra che il passaggio di una donna, straniera per giunta, dallo status di lavoratrice a quello di datrice di lavoro non sia stato digerito. Mary aveva impiegato fino a 40 persone al “Sireneuse”, durante la stagione estiva. Mary racconta del suo passato, della sua fuga da un paese sconquassato dal Regime comunista e dalla sua caduta. “I miei nonni furono rinchiusi in lager, quelli sui fiumi, che d’estate hai i piedi nell’acqua e in inverno sul ghiaccio. Questa è la stessa cosa, ma con un altro nome. Ho perso 300.000 euro e sono sicura di non riaverli più. Ma non chiedo neanche un risarcimento, quanto il riconoscimento delle mie ragioni, dei miei diritti e della mia dignità. Mi è stato detto che non è possibile che fossi io a gestire con la mia testa i miei affari poiché straniera”. Ci piacerebbe sapere se essere badante o colf sia l’unico destino possibile per una donna rumena in Italia, e l’affermazione riportata appare pesantemente razzista e sessista. Mary è certamente una vittima. Una vittima incapace di realizzare la verità degli eventi che le sono piovuti addosso. Sarebbe auspicabile una revisione da parte della Procura dei fatti che sono gravitati attorno a Mary, e quanto emerge appare visibilmente parziale, un ampio puzzle con molte parti mancanti, di cui Mary è solo una tessera. “Ho paura - dice Mary - ma non ho niente da perdere, perché in fondo ho già perso tutto. Chiedo solo che venga ascoltata la mia verità e che sia rispettata la mia dignità di persona”. Una richiesta forse troppo grande in una regione prossima allo sprofondo morale, in un paese già moralmente annegato.

Reggio Calabria: interdittiva antimafia, richiude il “Sireneuse”. La proprietaria scrive al Prefetto: “è una vergogna”. Reggio Calabria, richiude il noto “Sireneuse”. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale, scrive il 4 agosto 2017 Danilo Loria su "Stretto Web". A soli due mesi dalla riapertura richiude il noto “Sireneuse” a Reggio Calabria. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale. Chi di competenza mi deve dare delle risposte”. Di seguito la lettera al Prefetto della città dello Stretto: Signor prefetto, con la punta della sua penna pregiata mi avete appena rovinato e avrei qualcosa da dirvi. Ho solo 30 anni. E mi ritrovo un’interdittiva prefettizia antimafia adosso, giudicando in base alle affermazioni del presidente del TAR di Reggio Calabria: “l’interdittiva antimafia è come un diamante, è eterno”. Sono l’amministratore della società che ha comprato e sottolineo comprato il novembre scorso il locale che a voi da tanto fastidio, “SIRENEUSE” con tanto di contratto regolare, di perizie tecniche e pagamenti regolari e trasparenti. Dopo mesi di lavori e di combattimenti instancabili con la burocrazia e con la lentezza della macchina istituzionale, il 7 giugno abbiamo aperto. 20 dipendenti assunti, altre 10 assunzioni previste per la stagione. Appena abbiamo alzato le serrande, i vigili della polizia municipale parcheggiavano le macchine davanti all’entrata e la gente scappava lasciando il caffè sul bancone. Appena abbiamo alzato le serrande la Questura di Reggio Calabria si è fatta viva, chiedendo i documenti e identificando tutti clienti che si trovavano all’interno del locale in un modo quasi accusatorio.  Sono venuti in 6!! Poi i carabinieri, la stessa cosa.  Era chiaro che non erano controlli ordinari, ma che avevano uno scopo ben preciso. Scopo diventato palese il 25 luglio, il giorno il quale mi mandate la pec contenente l'interdittiva. Mi accusate di essere” condizionata dalla criminalità organizzata in virtù della logica del più probabile che non”, essendo che con il vostro potere discrezionale non avete bisogno di prove, vi basta il sospetto. Anche io, signor prefetto, ho dei sospetti. Posso esternarli??? Sospetto che ci sono interessi che vanno oltre la mia immaginazione, sospetto che avete studiato al tavolino ogni mossa. Ora denunciatemi per false accuse e per diffamazione, voi avete gli avvocati a vostra disposizione, io devo pagarli e non potrò difendermi.  Vi chiedo l’accesso agli atti e mi rispondete cosi: “esente da alcuna segnalazione”, “non risultano definiti o pendenti procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione” , “presso gli uffici giudiziari di Reggio Calabria non si rilevano alcune condanne o precedenti penali”. Signor prefetto, ho conseguito due lauree, sono munita di volontà propria e le decisioni presi mi appartengono. Giuste o sbagliate che siano.  Signor prefetto, costi quel che costi, io vado fino in fondo, la mia ambasciata e il mio governo chiederanno a breve delle spiegazioni. Sappiate che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere, avete rovinato una innocente e avete reso disoccupati 20 padri di famiglia. Con la vostra penna pregiata. Andrò dove sarà necessario, in qualunque grado di giudizio e alla Corte Europea dei Diritti Umani, per dimostrarvi quanta volontà propria ho. Cenusa Marioara.

Reggio Calabria, la titolare del Sireneuse scrive al prefetto dopo la decisione del TAR: uno sfogo durissimo, scrive il 14 settembre 2017 Ilaria Calabrò su "Stretto Web". Marioara Cenusa, titolare del Sireneuse, bar sito sul lungomare Falcomatà a Reggio Calabria, ha inviato una lettera a StrettoWeb per fare presente che il TAR ha rigettato la richiesta di sospensiva. Ecco la lettera integrale: Signor prefetto, Si ricorda di me? Già, come fare a ricordarsi, siamo 500 destinatari di interdittive antimafia solo nei ultimi anni, farei fatica anch’io. Sono 0089658, è questo il mio numero di protocollo, dato che per lei io non sono un essere umano, ma un semplice, piccolo numero. Che potere ha? Che potere immenso ha? Il potere di affermare e di scrivere che il mese di gennaio 2016 viene dopo luglio 2016, che dal 1988 al 2016 sono trascorsi soltanto 18 anni, avete ribaltato le leggi della matematica e della logica elementare, e il TAR vi ha dato pure ragione!! Che potere ha? Il potere di decidere in modo completamente arbitrario chi deve vivere e chi deve morire, chi deve lavorare e chi deve chiudere, chi si può salutare e chi no, chi si può sposare e chi no. Che potere ha? Di offendere e di disprezzare, in un aula di tribunale, una ragazza perché” una straniera non potrebbe mai fare impresa, se mai può fare solo la cameriera! “Che potere ha? Questo TAR non accoglie alcuna richiesta di sospensiva, (quello precedente forse accoglieva qualcuna di troppo e per la prima volta nella storia tutti 5 membri del Collegio sono stati trasferiti in blocco) e il Comune esegue ciecamente le vostre direttive. Io non ho il vostro potere, sono solo un numero di protocollo. Ma ho il potere di parlare, di scrivere, di denunciare, potere che mi è dato dall’innocenza di chi non ha niente da nascondere! Ho il potere di far conosciuto quel che fate in tutto il paese ed oltre, di pubblicare documenti che dimostrano la leggerezza impressionante delle vostre istruttorie, piene di sbagli, confusioni, omissioni. Ho il potere di non fermarmi fino a quando avrò delle risposte alle mie domande: “Perché? Perché il Sireneuse? Perché noi? Chi vuole il locale a tutti costi? Chi è indietro a tutto ciò?” Ho il potere di non fermarmi fino a quando questa legge che fa di voi un Dio Onnipotente non verrà modificata! Ricordatevi questo numero, 0089658, ricordatevi che avete rovinato un’innocente, che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere! Non sono io la mafia, signor prefetto, piuttosto i vostri metodi assomigliano molto a quelli descritti nei libri del dott Gratteri! 

Testimonianza di Marioara Cenusa del 29 novembre 2017 tratta dal suo profilo Facebook. Leggi quella PEC maledetta che inizia con "protocollo prefettizio..." e la parola "interdetta " sottolineata. Ti senti assorbito da una voragine e cerchi disperatamente di aggrapparti a qualche radice, ma il movimento tellurico da quel istante in poi diventa incessante. Segue la corsa disperata dall'avvocato, non bussi nemmeno e con quei fogli sgualcite nelle mani lo guardi, lui già sa perché...Chiedi l'accesso agli atti per capire, i pensieri più variegati ti invadono la mente e il cervello, per proteggersi, ti induce sensazioni ottimiste, ti mente che andrà tutto bene. Ed è quello che ti impedisce di impazzire! La lucidità però ti ricorda di doverti preparare alla chiusura, di avvisare i dipendenti, i fornitori, i padroni di casa, la banca, la famiglia. Arriva senza ritardare quel momento terribile, lasci tutto pulito ed ordinato, metti acqua alle piante, come se dicessi" arrivederci, a presto!" e non "addio!" In vece, per lo stato sei solo erbaccia da estirpare in virtù di un più probabile che non odore di mafia, per il TAR sei un altro sulla lista che deve solo scomparire, per la società perdi la reputazione che magari hai costruito con costanza e fatica, ricevi meno saluti e meno sorrisi, tocchi la paura che circonda il tutto, senti posti su di te sguardi pietosi, critici. É questo il post interdittive, quello che accade dopo, è il vero trauma e la vera omertà. E se tanti ne parliamo pubblicamente e denunciamo tutto, non è per mania di protagonismo o per la gloria eterna, ma bensì perché quella PEC non la legga più nessun innocente. Io l'acqua alle piante la metto ancora...

Non sono consueta a chiedere condivisioni perché ritengo che se lo si vuole, si fa e basta. Ma questa volta ve lo chiedo, con l umiltà di chi impara dai più grandi e con la forza di chi sa di dire solo la verità. Perciò chiedo a chiunque pensi che ci stiamo trovando in pieno regime dittatoriale, a chiunque non li torni questa musichetta dell'antimafia, a chiunque abbia assaggiato la dolcezza del aver a che fare con la prefettura di Reggio Calabria di condividere, affinché si rompa una buona volta il pollino, in modo netto e che non lascia spazio alle interpretazioni. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia! Della finta lotta alla mafia, sbandierata a più non posso, di chi la usa come trampolino di lancio per le carriere, di chi ne ha da guadagnare, di chi usa giornali e giornalisti come portavoce e megafoni umani per diffondere la propaganda prefettizia. Questi metodi autoritari e dittatoriali servono a tutto tranne che alla sconfitta della mafia. Usano parentele con defunti sconosciuti, incontri occasionali con compagni di banco, saluti e strette di mano con vicini di casa, collaborazioni con altre società, assunzioni alle proprie dipendenze, praticamente la qualunque. Senza tralasciare nulla! La qualunque! Hanno inginocchiato l economia, hanno indotto il terrore di salutare e di telefonare, la paranoia di vivere in una perpetua interdittiva dove tutti siamo prestanomi di... riflessi di..., dove non è più pensabile che un imprenditore riesca ad andare avanti con le proprie forze ma solo perché lo appoggia la famiglia x o y. Siamo tutti diventati criminali, mafiosi, ci spariamo ad ogni angolo di strada, Reggio Calabria è il Wild West italiano dove lo stato deve usare il pugno di ferro. Peccato che gli appalti revocati ad imprenditori interdetti vanno nelle mani di deputati e senatori, peccato che i locali che fanno gola a chi non è riuscito a creare da solo un’impresa finiscono proprio nel suo possesso, peccato che chi gestisce le aziende sequestrate lì fa fallire solo per dimostrare che prima c era la mafia ad sostenere il tutto, peccato che i commissari prefettizi inviati nei comuni sciolti abbiamo uno stipendio con 4 zero e la loro attività è tanto inutile quanto sconosciuta alla comunità. È questo che sta succedendo a Reggio Calabria, in tutta la Calabria, chiediamo aiuto, chiediamo di non essere più lasciati soli tra la mafia e l'antimafia, chiediamo di pagare solo se veramente colpevoli, chiediamo di poter lavorare onestamente, siamo meridionali (o nel mio caso, rumena adottata), non criminali!

Marioara Cenusa il 30 novembre 2017...Dicono che il frutto maturo cade da solo! Sarà anche, ma una bella ramazzata non nuocerebbe. Dobbiamo superare la paura di parlare, di reagire perché hanno costruito un impero sulle nostre timori e sulla certezza che ogni uno si farà i fatti suoi. Addirittura ci hanno indotto il terrore di salutare per non esseri visti, di frequentare quartieri o amici, di telefonare liberamente. Mi rifiorisce in mente il ricordo di un signore coi capelli bianchi arrestato perché in una intercettazione telefonica viene chiamato " maestro" e per chi ascoltava era un linguaggio in chissà quale codice contorto. Lui disse" vedete che io sono veramente un maestro, insegno ad una scuola elementare ". Dopo 2 mesi fu rilasciato. E come questo episodio ce ne sono state decine, presenti nella memoria popolare. Però la paura deve essere superata, stare in modalità struzzo non garantisce nulla, usiamo la democrazia ed i suoi metodi, la libertà di esprimere i propri pensieri, i timori, le perplessità. Perché è la democrazia il bersaglio vero! Se il semplice saluto è motivo di repressione, allora che mi facciano la seconda interdittiva, perché io il saluto non lo nego a nessuno, chicchessia! Capraio, professore universitario, malvivente, spazzino, operaio, per me hanno tutti pari dignità perché liberi. Ed a chi ha pagato gli errori e deve iniziare una nuova vita, doppia stretta di mano. L’unico riscatto è il lavoro, per chiunque!

Marioara Cenusa 25 novembre 2017.Vorrei ringraziare a tutti coloro che mi avvertono, in maniera velata o meno, che chiunque parli contro la prefettura e contro la sua perla della corona "l'antimafia", finisce o denunciato per chissà quale cosa immemore o arrestato per un’altra cosa immemore, essendo che il senso vendicativo della predetta è molto sviluppato. Io ho sempre detto la verità, niente altro che la verità, ho denunciato pubblicamente fatti che mi hanno toccato personalmente, per ogni affermazione ho le prove vere e tangibili che la sopportano, e non ho la minima intenzione di fare un solo passo indietro. Anzi, sarebbe positivo spostare tutto in un aula di tribunale, magari in sede penale, dove il " più probabile che non " non conta un broccolo. Vediamo quando devono dimostrare fatti reali e veramente accaduti, come diranno al giudice che un defunto acquisito sesto grado mi ha imposto l'acquisto della mozzarella di bufala campana? Se la prefettura di Reggio Calabria in persona del suo rappresentante pro tempore ritiene di dovermi querelare, sono qui, col coraggio di chi sa di essere innocente e con la grinta della verità. Però non me ne starò zitta, nè a braccia conserte e certo non permetterò a nessuno di togliermi il diritto allo parola. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia. Strumenti per togliere imprenditori scomodi, sindaci scomodi e per affidare appalti ed aziende a chi non è capace di costruirsi niente da solo. Non c entra niente la lotta alla mafia, quella vera!

Il “vizietto” di Marco Minniti, gravi ombre sul ministro, scrive il 2 marzo 2014 Emilio Grimaldi su "Imola Oggi". Marco Minniti, uomo ombra di D’Alema e di tutto il Centro sinistra. Prima dei Ds e poi del Pd, fino ai giorni nostri. E’ sempre uomo ombra di qualcosa. Perenne, proprio come la luce del sole. Cambiano i governi, cambiano i quadri di partito, ma lui no. Non si muove e, soprattutto, nessuno lo tocca. Matteo Renzi, l’homo novus della politica italiana non è riuscito a fare a meno di lui. Di lui e di tanti altri. In Calabria, l’homo che vorrebbe far dimenticare Berlusconi, non è riuscito a fare a meno di lui e di Tonino Gentile. Di Gentile, abbiamo già detto. Ora, accendiamo una lampadina sul nostro Domenico Minniti, detto Marco. E rispolveriamo un’interrogazione a risposta scritta, rimasta lettera morta, presentata da Amedeo Matacena il 5 aprile 1995. L’atto di controllo fu il volano della carriera di uno dei nostri calabresi maggiormente rappresentativi in Politica. La politica che conta. La vera Politica che comanda. Il 1998 é sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nel 2001 é al Ministero della Difesa. Nel 2006 viene eletto alla Camera dei deputati come capolista dell’Ulivo e poi nominato viceministro dell’Interno nel Governo Prodi II. Nel 2007 ricopre la carica di responsabile nazionale sicurezza nella Segreteria nazionale del segretario Walter Veltroni. Nel 2008 è ministro degli Interni nel Governo ombra del Partito Democratico. Nel 2009 il Segretario del PD Dario Franceschini lo investe della carica di presidente nazionale del Forum Sicurezza del Pd. Sempre nel 2009, fonda l’ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis) un centro di analisi ed elaborazione culturale dei temi della sicurezza, della difesa e dell’intelligence. Nel 2012 è responsabile nazionale del PD per la verifica dell’Attuazione del Programma del Governo Monti. Il 17 maggio 2013 viene nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel Governo Letta con delega ai Servizi segreti. L’ultima scalino è la conferma. Ieri, nel nuovo governo Renzi. Il testo dell’interrogazione: (dal sito della Camera). Al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Ministro di Grazia e Giustizia. – Per sapere – premesso: che in data 6 giugno 1990, il dottor Mollace, Sostituto presso la Procura di Reggio Calabria, Pubblico Ministero nel procedimento n. 977/90 RGIP, inoltrò al GIP, dottor Vincenzo Macrì, richiesta per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Sera Mariangela  (moglie di Minniti, ndr) + 10, imputati ciascuno per “avere in concorso tra loro, illecitamente detenuto, trasportato e ceduto a terzi quantitativi non modici di eroina“; che Sera Mariangela è moglie di Domenico Minniti, detto Marco, attuale Segretario Nazionale Organizzativo del PDS, già Segretario regionale e da sempre esponente di primo piano, anche del movimento giovanile, del PCI-PDS calabrese; che su tale procedimento all’ombra della Quercia, nel Palazzo di Giustizia si sarebbero consumati favoritismi e protezioni per non intralciare il brillante cammino del giovane Marco Minniti, che non parrebbe (stando a quanto sotto riportato) del tutto estraneo al vizio della moglie e che, per assecondare tale vizio (o vizi?), non si sarebbe fatto scrupolo di intrattenere rapporti con personaggi “strani”, organici al mondo degli spacciatori ed al mondo della malavita locale; che ciò potrebbe trovare conferma dalla lettura dell'”informativa di reato circa le indagini di P.G. relative al traffico di sostanze stupefacenti in Pellaro e Reggio Calabria” redatta dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria il 6 giugno 1990, n. 485 del 1976, di protocollo, pervenuta all’interrogante solo da qualche giorno; che in detta informativa, in ordine alle intercettazioni telefoniche su varie utenze di indagati, si riferisce, tra l’altro: “Diverse sono anche le conversazioni tra Silvana De Salvatore e Sera Mariangela entrambi tossicodipendenti, che spesso si danno appuntamenti telefonici per scambiarsi o prendere “roba” da loro conoscenti“. “Si evidenzia, inoltre, che il marito di Sera Mariangela, identificato per Minniti Domenico (…..) sarebbe al corrente che la moglie fa uso di sostanze stupefacenti e da almeno un paio di conversazioni telefoniche, si intuisce che lo stesso le somministra piccole dosi di eroina, che detiene presso la propria abitazione, custodite all’interno di libri, o addirittura dentro un sacchetto in pelle di colore grigio”; che, continua l’informativa: “Giova ricordare, inoltre, che in data 4 giugno 1990, alle ore 17 circa in località Pellaro di Reggio Calabria, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco, tale Sottile Francesco classe 1938, padre di Sottile Carmelo, personaggio inserito nel traffico di stupefacenti dei cui sopra“; ritenuto: che sembra nonostante tutto che su Domenico Minniti detto Marco, attuale responsabile nazionale organizzativo del PDS, sia stato steso un velo protettivo mentre, in un contesto così grave che registra, anche, pur se collateralmente, un omicidio, sarebbe stato, per lo meno, doveroso chiedersi quel che la gente comune si chiede: a) E’ mai possibile che un personaggio dello “spessore” di Marco Minniti abbia (o abbia avuto) contatti con la malavita locale, anche se solo al fine di procurare la droga per la moglie?; b) Con chi aveva questi contatti?; c) Chi glieli aveva procurati questi contatti?; d) Che il procedimento a carico di Sera Mariangela si è concluso con il patteggiamento della pena di un anno e 600.000 lire di multa. Pena sospesa; Che hanno patteggiato in sei imputati su undici incriminati, tutti al Tribunale e tutti in stato di libertà – : Per quali valutazioni non sia stato adottato alcun provvedimento a carico di Domenico Minniti detto Marco; Se risponda a verità che lo stesso Domenico (Marco) Minniti non sia stato nemmeno ascoltato quale persona informata dei fatti; Se sulla richiesta di patteggiamento di Mariangela Sera in Minniti vi è stato, o meno, il parere favorevole del PM; come mai non abbiano “patteggiato” anche i rimanenti cinque imputati; Nel caso in cui anche i predetti cinque imputati avessero chiesto il patteggiamento della pena, perchè non è stata accolta la loro richiesta e quale fosse stato il parere del PM; Se non si ritenga opportuno avviare un’indagine ispettiva per verificare se all’ombra della “Quercia”, nel Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria siano stati stesi veli di pietà e teli di protezione, consumati favoritismi, omissioni e reati penalmente perseguibili.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Intervista ad Andrea Cuzzocrea di Emiliano Silvestri a Reggio Calabria del 10 giugno 2017 a cura di Fabio Arena. Andrea Cuzzocrea è stato Presidente della Confindustria in Calabria e si è soffermato su una misura interdittiva per le imprese e si è chiesto a cosa serva.

«Serve così come è applicata. Questo è il punto alla domanda che noi stiamo cercando di portare nel dibattito e se la misura per come è applicata oggi, negli ultimi anni, ha ancora un significato. Perché la misura ha preso una deriva in termini numerici, soprattutto nella nostra provincia che non è più accettabile. Nel senso che basterebbe fare un confronto con le interdittive comminate dalla prefettura della nostra provincia con quelle di altre province dove il condizionamento della criminalità non è da meno dal punto di vista della percentuale per capire che c’è una discrezionalità che è diventata ormai del tutto inaccettabile. Ma al di là di questa valutazione, che potrebbe anche essere opinabile, la questione che va posta di cui quella politica ovviamente che non può che preoccuparsi e farsi degli interrogativi è questo: cioè con questo strumento si evitano effettivamente condizionamenti; serve effettivamente questo strumento così come applicato a evitare condizionamenti. A nostro parere non serve. Tra l’altro nel bilanciamento degli interessi che la politica deve garantire, che chi amministra deve garantire, che le istituzioni devono garantire, bisogna capire se è più importante garantire una certa occupabilità e quindi garantire che le persone non finiscano sulla strada e quindi garantire la manodopera e quindi la sopravvivenza delle imprese…»

Lei ha qui ricordato che alla Cassa edile erano iscritti cinque mila…

«Noi siamo passati a Reggio Calabria da cinque mila a millecinquecento dipendenti iscritti alla Cassa edile in pochi anni. Cioè c’è un crollo verticale se non un terzo degli iscritti di qualche anno fa. Quindi questo è il punto su cui bisognerebbe aprire un dibattito, una discussione accesa. La politica se non si preoccupa di aprire un interrogativo su questo punto non so di cosa si preoccupa».

La politica non si preoccupa, però lei ha detto che anche la stampa…

«Ma la stampa non parla assolutamente di questa cosa perché la stampa è allineata e coperta con la narrazione prevalente che è quella ormai molto conformistica che è tutto condizionato, che è tutto permeato, che ogni attività economica di dritto o di rovescio, volente o nolente, in qualche modo è condizionata, per cui loro utilizzano la tesi prevalente. Quindi questo si sa, ormai è così. La comunicazione funziona in questo modo, ormai. Quindi non possiamo avere ora….E’ chiaro che anche questo è un problema perché se ci fosse una stampa più consapevole che andasse ad approfondire di più le questioni; che andasse a vedere quello che succede, anche la stampa si deve porre il problema…deve fare questa domanda a chi si occupa di interpretare questi strumenti. Cioè stiamo nella strada giusta? Che non significa per evitare il rischio strumentalizzazioni che noi stiamo così, a prescindere acriticamente contestando lo strumento perché non vogliamo essere giudicati e non vogliamo che le nostre imprese…Noi addirittura come Confindustria abbiamo proposto protocolli di legalità, che erano innovativi, che prevedevano sul modello della Duecentotrentuno dei comitati di sorveglianza, con organismi nominati dalla Prefettura. Ci mettevamo i carabinieri in casa. Ed erano anche stati discussi. In Prefettura questi documenti ce l’hanno quindi questo lo dico perché non vogliamo essere controllati. Però una cosa è essere controllati, in termini concreti, una cosa è chiudere le imprese senza motivo. Questo è il punto».

Grazie. Grazie ad Andrea Cuzzocrea.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Incontro a Torre Artale sul tema “Antimafia? Stato di diritto”, scrive il 2 dicembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". ERANO PRESENTI MOLTISSIMI IMPRENDITORI CHE IN PASSATO SONO STATI OGGETTO DI MISURE DI PREVENZIONE E CHE POI SONO STATI PROSCIOLTI NEI VARI GRADI DI GIUDIZIO PENALE. SONO INTERVENUTI ANCHE SALVO VITALE E PINO MANIACI CHE HA ESPRESSO LE SUE PERPLESSITÀ RISPETTO ALLA POSSIBILITÀ DI CAMBIARE O ABOLIRE UNA LEGGE CHE DÀ UN ENORME POTERE AI MAGISTRATI. Nell’accogliente cornice di Torre Artale, una struttura alberghiera posta per 15 anni e otto mesi sotto amministrazione giudiziaria e riconsegnata al suo originario proprietario il costruttore Alfano, che sta cercando di rimediare ai guasti prodotti da amministratori come Benanti e Caniglia, si è svolto un convegno, anzi, su precisazione degli organizzatori, un’assemblea per un momento di riflessione sulla legge che si occupa delle misure di prevenzione, sui danni prodotti nell’economia siciliana, sulla divaricazione tra il sistema penale e il sistema interdittivo e sulle eventuali proposte di modifica di un sistema inquisitorio unico in Europa. L’iniziativa, organizzata dal Partito Radicale ha avuto una notevole affluenza di pubblico e un alto livello di analisi, di denuncia, di proposta, sia da parte di coloro che sono intervenuti al dibattito, sia dai relatori. Erano presenti moltissimi imprenditori che in passato sono stati oggetto di misure di prevenzione e che poi sono stati prosciolti nei vari gradi di giudizio penale, ma i cui beni erano e sono ancora oggetto di sequestro. Tra di questi i parenti ed eredi dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, i fratelli Niceta, l’ingegnere Lena, proprietario dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, prosciolto da tutto e in attesa che gli restituiscano il bene, l’ing. Rizzacasa, le sorelle Amodeo di Alcamo, il figlio del costruttore Ienna e molte altre “vittime della Saguto”. Ha aperto i lavori Sergio D’Elia, del Partito Radicale, il quale ha illustrato le motivazioni dell’incontro e l’impegno del suo gruppo politico per cambiare una legislazione che, passata in gran parte l’emergenza, si rivela solo uno strumento dato ai giudici per potere intervenire sorvolando su quelli che sono i diritti dell’individuo previsti e sanciti dalle norme costituzionali. Un saluto è stato dato dal figli di Rosario Alfano, che ha brevemente ripercorso la tragedia passata dalla sua famiglia e gli enormi danni economici, sino al momento del pieno proscioglimento da ogni accusa. Salvo Vitale ha parlato delle vicende dell’emittente Telejato, delle varie inchieste che hanno posto all’attenzione il problema dei beni sequestrati e dell’opportunità di ridare vigore all’associazione In difesa del cittadino, nata nel 2015 per dare voce alle vittime delle ingiustizie di qualsiasi tipo, sempre sapendo distinguere, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria siciliana quanto realizzato in maniera fraudolenta e quanto con l’onesto lavoro. È intervenuto anche Pino Maniaci, che ha espresso le sue perplessità rispetto alla possibilità di cambiare o abolire una legge che dà un enorme potere ai magistrati e ha lamentato la scarsa attenzione data dalle varie testate giornalistiche e televisive, assenti all’iniziativa. Sono seguiti altri interessanti interventi da parte di Rita Bernardini del Partito Radicale, di Elisabetta Zamparutti, componente del comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa, di parecchi altri imprenditori e avvocati, tra i quali Salvatore Galluzzo, Andrea Saccucci, Baldassare Lauria. Presenti anche alcuni uomini politici di varia provenienza.

Vittime dell’Antimafia, il servizio de Le Iene e Matteo Viviani, scrive il 5 dicembre 5, 2017 Morgan K. Barraco su "Tutto tv". In apertura della sua puntata del 5 dicembre, Le Iene racconta la storia di una famiglia devastata dalla legge Antimafia. Si parla infatti degli anni ’80 e dei Cavallotti, che secondi i giudici sono collusi con la mafia. La loro azienda in quel momento poteva contare su 300 dipendenti e viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Occorreranno 12 anni per dimostrare che Vincenzo, Salvatore e l’altro fratello Cavallotti non sono in realtà responsabili. Matteo Viviani intervista inoltre Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. I Cavallotti infatti hanno subito due processi, di cui uno prevede il pagamento di debiti inesistenti. L’inviato de Le Iene ha fatto domande scomode a De Moach, come il vantaggio che avrebbe ottenuto la famiglia dell’interessato grazie ad alcune ditte coinvolte in questo processo. Alcuni mesi dopo il primo servizio de Le Iene, i Cavallotti vengono presi di nuovo di mira. Si tratta dei figli dei tre ex titolari, che prendono in mano la tradizione di famiglia e creano una loro società. Anche in questo caso si tratta dello stesso lavoro di impianti di pulizia di gas metano, con cui riescono ad ottenere un cospicuo capitale sociale. Fino al dicembre del 2011 in cui l’azienda dei Cavallotti arriva ad avere 150 dipendenti, ma anche in questo caso le autorità mettono sotto sequestro la società Euroimpianti. Secondo quanto riferito dai Cavallotti a Le Iene, tutto parte ancora una volta da Andrea Modica De Moach, che avrebbe segnalato alle autorità di un illecito da parte dei diretti interessati. Secondo le sue accuse, i ragazzi avrebbero infatti prestato il loro nome per permettere ai genitori di continuare ad operare. Secondo Le Iene ci sarebbe molto di più, per via di alcune intercettazioni telefoniche fra Modica De Moach e i Cavallotti padri. Questi ultimi infatti continuano a lamentarsi dello sfacelo in cui è finita l’azienda e di contro l’ex Amministratore Giudiziario parla di “bilancio a convenienza”, plusvalenze da far trasparire all’occorrenza. Dopo aver proposto e quasi imposto ai Cavallotti di unirsi in “affari”, il Modica De Moach mette in atto quanto annunciato in precedenza. Ovvero porta i libri contabili in tribunale ed è in quel preciso periodo in cui sarebbe avvenuta la segnalazione alle autorità sulla società dei Cavallotti figli. La situazione non sarebbe migliorata con l’incarico affidato all’avvocato Andrea Aiello, che afferma alle telecamere de Le Iene di aver migliorato la situazione. Il commercialista dottor Vincenzo Paturzo, intervistato dall’inviato sottolinea invece che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Clicca qui per rivedere il video con il servizio de Le Iene sulla ditta dei Cavallotti e il processo Antimafia non appena disponibile.  

Il primo servizio della serata è di Matteo Viviani: Il fallimento dell’antimafia, scrive Irene Natali, Martedì, 5 Dicembre 2017.  La famiglia Cavallotti, assolta per mafia, si è ritrovata con l’azienda sequestrata: la sede è distrutta, i camion fermi, le erbacce crescono. L’impresa è così rovinata, e la famiglia non può più lavorare. L’amministratore giudiziario che se ne sarebbe dovuto occupare, di fatto non l’ha gestita. I più giovani si sono allora riuniti per formare una nuova impresa: con l’accusa di essere prestanomi dei padri, anche l’azienda dei Cavallotti figli è stata bloccata. Sequestrata anche questa. Il servizio trasmette addirittura alcune conversazioni tra l’amministratore e gli stessi Cavallotti, a cui viene offerto un accordo per prendere in mano l’impianto. Ma lo stabile è sequestrato: la legge sta dunque abdicando al suo ruolo. La società adesso è in liquidazione, perciò in fallimento: i Cavallotti non hanno lavoro, non possono fare niente. Uno di loro, davanti all’ impossibilità di mandare i figli a scuola, ha tentato il suicidio. Viviani cerca di avere spiegazioni sia dall’ex amministratore giudiziario che da quello in carica, ma senza ottenere motivazioni soddisfacenti.

Le Iene smascherano un altro “caso Saguto” e il fallimento dell’Antimafia, scrive il 6 dicembre 2017 "Il Sicilia". Nuova puntata delle Iene ieri sera, con il Tribunale misure di prevenzione di Palermo al centro del dibattito. Dopo il celebre caso Saguto, l’inviato Matteo Viviani racconta la storia della famiglia Cavallotti, che sarebbe stata vittima della cattiva amministrazione dello Stato. I Cavallotti, che hanno un’impresa di impianti di pulizia di gas metano a Belmonte Mezzagno (PA), secondi i giudici sarebbero collusi con la mafia. La loro azienda viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Dopo 12 anni verranno scagionati. Le Iene allora intervistano l’avvocato Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. Dopo un primo servizio del 2015 i figli dei Cavallotti sarebbero stati presi di mira dall’avv. Modica De Moach, che avrebbe fatto partire una segnalazione alle autorità sostenendo che i figli avrebbero fatto da prestanome ai genitori. Ma grazie ad alcune intercettazioni audio esclusive Le Iene mostrano l’ex Amministratore Giudiziario parlare di “bilanci presentati a convenienza”, plusvalenze, e strane proposte di “affari” coi Cavallotti…«Sembra che Modica non lavori per il Tribunale, ma per le aziende sequestrate dal Tribunale stesso» – dice Viviani nel servizio. «Un inciucio, anzi un vero e proprio reato commesso da chi quei reati invece dovrebbe aiutare lo Stato a contrastare», spiega l’avv. Andrea Dell’Aira. La situazione dell’azienda precipita poi verso il fallimento. L’incarico viene affidato all’avvocato Andrea Aiello, che a Viviani risponde di aver migliorato la situazione. Un esperto commercialista, invece, sostiene che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Questo il commento che la trasmissione di Italia 1 fa al servizio: “La storia dei Cavallotti mostra come una giusta legge antimafia, quando dietro c’è una cattiva amministrazione da parte dello Stato, rischia di incoraggiare quella cultura mafiosa che dovrebbe combattere”.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

Rinviati a giudizio la Saguto e alcuni dei suoi “complici”, scrive il 6 novembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". PER ANNI C’È STATA UNA GESTIONE SPREGIUDICATA DEI PATRIMONI SOTTRATTI ALLA MAFIA”, HANNO DETTO ALL’UDIENZA PRELIMINARE I PUBBLICI MINISTERI DI CALTANISSETTA MAURIZIO BONACCORSO E CLAUDIA PASCIUTI. In realtà si può parlare di un autentico “sistema criminale” attraverso il quale un’associazione di persone, più o meno in relazione tra di loro prima identificavano il bersaglio, ovvero il bene da sequestrare, poi, attraverso la ricerca, condotta scrupolosamente da organi inquirenti, particolarmente dalla DIA, si trovava la motivazione, ovvero l’elemento che potesse giustificare il sequestro, legato molto spesso all’ipotesi, al sospetto, alla presunta collusione, all’appartenenza attraverso la parentela, al presunto riciclaggio di denaro sporco, al pizzino, alla dichiarazione di qualche pentito, poi si emetteva il decreto di sequestro con la scelta, sempre ad arbitrio del magistrato che si occupava di portare avanti l’operazione, dell’amministratore giudiziario cui affidare la gestione del bene sequestrato. Per l’amministratore si trattava di un lavoro di cui lui stesso redigeva le parcelle, che passavano alla firma del magistrato e che venivano liquidate con i fondi dell’azienda sotto sequestro. A coronamento dell’operazione l’amministratore aveva la facoltà di nominare parenti, amici, esperti, collaboratori, a sua facoltà, di licenziare i vecchi dipendenti, di mettere in liquidazione l’azienda o alcune sue parti, molto spesso di girare anche ad altre aziende amiche i pezzi o le parti svendute. Abbiamo usato l’imperfetto, ma ancora oggi il sistema di gestione dei beni sequestrati messo in piedi dalla Saguto regge e continua, se è vero che una serie di amministratori giudiziari sono rimasti al loro posto e che i tempi per definire le cause legate alle istanze di dissequestro subiscono rinvii che durano anni, sino alla totale chiusura dell’attività dell’azienda sotto sequestro. Difficile calcolare quante siano le persone che oggi hanno perso il lavoro dopo il sequestro della loro azienda. Difficile anche calcolare i danni arrecati all’economia siciliana e al suo già fragile sistema produttivo. E comunque, che la magistratura di Caltanissetta si stia occupando di un’inchiesta che riguarda l’operato di una “collega” di Palermo e di altri “colleghi” a lei legati, è già un evento, lascia pensare che non sempre i giudici si proteggono tra di loro e che la giustizia, alla fine, può essere in grado di fare pulizia anche al suo interno. Diciamo pure che “ci sarà un giudice a Berlino”, come diceva il povero mugnaio di Postdam creato da Bertold Brecht. E così il gip Marcello Testaquadra ha deciso il rinvio a giudizio per Silvana Saguto, ex presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione di Palermo e per altri quindici imputati. La prima udienza si terrà il 22 gennaio. Secondo la procura di Caltanissetta, diretta dal dott, Amedeo Bertone “Il grosso delle entrate della famiglia Saguto derivava dagli incarichi conferiti dall’avvocato Cappellano Seminara al marito della giudice, Lorenzo Caramma”. Le indagini del nucleo di polizia tributaria di Palermo hanno scoperto che Silvana Saguto aveva creato rapporti privilegiati almeno con due amministratori di patrimoni sequestrati. Sappiamo che erano molti di più. Dopo Seminara la Saguto avrebbe spostato la sua attenzione, per una diretta collaborazione, sul professore della Kore Carmelo Provenzano. Troviamo tra gli indagati anche l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, grande amica di Silvana Saguto, che avrebbe fatto assegnare un incarico di amministratore al nipote dell’ex prefetto di Messina Stefano Scammacca. Indagati anche gli amministratori giudiziari Aulo Gabriele Gigante, Roberto Nicola Santangelo e Walter Virga, figlio di Tommaso, giudice, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni dei Rappa stimati in 800 milioni di euro. A giudizio pure il marito di Silvana Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, uno dei figli, Emanuele, e il padre Vittorio Pietro. Poi ancora Roberto Di Maria (preside della facoltà di Scienze Economiche e giuridiche della Kore di Enna), Maria Ingrao (la moglie di Provenzano), Calogera Manta (collaboratrice di Provenzano) e il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca. Sono un’ottantina le ipotesi di reato contestate: vanno dalla corruzione al falso, dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata. Il 20 dicembre, inizierà invece il giudizio abbreviato che vede imputati i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere del tribunale Elio Grimaldi. 

Va detto, cosa che è del tutto ignorata dalle agenzie di stampa, che all’apertura di questo processo e alla denuncia di questa perversa gestione dei beni sequestrati ha dato un suo contributo Telejato, dai cui servizi è partita l’indagine che poi è stata trasmessa dalla Procura di Palermo alla magistratura di Caltanissetta.

Mafia: direttore Telejato, sono stato "mascariato" perché mi dovevano fermare sul caso Saguto, scrive il 20 Novembre 2017 "Libero Quotidianjo". (AdnKronos) - Poi, parlando della sua vicenda giudiziaria, ha sottolineato: "La mia vita è cambiata radicalmente - dice ancora Pino Maniaci, in aula con i suoi legali Antonio Ingroia e Bartolo Parrino - prima di allora la mia tv riceveva le visite di tantissimi giovani provenienti da tutta Italia e anche dall'estero. E' stata un faro per tanti giovani. Ma io ho voluto continuare ugualmente. E tuttora riceviamo ancora visite di giovani che vogliono conoscere la storia di Telejato. La tv resta aperta e continuiamo la nostra lotta contro la corruzione e il malaffare, come abbiamo sempre fatto". E annuncia: "Dopo avere scoperchiato tutto il malaffare della sezione Misure di prevenzione, adesso stiamo lavorando sulla Fallimentare. E' ancora peggio lì. E vi assicuro che ne vedremo delle belle...". Maniaci sottolinea poi: "E' molto difficile riuscire a lavorare su questa inchiesta - dice ancora il direttore di Telejato - perché nessuno vuole parlare al telefono con me, in quanto intercettato sul caso Saguto. E' davvero incredibile. Si è voluto fare appositamente terra bruciata attorno a me ma nessuno riuscirà a fermarmi, questo deve essere chiaro". E annuncia: "Nonostante tutto, io continuo a ricevere numerosi inviti a presenziare, ma spesso sono io a dire no. Il 2 dicembre, invece, andrò eccome a un incontro a Torre Artala in cui si parlerà proprio di Misure di prevenzione e dei danni che ha fatto la ex Presidente delle Misure di prevenzione. Racconterò diversi retroscena su questa vicenda assurda".

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”. 

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

[L’inchiesta] Il comandante dei carabinieri arrestato per mafia, il parroco che aiutava i killer. 27 ‘ndrine e 10 logge massoniche. Benvenuti nella città più mafiosa d’Italia. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai, scrive Guido Ruotolo, editorialista e giornalista d’inchiesta, su "Tiscali News" il 31 dicembre 2017. Per favore accendete i riflettori su Vibo Valentia, una città a una decina di chilometri da Lamezia Terme, nel centro della Calabria. Una perla la sua Capo Vaticano, con il mare mozzafiato. E poi Pizzo e Tropea, le spiagge, i fondali, le cipolle e i “fruttini”. E l’amaro del Capo e il tonno dei Callipo. Dimenticate tutto questo. Non capireste nulla di Vibo, della Ndrangheta e della terra dei senza speranza. Quello che da fuori appare sotto una certa luce in realtà è un’altra cosa. È contaminata, collusa. A qualcuno, questa terra ricorda la Palermo degli anni Ottanta. Può essere. A me il vibonese sembra terra di nessuno, anzi una Repubblica indipendente della Ndrangheta. Sapete che nella storia della Calabria e della Ndrangheta vi è stata nel dopoguerra una Repubblica indipendente della Ndrangheta a Caulonia, nella Locride, durata pochi giorni, con il sindaco comunista e ndranghetista?. E dunque siate forti e non stupitevi (semmai indignatevi) per quello che succede in questa terra. Non meravigliatevi se all’inizio del nuovo millennio, con la scoperta della Ndrangheta che si è infiltrata persino nella corona dei comuni che circondano la grande Milano, torniamo nella terra dove è nata e vive la Ndrangheta. Per la verità fino agli anni Ottanta era consolidata l’idea che la Ndrangheta fosse radicata solo nella provincia di Reggio, nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio città. Fu solo dopo che si è scoperto che la Ndrangheta c’era sempre stata anche nella Calabria del Nord, Crotone, Vibo, Lamezia, persino Cosenza. Ebbene qui a Vibo è accaduto qualcosa che se fosse successo a Palermo anche nel 1990 sarebbe caduto il governo. Ci sarebbe stata la sollevazione popolare. Del resto non fu il procuratore di Milano Borrelli a gridare “resistere, resistere, resistere”, all’apertura dell’anno giudiziario si tempi di Mani Pulite? Questo per dire che il protagonismo di una società civile forte si sarebbe mobilitata, non avrebbe permesso che il pool di Mani pulite fosse neutralizzato. Oggi, quella magistratura che ha fatto la storia nel bene e nel male è solo un ricordo del passato. Ed è un bene che chi teorizzava un ruolo salvifico dei magistrati impegnati a farsi carico del rispetto della legalità e della eticità della nazione, oggi sia stato sconfitto. Però dal fare politica dei magistrati al nulla ce ne passa. Solo alcuni numeri per avere elementi su cui ragionare. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai. Come se non bastasse, la Ndrangheta dal 2015 gestiva centri di accoglienza per 650 richiedenti asilo fino a quando non è arrivato un prefetto, un eccellente ex “sbirro”, Guido Longo, che ha deciso che non è possibile che nella provincia di Vibo Valentia lo Stato italiano sia un ospite. Insomma, ha deciso di ripristinare il funzionamento delle istituzioni italiane. Mettiamo dunque il caso che a Palermo un tribunale decida di assolvere Totò Riina imputato di associazione mafiosa. Secondo voi quali saranno le conseguenze? Un terremoto politico e un moto di indignazione? Addirittura il governo potrebbe essere costretto alle dimissioni? L’ondata di stupore si potrebbe propagare anche all’estero? Domande legittime, e se questo pericolo paventato in realtà è accaduto a Vibo Valentia? Qualcuno se ne è accorto? I giornali e i canali televisivi ne hanno parlato? Nessuno. Nessuno si è indignato perché Giovanni, Antonio, Pantalone e Giuseppe Mancuso sono stati assolti dall’accusa di associazione mafiosa. Ora che i Mancuso siano mafiosi, che la ’ndrina di Limbadi sia tra le più potenti della Ndrangheta è cosa notissima. Davvero è come parlare di Lo Piccolo o Riina per Cosa Nostra. Eppure questa assoluzione è passata vergognosamente sotto silenzio. Il collegio giudicante era composto da tre giovanissime magistrate arrivate a Vibo nel 2014, prima sede assegnata. E il processo «Black money» era atteso, importante. Ma il presidente del Tribunale, Filardo, ha deciso di affidare il giudizio alle tre giovani magistrate e tenersi invece per sé una costola dello stesso processo che vedeva imputati per concorso esterno alla Ndrangheta due funzionari della questura di Vibo, tra cui l’ex capo della Mobile, e un avvocato. Perché fosse vissuto dai vibonesi come un “non processo”, il presidente del Tribunale ha deciso di far svolgere le udienze nell’aula bunker (e l’esame di uno degli imputati si è tenuto inspiegabilmente a porte chiuse) provocando non pochi problemi nella gestione dei calendari delle udienze dei processi. Ora il Csm è stato costretto ad accendere i riflettori sul funzionamento del Tribunale di Vibo Valentia. Era ora.

Ma non è tutta merda come qualcuno vuol far credere…

Il comune fu sciolto per una partita di calcio “sbagliata”, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un ex assessore di un paesino calabrese è accusato di aver partecipato al “Memorial” in onore del figlio di un boss morto a soli 26 anni. L’assessore ai lavori pubblici al sesto memorial in onore del figlio del boss, morto a 26 anni per una malattia. È questo l’elemento che rende «incompatibile» Francesco Lupis, amministratore marchiato dalla relazione con la quale il prefetto di Reggio Calabria nelle settimane scorse ha proposto (e ottenuto) al ministro dell’Interno Marco Minniti lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Marina di Gioiosa. Lo stesso amministratore che però ha vestito la maglia di “Avviso pubblico”, l’osservatorio antimafia parlamentare al quale il Comune ha aderito sin dall’insediamento di Domenico Vestito, avvocato ed ormai ex sindaco sul piede di guerra. Perché quella relazione, dice al Dubbio, «non parla di giustizia o di ricerca di verità, ma di processi sommari». Il prefetto parla delle elezioni 2013, che videro schierarsi due liste civiche, che secondo «sommarie verifiche» sui sottoscrittori delle liste, sarebbero risultate pulite. «Sul conto dei citati amministratori pubblici – scrive il prefetto – nulla risulta». Nessun rapporto, dunque, con la criminalità. Parole contraddette dalla relazione di Minniti, che parla di legami di parentela tra mafiosi e sottoscrittori delle liste e tra un consigliere, poi dimessosi nel 2015, e un capo clan, nonché della presenza di affiliati ai clan ai comizi delle due liste contrapposte. La relazione, tra decine di omissis, descrive poi la gestione degli appalti e dei servizi. Pochi gli affidamenti diretti, con gli incarichi a rotazione. Ma sono alcuni lavori a costare la poltrona a Vestito. Tra questi, la messa in sicurezza del muro del lungomare, affidato ad una ditta poi colpita da interdittiva. Per il prefetto, doveva essere l’ente ad effettuare gli accertamenti di rito. «La prefettura protesta Vestito – non conosce però la convenzione che regola i rapporti tra Stazione unica appaltante provinciale, della quale l’ufficio territoriale del governo è ispiratore e parte, con i Comuni. I controlli li deve fare la Suap, alla quale l’appaltatore è tenuto a fare le comunicazioni. Nel caso specifico la Suap ha fatto le verifiche, all’esito delle quali la prefettura ha risposto con un’interdittiva a lavori praticamente conclusi». Il Comune ha proceduto comunque alla rescissione del contratto, avviando l’iter per la riscossione delle penali. Nel mirino anche l’abuso edilizio di un bene riconducibile ai clan, che occupava abusivamente 439 metri quadrati di terreno demaniale. La demolizione, lamenta il prefetto, è avvenuta solo dopo l’intervento della guardia costiera. Ma sulla vicenda, protesta l’ex sindaco, «chi fa la relazione fa riferimento a presunti poteri di ordinanza del sindaco in materia, rintracciabili nel regolamento edilizio comunale, risalente al 1998 e redatto sulla base della normativa del 1942. Peccato, però, che nel 2001 – spiega viene approvato il nuovo testo unico che spoglia il sindaco e gli organi politici di qualsiasi potere. Detto questo, l’amministrazione ha emesso gli atti e le ordinanze di demolizione. Sostiene il prefetto che se non si fosse mossa la capitaneria il Comune non avrebbe fatto nulla. Se questa è la logica e siccome quei manufatti si trovano lì dal 1967, vanno sciolte tutte le amministrazioni comunali di Marina di Gioiosa Ionica, comprese quelle a guida di commissari prefettizi. Noi stavamo però recuperando le somme, presso la Cassa depositi e prestiti, per potere effettuare le demolizioni, che sono onerosissime». Nella relazione ci finiscono anche i lidi, quattro dei quali destinatari di interdittive antimafia e la cui autorizzazione sarebbe stata ritirata con ritardo dall’ente. «Peccato però – aggiunge – che ci sono interdittive che la prefettura ha sfornato dopo due anni e almeno tre richieste del Comune». Secondo il prefetto, poi, l’ente avrebbe lasciato nella disponibilità dei clan i beni confiscati. «Nulla di più errato – protesta -. L’attività a cui si fa riferimento non sorge su bene confiscato e abbiamo emesso anche ordinanza di demolizione e di chiusura dell’attività commerciale». Riguardo al terreno confiscato e una cui parte – non confiscata sarebbe stata coltivata dal suo ex proprietario, invece, «si tratta di una minuscola corte non coltivata da alcuno, monitorata, come gli altri beni confiscati, dalla po- lizia municipale e dall’ufficio tecnico. Ma su questa vicenda si tocca l’apice della follia: viene sentito anche il proprietario originario di un bene confiscato alla mafia e si nega il diritto di parola e difesa al sindaco eletto». Ma vengono anche contestate la riduzione delle tariffe idriche e la scarsa riscossione. Cose false, obietta Vestito, che avrebbe mantenuto la linea della commissione straordinaria. «La Società delle risorse idriche ogni anno aumenta il costo di vendita dell’acqua ai Comuni, che non possono toccare le tariffe, regolate dal 2013 dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, che demanda a quella d’ambito la determinazione del canone. La Regione Calabria da anni è inadempiente, tant’è che la scorsa estate ha ricevuto una diffida formale dall’authority. Malgrado questo ci siamo mossi per cercare di adeguare le tariffe, intralciati però dai ritardi regionali».

Sciolta Lamezia, perché? «Il sindaco fa l’avvocato», scrive Simona Musco il 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. È questo uno degli elementi che per il ministro dell’Interno Marco Minniti giustificherebbe lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Lamezia Terme (Cz), guidata, fino al 24 novembre, dall’avvocato Paolo Mascaro. La cui colpa principale, stando alla relazione firmata da Minniti, sarebbe proprio quella di aver esercitato la professione di avvocato, così come il suo vice, Massimiliano Carnovale, in processi delicati contro i principali clan del lametino. I due, scrive il ministro, sino ai primi mesi del 2016 hanno difeso di fiducia «esponenti di massima rilevanza delle cosche e di loro sodali», rimanendo «organi di vertice dell’amministrazione comunale». La rinuncia all’incarico sarebbe arrivata «solo a marzo e maggio 2016, a seguito della costituzione di parte civile del Comune nei processi», mentre il mandato difensivo sarebbe finito in mano ad un altro avvocato «in stretti rapporti di affinità» con Mascaro. Parole che per l’ex sindaco non rappresentano soltanto un clamoroso errore, spiega al Dubbio, ma un vero e proprio «falso ideologico», inserito in una relazione che rappresenta «un campionario di falsità, inesattezza e ignoranza». Nelle maglie della commissione d’accesso finiscono importanti operazioni antimafia per la città, come “Perseo”, nel quale Mascaro assume la difesa di tre imputati in abbreviato, prima della sua elezione a sindaco. Due di questi, l’8 giugno 2015, vengono assolti, il terzo assolto dall’accusa di associazione mafiosa e condannato per un altro capo d’accusa. «Accade poi che la procura fa appello contro le assoluzioni e il codifensore del terzo imputato contro la condanna. Per me il mandato era terminato alla fine del primo grado. Con la notifica della fissazione dell’udienza d’appello per la primavera del 2016 – racconta Mascaro -, mi sono limitato a notificare la rinuncia al mandato, che era già avvenuta nel 2015». Ma c’è anche il processo “Columbus”, un’operazione dell’Fbi pochi giorni prima del voto, che fa finire in carcere anche Franco Fazio, candidato a sostegno di Mascaro e presunto faccendiere dei clan, recentemente condannato a 17 anni e 10 mesi. Al momento del blitz, Mascaro viene nominato difensore di uno degli indagati, Alfonso Santino Papaleo, poi assolto su richiesta del pm. «Ma il giorno dopo l’arresto ho depositato la rinuncia al mandato, quindi prima della mia elezione», sottolinea. E poi rimarca: «non si tratta di un errore. Nella relazione viene detto che a seguito della mia rinuncia il mandato sarebbe stato assunto dal fratello di mia moglie, che è anche un magistrato. Ma non è vero». Il vicesindaco Carnovale, invece, ha rinunciato alla difesa di Vincenzino Iannazzo, capofamiglia dell’omonimo clan, il 5 maggio 2016, dimettendosi poi il 30 maggio 2017, in seguito alle accese polemiche scaturite dall’operazione antimafia “Crisalide”. Proprio da “Crisalide” la commissione deduce l’ingerenza della criminalità nell’amministrazione, eletta il 31 maggio 2015. L’operazione fa finire in carcere 52 persone, tra le quali due consiglieri, accusati di concorso esterno, per aver «chiesto e fruito dell’appoggio elettorale della locale cosca mafiosa». E proprio per tale motivo il prefetto, il 6 giugno scorso, ha spedito al Comune la commissione d’accesso. «Da qui si ricava la certezza che le cosche non hanno appoggiato il sindaco – aggiunge Mascaro, perché vi sono intercettazioni del reggente della cosca, tale Miceli, che parlando con la moglie, pochi giorni prima del ballottaggio, dice chiaramente che non avrebbero votato, perché con me e il mio avversario non c’era nulla da fare». In quell’indagine ci sono finiti uno degli sfidanti di Mascaro, Pasqualino Ruberto, e un altro consigliere di minoranza, Giuseppe Paladino. Assieme a loro, con l’accusa di spaccio di marijuana, anche il fidanzato di una consigliera di maggioranza. Elementi che per Minniti rappresentano una prova dell’inquinamento della campagna elettorale, «caratterizzata da un’illecita acquisizione dei voti che ha riguardato, direttamente o indirettamente, esponenti della maggioranza e della minoranza consiliare». Non si tratta del primo scioglimento per Lamezia. Il Consiglio è già stato sciolto, infatti, nel 1991 e nel 2002. Due commissoriamenti che, secondo quanto testimoniato dalla stessa relazione, non avrebbero prodotto alcun risultato: il prefetto parla infatti di «assoluta continuità» e della persistenza «delle medesime dinamiche collusive e dell’operatività degli stessi personaggi di spicco delle organizzazioni criminali dominanti in quel territorio», tra le più feroci in Calabria. «Diffuso quadro di illegalità». Secondo Minniti, l’ente sarebbe caratterizzato da un generale disordine amministrativo, funzionale «al mantenimento di assetti predeterminati» coi membri delle cosche. Una considerazione che nasce dall’analisi degli appalti e dell’utilizzo dei beni confiscati, ulteriori elementi contestati da Mascaro. L’amministrazione, scrive il ministro, ha concesso per 15 anni e gratuitamente un immobile ad una cooperativa, l’unica ad aver partecipato alla gara e con soci «gravati di pregiudizi penali». Un assurdo per l’ex sindaco. «Sono stato io il primo ad assegnare i beni confiscati con un bando di gara, mentre prima venivano assegnati in via diretta – spiega. A questi bandi, per legge, possono partecipare le cooperative di tipo b, che nascono proprio con l’intento di favorire il recupero di ex detenuti. Dove sta il delitto?». Ma vengono contestati anche gli appalti, che finivano, secondo Minniti, sempre in mano alle stesse ditte, da danni e anni, senza alcun controllo. Tra questi il servizio mensa, aggiudicato alla stessa ditta di sempre, interdetta ad aprile scorso e quindi revocata. «Sin dal momento della costituzione del servizio mensa, nel 1988, anche quando sindaco era un magistrato come Doris Lo Moro, questo appalto è stato sempre vinto da quella che oggi è la Cardamone group srl, che aveva appalti ovunque, anche nelle Asp – commenta l’avvocato -. Quando si può partecipare alle gare, si partecipa e magari si vince. Io però ho mandato via la società il giorno seguente l’interdittiva, cosa che altrove non è avvenuta». Mascaro ha già presentato in prefettura una richiesta d’accesso agli atti per avere la relazione completa, 240 pagine lette e approvate dal comitato provinciale per la sicurezza «in tempo record», ironizza. Dopodiché presenterà ricorso contro lo scioglimento. «È inquietante la scarsa conoscenza che hanno della pubblica amministrazione – conclude -. In queste relazioni non viene contestata una delibera di giunta comunale, una delibera di consiglio, un’assunzione, nulla. C’è il vuoto assoluto. Avevano deciso che dovevano far fuori me e hanno ammantato tutto con insieme di parole vuote. Lo Stato dovrà interrogarsi di fronte a questo abuso colossale».

ANTIMAFIA: UNTI DAL SIGNORE O GIOCO DELLE PARTI ???

Mantovano ci ricasca. Egli, come già a Gallipoli si è prodigato ad accusare le comunità locali di collusione mafiosa. Senza citare nè testate, nè nomi, il sottosegretario Alfredo Mantovano il 14 luglio 2010 ha riproposto le accuse di “consenso sociale” alla criminalità, che egli avrebbe colto negli ultimi tempi nel Brindisino. Lo ha già fatto alcuni giorni prima a San Pietro Vernotico sventolando un quotidiano locale (uno solo), che si era occupato dei funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso il 19 giugno 2010 a Cellino S.Marco. Lo ha rifatto il 14 luglio 2010 a Roma in occasione della presentazione di una ricerca del Cnel sul tema sicurezza.

“C’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”, ha detto Mantovano parlando di alcuni casi che egli ha colto in Puglia, ma soprattutto a Brindisi. A Cellino San Marco infatti, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c’era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. Sempre nell’inserto locale di un giornale, ma questa volta di Foggia, ha accusato Mantovano, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia presieduta dal ministro dell’Interno, Maroni”.

Poi il sottosegretario ha citato il caso di una recente seduta dell’assemblea consiliare di Brindisi dove – secondo lui -  “un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”. Ma dovrebbe trattarsi dei proprietari di ville del villaggio di Acque Chiare nei confronti dei quali non vi sono ordinanze di demolizione, nè tanto meno sentenze già pronunciate.

“Non voglio – ha precisato il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”. Le polemiche non mancheranno. Il sindaco di Cellino ha già risposto recentemente, spiegando che non intende anteporre la politica alla sua missione di avvocato penalista e al diritto-dovere di difesa sancito dalla Costituzione.

''C'e' un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”. Lo ha detto il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, il 14 luglio 2010, nel corso della presentazione di una ricerca del Cnel sulla sicurezza.

Mantovano ha quindi citato alcuni casi concreti registrati in Puglia. A Cellino San Marco (Brindisi), ha spiegato, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c'era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. 

Sempre nell’inserto locale di un giornale, ha proseguito, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante, che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia (Foggia) presieduta dal ministro dell’Interno Maroni”. Infine, ha rilevato, “recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”.

“Non voglio – ha concluso il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”.

Pur non citando la Gazzetta del Mezzogiorno nel riferimento all'articolo sulla lettera del latitante (Libergolis) il sottosegretario alludeva proprio alla Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che il 12 luglio 2010, nell'edizione di Foggia, ha pubblicato (dopo averla ricevuta via posta) la lettera con la quale il boss del Gargano supericercato esponeva la sua posizione ovviamente innocentista. Probabilmente al sottosegretario non è stato mostrato il resto delle pagine nelle quali la Gazzetta - dopo aver assolto al suo dovere di informare sulle posizioni espresse da Libergolis - ribadiva tutte le accuse contro il latitante, le documentava con atti giudiziari e ne sollecitava la cattura.

Il sottosegretario Alfredo Mantovano spara di nuovo a zero sul presunto consenso sociale alle realtà criminali nel Brindisino, e qualcuno si arrabbierà, come i proprietari delle ville di Acque Chiare di fronte alla frase «recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive, che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi». La stampa locale è tutt’altro che entusiasta del passaggio in cui si afferma che «c’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media». E il sindaco richiamato in causa, Francesco Cascione di Cellino San Marco, non può che ripetere al «Corriere del Mezzogiorno» che lui «non difende il reato ma la persona», e che «in base all’articolo 24 della Costituzione sul diritto alla difesa, deve garantire ai propri assistiti il massimo sino al terzo grado». La nuova esternazione del viceministro all’Interno - l’occasione è la presentazione a Roma di una ricerca del Cnel sulla sicurezza - segue quella a San Pietro Vernotico, quando agitò appunto un quotidiano locale (l’unico) che, descrivendo i funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso in un agguato il 19 giugno 2010, avrebbe messo in risalto la personalità positiva della vittima.

E per l’avvocato «e poi sindaco» Cascione non si tratta altro che di un appendice ad una querelle che lo aveva già coinvolto - erano stati i media a sollevare la questione - a proposito della scelta di accettare la difesa di alcuni degli imputati del processo per le intimidazioni e gli attentati agli amministratori comunali della vicina San Pietro Vernotico, tra i quali l’ex collega (di carica) Giampiero Rollo. In quella circostanza Cascione disse «questa è soprattutto la storia degli avvocati che intendono il loro mestiere come i libri insegnano che si debba intenderlo: e cioè come si intende il mestiere del chirurgo, che presta la propria opera senza guardare alle qualità morali del malato». E oggi ribadisce tutto, ma sottolineando che «se ci saranno casi in cui le due missioni, quella di penalista e quella di primo cittadino, saranno incompatibili, farò un passo indietro». E la faccenda della partecipazione ai funerali di Saponaro? «Non esiste. Mi trovavo da un tabaccaio nei pressi della chiesa per acquistare marche da bollo. Sono sempre stato il legale di quella famiglia, e quando mi hanno visto mi sono avvicinato per porgere le condoglianze. Tutto qui».

I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari. «Il marcio sta nella burocrazia». I sindaci dei centri infiltrati dalle cosche scrivono al governo. «Così state uccidendo la democrazia!» Scrive Goffredo Buccini il 6 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Qualcuno cita addirittura la buonanima del Che, giurando di «sentire sulla propria pelle l’ingiustizia...». Qualcun altro denuncia immancabili complotti dei «poteri forti». Molti stiracchiano il sacrosanto «primato della politica» fino a coprire consigliere comunali fidanzate di presunti padrini, membri di maggioranza in manette, impiegati municipali asserviti alle cosche, atti amministrativi triturati dalle inchieste dei Ros. E tutti insieme, minacciando di riconsegnare a Roma le fasce tricolori, tuonano: «Così state uccidendo la democrazia!». In questa Italia che non tiene più insieme i suoi pezzi, i sindaci dei Comuni calabresi sciolti per mafia (o in odore di scioglimento) non si rivoltano contro la ‘ndrangheta ma contro lo Stato. Su 290 consigli comunali rimandati a casa dall’entrata in vigore della legge 221 del 22 luglio 1991 poi variamente modificata (nel primo blocco c’era Casal di Principe, patria della camorra), quelli calabresi sono stati 98, tre meno della Campania.

Nuovi interesse dei clan. Ma negli ultimi cinque anni la Calabria ha subìto 43 scioglimenti sugli 81 totali contro i 18 della Campania: un segno chiaro di dove si siano orientati ora gli interessi delle cosche. L’ultimo decreto s’è abbattuto un paio di settimane fa su una città importante come Lamezia Terme e su altri quattro centri calabresi minori tra cui Isola di Capo Rizzuto, nota per un’inchiesta antimafia che ha mostrato come persino il Centro d’accoglienza degli immigrati fosse finito sotto il tallone del clan Arena. Un altro colpo pare in arrivo, dato che le commissioni d’accesso agli atti sono in questo momento al lavoro a Siderno, Limbadi, Villa San Giovanni e Scilla. Questa raffica di provvedimenti è stata la scintilla della ribellione. Cinquantuno Comuni reggini hanno scritto e chiesto un incontro a Minniti, invocando una riforma «garantista» della legge. L’altro ieri sono stati ricevuti dal prefetto Michele di Bari, che ha invitato anche il presidente dell’Anci calabrese, Giuseppe Callipo, e non solo per ragioni di galateo istituzionale. Callipo, dal 2012 sindaco pd di Pizzo, è un moderato dal notevole buonsenso: «Rivolta? Metta la parola molto tra virgolette, la prego. Questa legge era e resta uno strumento fondamentale per la lotta alla ‘ndrangheta e noi su questo terreno non dobbiamo fare passi indietro ma passi avanti». Dunque? «Dunque stiamo mettendo in piedi una commissione di studio e chiediamo di rivedere la normativa in due punti: la possibilità che i sindaci abbiano garanzia di contraddittorio prima dello scioglimento e un intervento più forte sulla burocrazia; molte volte è lì che s’annida il problema e non negli organi politici che vengono sciolti». E questo è vero. Come hanno potuto sperimentare le sindache calabresi della tristemente archiviata stagione antimafia (Carmela Lanzetta in testa), la quinta colonna dei clan può stare negli uffici comunali così da assicurare il rapporto con i mafiosi chiunque vinca le elezioni. «I sindaci si sentono soli un po’ ovunque», sostiene Callipo. Vero anche questo. Federico Cafiero de Raho, per anni procuratore di Reggio e da poco capo della Procura nazionale antimafia, ha spiegato tempo fa da Lucia Annunziata le ragioni di una riforma, anche se in senso forse diverso da quello desiderato dai “ribelli”: «Bisogna andare oltre lo scioglimento, non possono bastare due anni col commissario ma nemmeno si può sospendere la democrazia. Dobbiamo pensare a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Il nuovo sindaco dovrebbe trovarsi accanto, da alleato, un inviato di Roma.

Nessuna lista per anni. Prospettiva non semplice in posti dove, contro lo Stato, per anni non si sono più presentate liste e i cittadini hanno smesso di votare. Nel 2007 Pietro Grasso, da procuratore antimafia, lo sintetizzò in una battuta amara: «In certi paesi come Africo, San Luca o Platì, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi». A Platì, dove infine si è tornati alle urne, si sono sfidati un parente del clan Barbaro e la figlia dell’ultimo sindaco «sciolto per mafia», la quale rivendicava a sua volta il diritto a non controllare parentele imbarazzanti in lista: «Discendo da un brigante, io!». Callipo sa bene che certe ventate «garantiste» possono gonfiare vele sbagliate: «Ma sbatteranno contro un muro. L’Anci Calabria e la maggioranza dei suoi sindaci sono contro la ‘ndrangheta». La Calabria è il luogo dove nulla è come appare, si sa. Infligge sorprese amare: come lo scioglimento di Marina di Gioiosa Ionica, retta da un sindaco vicino a “Libera”. E regala consolazioni perfino ingenue, come i reggini in fila in prefettura a firmare il «registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ndrangheta»: proprio mentre la rivolta dei sindaci montava al piano di sopra.

Anci Calabria si unisce al coro di critiche contro lo strumento dello scioglimento dei comuni per mafia. Callipo annuncia l’istituzione di una commissione che elabori proposte di modifica della normativa e sottolinea la necessità di intervenire anche sul livello burocratico, scrive lunedì 4 dicembre 2017 "Lacnews24". Assume proporzioni sempre maggiori la sollevazione contro lo strumento dello scioglimento dei Comuni a causa di presunte infiltrazioni mafiose. Dopo la lettera inviata da 51 sindaci della Città metropolitana di Reggio Calabria al ministro Marco Minniti, per sollecitare un incontro sul tema, al coro di critiche si aggiunge ora il presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo, che annuncia l’istituzione di una commissione di studio, presieduta dal sindaco di Rende Marcello Manna, che possa elaborare e proporre modifiche alla normativa in vigore.

«La normativa che regola lo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose continua a mostrare enormi limiti – scrive Callipo in una nota -, con conseguenze così dirompenti sull’autonomia dei territori, che non possono essere più accettate come inevitabili effetti collaterali di uno strumento che oggi appare spesso incapace di perseguire gli scopi per i quali è stato pensato». 

Il numero uno dell’associazione dei Comuni calabresi si riferisce soprattutto a quelle amministrazioni sciolte più volte nel corso degli anni.

«Governo e Legislatore devono prendere atto che il meccanismo non funziona - continua -. Non si spiegherebbero altrimenti i ripetuti scioglimenti che in alcuni casi colpiscono lo stesso Comune due o tre volte consecutivamente, vanificando la partecipazione democratica dei cittadini alla vita delle proprie comunità. La semplice decisione di istituire una commissione di accesso agli atti diventa automaticamente una sentenza di condanna che porta immancabilmente allo scioglimento, come se tra le due cose ci fosse esclusivamente un nesso temporale, per il quale l’una segue l’altra sempre e comunque. A che serve, dunque, accedere agli atti, leggere le carte, indagare i meccanismi amministrativi, se poi l’esito è scontato sin dall’inizio?».

Callipo, inoltre, dice esplicitamente che puntare esclusivamente sulla politica non serva a molto: «Probabilmente eventuali infiltrazioni non si annidano esclusivamente nel livello politico, ma anche e soprattutto in quello burocratico. Ecco perché la normativa va cambiata, affinché diventi davvero efficace e costruttiva».

Per il presidente dell’Anci regionale, un altro elemento che deve indurre a un profondo ripensamento dell’impianto normativo è il fatto che spesso vegano colpiti dai decreti di scioglimento anche quei Comuni che si sono contraddistinti nella lotta alla mafia, con sindaci che si sono esposti in prima persona in questa difficile battaglia. «Sindaci che il giorno prima vengono elevati ad esempio da seguire - afferma Callipo -, il giorno dopo possono essere mandati a casa con infamanti sospetti alieni alla loro storia personale e politica. Ovvio che il buon nome di qualcuno non possa essere garanzia assoluta di legalità, ma non può nemmeno essere calpestato alla prima occasione senza la cautela che alcune situazioni imporrebbero, quantomeno per non generare nei cittadini la falsa convinzione che della politica, tutta la politica, non ci si possa mai fidare».

Infine, il presidente di Anci Calabria richiama proprio la lettera inviata dalla maggioranza dei sindaci reggini al ministro Minniti.

«Condivido l’iniziativa – conclude Callipo -. L’Anci è al loro fianco nel sostenere una revisione della normativa che fughi tutti i dubbi e gli equivoci che oggi dominano questa delicatissima materia».

Bindi ha un’idea: le liste elettorali le fanno i pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un appello al parlamento affinché «rafforzi» la tanto discussa legge Severino prima delle prossime elezioni politiche. A farsene portavoce è stata mercoledì scorso, in Aula, la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Anche se la legislatura è agli sgoccioli, il testo di riforma della legge Severino «può essere portato alla discussione delle Camere, per l’esame da parte di tutti i gruppi parlamentari, affinché si giunga ad un indirizzo politico univoco su una materia tanto delicata», ha dichiarato Bindi. La modifica dovrebbe prevedere «la pubblicità dell’autocertificazione del candidato, con tutte le condanne e i processi in corso». Una sorta di casellario giudiziario alla mercè di chiunque che riguardi «non solo i procedimenti previsti attualmente dalla legge Severino ma qualunque altro processo che riguarda il profilo morale del candidato. Oggi, infatti, anche per condanne in primo grado per stupro, bancarotta o falso in bilancio, ma con meno di due anni di pena, una persona non è tecnicamente incandidabile». Togliendo la soglia dei due anni di pena ed includendo non solo i reati contro la pubblica amministrazione ma anche quelli riguardanti l’aspetto “morale”, la platea dei soggetti incandidabili si allargherebbe a dismisura. È sufficiente pensare al reato di diffamazione che, già ora spesso usato come una clava, verrebbe utilizzato ancora di più per estromettere dalla competizione elettorale avversari scomodi. «Come commissione Antimafia, noi potremmo avanzare anche le nostre proposte» per il rafforzamento della normativa vigente, ha aggiunto Bindi. Oltre alla citata «pubblicità», le altre novità che dovrebbero essere introdotte sono: l’obbligo dell’acquisizione tempestiva dei certificati penali e dei carichi pendenti, almeno nella provincia in cui si candida la persona; l’obbligo a carico del candidato di autocertificare tutte le condanne; la sospensione e la decadenza dalla carica nel caso in cui il candidato abbia mentito sull’autocertificazione; la riforma del casellario giudiziario e il rafforzamento dell’incandidabilità nei comuni sciolti per mafia. Ma oltre ad una stretta sulla legge Severino, Bindi ha avanzato una proposta ai partiti e movimenti politici affinché effettuino quelle scelte che «non possono essere imposte per legge ma proprio per questo più impegnative e responsabilizzanti davanti al Paese e al suo sfiduciato corpo elettorale». «Un nuovo ‘ codice di autoregolamentazione’ – ha proseguito Bindi – che traduca l’esigenza di contrastare il trasformismo politico e il rischio del voto di scambio politico mafioso, assicurando la selezione trasparente di una classe politica onesta e competente». Per la presidente dell’Antimafia «occorre un impegno affinché sia riposto il più elevato livello di attenzione da parte delle forze politiche nei confronti di propri candidati che risultino avere rapporti di contiguità o parentela con appartenenti alla criminalità organizzata anche di tipo mafioso o con altri soggetti che comunque risulterebbero ineleggibili, incandidabili o non rispondenti al codice di autoregolamentazione, ed, in particolar modo, se i candidati risultano privi di un autonomo consolidato percorso politico all’interno della formazione politica tale da ritenere che la candidatura possa essere un mezzo per aggirare le vigenti disposizioni di legge o per vanificare gli impegni del codice di autoregolamentazione».

Stato-mafia. 21 comuni commissariati in undici mesi, scrive il 24 novembre 2017 "Articolo tre". Nel 2017 sono 21 i Comuni sciolti per mafia in tutta Italia gli ultimi 5 sono stati sciolti il 22 novembre dal Consiglio dei Ministri, ed erano tutti in Calabria.  Gli ultimi cinque sono Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Si tratta di Comuni in cui sono state ravvisate interferenze da parte delle associazioni criminali: interferenze intese come infiltrazioni di presunti affiliati negli enti pubblici o di condizionamenti sull’attività degli enti stessi. In pratica come se un ipotetico “Stato della mafia” si sostituisse allo Stato vero e proprio (o si intrecciasse con esso, in quella sottile linea che a volte purtroppo li divide). Come dimenticare poi il caso di Ostia, che comune non è ma è più popolosa di molti di questi comuni. Gli altri che hanno fatto la stessa fine nel 2017 sono elencati sul sito Avviso Pubblico, che mette insieme le amministrazioni locali e pubblica documenti ufficiali del Ministero dell’Interno. Si tratta dei comuni di Scafati (Salerno, già sciolto nel 1993), Casavatore e Crispano (entrambi della provincia di Napoli, il secondo già sciolto nel 2005), Parabita (Lecce), Lavagna (Genova), Borgetto (Palermo, che al momento era affidato ad un commissario straordinario a causa delle dimissioni rassegnate dalla quasi totalità dei consiglieri), San Felice a Cancello (Caserta), Gioia Tauro (già sciolto nel 2003 e 2008), Canolo, Bova Marina (già sciolto nel 2012) e Laureana di Borrello (questi ultimi tre in provincia di Reggio Calabria), Castelvetrano (Trapani), Sorbo San Basile (Catanzaro), Cropani (Catanzaro), Brancaleone (Reggio Calabria) e Valenzano (Bari). Gravi condizionamenti da parte della criminalità organizzata, con pesanti riflessi sull’attività degli enti: questa la motivazione alla base del provvedimento col quale il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha sciolto ben cinque Comuni calabresi: Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Una “ecatombe” che conferma la pesante influenza che la ‘ndrangheta esercita in molti Comuni calabresi per condizionarne l’attività ed accaparrarsi appalti e commesse. La proposta del ministro Minniti é stata fatta sulla base delle relazioni redatte delle Commissioni d’accesso nominate dai Prefetti delle tre province in cui ricadono i Comuni sciolti, Catanzaro (Lamezia e Petronà), Cosenza (Cassano allo Jonio), Crotone (Isola Capo Rizzuto) e Reggio Calabria (Marina di Gioiosa Jonica). Il lavoro delle Commissioni si era concluso nelle settimane scorse con la proposta di scioglimento rivolta ai Prefetti, che l’avevano poi trasmessa al Ministro dell’Interno. Il Comune più importante tra quelli sciolti é quello di Lamezia Terme, che con i suoi oltre 70 mila abitanti é la terza città per popolazione della Calabria dopo Reggio e Catanzaro. Per Lamezia, tra l’altro, é il terzo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose dopo quelli del 1991 e del 2002. L’accesso antimafia nel Comune di Lamezia che ha portato allo scioglimento deciso stasera era stato disposto dal prefetto di Catanzaro, Luisa Latella, su delega del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, il 9 giugno scorso. La decisione seguì solo di pochi giorni un’operazione contro la ‘ndrangheta, denominata “Crisalide”, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri, che portò a decine di arresti. Nell’inchiesta vennero indagati in stato di libertà, tra gli altri, il vicepresidente del Consiglio comunale, Giuseppe Paladino, poi dimessosi dalla carica, e Pasqualino Ruberto. Quest’ultimo, che fu candidato a sindaco in occasione delle amministrative del 2015, era stato sospeso dalla carica di consigliere comunale dal Prefetto di Catanzaro dopo essere stato arrestato nel febbraio scorso in un’altra operazione della Dda, denominata “Robin Hood”, riguardante il presunto utilizzo illecito dei fondi comunitari destinati alle famiglie bisognose. Fondi che, in realtà, sarebbero stati utilizzati, secondo l’accusa, per altri scopi, anche col contributo di presunti affiliati a cosche di ‘ndrangheta lametine. La Giunta comunale che é decaduta in seguito allo scioglimento deciso oggi era guidata da Paolo Mascaro, alla guida di una coalizione di centrodestra. Anche per il Comune di Isola Capo Rizzuto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose non rappresenta un fatto nuovo. Un analogo provvedimento, infatti, era stato adottato nel 2003. A Cassano allo Jonio, appena lunedì scorso, era stata consegnata al sindaco, Gianni Papasso, del centrosinistra, una villa confiscata nel 2010 ad un presunto boss della ‘ndrangheta, Vincenzo Forastefano. L’intenzione del sindaco era di realizzare nella villa un centro "Dopo di noi", una struttura cioé in cui accogliere i ragazzi portatori di handicap che restano soli dopo la morte dei genitori.

Così i commissari devastano i comuni italiani, scrive Simona Musco il 24 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La denuncia dei sindaci “licenziati” dal ministro dell’Interno Minniti: «Sono incompetenti, non sanno amministrare e hanno svuotato le casse». Cinque comuni sciolti per mafia e commissariati in un giorno solo. Tutti e cinque in Calabria. Si tratta di Lamezia, Cassano allo Ionio, Petronà, Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa. E proprio da qui, dal paesino della Locride, si leva la voce di Domenico Vestito, il sindaco “licenziato” da Minniti e sostituito dai prefetti: «Quando sono stato eletto il lavoro dei commissari prefettizi era appena finito ed ho trovato un comune devastato, desertificato: le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari». E ancora: «Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», racconta il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». «I commissari hanno rovinato il Comune. Perché sarebbero migliori di noi?». Domenico Vestito era alla guida di Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, da quattro anni quando l’altro ieri la scure del ministro dell’Interno Marco Minniti lo ha “licenziato”. Marina di Gioiosa è l’ennesima amministrazione calabrese sciolta per infiltrazioni mafiose, un editto che non lascia scampo a nessuno. Nemmeno al sindaco Vestito, il giovane avvocato che ha preso in mano l’ente dopo due anni e mezzo di commissariamento. Allora i funzionari erano arrivati dopo l’arresto di sindaco e giunta, tutti arrestati e poi assolti.

E quando Vestito prese il posto dei funzionari, racconta oggi al Dubbio, quello che trovò dopo la gestione commissariale, era un deserto. Beni confiscati non utilizzati, immobili abusivi mai abbattuti, tasse non riscosse. E, soprattutto, tante spese, che hanno lasciato le casse vuote. «Un disastro», certifica Vestito, che denuncia l’inerzia dei commissari. «La macchina amministrativa, elemento cardine degli enti locali – spiega -, era identica a quella dell’amministrazione sciolta, quindi la commissione non riteneva di dover fare nessun cambiamento. Al mio arrivo, dunque, ho utilizzato gli stessi funzionari». Gli uffici non sono mai cambiati, le regole però sì, dice il sindaco. Che si era ritrovato in mano un Comune pronto a crollare. «Le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari», dice. Ma l’episodio chiave è la vicenda della caserma dei carabinieri, rilegata in due stanzette nei locali della ferrovia ma alla quale era destinato un palazzo confiscato al clan Aquino, che, all’arrivo della giunta Vestito, «era lì, abbandonato – racconta -. Mi sono mosso assieme al viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, recuperando un milione e 200mila euro». A disposizione ci sono ora tre milioni in totale ma tutto è fermo. Non c’è un appalto, c’è solo il progetto esecutivo e un nodo burocratico che nessuno scioglie. «Tocca al provveditorato alle opere pubbliche fare il prossimo passo ma è tutto fermo. Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», dice il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». Vestito non ha paura di parlare anche delle spese compiute dai tre commissari, verificabili attraverso i bilanci del periodo di gestione dell’ente. «Al mio arrivo ho trovato 30 utenze cellulari attive. Noi ne abbiamo lasciate quattro ai vigili urbani – racconta Vestito -. C’erano rimborsi per qualsiasi cosa: alloggiavano in hotel a Siderno ( a meno di 7 chilometri da Marina di Gioiosa, ndr) e veniva rimborsato anche il viaggio da lì. Ogni spostamento, le cene: tutto pagato dai contribuenti. Noi, invece, abbiamo tagliato le indennità e non abbiamo mai percepito un euro per missioni o rimborsi». A guidare la triade, inoltre, un ex prefetto, Fausto Gianni, condannato dalla Corte dei conti a pagare quasi un milione e mezzo di euro, racconta il sindaco. «Quando era vice capo del Sisde – nel 1992 – per l’acquisto di un fabbricato da destinare a sede del servizio segreto, che sarebbe avvenuto con fondi in nero. Perché loro erano adatti ad amministrare un Comune e noi no?», si chiede allora l’avvocato. Che emette una sentenza negativa sui commissariamenti, un sistema assolutamente sfilacciato. «Ho trovato incarichi assegnati a caso, aree vuote e l’ente senza avvocato e senza segretario», aggiunge. Il primo cittadino ha già annunciato ricorso con ogni mezzo contro il commissariamento. L’impressione è quella di un accanimento, mentre i sindaci intimiditi nella Locride rimangono soli, senza alcun colpevole per i troppi atti intimidatori che nei mesi scorsi hanno messo a ferro e fuoco la zona. «Se ci sono infiltrazioni mi devono dire chi si è infiltrato. Non abbiamo parentele scomode, né frequentazioni, nessun personaggio border line, solo gente che si spacca la schiena. Abbiamo avvertito pressioni, sì, ma in termini di calunnie – aggiunge -. Abbiamo detto dei no molto fermi, non abbiamo avuto paura di fare nomi e stavamo progettando l’utilizzo dei beni confiscati». La delusione è tanta. Soprattutto, dice Vestito, per il tradimento consumato nei confronti dei cittadini. «Oggi è stata uccisa la fiducia dei cittadini verso le istituzioni e la gente non crederà più a nulla – commenta -, tanto che nessuno sarà più disposto a candidarsi per rischiare di essere vilipeso in questo modo». E cita Corrado Alvaro: «I cittadini – conclude si stanno rendendo conto che essere onesti è perfettamente inutile».

La solidarietà di Ammendolia a Vestito e alle amministrazioni sciolte per mafia, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: L’associazione “22 ottobre” guarda con estrema preoccupazione al devastante attacco contro la democrazia e le garanzie costituzionali in atto in Calabria. Si colloca “senza se e senza ma” a fianco dei sindaci e delle Paesi colpiti da una legge illiberale e liberticida che ha procurato tanti danni nei luoghi in cui ha trovato applicazione. Sostituire 5 consigli comunali democraticamente eletti con funzionari di prefettura costituisce oggettivamente -ed aldilà delle competenze dei singoli commissari- un atto grave. Il fatto poi che gli scioglimenti avvengano soprattutto in Calabria, ed in particolare nella Locride dipende dal fatto che- col passare degli anni, s’è introdotto il concetto di “territori pericolosi” riferito alle zone particolarmente oppresse dalla ndrangheta e da uno “Stato” ingiusto e “separato” dai comuni cittadini. La storia di questi anni dimostra che non è questa la strada per sconfiggere la ndrangheta perché dopo ogni scioglimento si creano le condizioni per quello successivo. Inoltre, dopo ogni gestione commissariale i paesi risultano più scoraggiati e rassegnati che in precedenza. Si punta ad una repressione irrazionale per nascondere l’assenza di una qualsiasi strategia tesa a dare risposte ai problemi della Calabria. Iniziando dalla lotta all’esclusione sociale e all’emarginazione, alla tutela della pari dignità della persona umana. Non è sufficiente esprimere la solidarietà ai sindaci ed ai paesi colpiti. Il problema è politico ed è su questo terreno che bisogna dare una risposta adeguata. Occorre che tutti i cittadini di in particolare ciò che resta del tessuto democratico, e di quanti si sentono legati alla Costituzione siano consapevoli della partita che si sta giocando. Occorre mettere da parte ogni viltà. In gioco ci sono i destini della Calabria, della democrazia e della libertà dei singoli cittadini. La repressione irrazionale scoraggia i cittadini più motivati, disinteressati e consapevoli dalla partecipazione alla vita politica, aprendo la strada ad avventurieri e collusi di ogni risma. Nella Locride si svolge la partita più delicata. Non è normale che nel comune più grande del comprensorio- Siderno- operi, per la seconda volta in pochi anni, una commissione di accesso ed ancora meno il fatto che si sciolga il consiglio comunale di Marina di Gioiosa da poco uscito da un precedente commissariamento. Solidarietà al sindaco Vestito ed all’intera comunità di Marina. Lo abbiamo già fatto durante il precedente scioglimento nonostante fossero in carcere (da innocenti) gli amministratori di allora. Lo ribadiamo oggi. Non siamo canne al vento, ma in tutti questi anni, aldilà delle persone coinvolte, siamo stati sempre sul terreno della difesa della democrazia e per la difesa dello Stato di diritto. Convinti in questo modo di essere coerenti con quanti si sono battuti, hanno subito carcere e sono morti per dare all’Italia la Repubblica democratica fondata sulla Costituzione. Ci troviamo dinanzi al completo fallimento della teatrale strategia “antindrangheta” e per questo non si possono escludere pericolosi colpi di coda tesi a creare confusione ed allarmismo sociale. Una prima e forte risposta, può e deve essere data il primo dicembre alla nostra iniziativa che ha come tema “Meridionali e non criminali “. Iniziativa che si svolgerà presso l’Hotel President di Siderno alle ore 17 sarà presieduta dal giudice Mario Filocamo con la partecipazione di Giampaolo Catanzariti, Mimmo Gangemi, Ciccio Riccio ed altri mentre le conclusioni saranno tratte da Pino Aprile. La partecipazione in massa, molto più delle parole, sarà la nostra migliore risposta. Il coordinamento Ilario Ammnedolia.

Cinque brutte notizie per la democrazia, scrive il 23 novembre 2017 Paolo Pollichieni su "L’Altro Corriere". Il Consiglio dei ministri, facendo proprie le conclusioni del ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha decretato lo scioglimento di cinque consigli comunali per sospette infiltrazioni da parte della criminalità mafiosa. Tutti e cinque appartengono al territorio calabrese e tre di questi hanno già conosciuto l’onta di uno scioglimento per infiltrazioni mafiose. Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa Ionica, infatti, sono al secondo scioglimento nel giro di un decennio. Lamezia Terme vanta il triste primato di vedere sciolta la sua assemblea civica per la terza volta. Desta sorpresa, rispetto ai rumors della vigilia, la decisione riguardante Marina di Gioiosa Ionica, retta da un giovane sindaco componente il direttivo di “Avviso pubblico” (si dimise all’indomani dell’arrivo della commissione d’accesso) e composta, per la sua quasi totalità da giovani e da professionisti che non avevano mai ricoperto in precedenza alcun incarico pubblico. In precedenza lo scioglimento si era retto su una base quanto meno più consistente: l’arresto del sindaco (poi assolto con formula piena) e di alcuni assessori dell’epoca per concorso esterno in associazione mafiosa. Scaturì da quella vicenda giudiziaria la scelta di molti cittadini di mettere insieme una lista civica che risollevasse le sorti, e il morale, di una cittadina che si ritrovava a subire i colpi di due casati mafiosi e nel contempo anche la bocciatura sul piano della democrazia partecipata. Difficile ipotizzare adesso chi avrà voglia più di impegnarsi nella gestione della cosa pubblica comunale. Sorprende anche la decisione di sciogliere Cassano Allo Jonio, anche se in quella realtà le cosche il tentativo di condizionare le scelte dell’amministrazione comunale lo dispiegarono mettendo in atto una serie di intimidazioni contro il sindaco e i suoi più stretti collaboratori. Ultimo in ordine di tempo quello in danno del segretario comunale, consumato mentre era in corso la seduta del Consiglio comunale, il 22 ottobre scorso. A Cassano dello Jonio, per quel che se ne sa in attesa di leggere le motivazioni del provvedimento, più che gli amministratori sono finiti nel mirino della commissione d’accesso importanti pezzi della burocrazia comunale. E questo introduce una riflessione che riprenderemo in seguito, posto che l’attuale norma colpisce la gestione politica ma non intacca minimamente la struttura degli uffici comunali, anche laddove emergono segni evidenti di collegamento tra impiegati e uomini della ’ndrangheta. Nessuna sorpresa, invece, per Isola Capo Rizzuto, il cui scioglimento trae origine dagli arresti seguiti all’operazione “Jonny”, condotta dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Arena e che aveva tra gli indagati un consigliere comunale, Pasquale Poerio, finito in carcere, e anche il sindaco Gianluca Bruno eletto nel maggio 2013. Del resto quella indagine spinse il ministro degli Interni ad assumere direttamente la decisione di inviare una commissione d’accesso, posto che la stessa Prefettura di Crotone appariva coinvolta nell’inchiesta giudiziaria, ragione per la quale gli ispettori ministeriali sono stati spediti anche presso quella Prefettura per controllarne l’operato negli ultimi anni. Anche su Petronà a far pendere la bilancia dalla parte dello scioglimento saranno i rapporti di parentela che legano alcuni amministratori ad esponenti locali della ‘ndrangheta. Infine, Lamezia Terme. È il caso più lacerante, perché quella che resta la terza città calabrese per abitanti e il baricentro geo-politico della Calabria appare come una realtà quasi irredimibile, in presenza di un terzo scioglimento per mafia. Vale anche il contrario: Lamezia rischia di rappresentare la plastica dimostrazione di come sciogliere un Comune non produce la bonifica della pubblica amministrazione né una prospettiva di globale risanamento di quella realtà. Va anche detto, tuttavia, che a questo terzo scioglimento Lamezia ci arriva dopo un periodo di grande instabilità politica, come dimostra il forsennato turnover di una giunta comunale che in due anni ha visto uscire di scena ben otto assessori e ha registrato le dimissioni di tre vicesindaco. Un dato che molti, a iniziare dal focoso sindaco Paolo Mascaro, omettono di spiegare se non addirittura di ricordare. Sul punto rubiamo la riflessione che un profondo conoscitore della realtà lametina (l’ex parlamentare Italo Reale) ha scritto nei giorni scorsi, dopo avere sottolineato che l’ennesimo scioglimento sarebbe stata una iattura proprio perché condannava a una sorta di irredimibilità l’intero tessuto civico lametino. «Detto questo – scrive Reale – devo aggiungere che il sindaco sta lavorando, con grande passione, per arrivare allo scioglimento visto che non ha controllato le sue liste, permettendo le infiltrazioni che oggi paghiamo, ha tenuto alla presidenza del Consiglio un eletto il cui risultato potrebbe essere stato condizionato dall’acquisto di voti, un vicepresidente coinvolto in un processo di mafia, non ha spinto alle dimissioni chi poteva essere sospettato di collusioni, non ha accolto la richiesta del centrosinistra di una giunta autorevole al di sopra di ogni sospetto (facendoci assistere alle dimissioni periodiche dei suoi assessori) e con le modifiche che intendeva portare al Piano strutturale ha riaperto la polemica e i sospetti di favoritismi (se non di più) – che si accompagnano a decisioni con cui si trasformano decine di ettari da agricolo a edificabile. Ma soprattutto, ripetendo un errore già visto, il sindaco – conclude Reale – litiga con le istituzioni quotidianamente e non sfugge alla tentazione di buttarla in politica peggiorando una situazione delicatissima». Ciò detto, resta sul tavolo l’emergenza più grave, riguarda il restringimento progressivo di ogni spazio di agibilità democratica, in una regione che già è piagata da un crescente abbandono dell’esercizio di voto e da un altrettanto crescente rifiuto di impegnarsi nell’elettorato attivo da parte di professionisti, giovani, esponenti dell’imprenditoria e quanti sarebbero portatori di un sano interesse per il bene comune. Fenomeni, questi di fuga dall’impegno civico, giunti a un tale livello di guardia da spingere la Chiesa calabrese a riprendere l’iniziativa di un richiamo dei cattolici alla vita politica, ipotizzando, come ha fatto monsignor Bertolone che guida la Conferenza episcopale calabra, il “peccato di omissione” per quanti decidono di non prendere parte alla vita politica della comunità. In questo contesto molti hanno colpe che cominciano a diventare imperdonabili. I partiti, certamente, visto che ormai sono settari e dediti alla cooptazione. E i baronetti locali, pronti a chiudere gli occhi e tappare il naso davanti alle piccole convenienze proprie, salvo poi ammantarsi di un “mandato popolare” che nella maggior parte dei casi è frutto di clientela e che resta, in ogni caso, espressione di una piccola parte del corpo elettorale, visto che i voti espressi non superano il 46% e quelli validi scendo di altri undici punti in percentuale e vanno suddivisi anche tra quanti partecipano alla competizione elettorale senza vincerla. Le associazioni di categoria, incapaci di sedere al tavolo con chi governa mantenendo la schiena diritta ed evitando accordi clandestini quando non inconfessabili. Il mondo dell’informazione, che ormai scorrazza in una giungla selvaggia e senza regole: non sarà un caso se la Regione Calabria resta l’unica senza una legge per l’editoria e questo nel silenzio complice di tutti, a cominciare dai diretti interessati. Ma se queste sono le “colpe” in loco, non meno gravi residuano quelle più generali dovute a una legislazione superata e poco coerente con gli obiettivi che erano stati posti, in uno con un sistema di gestione da parte delle Prefetture sia delle procedure di accesso ai comuni, sia di gestione di quelli sciolti per supposte gravi infiltrazioni mafiose. Un tavolo tecnico su questo andrebbe aperto e con urgenza. Troppi “incidenti” stanno caratterizzando l’operato delle prefetture e troppi svarioni amministrativi restano a inquinare il campo dopo che i commissari lasciano i comuni commissariati. Probabilmente sarebbe utile a tutti se le associazioni dei comuni, invece di strumentalizzare, nel bene e nel male, singoli episodi, si impegnassero a realizzare un “libro bianco” da consegnare al primo ministro e al ministro dell’Interno. In questo potrebbero confluire i casi di comuni che nelle identiche condizioni vengono trattati con metro di giudizio diametralmente opposto. Quelli, numerosissimi, di assunzione o promozione sul campo di dipendenti comunali che, una volta ereditati dai nuovi amministratori si “scopre” essere parenti di mafiosi o mafiosi essi stessi. Il ricorso, per appalti e servizi, di ditte e imprese che si aggiudicano i lavori durante la gestione commissariale e poi vengono raggiunti da interdittiva mentre li eseguono in presenza dei nuovi amministratori eletti. Pietro Fuda, sindaco di Siderno, dopo un primo scioglimento per mafia di quel Comune, oggi anch’esso alle prese con l’arrivo di una commissione d’accesso, in conferenza stampa, rendendo omaggio alla sua proverbiale minuziosità, ha tirato fuori il provvedimento con il quale una società di riscossione era stata allontanata dal Comune su sua iniziativa, seguiva un ricorso al Tar, vinto dal Comune di Siderno, ma seguiva anche una inchiesta giudiziaria che faceva luce sull’opera truffaldina consumata da quella società di riscossione anche in danno di moltissimi comuni precipitati, conseguentemente, nel baratro del dissesto finanziario. Ad aprire le porte del Comune di Siderno a tale società, era stata proprio la triade commissariale insediata dopo lo scioglimento. La stessa società otteneva altrettante convenzioni in diversi Comuni, tutte firmate dai commissari prefettizi che, in molti casi, erano gli stessi che operarono a Siderno. Banali coincidenze? Sicuramente è così ma, visto che una ispezione non si nega a nessuno, forse sarebbe il caso che il ministero dell’Interno approfondisse la questione sollevata. Anche perché per sciogliere un’amministrazione comunale in molti casi basta pochissimo, visto che c’è una parolina, nel corpo della legge, che spalanca le porte a ogni interpretazione soggettiva. Il riferimento è al passaggio che indica come possibile causa di scioglimento il condizionamento degli amministratori «in maniera diretta o indiretta». Hanno insegnato che è proprio nelle pieghe dei dettagli che si annida il demonio, ecco: quella parolina, «indiretta», consente di estendere a qualsivoglia soggetto locale il rigore dello scioglimento. Laddove, poi, anche il reiterare atti intimidatori può rappresentare un modo “indiretto” di condizionare le scelte di un amministratore pubblico.

Scioglimento consigli comunali: possiamo continuare così? Scrive il 23 novembre 2017 Antonio Larosa su "Ciavula". Una premessa introduttiva, che s’impone in modo perentorio: non abbiamo nè le informazioni nè le competenze per contestare – nel merito e non per partito preso – un provvedimento così delicato come lo scioglimento di un consiglio comunale per accertate infiltrazioni di tipo mafioso. Lo vogliamo dire in modo forte e trasparente: bisogna rispettare il lavoro delle autorità preposte, e la prima forma di rispetto è evitare di ciarlare inutilmente senza nemmeno aver letto le effettive motivazioni di un atto di legge. Ciò detto e premesso, rivendichiamo comunque la libertà di muovere qualche dubbio e qualche perplessità sullo scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa Ionica. Più in generale, in ogni caso, è proprio lo scioglimento per mafia come mezzo operativo a convincere sempre meno. Vi è innanzitutto, da parte nostra e di tanti pezzi di opinione pubblica locale, l’incredulità connessa alla figura del Sindaco Domenico Vestito e della sua compagine amministrativa: in questi anni di governo di Marina di Gioiosa Ionica, abbiamo avuto modo di conoscere una squadra di amministratori vogliosa, sinceramente impegnata nel riscatto della propria cittadina, lungimirante nell’immaginare una pratica di governo incentrata su promozione culturale, tutela dei beni comuni e partecipazione democratica. Ci è personalmente difficile immaginare che l’amministrazione comunale possa essere collusa – direttamente o indirettamente – con le forze criminali che ammorbano il territorio. Domenico Vestito Vi è, successivamente, una valutazione di più ampio respiro sullo strumento dello scioglimento per mafia dei consigli comunali: l’utilizzo del quale strumento, continuiamo a scrivere in schiettezza e a voce alta, è diventato così assiduo e così puntuale da rischiare di svilirne quasi il senso. Proviamo a spiegarci meglio, maneggiando le parole con grandissima cautela. Il primo problema da indagare è quello della legittimità democratica. Un consiglio comunale è eletto in libere elezioni, è espressione del consenso dei cittadini: prima di intervenire con atti di polizia che ne decretino forzatamente la cessazione di legge, bisogna misurare accuratamente fatti e situazioni e verificare con la massima certezza che quelle infiltrazioni effettivamente vi siano e rappresentino impedimento al fisiologico divenire di un’amministrazione comunale. Non sempre, francamente, questa “delicatezza” di valutazione è stata messa in campo dalle autorità prefettizie e governative. E vi è anche il rischio dell’abuso di uno strumento che rimane di valutazione quasi poliziesca, il rischio di un governo democratico che può sempre conoscere fasi e situazioni di degenerazione derivanti anche dall’eccesso di potere riconosciutogli per legge. Il secondo problema è quello della “consistenza”, se così ci è lecito dire, della legge attualmente in vigore. In territori dalla forte presenza mafiosa (e i nostri lo sono indiscutibilmente), la pervasività ossessiva della criminalità organizzata spesso è di difficile contrasto frontale, necessitando di tempi e strumenti che vadano oltre un mero schema divisivo fra buoni e cattivi. Più prosaicamente, potremmo dire che un’amministrazione democratica necessita anche del giusto spazio fisico e temporale per individuare le pratiche di infiltrazione, i funzionari collusi, le scelte operative da compiere: il conclamato radicamento criminale, che si camuffa e si sovrappone anche con le parti sane della società, non deve essere motivo ulteriore di scioglimento (come pure la prassi degli ultimi anni lascia intravedere, con un’interpretazione di determinismo geografico-mafioso che ci sentiamo di respingere), al contrario si impongono modalità meno manichee e più persistenti di un atto d’imperio governativo (come lo scioglimento decretato da Roma). Il terzo problema che ci interessa sottolineare è invece connesso all’efficacia degli scioglimenti e dei commissariamenti conseguenti. Qui, ci soccorre direttamente la scelta compiuta dal Ministro Minniti nella riunione di consiglio dei ministri di ieri pomeriggio: Lamezia Terme sciolta per la terza volta in pochi anni, Marina di Gioiosa Ionica invece per la seconda volta. Ergo: i precedenti commissariamenti non hanno prodotto alcun risultato tangibile, mancando clamorosamente l’obiettivo di “ripulire” la macchina burocratica dei comuni interessati o di ripristinare un normale gioco democratico all’interno dello scenario politico-amministrativo locale. Torna, per altra via, la questione sopra riportata della “consistenza” della legge: davvero, un commissariamento forzato è in grado di garantire un contrasto più lungimirante alla presenza mafiosa eventualmente appurata? davvero, qualche commissario, calato dall’alto e senza legame alcuno con la società locale, può ricostruire le condizioni politiche e amministrative per restituire una comunità alla sua piena funzionalità democratica? Il Palazzo Municipale di Marina di Gioiosa Ionica Il rischio che stiamo correndo – ed è un rischio molto grave – è di triplice natura: da una parte, garantire alla criminalità organizzata una possibilità sempre più concreta di dissimularsi e di inabissarsi (se tutto è mafia, se tutto è colluso, in realtà va a finire che non lo è nulla); dall’altra, distruggere ogni fiducia nella partecipazione politica e nel gioco democratico (a cosa serve candidarsi alle elezioni comunali se poi basta un rapporto prefettizio perchè le elezioni vengano cancellate con un tratto di penna?); dall’altra ancora, produrre un pesantissimo danno di patrimonio simbolico e materiale (i continui scioglimenti infiacchiscono ulteriormente un’economia cittadina di per sè già flebilissima, oscurando qualsiasi ipotesi di attrattività turistica o di investimenti produttivi e accrescendo il risentimento popolare verso le forze istituzionali). Qualunque sia l’angolo di visuale prescelto per affrontare la questione, diventa sempre più impellente discuterne pubblicamente, magari provando a mettere in cantiere un doveroso aggiornamento delle misure normative attualmente in vigore.  

Lamezia Terme, comune sciolto per la terza volta. Cittadini: “Non ce lo meritiamo, non mafia ma atto politico”, scrive Lucio Musolino il 24 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Noi abbiamo massacrato il prestigio delle cosche con fatti veri e concreti che devono essere considerati quando si massacra il diritto costituzionale di una comunità di essere rappresentata da chi ha scelto quale sua guida. Questo è inaccettabile per una Nazione che asserisce di essere democratica”. Sulle note de “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano e della canzone “Un senso” di Vasco Rossi, ieri è stato il giorno di Paolo Mascaro, il sindaco di Lamezia Terme, uno dei cinque comuni calabresi sciolto per mafia. Per la cittadina, in provincia di Catanzaro, è la terza volta in 26 anni che subisce l’onta dello scioglimento per i condizionamenti della ‘ndrangheta. Al centro del provvedimento, disposto dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, c’è l’operazione “Crisalide” nell’ambito della quale nei mesi scorsi sono emersi i contatti tra alcuni affiliati alle cosche e qualche politici locali. “Avevo chiesto di essere dai ascoltato commissari – spiega il sindaco di centrodestra, durante il suo comizio – Questa richiesta è rimasta disattesa. Questa è l’antitesi dello stato di diritto e della democrazia. L’ho chiesto anche al ministro per difendere la mia terra. Si capisce che quando non si vuole ascoltare è perché la decisione deve essere presa in un certo modo. Quando avremo le motivazioni, dimostrerò in un giorno che non esiste un atto che si possa dire condizionato dalla criminalità. Per Lamezia siamo pronti a dare anche la nostra vita”. A margine dell’incontro, molti cittadini hanno difeso il sindaco Mascaro. “Non ha gruppi di potere alle spalle e si divertono”. “È uno schifo perché Mascaro stava dando l’anima per la nostra città”. “I figli dei lametini non meritano tutto questo”. “È tutta una cosa politica”. Qualche ora prima, sullo scioglimento del Comune di Lamezia Terme era intervenuto anche il presidente della Regione Mario Oliverio secondo cui “la ‘ndrangheta non ha mai smesso di tendere a condizionare e ad infiltrarsi nelle istituzioni. Lavorare in Calabria è molto più difficile che in Veneto o in Piemonte”. Chi è stato sindaco per due mandati a Lamezia Terme è Giannetto Speranza. Appena eletto, le cosche hanno incendiato il portone del Comune e lui è finito per tre anni sotto scorta: “Provo un sentimento di tristezza perché ho investito dieci anni della mia vita perché volevo riscattare Lamezia, il suo nome e la sua comunità. È molto difficile fare il sindaco in una città come questo”. Ripartire? “Me lo auguro con tutto il cuore che ci siano energie, coesione, concordia e rispetto ognuno dell’altro”.

Cassano allo Jonio tra i Comuni sciolti per mafia, il sindaco: "Per cacciarmi hanno utilizzato lo Stato", scrive Giovedì, 23 Novembre 2017, "Il Dispaccio". "Ci sono riusciti: dopo i dossier, le infamie, le trappole, dopo la persecuzione e la crocifissione, i miei avversari ed oppositori esultano: sono stato 'cacciato' nuovamente dal Comune. E questa volta per farlo hanno utilizzato lo Stato". Lo scrive in un post su facebook Gianni Papasso, sindaco di Cassano allo Jonio, uno dei cinque Comuni calabresi sciolti ieri dal Consiglio dei Ministri per condizionamenti della criminalità organizzata. "Pur di eliminarmi - aggiunge Papasso - hanno fatto in modo di far sciogliere il Consiglio comunale per mafia. Una gravissima offesa e umiliazione per la città. Sono prevalsi interessi palesi e occulti. E' stata commessa una gravissima ingiustizia non solo nei miei confronti ma, soprattutto, nei confronti dell'intera popolazione di Cassano/Sibari. Siamo stati sempre dalla parte della giustizia, della trasparenza e della legalità. La mafia l'abbiamo combattuta con determinazione e con azioni concrete. Siamo stati vittima dei delinquenti e di quelli che non vogliono il progresso della città. La nostra coscienza è pulita e trasparente. Continueremo a camminare a testa alta". "Non è finita qui, comunque. Ci difenderemo - aggiunge il sindaco di Cassano - in tutte le sedi, con la forza, l'abnegazione e la passione con cui abbiamo amministrato il Comune. Ci difenderemo fino alla morte!".

Comune sciolto per mafia non significa che tutti i suoi cittadini sono mafiosi, scrive il 23 novembre 2017 On. Enza Bruno Bossio su "Dire". Appena sono entrata nella Commissione parlamentare antimafia mi sono posta il problema di conoscere la procedura sugli scioglimenti dei Comuni (ieri sono stati sciolti Lamezia, Cassano allo Ionio, Marina di Gioiosa Jonica, Isola Capo Rizzuto e Petronà) che è collegato al Tuel (testo unico enti locali, ndr). Volevo capire come avvenisse. La prima questione da chiarire è che lo scioglimento di un Comune per mafia non è un atto penale, ma amministrativo. Viene sciolto alla luce di atti amministrativi scorretti. Tant’è che quando si fa ricorso a questo atto ci si rivolge al Tar. Ci sono stati alcuni casi di ricorsi al Tar andati a buon fine, penso a quello di Amantea (CS), sul quale il Ministero dell’Interno ha dovuto pagare non pochi soldi per questo episodio. Per cui fare il collegamento: comune sciolto per mafia e quindi tutti gli amministratori sono mafiosi, tutti i cittadini sono mafiosi, non va bene. Ci sono degli atti amministrativi che, prima la Commissione d’accesso, il Comitato per la sicurezza, il Prefetto e poi il Ministro decidono di portare a compimento per questa decisione. In questo senso mi è sembrata un po’ irrituale la dichiarazione della presidente della Commissione antimafia Bindi perché la documentazione sulla proposta di scioglimento non può arrivare in Commissione, prima che il Consiglio dei ministri prenda la decisione sullo scioglimento. E quindi nessuno di noi ha la possibilità di accedere a nessun documento ufficiale. Ora dobbiamo capire bene e leggere le carte, cosa che farò per ciascun Comune interessato. L’unica cosa che voglio dire con certezza ancor prima di aver letto le carte, poiché conosco Papasso personalmente, che il sindaco di Cassano allo Ionio è una persona perbene. On. Enza Bruno Bossio.

SCIOGLIMENTO COMUNI, L’OPINIONE DI PIETRO SERGI DI SINISTRA ITALIANA, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: Il dovere dello Stato di promuovere, tutelare ed incoraggiare chi vuole amministrare onestamente. Altri consigli comunali sciolti, altri presidi di Democrazia che spariscono! Non entro nelle vicende giudiziarie, non mi competono e dico solo: quelle facciano il loro corso. Io punto il dito su un altro aspetto: le Istituzioni sono assenti. Si sta verificando un vuoto di potere istituzionale, si avverte la mancanza del cuscinetto dello Stato tra un potere legittimo che va avanti per la sua strada, quello della magistratura, e i cittadini. Questo significa un duello diretto tra popolazione e Istituzione giudiziaria, mentre lo Stato latita. Il rischio è che la comunità accetti lo scontro con la magistratura e si vada verso un ulteriore inasprimento dei reati di ogni genere, mentre lo Stato latita o si nasconde dietro un altro potere, lavandosene le mani della questione Meridionale. La legge sugli scioglimenti va rivista, perché è una legge che NON tutela gli amministratori onesti, che fa di tutta l’erba un fascio e rinuncia a fare selezione di classe Dirigente locale, con ripercussioni verso l’alto, visto che spesso le carriere politiche cominciano – o sarebbe opportuno cominciassero – dal basso. Sono molto sensibile a questo problema, e provo a spiegarvi perché, partendo dalla convinzione che il sistema regionale e nazionale sia troppo permeabile alla corruzione e spesso alla cattiva amministrazione della cosa pubblica. Ma non si può generalizzare. Mi voglio soffermare soprattutto sulle piccole realtà, piccoli Comuni dove le elezioni amministrative rappresentano spesso un fatto folkloristico, oltre che politico, viste le loro dinamiche fatte da liste civiche spesso mischiate da sensibilità politiche tra le più distanti e disparate tra di loro. In questi piccoli comuni dove tutti si conoscono, spesso è difficile trovare persone disponibili a spendersi per un impegno amministrativo, e quando si riesce a trovarli sono ormai considerati degli incoscienti da tutti quanti. Non a torto, visto come vanno le cose. Parlavo della rinuncia dello Stato a fare selezione di classe Dirigente attraverso questa legge che butta sempre via il bambino con l’acqua sporca. Provo a spiegare con una metafora che prende in prestito il principio della mela marcia nella cassetta di mele sane. Ecco, se io ho due cassette di mele e in una mi accorgo che ce ne sia una marcia, non è che posso buttare via le mele buone con quella marcia, cassetta compresa. Perché poi: 1) Anche nell’altra cassetta ce ne potrebbero essere, se devo rifare tutto daccapo e 2) Non e’ detto che le mele buone della seconda cassetta, vista la fine che hanno fatto le mele buone della prima cassetta, abbiano ancora voglia di impegnarsi ad amministrare. Se invece si instaurasse un meccanismo dove non solo venisse buttata via la mela marcia ma si tutelassero maggiormente le mele buone, un meccanismo che fosse studiato per integrare le mele buone, avremmo incentivato l’impegno delle mele buone e consentito ad un’amministrazione di andare avanti senza essere costretta a ricominciare tutto daccapo. In caso contrario, quelle mele buone buttate via sarebbero marchiate vita natural durante dall’onta di uno scioglimenti per infiltrazioni mafiose, farebbero scattare anche un meccanismo di autodifesa non certo in coloro che “ci provano”, ma in quei cittadini onesti che non si vogliono più impegnare perché tanto vanno a casa onesti e disonesti, in una equiparazione ingiusta tra buoni e cattivi, mele marce e mele sane. Così, e torniamo al punto, si abbandona il DOVERE di selezionare le classi dirigenti. Questo senza nulla togliere alle capacità amministrative, e spesso umane, dei Commissari chiamati ad amministrare i comuni sciolti per infiltrazioni. Ma non rappresentano la normale prassi amministrativa di uno Stato Democratico. Insisto molto sulla necessità di rivedere la questione Meridionale inserendo la necessità di rimediare ad un Gap di Democrazia sempre più clamoroso ed evidente e ad interrogarsi sulla volontà di avere ancora dei presidi democratici intermedi e più prossimi al cittadino che li sceglie attraverso le elezioni locali. Credo sia importante che uno Stato, dunque, tuteli gli Amministratori onesti e persegua i meno onesti. Purtroppo, i tempi della Giustizia italiana sono più lunghi di intere legislature compiute, con il rischio di scoprire che si siano fatti degli errori giudiziari che avranno già compromesso l’azione di una amministrazione per ¾ fatta da amministratori che ben stavano amministrando. E insomma, molliamo lo sfasciacarrozze e muniamoci di cacciavite per aggiustare il motore. Altrimenti saremo costretti ad eleggere sceriffi e non Sindaci. Pietro Sergi, Direzione Nazionale di Sinistra Italiana.

Leggi speciali e ordinaria malagiustizia. Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, l'Orlando minore, non innamorato né furioso. E come se non ne bastassero le insensatezze che propone, va anche ricordato che era sostenitore del peggior sindaco d'Italia, tale Federici, promotore della famigerata piazza Verdi di La Spezia. Adesso si è attrezzato per il propagandistico obiettivo di promuovere una «legge contro la mafia in politica», oltre alle violente misure di prevenzione, le interdittive dei prefetti, gli scioglimenti dei Comuni per motivi moralistici o precauzionali. Leggi speciali in contrasto con l'attività della magistratura ordinaria. Non c'è più Falcone, non c'è più Borsellino, né si può contare sui loro fanatici ed esaltati eredi, colmi di pregiudizi e ansiosi di fare carriera. Ed è saltata la regola aurea secondo la quale un buon magistrato con una cattiva legge può emettere una sentenza giusta e rispettosa dei diritti costituzionali. Mentre un cattivo magistrato con una buona legge può fare disastri. Ancora l'invocazione di «strumenti nuovi per contrastare la mafia» Orlando, non pago dell'insensato processo Andreotti et similia, incrimina la politica a priori, affermando che «per essere impermeabili servono regole su partiti ed eloqui». Ce ne sono fin troppe, a partire dal grottesco «traffico di influenze». Qui, nonostante il referendum, a essere continuamente violata è la Costituzione. Ma Orlando non l'ha letta.

Sgarbi risponde in video a Cancelleri e attacca M5s. «In aula sarò leone senza gabbia e vi mangerò vivi», scrive Salvo Catalano il 13 novembre 2017 su Meridionews. L'assessore di Musumeci replica all'intervista del leader del M5s a MeridioNews, in cui aveva annunciato di voler querelare il critico perché lo aveva avvicinato alla mafia. «Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare», rincara la dose prima di difendere il suo operato a Salemi, sciolto per infiltrazioni. Vittorio Sgarbi risponde con un video sul suo canale Youtube all'intervista di Giancarlo Cancelleri a MeridioNews. Il leader del Movimento 5 stelle siciliano aveva annunciato l'intenzione di querelare il critico d'arte - assessore in pectore, ai Beni culturali, della giunta di Nello Musumeci - per averlo accostato alla mafia. «Non posso pensare che sei mafioso o che la mafia si preoccupi di te - attacca Sgarbi, dopo aver letto in video l'articolo - dico che il progetto che hai messo nel tuo ridicolo programma per i Beni culturali coincide con quello della mafia: distruggere il paesaggio e disseminare la Sicilia di pale eoliche. Energie rinnovabili questo vuol dire. Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare a fare». Al centro del botta e risposta tra i due c'è il programma del candidato pentastellato. Che, nel paragrafo destinato all'energia, parla di come usare gli impianti eolici esistenti e in particolare della volontà di «ricavare 5 milioni 900mila MWh di energia elettrica prodotta con impianti eolici sia con il revamping degli impianti esistenti che con una eventuale dismissione e ricollocazione di alcuni impianti in siti ritenuti più idonei per ragioni di tutela paesaggistica e/o di distribuzione degli stessi in tutto il territorio regionale al fine di evitare la concentrazione in alcune aree». Sgarbi quindi continua a passare in rassegna le parole di Cancelleri a rispondere punto per punto. A cominciare dalla vicenda di Cateno De Luca. «De Luca risulterà innocente, non rientra tra le figure dei criminali ma dei comici, delle figure grottesche o anche patetiche, ma non si infierisce su una persona che non ha fatto nulla». Subito dopo torna a parlare di mafia, in riferimento di Salemi, Comune di cui il critico è stato sindaco tra il 2008 e il 2012 e che è stato sciolto per rischio infiltrazioni subito dopo. Vicende ricordate da Cancelleri nella nostra intervista a cui Sgarbi replica: «Se fosse giusto sciogliere i Comuni per mafia dopo 20 anni 30 anni da quando la mafia c'era e tutti sono al cimitero - afferma - ci sarebbe un avviso di garanzia per mafia, che invece non c'è. Salemi è stato sciolto ingiustamente per mafia, come Corleone, come tutti quei luoghi che hanno un nome che serve a riempirvi la bocca di mafia dove la mafia non c'è». Il comune trapanese fu sciolto per mafia anche per la presenza ingombrante, a detta degli inquirenti, di Pino Giammarinaro, ex uomo forte della Dc, sull'amministrazione di Sgarbi, al punto da essere definito «un prosindaco». Giammarinaro è stato assolto nel processo in cui era accusato di concorso esterno alla mafia, ma continua a essere ritenuto socialmente pericoloso e lo scorso aprile il Tribunale di Trapani ha disposto la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per cinque anni e la confisca dei beni per un totale di 15 milioni di euro. In quel provvedimento ampio spazio è dato ai suoi rapporti con Sgarbi. Nella videoreplica, infine, Sgarbi risponde a quella che definisce «una profezia» di Cancelleri. «Durerà meno di Battiato», aveva detto il grillino in riferimento al cantautore catanese che fu, per brevissimo tempo, assessore nella prima giunta Crocetta. «Sarebbe stata una buona cosa che Battiato ci fosse, lo rimpiangerete, forse rimpiangerete anche me, questa specie di profezia è la prova della tua mente vuota e piccola. Non vi divertirete perché vi mangerò vivi - attacca ancora - con me in aula sarà come avere un leone, una tigre senza catene, senza gabbia». Da parte di Cancelleri solo una battuta: «Se io avessi usato lo stesso vergognoso e intollerabile linguaggio violento, sarei su tutte le pagine dei giornali nazionali. Da Sgarbi violenza verbale inaccettabile, Musumeci dovrebbe prenderne le distanze».

Cateno De Luca: «Io, perseguitato dalla giustizia», scrive Simona Musco il 22 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Parla il neodeputato dell’Assemblea regionale siciliana. «Le regole non valgono per i magistrati: possono tenerti anche 10 anni sotto pressione e guai se qualcuno dice qualcosa». È un rapporto tutt’altro che sereno quello di Cateno De Luca con la magistratura. Un rapporto iniziato nel 2011, con il primo arresto, e non ancora chiuso. Il neo eletto deputato dell’assemblea regionale siciliana, fresco di scarcerazione ma ancora accusato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, racconta al Dubbio la sua battaglia contro quella che chiama «persecuzione» e che lo ha portato a depositare già due esposti contro la magistratura, mentre il terzo è pronto per essere presentato.

Onorevole, perché parla di persecuzione?

«Per la consistenza delle accuse. A Messina ci sono alcuni magistrati che fanno il bello e il cattivo tempo. E sulla scorta di questo agiscono per condizionare le dinamiche politiche. Il 4 marzo 2012 ho fatto un comizio di quasi quattro ore, denunciando tutto e nel giro di 15 giorni sono stati aperti dieci procedimenti penali contro di me. Ad ogni mia azione corrisponde una reazione della procura. L’arresto di quale giorno fa si basa sulle stesse carte sulle quali il gup aveva già deciso il non luogo a procedere nel 2014. Sono anni che i fatti per cui mi processano sono sempre gli stessi e per aggirare la scadenza dei termini fanno partire dal troncone principale d’indagine dei sub procedimenti. Ecco come funziona la giustizia, i tempi li decidono loro, le regole non valgono per loro. La mia colpa è essermi ribellato sin da subito: sono andato allo scontro e hanno chiesto la mia testa».

Ma perché dovrebbero avercela con lei?

«Dobbiamo partire da chi era De Luca prima di essere arrestato. Il 2 aprile 2011 ho organizzato un manifestazione per lanciare il progetto antisistemico “Sicilia Vera”. Abbiamo raggiunto subito il 3 per cento. Davo fastidio. Mi sono scontrato con tutti, da Cuffaro a Lombardo. La battaglia più forte è stata quando si sono svenduti gli immobili creando un buco da 900 milioni. E siccome c’era contiguità tra la giunta Lombardo e la procura eccomi qua. Ovviamente non dico che il mandante è Lombardo, non me ne frega niente, ma mi attengo a quello che ho subito. Al di là di quelle che possono essere le mie motivazioni, chiunque guardi la mia storia giudiziaria lo vede che non è lineare. Se ancora oggi non ho avuto una condanna penale qualcosa vorrà dire».

Dopo l’arresto lei ha accusato magistrati e guardia di finanza di aver falsificato gli atti. Come avrebbero fatto?

«L’ultima indagine è legata al ruolo della Fenapi e alle società ad essa collegate. Ma per accusarmi i pm perché hanno applicato norme generali e non norme di settore e lo hanno fatto in malafede. Il pm aveva chiesto l’arresto a giugno 2014, tre anni fa. In mezzo ci sono state dichiarazioni false, che non sono state riscontrate. La legge allora prevedeva che scattasse il penale dopo la contestazione di una certa cifra. Nel frattempo, nel settembre del 2015, il legislatore ha stabilito che tutti i reati scaturiti da spese non inerenti venissero depenalizzati, perché frutto di interpretazioni formali. Ma il pm ha riqualificato il reato e così le spese non inerenti sono diventate “artifizi e raggiri”. Ora voglio sapere perché la guardia di finanza ha dichiarato il falso, perché un avvocato ha dichiarato il falso e che mi si spieghino le perizie false».

In che senso false?

«Il pm, che dovrebbe essere terzo, non può imporre al consulente tecnico di trovare il reato. Tutta l’impostazione della ctu è viziata da questa forzatura. Cosa che abbiano chiesto al tribunale di Reggio Calabria di accertare. Quella perizia non tiene conto della nostra produzione documentale, dunque molte cose sono state ignorate. È successo perché non sono stati consegnati o perchè valutandoli non avrebbe retto l’accusa?»

L’avvocato di cui parla è quello che ha ricondotto a lei le società coinvolte nell’indagine?

«Quello che ha tentato l’estorsione nei nostri confronti. Noi lo abbiamo mandato a quel paese e ce l’ha fatta pagare. Ci aveva chiesto una percentuale sulla verifica fiscale, ma quando abbiamo chiesto ai luminari del settore se fosse normale ci hanno detto che era una follia. Così questo avvocato ha fatto un esposto alla guardia di finanza, guarda caso, querelando il presidente della Fenapi, Carmelo Satta, che con una nota molto pesante gli aveva revocato il mandato. A febbraio 2017 la querela è stata rimessa, ma la finanza l’ha portata al pm, che ci ha accusati di associazione a delinquere, pur senza riscontro. Ora siamo fuori ma non siamo contenti del provvedimento. Ha lasciato delle zone d’ombra che non ci soddisfano e quindi impugneremo l’ordinanza».

Lei è stato definito “impresentabile”. Querelerà anche Rosy Bindi?

«Impresentabile in base a cosa? Sono incensurato. Rosy Bindi mi deve dire quali in base a quale norma non avrei potuto candidarmi, quali sono queste informative di procura e prefettura. Io voglio essere tutelato dallo Stato! Chiederò un risarcimento a tutti, perché è come fare le liste di proscrizione».

Ha sentito il presidente Musumeci?

«No, ma l’ho rimproverato pubblicamente: la deve smettere di inseguire il campo della demagogia perché non è un pm, è il presidente della Regione e deve governare. E il fatto di continuare ad inseguire la Bindi sul codice deontologico è sbagliato. La politica sbaglia quando invade il campo della magistratura facendo processi in continuazione, mentre la magistratura fa quello che non fa la politica: governa indirettamente».

GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.

Sei sgradito a Libera di Don Ciotti? Allora fai giornalismo “mafioso”. Ignoti penetrano nello studio di un avvocato vicino a Libera e frugano tra le carte. La reazione dell'associazione antimafia, scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 10 dicembre 2016. Libera, l'associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio dell'avvocato Rando al "linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità". Il riferimento è ad un paio di articoli pubblicati su un quotidiano di Modena diretto da Giuseppe Leonelli. Qualche giorno fa è successo un episodio spiacevole. Ignoti sono entrati nello studio di Enza Rando, noto avvocato, numero due di Libera, che rappresenta l’associazione di Don Luigi Ciotti in diversi processi alla criminalità organizzata in Italia.  Tra venerdì 25 e sabato 26, Novembre delle persone sono entrate nel suo studio legale a Modena mettendo mano a carte e fascicoli, ma senza portare via quasi niente. Indagano polizia e Procura, l’episodio è preoccupante, l’avvocato Rando merita tutta la solidarietà di questo mondo. E’ una professionista seria e stimata. Tuttavia, dato che siamo dalle parti dell’antimafia, e di un certo modo di intenderla, non posso non notare alcune circostanze. Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio di Rando al “linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità”. “Linciaggio mediatico”, “manipolatori della verità”. Espressioni forti e un po’ fuori luogo, se mi posso permettere (e chissà che non venga considerato “linciaggio” anche questo mio pensiero). Perchè parole così fanno capire che c’è stata chissà quale campagna denigratoria, su mezzi potentissimi, con verità distorte ad arte.  Le espressioni di Libera sono state poi seguite poi da alcuni commenti di esponenti locali del Pd (di cui Libera a Modena e provincia rappresenta, da quello che ho visto nei miei giri emiliani, una specie di longa manus…) che parlano di “campagna diffamatoria”. Giusto per metterci il carico da undici. A meno che non mi sia perso qualcosa (e ciò non andrebbe sicuramente a vantaggio dell’efficacia della “campagna denigratoria…” di cui sopra), in realtà il riferimento è ad un paio di articoli (ma quale linciaggio…) che questa estate sono stati pubblicati sul quotidiano di Modena, Prima Pagina, diretto da Giuseppe Leonelli. Proprio Leonelli aveva sollevato alcuni dubbi circa i tanti incarichi che ricopre l’avvocato Enza Rando, pubblicando da bravo giornalista, anche i relativi compensi: 25mila euro dalla Regione Emilia Romagna per il “Testo unico” su mafia e dintorni, 20.400 euro da Sorgea nel 2014, 96mila euro dalla Provincia di Modena nel 2010 e 25mila euro nel 2013, 49mila euro dal Comune di Nonantola. Oltre a percepire 51mila euro all’anno come membro del cda della Fondazione Crmo. Fa senso che si parli di “linciaggio” o di “diffamazione” (e che a farlo sia tra l’altro un avvocato, Rando, che dalle accuse di diffamazione difende i giornalisti vicini a Libera), quando in realtà Leonelli ha solo messo ordine tra gli incarichi della numero due di Libera. Nulla di che. Non sono soldi rubati, anzi, sono soldi, tanti, sicuramente strameritati. Tuttavia il numero e la qualità degli incarichi, unito al ruolo che l’avvocato di Libera ricopre in diversi processi e nella stessa associazione antimafia di Don Ciotti potrebbe far venire il dubbio della “opportunità” della commistione di tutta questa roba insieme. E’ linciaggio dirlo? Sulla vicenda anche i Cinque Stelle hanno presentato un’interrogazione alla Regione Emilia Romagna.  Ma l’unica risposta, al momento, è stata che, il referente provincia di Libera a Modena, tale Maurizio Piccinini, ha definito il giornalista Leonelli “oggettivamente al fianco delle mafie”. Attenzione all’avverbio: oggettivamente.  Le parole sono importanti. Oggettivamente: cioè senza ombra di dubbio, senza tema di smentita, come è vero che la mattina oggettivamente il sole sorge e oggettivamente tramonta, si è “oggettivamente al fianco delle mafie” per aver sollevato i dubbi su Libera e Rando. Non solo. Leonelli, senza tanti giri di parole, è in maniera strisciante ritenuto il mandante morale delle intimidazioni subite da Rando negli ultimi giorni. Si può andare avanti così? Oggi Prima Pagina non c’è più. Il giornale ha chiuso, come sta accadendo purtroppo a tante piccole voci libere in giro per l’Italia. Leonelli rimane un bravo giornalista, ma disoccupato. Sarebbe stato giusto che Libera, che tanto si spende per i giornalisti “amici” in note di solidarietà, costituzioni di parte civile, diverse forme di tutela, avesse spesso due parole per quel giornale, e per quel giornalista, che di fatto ha subito, da Libera e dal Pd, lo stesso trattamento fatto di accuse e offese, che io, tanto per dire, solitamente ricevo da ben altri ambienti, quando mi occupo di mafia. Si dice sempre che quando muore un giornale è una grave perdita per la comunità, che le mafie vogliono il silenzio, che una voce libera (l minuscola) è fondamentale per la legalità. Sono alcune delle frasi di circostanza che nei miei anni di frequentazione di Libera (L maiuscola) e dintorni mi avranno ripetuto certe volte. Evidentemente, non è così per tutti. Siccome, poi, basta un mezzo insulto su Facebook, una piccola insinuazione, un insulto sguaiato, a fare scattare la macchina di solidarietà intorno ad un giornalista “antimafia”, mi chiedo se anche Leonelli non debba avere qualche tipo di solidarietà, dall’Ordine dei Giornalisti, da strutture come Ossigeno per l’informazione, per il trattamento che ha subito. Perché se fossero stati gli ambienti vicini all’avvocato di un mafioso a parlare di “campagne denigratorie”, eccetera, ci sarebbero state le prese di posizione di Ordine dei Giornalisti e associazioni varie, le fiaccolate, la classica lettera dei parenti delle vittime di mafia e l’ashtag pronto all’uso #siamotutti… Invece nessuno ha parlato. Oggettivamente. Nessuna solidarietà al povero Leonelli. Per ora, ha la mia. Lui come Enza Rando. Hanno entrambi la mia solidarietà.   E più di tutti ce l’ha la povera signora ragione. Ormai si è persa, nel labirinto del fanatismo dell’antimafia.

L’Antimafia con le corna a posto e noi col dolore fitto. Dopo il caso Pino Maniaci, eccovi alcune riflessione da chi ha scritto il libro "Contro l'Antimafia", scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 9 maggio 2016. In tanti mi chiamano. Perché io ho scritto questo libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go. E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto... Io non avevo previsto un bel nulla e in questo momento provo solo dolore e paura. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? Con la verità. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. Regnano la confusione e la paura, dopo che il giornalista antimafia più famoso al mondo, Pino Maniaci, è stato raggiunto da un divieto di dimora in Sicilia Occidentale, perché è indagato per estorsione. I particolari li conosciamo tutti. E ci sono queste intercettazioni terribili, terribili. In tanti mi chiamano. Mi chiedono, si sfogano. Perché io ho scritto questo libro qua, Contro l’antimafia, un libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go.  E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto. O c’è chi dice: ecco, ora il distruttore dell’antimafia potrà ancora delirare un altro po’. Deludo entrambe le categorie. Io non avevo previsto un bel nulla. E in questo momento provo solo dolore e paura. Per essere più precisi, perché di precisione abbiamo bisogno, di esattezza, di chiamare le cose per nome, oggi più che mai, è un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. E’ il bruciore lo sapete cos’è? La coscienza che è tutto finito. L’antimafia è finita, lo dico dal punto di vista narrativo, di sequenza logica dei fatti. Mai avrei pensato, mai, che un giorno, il mio essere “antimafioso” sarebbe dipeso da alcune domande: ma 466 euro sono un’estorsione? E qual è il valore minimo di un’estorsione? Perché all’improvviso i carabinieri fanno video che neanche nelle serie su Sky hanno questo montaggio qui? E Antonio Ingroia iper garantista che parla come gli avvocati che lui fiero combatteva poco tempo fa, non è anche questa la fine dell’antimafia? E che vicenda sporca è mai questa? E’ come quella di Saguto, come quella di Montante. Mille ragioni, mille verità, un grande disorientamento. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

Pino Maniaci lo conosco poco e non leghiamo tanto, come non riesco mai ad entrare in sintonia con tutti quei personaggi un po’ guasconi, che indossano una medaglietta e ottengono il massimo risultato di popolarità con il minimo sforzo di applicazione, grazie ai super poteri dell’antimafia. Ha avuto grandi meriti, Maniaci, a Partinico e dintorni. Mi ricordo le battaglie sulla distilleria Bertolino, ad esempio, certi suoi servizi arrembanti. Non ho mai sopportato un suo certo modo di fare giornalismo.  Una volta mi trovai davvero in difficoltà con lui ad Agrigento. Si parlava di mafia, ovviamente, e lui esordì con una serie di battute, di dubbio gusto, per poi fare il pezzo forte del suo repertorio, parte finale di un monologo tutto intriso di un dialetto fastidioso: l’appello a Matteo Messina Denaro affinché si arrendesse, fatto con queste parole: “Matteo soldino figlio di buttana arrenditi”. Ecco, non credo che sia giornalismo, questo, è un’altra cosa. Ho tentato di spiegarlo a Pino, ma proprio non ci siam intesi.  Negli anni ‘70 Peppino Impastato aveva un coraggio da leoni ad aprire il microfono di Radio Aut e dire: “La mafia è una montagna di merda”. Perché la mafia non esisteva (non c’era neanche il reato nel nostro codice penale), e perché i mafiosi ce li aveva a casa, accanto, dappertutto. Oggi se io alla radio dicessi “Messina Denaro pezzo di merda” non sarei un giornalista, ma uno – forse un ciarlatano – che cerca il gioco facile della popolarità gridata, anziché la sfida della complessità: raccontare storie vere, comporre e decomporre i fatti, non fermarsi all’evidenza delle cose, agli slogan. Ovviamente questo mio giudizio su Maniaci, come altri su altri campioni dell’antimafia, poteva essere espresso solo a bassa voce e con circospezione, dato che chiunque criticasse il simpatico Pino veniva tacciato di “mafieria”. Io ho scritto Contro l’antimafia anche per questo, per liberarmi di tutti questi silenzi. Mi dava fastidio il tono di Maniaci (che ha fatto comunque anche un sacco di inchieste importanti, ripeto), come avesse avuto un titolo ad honorem di giornalista nonostante la fedina penale non proprio pulita pulita (un reato, se lo commette un campione dell’antimafia è un peccato di gioventù, un segno di necessità…), come la sua redazione fosse basata sul lavoro di volontari (se lavori per l’antimafia non in regola mica è lavoro nero, è un grande volontariato per la salvezza delle anime belle della Sicilia) come gli avessero regalato videocamere e mezzi che a noi, giornalisti con le pezze al culo senza doppio lavoro e con la nostra libertà come unico prezioso patrimonio, non erano concessi. A Partinico erano e sono in tanti a pensare cose non proprio edificanti, sul suo conto. In molti sapevano, anche. Dei cani, dell’amante. Me lo avevano anche detto, sempre a bassa voce, sempre con la paura di farsi sentire. Perché se ti mettevi contro Telejato cominciava in televisione lo sputtanamento, dicevano. Chi ci è passato lo sa. C’è questo clima di terrore che certi campioni dell’antimafia riescono a creare, che ho visto a Partinico come altrove. Non puoi criticarli, mettere in dubbio il loro operato, cercare una contraddizione. Non puoi, proprio non puoi. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? E’ la domanda che mi fanno tutti, in questi giorni. Soprattutto giovani. E io risposte non ne ho. Non lo so. Perché è una domanda che ognuno si deve fare e risolvere da sè. Con umiltà, attenzione, concentrazione e responsabilità. Non è il caso di parlare una questione morale, la questione morale ognuno se la sbriga a modo suo, guardandosi allo specchio. Ah, e non c’è una mafia dell’antimafia, come sento dire in questi giorni: ci sono truffatori, bellimbusti, bulletti e criminali, vittime e impostori. Sono dappertutto, nel giornalismo come nella magistratura. Nessuno è esente. Fa danni Maniaci, come il magistrato che si occupa di mafia e si sente una specie di Robin Hood, il parente della vittima che si improvvisa sociologo e riversa sugli studenti le sue bislacche teorie, l’avvocato che campa con le costituzioni di parte civile un tanto al chilo, il politico che cerca mafia dappertutto per giustificare la sua elezione avvenuta, ovviamente, “in nome dell’antimafia”. Facciamo danni tutti noi, ridotti al rango di pubblico. Abbiamo rinunciato al gusto, si, al gusto, di essere cittadini. Cerchiamo eroi da venerare, santi da portare in processione, miti da inondare su Facebook di pollici all’insù, vorremmo avere un cazzo di eroe antimafia dei nostri tempi al giorno. Abbiamo rinunciato a comprendere le cose, ad interrogarci – ogni dubbio viene visto come sfrontato – abbiamo ridotto la parola “intellettuale” quasi a offesa. E così, per citare il nostro Pino, anche noi, ci siamo messi le corna a posto. No, soluzioni non ne ho. Se non quella della responsabilità. E la responsabilità, per me, è raccontare le cose. Racconto le cose, e magari le indico, così uno le sa, e non può dire un giorno: chi lo avrebbe mai detto…Se tutti ricominciassimo da questo, dal segnalare, con serenità, piccole e grandi storture in quella che chiamiamo “antimafia”, porre dubbi, eviteremmo scandali futuri. Faccio due esempi, mica mi nascondo. Sono due casi che riporto in Contro l’antimafia. Ci sono sviluppi. Il primo caso riguarda l’associazione antiracket di Marsala, che porta il nome di Paolo Borsellino, e ha come dominus l’avvocato Giuseppe Gandolfo, noto in città anche per le tante candidature tentate in diverse competizioni elettorali e per aver fondato il locale presidio di Libera, per poi passare a farsi una “Libera” tutta sua, questa bislacca associazione, appunto.  Ho raccontato in “Contro l’antimafia” la cosa strana, l’anomalia, dell’associazione antiracket di Marsala la cui attività e vicina allo zero, che da un giorno all’altro cambia statuto (e sceglie il nome aulico di “Paolo Borsellino”), allarga a dismisura il suo oggetto sociale, apre sedi fittizie in varie parti d’Italia e comincia a costituirsi parte civile nei processi che si tengono qua e là per la penisola. Secondo voi è normale che l’associazione antiracket di Marsala, che nella sua attività non ha mai assistito uno (dico uno!) tra imprenditori  e commercianti nella denuncia del pizzo, che ha prodotto nell’ultimo anno solo uno (dico uno!) manifesto in unica copia (dico una!) affissa nel panettiere di fronte ad una scuola, che ha  una base di tesserati composti da amici, collaboratori e loro parenti e affini dell’avvocato Gandolfo, dico, secondo voi è normale che questa associazione si costituisca parte civile nel processo contro la ‘ndrangheta a Bologna? Qualcosa di strano è accaduto, in questi anni, se un’associazione siciliana, molto di facciata, abbia questa attività processuale tale da sentirsi parte offesa per l’attività di una cosca calabrese in Emilia. Questo racconto nel libro. La novità, adesso, è che il Gratta & Vinci ha funzionato. Nel processo, che si è chiuso qualche giorno fa, sono stati riconosciuti all’associazione antimafia di Marsala ben 20.000 euro di risarcimento danni e 7000 euro di spese legali. Che un giudice a Bologna decida che una cosca calabrese infiltrandosi in Emilia abbia danneggiato per 20.000 euro un’associazione antiracket di Marsala è una cosa sulla quale siamo chiamati ad interrogarci. Ancora. Cosa farà l’associazione antiracket con quei soldi? Cosa ha fatto con gli altri soldi ottenuti negli altri processi? Domande da fare ora, per evitare scandali futuri, domani. Il vigneto “antimafia” abbandonato. Un altro caso riguarda un terreno confiscato a Michele Mazzara, imprenditore di Paceco, “U Berlusconi di Dattilo”, lo chiamano, al quale sono stati confiscati beni per 26 milioni di euro, perché è ritenuto molto vicino alla famiglia mafiosa di Trapani. Il terreno in questione è un vigneto in Contrada Gencheria, gestito dalla cooperativa “Lavoro e non solo”, che fa parte del circuito di Libera ed è di Corleone. Quel vigneto è completamente abbandonato. L’uva se la mangiano i cani.  In “Contro l’antimafia” mi chiedo: ha senso dare un terreno ad una cooperativa che non ha interesse a coltivarlo e che magari ha interesse solo a registrare gli ettari per ricevere i contributi dovuti? Nessuno mi ha mai risposto.  Il terreno è lì, sempre abbandonato, come tantissimi altri. Ecco due piccole questioni. Ne potrai citare decine di altre, ma è difficile. Troppo doloroso. Sempre quel bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

Giacomo Di Girolamo. Sono nato nel '77, vivo in Sicilia occidentale, mi occupo di mafia, corruzione, tutela del territorio. Scrivo, tra gli altri, per Tp24.it, La Repubblica e Il Sole 24 ore. Dalla radio della mia città, Marsala, trasmetto la rubrica Dove sei, Matteo? nella quale mi occupo di Matteo Messina Denaro, boss tra i più ricercati al mondo, su cui ho anche scritto il libro L'invisibile (2010). Nel 2012 ho pubblicato Cosa Grigia, libro-reportage sulla mafia che cambia. Nel 2014 ho scritto Dormono Sulla Collina. Ho vinto il Premiolino e i premi Ambiente e Legalità e Libero Grassi. Per la mia attività giornalistica sulla mafia in provincia di Trapani, il sindaco della mia città mi ha citato in giudizio, chiedendo 50.000 euro per “lesione dell'immagine dell'ente”.

ANTIMAFIOSO SI NASCE O SI DIVENTA?

Leonardo Sciascia (1921-1989). L’intransigenza di Leonardo Sciascia. «Scrivo solo per fare politica». «A ciascuno il suo». Il libro divenne un film diretto da Elio Petri con Gian Maria Volontè, scrive Felice Cavallaro il 7 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Bisogna scartabellare fra i cimeli del Museo del cinema di Torino per immergersi nel carteggio fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri, il regista che portò sul grande schermo A ciascuno il suo, il secondo giallo dello scrittore di Racalmuto dopo Il giorno della civetta. Contesti analoghi per raccontare già a metà degli anni Sessanta i disastri della corruzione e della mafia. Con un omicidio passionale trasformato in paravento per celare un mix di forze occulte impastate di mafia e omertà. Un intrigo «politico», nel solco di una vocazione enunciata fra le lettere della media-biblioteca piemontese. Materia prima per Petri, stupito dall’intransigenza di Sciascia nel carteggio analizzato da uno studioso universitario, Gabriele Rigola, autore di un saggio sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Severa intransigenza espressa da Sciascia, dopo una intervista di Petri al «Popolo», nella lettera dell’8 settembre 1966, a ridosso delle riprese, contrariato dalla sbandierata scelta del regista di non fare un film «politico». E lui, il maestro di Regalpetra, con aria di rimprovero: «Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia...». Immediata la replica di Petri, appena arrivato a Cefalù per le prime scene del film con Gian Maria Volontè, protagonista della storia ispirata dall’assassinio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, caduto sei anni prima ad Agrigento. Romanzo che ruota attorno alla traduzione dal latino di «unicuique suum», frase stampata sulla lettera minatoria introdotta come reperto di indagine sin dalle prime pagine del racconto. E del film. Inquietante missiva composta con vocali e consonanti ritagliate da una copia de «L’Osservatore Romano». Petri legge e risponde ai colpi di fioretto. Si smusserà infine l’equivoco, ma intanto la replica è a prima vista stizzita: «Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, i notabili, “L’Osservatore Romano”, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un’opera sulla cui materia di ricerca, prevalga — incomba — una tesi politica, che in questo senso è propagandistica». E sempre più incisivo: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico». La stima era fuori discussione e Sciascia faceva precedere quel rimprovero da una convinzione: «Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso un film che non avrà niente a che fare col racconto...». Considerazione confermata dopo aver visto il film, il 10 marzo 1967: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare che non c’è stato alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa». Emerge dal dialogo a distanza un’idea del rapporto e della libertà rivendicata per la scrittura di un libro e di un copione, convinto di «dover lasciare all’autore del film ogni possibile libertà, ma evitando accuratamente di diventarne complice». Puntualizzazioni taglienti. Sfumate tre mesi dopo nei progetti che lo scrittore anticipa parlando di un tema che troveremo ne Il contesto, da Francesco Rosi tradotto nel 1971 in Cadaveri eccellenti. Ma quattro anni prima Sciascia lo confida a Petri: «Caro Elio, sono quasi tentato di buttare giù, come soggetto, la mia storia dell’uomo che ammazza i giudici...». E Petri, allora trentottenne, si dannava: «Così è il cinema. Mi viene un grande sconforto se penso che a 50 o 60 anni mi troverò a dover affrontare sempre i medesimi problemi. Come si fa a convincere un produttore che una storia è bella, se non dopo averla realizzata?». Dieci anni dopo, sempre con Volontè, avrebbe trasferito sullo schermo Todo modo, ma intanto Petri si godeva i successi targati «unicuique suum». Inquietante collage sull’omicidio connesso a un mondo politico di funzionari corrotti e poteri forti, nel microcosmo di un paese siciliano, laboratorio di analisi politica e metafora proposta al Paese con la tecnica del giallo. Ma chi si aspetta un giallo in cui il detective incastra l’assassino resterà deluso. Perché a indagare è il professore d’italiano e latino Paolo Laurana armato con gli strumenti del sapere e della ragione, rifiutando assuefazione e tolleranza al delitto, al malaffare, alla connivenza di un intero paese. E il pessimismo sciasciano si specchia nel più bieco cinismo. Non a caso sul professore, ormai vicino alla verità e per questo ucciso, echeggerà l’arrogante epitaffio di uno dei personaggi, «un cretino». Come se connivenza e convivenza fossero intelligenza. Un contrasto per porre davanti all’opzione fra Bene e Male, il lettore e il cittadino. A cominciare dallo stesso Petri che nel carteggio non ha dubbi: «Nella scelta di un personaggio si parte sempre — e comunque — da un processo di identificazione: riderai, se ti dico che io mi sento un poco come Laurana?». Quesito capace di cancellare ogni equivoco, pur lasciando a ciascuno il suo.

Sciascia si misura con il Vangelo. Gli esercizi spirituali del potere. In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente, ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano, scrive Carlo Vulpio il 14 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede, ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di sciasciani (e passi) e di sciascisti (e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha pure ripetuto con insistenza. Prendiamo Todo modo, per esempio. Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo Stato, ma Todo modo li contiene tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone, da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile. Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, «Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come tossicodipendenti. Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo, tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato, mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti, erano estranei a questa microfisica del potere tutta democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando, «che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto, dolore, morte». Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo, come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —, ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche appartato albergo-eremo. Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari? E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.

Sciascia e quello sguardo profetico. Lo scrittore che inaugurò un genere. L’autore aprì gli occhi della letteratura su guasti di società e politica e ne rivelò vizi segreti e pubbliche immoralità. Il «Corriere» lo celebra con un’iniziativa editoriale, scrive Felice Cavallaro il 25 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ricorre spesso un aggettivo quando si discute di Leonardo Sciascia. E succede anche ad Andrea Camilleri di usarlo per dire che il suo amico nato, come lui, a due passi dalla Girgenti di Luigi Pirandello era «profetico». Basta scorrere anche solo i titoli dei libri, in gran parte scritti nella sua casa di campagna, in Contrada Noce, fra le vigne, i pini e i mandorli di Racalmuto, per cogliere questa straordinaria capacità di prevedere con grande anticipo gli sviluppi spesso devastanti della società italiana. Questo manca a Camilleri: «Sciascia aveva la capacità di intervenire costantemente sui nodi della società italiana, non solo sulla politica. Acuto nel prevedere, interpretare, anticipare. I suoi romanzi sono lì. Io, quando ne ho bisogno, spesso, me li rileggo. Mi manca però la risposta di Sciascia alle domande di oggi». Una risposta talvolta ignorata in passato. E i libri da leggere o rileggere stanno lì, a provarlo. L’Italia scopre Tangentopoli nel 1992 ma Sciascia aveva messo tutti in guardia dalla mala politica parlandone trent’anni prima con L’onorevole, descrivendo compromessi e arricchimento di un deputato, con sorpresa della sua stessa moglie. Affresco della corruzione negli anni Sessanta, oggi decantati come gli anni del boom. Un allarme inascoltato. Lo Stato capisce nel 1982, con il sacrificio di Pio La Torre, seguito da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, che bisogna mettere le mani nei portafogli dei mafiosi, ma con Il giorno della civetta, vent’anni prima, Sciascia suggeriva la via da battere, quella di assegni, flussi finanziari, banche. Ed è così per una vasta produzione che resta attualissima, al di là di ogni odiosa polemica talvolta riproposta sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia», materia oggi sulla bocca di tanti, delusi da false icone frettolosamente pompate anche dai media. È il tema dell’impostura analizzato nel romanzo che ha per protagonista l’Abate Vella, il cappellano dei Cavalieri di Malta, un fanfarone artefice della grande menzogna che, però, osserva con diffidente pessimismo Sciascia, talvolta si mostra più forte della verità. Un suggerimento a essere guardinghi. Come fu lui davanti ai voltagabbana del dopoguerra. Come provò ad anticipare per quanto rischiava di avvenire perfino nel pianeta antimafia, quando erano inimmaginabili le scivolate di tanti falsi eroi del Bene. Tema di forti contrasti con posizioni spesso osteggiate. Come accadde per la difesa di Enzo Tortora e per la necessità di trattare la liberazione di Aldo Moro. Tormentate pagine vissute da Sciascia anche da deputato del Partito radicale, dopo una brevissima esperienza di consigliere comunale eletto a Palermo nelle file del Partito comunista italiano. Aggrappato sempre alla ragione come religione di riferimento. Anche contro la fanatica caricatura della religione trasformata in strumento di potere, di oppressione. Illustrata da Sciascia in Morte dell’inquisitore. La storia di Fra Diego La Matina, frate a Racalmuto, il presunto eretico che, recluso nelle segrete, riesce a uccidere con in suoi ferri l’inquisitore durante l’interrogatorio o, meglio, durante la tortura. Le maggiori intuizioni anticipatrici restano quelle descritte nei libri a sfondo politico. A cominciare da Il contesto, un apologo della travagliata situazione italiana all’inizio degli anni Settanta quando l’ispettore Rogas, davanti a subbugli di «gruppuscoli» e delitti in quantità, scopre l’immaginario (ma non troppo) «partito rivoluzionario» essere tessera bene inserita nel sistema o sistema esso stesso. Come Sciascia con implacabile ironia lascia sussurrare al vicesegretario: «Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione...». Un affronto per politici e intellettuali allora organici o contigui a Sinistra e movimenti extraparlamentari, tutti pronti a scagliarsi contro l’eretico Sciascia. Una prova per lui, visto che si apriva con Il contesto la stagione più sperimentale e innovativa della sua attività, quella di Todo modo e Candido, della Scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, di Nero su nero o Cruciverba, come osserva Paolo Squillacioti, lo studioso che cura per Adelphi l’opera completa di Sciascia, sulla scia del curatore delle opere in Francia, Claude Ambroise, e del biografo del «Maestro di Regalpetra», Matteo Collura. Se Il contesto può essere considerato una impietosa radiografia del Pci quando era tempo di intellettuali organici, l’altra chirurgica zoomata di Sciascia sugli intrighi politici del mondo democristiano è Toto modo. Lo scrittore affonda il bisturi fra i vizi di dirigenti politici, banchieri, prelati e industriali, tutti all’opera fra le varie correnti di partito. Un affresco su lobby, logge e parrocchie che rende attualissima la lettura dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra, il testo pubblicato sessant’anni fa dopo un carteggio con Vito Laterza, proprio in questi giorni in mostra a Racalmuto, nella Fondazione che Sciascia avrebbe voluto intitolare a Fra Diego, l’eretico.

Sciascia, lo sguardo sulla Sicilia: un rigore lucido ed eretico. A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro. Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità, scrive Alfio Sciacca il 28 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti. Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra. A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature. Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate. In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura. Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana (A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi (Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer (Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli. Mentre dunque Sciascia rende «semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano (Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia. Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.

Perché la battaglia contro la mafia è prima di tutto culturale. Affrontare la realtà anche se non ci piace. Così si combattono le cosche. Ma c’è chi preferisce non guardare. E critica romanzi, film e serie tv come "Gomorra" e "Romanzo criminale". Il libro "Il contrario della paura" di Franco Roberti spiega come affrontare quotidianamente terrorismo e mafie, scrive il 28 giugno 2016 “L’Espresso”. Proponiamo alcuni stralci del libro “Il contrario della paura” di Franco Roberti. Nel volume, pubblicato da Mondadori e scritto con Giuliano Foschini, il procuratore nazionale antimafia spiega come affrontare, anche nei comportamenti quotidiani, il terrorismo e le mafie. Tempo fa mi è capitato, sfogliando un giornale, di leggere di una strana patologia della psiche, che colpisce principalmente le donne. Si chiama «sindrome di Grimilde», come la strega della favola di Biancaneve: le signore che non si piacciono, spesso a causa di alcune, anche piccole, imperfezioni del proprio corpo, preferiscono non guardarsi allo specchio per non essere messe di fronte alla realtà. Uno strumento di difesa, evidentemente, che però impedisce una possibile risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure necessarie per apparire, anche soltanto a te stesso, migliore. La «sindrome di Grimilde», però, non colpisce purtroppo soltanto gli uomini e le donne che non si piacciono. Alle volte, di questa patologia si ammalano anche le istituzioni. Che sottovalutano il fenomeno, non capendo che l’associazione mafiosa non è soltanto un delitto contro l’ordine pubblico, ma il più grave delitto contro la democrazia. (…) Il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata da parte dello Stato, dei poteri pubblici, ha sempre avuto nel nostro paese una gestione emergenziale. E soltanto quando le organizzazioni mafiose sparavano, uccidevano e creavano pericoli per l’ordine pubblico, lo Stato sembrava accorgersi della loro esistenza e interveniva. Come? Intensificando l’azione repressiva. Se invece per un po’ tutto taceva, se le mafie prosperavano in silenzio, se facevano affari e intrecciavano rapporti con la politica e con l’economia, le si trattava come se non esistessero. (…) Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Lo Stato sembra non partire mai all’attacco, non prende mai l’iniziativa. Risponde sempre con provvedimenti tampone. E questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde». Allontanarsi dallo specchio è una maniera per scansare il problema. E raccontarsi una bugia: come se quelle pallottole, quelle stragi, quell’attentato alla libertà di ciascuno di noi, fossero un effetto straordinario. Una malattia rara, quasi misteriosa. E non una patologia sistemica, che abbassa le difese immunitarie, e che ti rende ogni giorno vulnerabile. Invece, è così: le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale. E oggi esiste il rischio concreto che in breve tempo possano diventare presto un elemento strutturale, una parte del tessuto sociale anche di altre regioni. Non riconoscerlo significa non curarsi. Non ammetterlo significa aiutare la malattia, essere in qualche maniera complici involontari di chi ci vuole uccidere. Se non guardiamo in faccia la realtà, se continuiamo con i negazionismi ipocriti, paralizzanti, subdoli, faremo il gioco delle mafie che scommettono tutto su Grimilde per infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni e creare quel sistema alternativo al sistema dello Stato e dei poteri pubblici locali. Non guardarsi allo specchio significa non riconoscere che non possono bastare le norme penali a contrastare la criminalità organizzata, ma che occorre intervenire anche sulle cause sociali del loro sviluppo. (…) La questione è molto delicata. Per questo chiedo a tutti di fare la propria parte: alle associazioni di categoria di offrire la massima assistenza a chi denuncia, e di essere durissimi, invece, con chi paga il pizzo in silenzio. Chiedo alla politica rigide norme sugli appalti pubblici: a Bari, in Sicilia, persino a Milano, ci sono stati casi di pizzo chiesto su lavori effettuati dalle pubbliche amministrazioni. Inaccettabile. Per chiedere questi sforzi, però, è necessario che lo Stato faccia la sua parte. I rapporti sociali funzionano, come funzionano le istituzioni, quando si fondano sulla fiducia. Il concetto di fiducia è fondamentale: se c’è funziona tutto. Fiducia significa affidamento e l’affidamento comporta, inevitabilmente, anche un controllo dei comportamenti. Fiducia è verità (…) Io credo molto al ruolo della verità. Ecco perché, per esempio, mi sono molto interessato al dibattito sorto attorno a opere come “Gomorra” e “Romanzo criminale”. Parlo anzitutto dei libri - che hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica - ma anche dei film e delle serie tv che hanno ispirato. In comune hanno la caratteristica di essere ambiziosi prodotti italiani. Di essere fatti con grande cura e attenzione: moderni, forti, scritti e girati benissimo. E di occuparsi, chiaramente, entrambi di fenomeni criminali, mafiosi. Ma ad accomunarli è anche la circostanza di aver suscitato, oltre a un grande successo di pubblico, grandi polemiche. Mi ha colpito, per esempio, che molti sindaci campani si siano rifiutati di far girare alcune puntate della seconda stagione di “Gomorra” nelle loro città. «Non è una buona pubblicità» hanno dichiarato. E poi ancora, la solita teoria: «Noi non siamo soltanto quello», «In televisione dovremmo andare per le nostre bellezze, per le nostre risorse, e non sempre per la malavita» eccetera eccetera. Capisco la reazione, ma allo stesso tempo penso che si tratti di una posizione sbagliata. Per questo non la giustifico. Non è “Gomorra” che porta i ragazzi a delinquere. È troppo facile pensare che il problema sia “Gomorra”. Il problema è la criminalità che non viene ancora sconfitta. Il problema è lo spaccio per strada, la politica corrotta, il problema è il commerciante che paga il pizzo. “Gomorra”, essendo un prodotto eccellente, non fa altro che rappresentare benissimo quello che succede: lo ha fatto prima nel libro di Roberto Saviano, poi nel film di Matteo Garrone e ora nelle serie di Sky. È un altro pezzo della «sindrome di Grimilde»: non vogliamo guardarci allo specchio? Non vogliamo che in televisione venga rappresentato, seppure con qualche esagerazione romanzesca, ciò a cui noi tutti assistiamo ogni giorno, spesso nell’indifferenza più assoluta? Bisogna avere paura della realtà? Abbiamo paura di noi stessi? “Gomorra”, così come in parte “Romanzo criminale”, fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo: perché non è soltanto lo spara-spara. È anche la famiglia Savastano che sbarca a Milano e osserva i grattacieli nuovi, luccicanti. «Genny, è tutto nostro» dice la madre al figlio in una battuta bruciante, evidentemente semplicistica, ma che contiene tutto. Dire: «Ci fate una cattiva pubblicità» fa molto meno male che ammettere che è vero, purtroppo. Magari non sarà tutto, ma molto di quello che ci è attorno appartiene a loro. Palazzi, bar, ristoranti, negozi. (...) Non si può accusare gli intellettuali di raccontare la verità. Non si può chiedere a nessuno di chiudere gli occhi: perché anche se si prova a nasconderla, la realtà continua a esistere. Certo, rispetto a questi prodotti sarebbe importante esercitare un giudizio critico. E per farlo, in questo caso, servono i maestri. È necessario investire sulla cultura dei diritti. È necessario spiegare con parole chiare, e mi pare che questo lo facciano persino le fiction, che a seguire quei modelli si finisce sempre male, sempre in un’unica maniera: o al cimitero o in carcere. Non ci sono altre possibilità.

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Solita sinistra a senso unico...La denuncia di Rosy Bindi: "C'è una mafia che usa l'antimafia". Il j'accuse della presidente della Commissione d’inchiesta nell'intervista esclusiva rilasciata a l'Espresso. Troppi interessi sfruttano la lotta ai clan. Che spesso diventa una facciata per la conquista di potere, scrive Marco Damilano il 28 gennaio 2016 su "L'Espresso". Inchieste, scandali, scontri intestini. Magistrati che accusano le icone antimafia di «monopolio» dei beni confiscati. Il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, garante della legalità dell’associazione degli imprenditori a livello nazionale, indagato e perquisito e il presidente del Senato Piero Grasso che parla di «antimafia infangata». È la stagione del malcontento per il movimento anti-mafia, a trent’anni esatti dall’apertura del primo maxi processo a Palermo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con il sospetto che siano gli stessi campioni dell’anti-mafia a infangare se stessi. A Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare che indaga sui legami tra la criminalità e la politica, la presidente Rosy Bindi non è sorpresa, come spiega a Marco Damilano nell'intervista sull'Espresso in edicola da venerdì 29 gennaio 2016. «Quando un anno fa annunciai a Caltanissetta che avremmo avviato un’inchiesta ci furono molte ironie (l’antimafia che indaga sull’antimafia!) da parte di quei commentatori interessati semplicemente a indebolire il movimento. E invece il nostro obiettivo è riaffermare il valore dell’impegno di associazioni, cittadini, istituzioni e imprenditori che per venti anni ha dato un contributo fondamentale alla lotta contro la criminalità mafiosa. C’è chi vuole delegittimare queste presenze preziose. I soliti negazionisti e chi non ammette che la forza della mafia continua a essere fuori dalla mafia. Nel silenzio, nelle complicità, nelle sue relazioni sociali. Vogliamo rilegittimare l’antimafia. Ma possiamo farlo soltanto smascherando alcune ambiguità che obiettivamente esistono». Quali ambiguità? Fino a qualche mese fa si pensava all’antimafia come a un movimento monolitico. E incontaminato. «Ci muoviamo su più fronti. C’è una mafia che usa l’antimafia per prosperare, l’aspetto più grave e pericoloso. Una mafia, ad esempio, che utilizza la comunicazione per infangare chi lotta contro la mafia. Anche Roberto Saviano ne è stato vittima. C’è poi un’antimafia che dietro l’obiettivo manifesto di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. È quanto sembra emergere in Sicilia, un caso che va approfondito. Al di là dei risvolti penali, lì c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere. Cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione, di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è, infine, un’antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva dire Leonardo Sciascia».

C’è del marcio in antimafia. Ma sul “caso Libera” la Bindi fa la gnorri, scrive Francesca De Ambra venerdì 15 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. C’è del marcio in antimafia. Ma l’unica che riesce a non vederlo è proprio l’on. Rosy Bindi. Non che la presidente dell’omonima commissione manchi d’iniziativa, tutt’altro. Se lo ricorda bene Enzo De Luca che a 24 ore dal voto che lo avrebbe eletto governatore della Campania si ritrovò in una lista di “impresentabili” redatta in fretta e furia proprio dall’organismo da lei guidato. O il deputato forzista Carlo Sarro, invitato dalla Pasionaria a dimettersi dall’Antimafia dopo aver ricevuto una richiesta di arresti ai domiciliari poi demolita da un micidiale uno due Riesame-Cassazione. Dove invece la Bindi segna il passo è sulla sempre più inquietante vicenda della gestione dei beni sottratti alle mafie, deflagrata a fine estate con l’inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto. Prima della Procura nissena era stato però l’ex-direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, a denunciare, i presunti conflitti d’interesse dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario cui la Saguto aveva affidato la gestione di tutti i beni confiscati ricevendone – secondo la tesi dei pm – consulenze per il proprio marito. Nessuno, però, ringraziò Caruso. Neppure la Bindi, che anzi gli rinfacciò di aver innescato un «effetto delegitttimazione» attraverso «un’accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Quando scoppia la bomba dell’inchiesta di Caltanissetta, Caruso si toglie la soddisfazione dell’“avevo detto io” e intervistato da Liberoquotidiano.it rilascia una replica al curaro: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi…». Ogni riferimento, ancorché implicito, è puramente voluto. La lezione, tuttavia, non è servita. Tanto è vero che la Bindi rischia ora di ripetere lo stesso errore di superficialità commesso con Caruso. Solo che questa volta a dare l’allarme non è un prefetto ma Catello Maresca, il pm in forze alla Dda di Napoli che ha fatto arrestare boss del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine, cioè proprio uno di quei «magistrati che rischiano la vita». Intervistato da Panorama, Maresca ha contestato il sistema che regola la gestione dei beni sottratti ai boss esprimendo più di una riserva su Libera di don Luigi Ciotti. Che ha annunciato querele. E la Bindi? Prima ha rivendicato il progetto di riforma della normativa sulla gestione dei patrimoni mafiosi per poi defilarsi rispetto ai rilievi mossi dal pm: «Se Maresca – ha detto – continua a spiegare e magari si incontra con Libera si fa una cosa buona». Davvero? E la commissione Antimafia che ci sta a fare? Non ha forse il dovere di capire e approfondire? O dobbiamo forse pensare che le pesanti critiche mosse da Maresca a don Ciotti siano dovute a vecchie ruggini personale, pronte però a svanire davanti al buon vino che sempre riconcilia i veri amici? Non scherziamo: la faccenda è fin troppo seria per consentire alla presidente Bindi di voltarsi dall’altra parte.

Don Ciotti e Libera osannato da tutta l'Antimafia di Facciata.

Bindi: "Don Ciotti non resterà solo. Pieno sostegno dall'Antimafia", scrive il 31 Agosto 2014 "Live Sicilia". La solidarietà della presidente della commissione parlamentare Antimafia al sacerdote fondatore di Libera. D'Alia: "Minacce da non sottovalutare". Vendola: "Cosa nostra vada all'inferno". Grasso: "Tutti al fianco di don Ciotti". Gelmini: "Non sarà mai solo". "Don Ciotti non è solo e non resterà solo nella battaglia contro i poteri mafiosi". Lo dichiara il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi commentando le intercettazioni riportate dal quotidiano 'La Repubblica', in cui Totò Riina accosta la figura di don Luigi Ciotti a quella di don Puglisi e dice:" Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo". "E' malvagio e cattivo - aggiunge il padrino al boss Lorusso suo compagno di passeggiate nell'ora d'aria - ha fatto strada questo disgraziato". "A don Luigi la mia affettuosa vicinanza e il pieno sostegno della Commissione parlamentare Antimafia - dice Bindi - Le minacce di Riina intercettate nel carcere di Opera lo scorso anno vanno prese sul serio, soprattutto per l'inquietante accostamento al martirio di don Pino Puglisi". "A don Ciotti - aggiunge - va assicurata tutta la protezione e il sostegno necessari, molti mesi sono passati da quando i magistrati hanno esaminato le intercettazioni e si deve capire che tipo di messaggio vuole inviare il capo di Cosa Nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto sul fronte della lotta alla mafia". "So che le raccapriccianti parole di Riina - dice ancora Bindi - non faranno arretrare il suo appassionato servizio cristiano per la giustizia e la promozione della dignità umana e da oggi saremo al suo fianco con più determinazione". "L'impegno che insieme a tanti con Libera don Ciotti da anni profonde per promuovere la cultura della legalità, la memoria delle vittime innocenti e lo sviluppo solidale nelle terre confiscate alle mafie - prosegue - sono ormai punto di riferimento della coscienza civile del paese". Ed è proprio il lavoro di Libera che scatena l'odio di Riina, preoccupato per i tanti sequestri di beni alla mafia che poi vengono gestiti dalle cooperative di Libera. "La scomunica di Papa Francesco - aggiunge Rosy Bindi - ha tracciato una linea invalicabile tra la Chiesa e le mafie che dà a tutti, credenti e non credenti, più forza e coraggio nel combattere la cultura dell'omertà e della sopraffazione. Ma non possiamo abbassare la guardia, c'è una mafia silente che moltiplica affari e profitti e penetra in ogni settore della vita del paese approfittando della crisi economica. E c'è - conclude - una mafia violenta che continua a tenere sotto scacco con l'intimidazione e la paura buona parte del Mezzogiorno, dove pesano povertà e disoccupazione ma dove sono anche più vitali e preziose le esperienze di libertà e resistenza create da Libera per strappare il territorio al controllo della criminalità organizzata".

"Un abbraccio affettuoso e di vera solidarietà a Don Luigi Ciotti, ogni giorno in prima linea nella lotta alla mafia. Le minacce di Riina nei suoi confronti non possono essere in alcun modo sottovalutate. Il suo impegno quotidiano, non ultimo quello per i testimoni di giustizia che ho avuto modo di apprezzare da vicino nella mia attività di ministro, merita sostegno e protezione". Lo afferma il deputato e Presidente dell'Udc Gianpiero D'Alia.

"Un forte abbraccio don Luigi! All'inferno la mafia! L'impegno di Don Luigi ci dice che per la lotta alla mafia non servono proclami o moralismi. Bensì ogni giorno, con un umile coraggio, serve condurre la battaglia per affermare i diritti dei più deboli e affermare la legalità con fatti concreti, che anche la politica deve compiere". Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter esprime la propria solidarietà al fondatore di Libera coop dopo le minacce di Riina.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di solidarietà a don Luigi Ciotti in riferimento alle minacce di Riina emerse dagli organi di informazione. "Caro Luigi - si legge nel testo - sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l'ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi - conclude Grasso - saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero".

"Le minacce di Totò Riina all'amico Don Ciotti, preoccupano certo, ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Lo scrive sul suo profilo Fb Laura Boldrini, Presidente della Camera.

"Le parole di Riina sono inquietanti e ci dicono che non bisogna mai abbassare la guardia soprattutto nei confronti di chi si trova in prima linea nella lotta alle mafie, come il magistrato Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti ai quali esprimo il mio pieno sostegno". Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, commentando le intercettazioni delle conversazione in carcere tra il boss di Cosa nostra ed il boss pugliese Alberto Lorusso. "A Riina - aggiunge - lo Stato deve dare una risposta chiara e netta con l'approvazione in tempi rapidi di un pacchetto di norme che consentano alla lotta alle mafie di far fare un salto di qualità. Alcune di queste, ad esempio il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'autoriciclaggio ed il falso in bilancio, sono già contenute nella riforma della giustizia, ma ce ne sono tante altre da adottare. Ecco perchè - conclude Lumia - torno a chiedere una sessione dedicata in Parlamento".

"Don Ciotti non sarà mai solo: fra lui e Riina l'Italia civile ha scelto da che parte stare. Sempre contro la mafia!". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicecapogruppo vicario di Forza Italia alla Camera.

La capriola della Bindi su don Ciotti prova che Libera è anche una lobby, scrive Venerdì 15 Gennaio 2016 Giuseppe Sottile su Il Foglio. I beni dei mafiosi sono diventati un Tesoro Maledetto. E la bufera della polemica ha investito in pieno anche la creatura di don Ciotti. Ma la politica, prodiga di riverenza, ha preferito squadernare solidarietà incondizionata. Che cosa racconterà questo sanguigno prete torinese ai bambinetti di mezz’Italia che, sotto la sua ala benefica e protettiva, andranno a rendere omaggio anche quest’anno alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Con quali preghiere, o con quali giaculatorie, don Luigi Ciotti, uomo di fede e di misericordia, tenterà di allontanare i sospetti che ormai da qualche tempo scuotono e avviliscono il meraviglioso mondo di Libera, l’associazione che, come i bambini forse non sanno, è anche la più potente e denarosa lobby antimafia? E come potrà questo buon sacerdote spiegare, a tutti quei ragazzi, così innocenti e già così innamorati della legalità, che Libera dopo un inizio come sempre difficile è poi diventata troppo grande e si è trovata spesso a giocare col fuoco sugli stessi terreni, sugli stessi feudi, sugli stessi patrimoni sui quali per anni padrini e picciotti avevano sparso sangue e nefandezze? Parliamoci chiaro. Sull’impegno di don Ciotti contro ogni mafia e contro ogni boss nessuno potrà mai sollevare alcun dubbio: come Papa Francesco, il fondatore di Libera conosce la strada e i problemi degli umili; con il suo Gruppo Abele ha fatto il volontariato duro e sa come si aiuta un infelice nel disperato labirinto della droga. Sa anche come si combattono le violenze, come si contrasta una intimidazione, come si restituisce dignità civile a un giovane senza lavoro e tragicamente affascinato dalla vie traverse. Ed è per questo che, dopo le stragi degli anni Novanta, è nata Libera: per sollevare Palermo dallo scoramento, per ridare fiducia a una terra segnata dal martirio e dalle lacrime. Un progetto ambizioso. Che certamente trovava sostegno e conforto in un altro torinese: in quel Gian Carlo Caselli che, di fronte alle mattanze di Capaci e via D’Amelio, aveva chiesto con coraggio al Consiglio superiore della magistratura di trasferirsi nel capoluogo siciliano e di insediarsi come procuratore in un Palazzo di giustizia sventrato prima dalle faide tra gli uffici e poi dalle bombe di Totò Riina, detto ‘u Curtu. Sono stati certamente anni eroici e straordinari quelli di Palermo. E Libera, la cui missione principale (il core business, stavo per dire) è quella di creare cooperative di lavoro sui beni confiscati alla mafia, non ha mai incontrato ostacoli. Anzi: non c’è stata istituzione che non abbia preso a cuore la causa; non c’è stato potere che non abbia guardato con riverenza ai buoni propositi di don Ciotti e non c’è stato partito politico, soprattutto a sinistra, che non abbia mostrato orgoglio nell’accettare candidature ispirate direttamente dall’associazione. Troppa grazia, sant’Antonio, si sarebbe detto una volta. Ma la troppa grazia non sempre è foriera di prosperità. Spesso, troppo spesso, dietro un eccesso di grazia c’è anche un’abbondanza di grasso. E Libera davanti a quella montagna di soldi, oltre trenta miliardi di euro, sequestrati dallo stato alle mafie, non ha saputo atteggiarsi con il necessario distacco né con la necessaria misura: era una semplice associazione antimafia ed è diventata una holding; era fatta da poveri e ora presenta bilanci milionari; era animata da un gruppo di volontari e si ritrova governata da tanti manager e, purtroppo, anche con qualche spregiudicato affarista tra i piedi. Poteva mai succedere che a margine di tanta ricchezza, piovuta come manna dal cielo, non nascessero invidie e risentimenti, gelosie e prese di distanza, storture e due o tre storiacce poco chiare? Sarà doloroso ammetterlo ma i beni dei mafiosi, sia quelli sequestrati in via provvisoria sia quelli confiscati dopo una sentenza definitiva, sono diventati una sorta di Tesoro Maledetto. Una tomba faraonica dentro la quale viene ogni giorno seppellita – cinicamente, inesorabilmente – la credibilità dell’antimafia: non solo di quella che avrebbe dovuto riaccendere una speranza politica ed è finita invece in una insopportabile impostura; ma soprattutto di quella che, dall’interno dei tribunali, avrebbe dovuto garantire rigore e legalità e ha consentito invece a un gruppo di magistrati infedeli di intramare i beni sequestrati con i propri interessi privati: certo l’inchiesta aperta questa estate dalla procura di Caltanissetta è in pieno svolgimento e le responsabilità personali sono ancora tutte da definire, ma le intercettazioni, come sempre ottime e abbondanti, ci dicono con desolante chiarezza come si amministravano fino all’altro ieri le misure di prevenzione a Palermo; con quali disinvolture e con quali coperture i figli e i fraternissimi amici dei più alti papaveri del Palazzo di giustizia affondavano le mani nei patrimoni, ricchi e scellerati, che la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva strappato, con mano decisa e irrefrenabile, alla potestà di Cosa Nostra. La maledizione, e non poteva essere diversamente, ha finito per colpire anche Libera, cioè la macchina più grande ed efficiente aggrappata alla grande mammella dei beni confiscati: 1.500 tra associazioni e gruppi collegati, 1.400 ettari di terreno sui quali coltivare ogni ben di dio, 126 dipendenti e un fatturato che supera i sei milioni. Con una aggravante: che le accuse, chiamiamole così, non vengono tanto, come sarebbe persino scontato, dal maleodorante universo mafioso; arrivano piuttosto dai compagni di strada, da personaggi che rivendicano, al pari di don Ciotti, il diritto di parlare a nome dell’antimafia: come Franco La Torre, figlio del segretario del Pci ucciso a Palermo nel 1982, che non ha sopportato il silenzio di Libera sullo scandalo della Saguto e delle altre cricche nascoste dentro le misure di prevenzione; o come Catello Maresca, pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli e nemico numero uno del clan dei casalesi, il quale, intervistato dal settimanale Panorama, ha lanciato parole roventi: ha detto che “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili” e ha aggiunto, senza indulgenze di casta, che forse è venuta l’ora di smascherare “gli estremisti dell’antimafia”, cioè quegli strani personaggi accucciati nelle associazioni nate per combattere la mafia ma che “hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione e tendono a farsi mafiose esse stesse”. Queste associazioni, spiega Maresca, “sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”; e Libera, in particolare, gestisce i patrimoni “in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale”. Inevitabile e inevitata, ovviamente, la risposta di don Ciotti: “Menzogne: Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità”. Più sorprendente, se non addirittura imbarazzante invece l’atteggiamento con cui la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, si è posta di fronte alla polemica aperta da Maresca, un magistrato antimafia unanimemente apprezzato sia per il suo equilibrio che per il suo coraggio. Il pm napoletano, nel suo lungo colloquio con Panorama, ha sollevato questioni non secondarie: a suo avviso Libera, dopo avere scalato i vertici della montagna incantata, non ha lasciato e non lascia spazio a nessun altro; e se c’è un concorrente da stroncare lo fa senza problemi: tanto, lavorando su un bene non suo, non ha gli stessi costi del rivale. Non solo: è mai possibile che questo immenso patrimonio, continuiamo a parlare di oltre trenta miliardi di euro, non possa essere sfruttato in termini strettamente imprenditoriali per dare la possibilità allo Stato di sviluppare le aziende e ricavarci pure un ulteriore valore aggiunto? Di fronte a interrogativi così pesanti, ma anche così pertinenti, la commissione parlamentare avrebbe dovuto a dir poco avviare un dibattito, magari ascoltando oltre a don Ciotti, sentito a lungo mercoledì proprio mentre le agenzie di stampa diffondevano l’anteprima di Panorama, pure il magistrato napoletano. Quantomeno per verificare l’eventuale necessità di una modifica alle intricatissime leggi che regolano la materia. Invece no: Rosy Bindi ha preferito definire “offensive” le affermazioni di Maresca e l’ha chiusa lì. Don Ciotti certamente non avrà tutte le colpe che Maresca, più o meno volontariamente gli attribuisce. Ma la solidarietà assoluta e incondizionata squadernata l’altro ieri a San Macuto dalla presidente Bindi, e dai parlamentari che man mano si sono a lei accodati, è la prova provata che Libera è anche e soprattutto una lobby.

Beni confiscati, associazioni, coop. Libera, impero che muove 6 milioni, scrive Lunedì 16 Marzo 2015 Claudio Reale su "Live Sicilia". L'associazione raduna 1.500 sigle, ma il suo cuore economico è "Libera Terra", che fattura 5,8 milioni con i prodotti dei terreni sottratti ai boss e li reinveste per promuovere la legalità e assumere lavoratori svantaggiati. E mentre si prepara il ventesimo compleanno, don Ciotti apre alla collaborazione con il movimento di Maurizio Landini. Vent'anni da compiere fra pochi giorni. E circa 1.500 sigle radunate sotto il cartello dell'“associazione delle associazioni”, con un modello che in fondo richiama la tradizione storica dell'Arci. “Libera” è formalmente un'organizzazione non governativa che si occupa di lotta alle mafie, di promozione della legalità e di uso sociale dei beni confiscati alle mafie: sotto la sua bandiera, però, si muovono attività diversificate nello scopo e nello spazio, coprendo quasi per intero il Paese e con ramificazioni internazionali. Un mondo il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. Un impero sotto il segno della legalità. Che fa la parte del leone nell'assegnazione per utilità sociale dei beni confiscati e che non si sottrae allo scontro fra antimafie, in qualche caso – come ha fatto all'inizio del mese don Luigi Ciotti – facendo aleggiare l'imminenza di inchieste: "Mi pare di cogliere – ha detto il 6 marzo il presidente dell'associazione – che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di antimafia”. Uno scontro fra paladini della legalità, in quel campo minato e denso d'insidie popolato dalle sigle che concorrono all'assegnazione dei terreni sottratti ai boss.

Un mondo che, nel tempo, ha visto in diverse occasioni l'antimafia farsi politica. E se Libera non è stata esente da questo fenomeno - Rita Borsellino, fino alla candidatura alla guida della Regione e poi all'Europarlamento, dell'associazione è stata ispiratrice, fondatrice e vicepresidente – a tenere la barra dritta lontano dalle identificazioni con i partiti ci ha sempre pensato don Ciotti. Almeno fino a qualche giorno fa: sabato, infatti, sulle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, il carismatico sacerdote veneto ha aperto a una collaborazione con il nascente movimento di Maurizio Landini. Certo, don Ciotti assicura nella stessa intervista disponibilità al dialogo con tutto l'arco costituzionale ed esclude un coinvolgimento diretto di Libera. Ma le parole di “stima e amicizia” espresse a favore del leader Fiom, osserva chi sa cogliere le sfumature degli interventi del sacerdote antimafia, sono un assoluto inedito nei vent'anni di storia dell'associazione. Ne è passato di tempo, da quel 25 marzo 1995. A fondare il primo nucleo di Libera furono appunto don Ciotti, allora “solo” numero uno del Gruppo Abele, e Rita Borsellino. Da allora l'associazione si è notevolmente diversificata: al filone principale, riconosciuto dal ministero del Welfare come associazione di promozione sociale, si sono via via aggiunti “Libera Formazione”, che raduna le scuole e ne coordina quasi cinquemila, “Libera Internazionale”, che si occupa di contrasto al narcotraffico, “Libera informazione”, che si concentra sulla comunicazione, “Libera Sport”, che organizza iniziative dilettantistiche, “Libera ufficio legale”, che assiste le vittime di mafia, e appunto “Libera Terra”, che raduna le cooperative impegnate sui campi confiscati ed è l'unico troncone a commercializzare prodotti. In Sicilia le cooperative sono sei. Dell'elenco fanno parte la “Placido Rizzotto” e la “Pio La Torre” di San Giuseppe Jato, la “Lavoro e non solo” di Corleone, la “Rosario Livatino” di Naro, la castelvetranese “Rita Atria” e la “Beppe Montana” di Lentini, alle quali si aggiungono le calabresi “Terre Joniche” e “Valle del Marro”, la brindisina “Terre di Puglia” e la campana “Le terre di don Peppe Diana”: ciascuna è destinataria di almeno un bene sottratto alla mafia e produce su quei terreni vino, pasta e altri generi alimentari commercializzati appunto sotto il marchio unico “Libera Terra”. Fuori dal mondo agroalimentare, poi, c'è la new-entry “Calcestruzzi Ericina”, confiscata a Vincenzo Virga e attiva però – col nuovo nome “Calcestruzzi Ericina Libera” – nella produzione di materiali da costruzione. A questa rete di cooperative si aggiunge la distribuzione diretta. Un network fatto di quindici punti vendita, anch'essi ospitati per lo più in immobili confiscati a Cosa nostra, sparpagliati in tutta Italia: a Bolzano, Castelfranco Veneto, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Castel Volturno, Napoli, Mesagne, Reggio Calabria e nel cuore di Palermo, nella centralissima piazza Politeama, dove la bottega ha sede in un negozio confiscato a Gianni Ienna. Non solo: nel pianeta “Libera Terra” trovano posto anche una cantina (la “Centopassi”), due agriturismi (“Portella della Ginestra” e “Terre di Corleone”), un caseificio (“Le Terre” di Castel Volturno), un consorzio di cooperative (“Libera Terra Mediterraneo”, che dà lavoro a nove dipendenti e cinque collaboratori) e un'associazione di supporto (“Cooperare con Libera Terra”, onlus con 74 cooperative socie). Ne viene fuori un universo che nel 2013 ha dato uno stipendio a 126 lavoratori, 38 dei quali svantaggiati, ai quali si sono aggiunti 1.214 volontari. Tutto per produrre circa 70 prodotti – venduti nelle botteghe Libera Terra, ma anche nei punti vendita Coop, Conad e Auchan – che spaziano dalla pasta all'olio, dal vino alla zuppa di ceci in busta: ne è venuto fuori, nel 2013, un fatturato di 5.832.297 euro, proveniente per più di un quinto dalla commercializzazione all'estero. Numeri che fanno delle cooperative il cuore pulsante dell'economia targata Libera: basti pensare che l'intero bilancio dell'associazione-madre muove 2,4 milioni di euro, meno della metà del flusso di denaro che passa dai campi confiscati. Denaro che però non finisce nelle tasche dei 94 soci: se una royalty – nel 2013 di 157 mila euro – viene girata a “Libera”, il resto viene utilizzato per attività sociali come la promozione della legalità, il recupero di beni sottratti ai boss e i campi estivi. Già, perché nei terreni confiscati il clou si raggiunge d'estate. Nei mesi caldi, infatti, le cooperative siciliane (ma anche quelle pugliesi) accolgono giovani da tutta Italia per attività di volontariato sui beni sottratti ai capimafia. Il momento centrale della vita dell'associazione, però, si raggiungerà fra pochi giorni: il 21 marzo, infatti, “Libera” organizza dal 1996 una “Giornata della memoria e dell'impegno” durante la quale vengono ricordate le vittime di mafia. Quest'anno l'appuntamento è a Bologna, con una kermesse iniziata venerdì e destinata a concludersi il 22. A ridosso dei vent'anni dell'associazione. E in un momento di grandi conflitti per le antimafie.

"Fatti di inaudita gravità". Beni confiscati, una ferita aperta, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Anno giudiziario. Nel giorno in cui i magistrati presentano i risultati di un anno di lavoro, a Palermo e Caltanissetta tiene banco l'inchiesta sulle Misure di prevenzione. Nel capoluogo siciliano il ministro Andrea Orlando dice: "La mafia non è vinta". È il caso Saguto a tenere banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudizio a Palermo e Caltanissetta. Palermo è la città dove lavorava l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale finita sotto inchiesta. A Caltanissetta, invece, lavorano i pubblici ministeri che con la loro indagine hanno fatto esplodere la bomba giudiziaria della gestione dei beni sequestrati alla mafia. A Palermo, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ha fatto al sua relazione il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli. "Se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione dovessero essere confermate - ha detto Natoli - occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Il magistrato ha recitato il mea culpa a nome dell'intera categoria, spiegando che "la prevenzione di certi episodi parte dai controlli a cominciare dalla valutazione della professionalità" e ammettendo che nella gestione della sezione c'erano "criticità e inefficienze nella durata dei procedimenti, nell'organizzazione e nella distribuzione degli incarichi". E il ministro è stato altrettanto duro: "E' necessario perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati. Quello dell'aggressione ai beni mafiosi è uno dei terreni che ha dato maggiori risultati nel contrasto a Cosa Nostra". Il ministro, anche richiamando la recente normativa sui tetti ai compensi degli amministratori giudiziari, ha auspicato "una riduzione dei margini di discrezionalità in cui si sono sviluppati fenomeni allarmanti".  Poi, un passaggio dedicato alla lotta a Cosa nostra: "La mafia è stata colpita, ma non è battuta, né si tratta di un'emergenza superata anche se altre se ne profilano all'orizzonte". Nel frattempo, a Caltanissetta, interveniva il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "I magistrati della Procura di Caltanissetta, con un'indagine coraggiosa e difficile che è tuttora in corso, hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che la prima Commissione e la sezione disciplinare del Csm potessero sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ecco perché Legnini ha detto di avere “scelto di essere presente a Caltanissetta, per testimoniare la mia gratitudine è quella di tutto il Csm verso i magistrati che prestano servizio in questo distretto”. Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari: "Gli scandali che hanno visto coinvolti i magistrati, pur trattandosi di episodi isolati, non possono essere sottovalutati e dimostrano come la massima attenzione debba essere posta alla deontologia ed alla questione morale nella magistratura, essendo inammissibili, soprattutto in un'epoca così degradata in altri ambiti istituzionali, cadute etiche da parte di chi deve svolgere l'alto compito del controllo di legalità".

L’antimafia di facciata ai pm non piace più. Apertura dell'anno giudiziario a Palermo. Il procuratore Lo Voi: persegue affari e carriera, scrive Luca Rocca il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Che un giorno anche la procura di Palermo potesse destarsi e puntare il dito contro l’«antimafia di facciata», accusata di perseguire solo «affari e carriera», ci credevano in pochi. Forse nessuno. E invece è accaduto ieri in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore capo Francesco Lo Voi si è scagliato proprio contro chi, nascondendosi dietro l’intoccabilità di chi quella categoria l’ha usata come una corazza, ha pensato di poter coltivare i propri interessi con la certezza di non essere sfiorato nemmeno dal sospetto. D’altronde, dopo i casi di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo per la gestione dei beni confiscati indagata per corruzione, abuso d'ufficio e riciclaggio; quello di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo arrestato per estorsione dopo anni di proclami contro il pizzo; o ancora di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; oppure Rosy Canale, condannata a quattro anni di carcere per truffa e malversazione dopo aver vestito i panni della paladina anti ’ndrangheta col «Movimento donne di San Luca»; dopo questi «colpi al cuore» al professionismo dell’antimafia, dicevamo, dalla procura che più di ogni altra ha incarnato la lotta alla mafia, «slittando», da un certo momento in poi, verso mete fantasiose e poco concrete, una parola di condanna non poteva più mancare. E così ieri Lo Voi (la cui nomina a capo della procura palermitana è stata resa definitiva, pochi giorni fa, dal Consiglio di Stato, che si è espresso sui ricorsi di Guido Lo Forte e Sergio Lari, procuratori rispettivamente a Messina e Caltanissetta) non ha taciuto, non ha voluto tacere: «Forse c'è stata – ha affermato il procuratore capo di Palermo - una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità, a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Lo Voi non ci ha girato intorno, e pur senza citare, ovviamente, casi specifici, ha preso di petto la deriva di quell’antimafia che, dopo la sconfitta della mafia stragista, come sostiene da tempo lo storico Salvatore Lupo, ha perso la sua ragione d’essere: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità – ha scandito il procuratore -, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi e opinioni diverse». Parole inequivocabili. Proprio come quelle pronunciate subito dopo e che chiamano in causa le stesse toghe: «E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato». Dato a Cesare quel che è di Cesare, il procuratore capo non poteva, infine, non concedere qualche distinguo: «Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere. Gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso».

Lo Voi e l'antimafia di facciata: "È servita per affari e carriere", scrive Sabato 30 Gennaio 2016 "Live Sicilia". Intervento del procuratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo: "A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale". Poi, una frecciata agli imprenditori che "pretendono" la restituzione dei beni che sono stati sequestrati per mafia. (Nella foto il procuratore Francesco Lo Voi". "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. L'antimafia di facciata, che serve a scalare posizioni sociali e fare carriera, finisce "sotto attacco" del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nel corso dell'inaugurazione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ed ancora: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Eppure, secondo Lo Voi, basterebbe poco: "Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente". Poi ha lanciato un monito: "Da un lato dobbiamo essere estremamente vigili, tutti, per evitare che vi siano non soltanto infiltrazioni e sostenendo e supportando coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare. Dall'altro lato, dobbiamo evitare il danno peggiore, che è quello della generalizzazione. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso". "Mettere nel nulla i risultati ottenuti sarebbe assurdo. Pretendere, solo per fare un esempio, la restituzione dei beni sequestrati o confiscati ai mafiosi, addirittura costituendo associazioni ad hoc sarebbe ancora più assurdo", ha concluso riferendosi all'associazione costituita dopo il caso Saguto da imprenditori indiziati di contiguità mafiose ai quali erano stati sequestrati i patrimoni. 

Mea culpa di politica e magistratura, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 di Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". La gestione dei beni confiscati alla mafia tiene banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. A Palermo come a Caltanissetta autorevoli voci confermano che lo scandalo andava e poteva essere evitato, ma sono mancati i controlli. Dell'antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c'è solo retorica nei discorsi dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini. Sarà l'inchiesta e l'eventuale processo a stabilire se l'ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l'imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l'organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”. La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d'appello Gioacchino Natoli ha spiegato “che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto. A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con "i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine "coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse. E la politica? Anch'essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d'ombra. La stagione nuova che si è aperta - conclude il ministro - ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione". E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L'intervento più duro della giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell'antimafia: "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. Spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". 

L’Antimafia? Una, nessuna, centomila, scrive Salvo itale il 24 gennaio 2016 su Telejato. C’È QUALCOSA CHE NON FUNZIONA NEL MONDO DELL’ANTIMAFIA, DI SICURO NON FUNZIONA IL FATTO CHE CI SIA IN MEZZO IL DENARO. La vera antimafia, come sosteniamo da anni, tirandoci addosso le ire di tutte le associazioni antimafia, dovrebbe essere gratuita, in nome degli alti ideali cui fa riferimento e in nome di tutti coloro che sono morti per mano della mafia senza avere lucrato una sola lira. Recentemente lo stesso concetto è stato “scoperto” e ripetuto dal garante anticorruzione Raffaele Cantone e da un altro magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri. Un altro magistrato napoletano, Maresca, ha scatenato le ire di tutta la commissione Antimafia, a partire dalla sua presidente Rosy Bindi, e naturalmente anche di Don Ciotti, per aver affermato che anche in Libera “C’è del marcio”, ovvero che la più prestigiosa associazione antimafia dovrebbe stare un po’ più attenta nella scelta di coloro cui viene affidata la gestione di alcuni affari e di alcuni terreni confiscati alla mafia. La notizia di oggi è che il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, bandiera dell’antiracket e strenuo sostenitore del fatto che bisogna denunciare gli estortori, è stato sottoposto a perquisizioni domiciliari disposte dalla procura di Caltanissetta ed è sotto inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’indagine era partita da un articolo di Riccardo Orioles, scritto qualche anno fa, su “I Siciliani giovani” nel quale si denunciava che Montante era stato testimone di nozze del boss di Serradifalco. Montante, difeso a spada tratta dalla Procura Nazionale Antimafia e da tutti i suoi colleghi industriali, cammina sotto scorta, essendo ritenuto un soggetto esposto a ritorsioni mafiose per la sua costante attività in favore della legalità. Per anni è stato l’anello di collegamento con prefetti, questori, esponenti del governo, magistrati, industriali, tutti d’accordo ad esaltare le sue scelte antimafia e il suo coraggio. Addirittura era stato scelto da Alfano come componente dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati e quindi avrebbe potuto facilmente disporne l’assegnazione agli industriali suoi amici: per fortuna, dopo le polemiche sorte, non ha accettato. Ma Montante ha una serie di precedenti che dimostrano il fallimento dell’Antimafia di facciata, spesso scelta per non avere grane, per non essere sottoposto a indagini o, qualche volta, per coprire certi affari poco puliti. Il caso Helg, anche lui bandiera dell’antimafia, colto con le mani nel sacco, non è diverso da tutta una serie di altri casi che puntano alla spartizione di fondi governativi o europei al mondo delle associazioni antimafia, privilegiando quelle più vicine politicamente a certi uomini di potere. Nell’albo prefettizio, sono iscritte, solo per l’Italia meridionale oltre cento associazioni antiracket. Ma già nel marzo del 2012 le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva, mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. Allora i fondi del Pon erano stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ottenne finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro erano finiti a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta, quella di Montante. Allora si trattava di 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che facevano parte del Pon-Sicurezza, al fine di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Quei soldi furono distribuiti, con la benedizione dell’allora ministro Cancellieri e dall’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, del commissario antiracket Giosuè Marino, poi assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia e del presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto dallo scandalo sugli appalti pilotati dal Viminale. È cambiato qualcosa in questi anni? Niente: un mare di denaro pubblico finisce per finanziare progetti di “educazione alla legalità” preparati dalle associazioni antimafia e antiracket che vanno per la maggiore, ma i risultati sono pochi, contraddittori e senza risvolti. Per non parlare dell’antimafia da tribunale, della quale abbiamo detto tante cose, quelle legate alla gestione di Silvana Saguto e dei suoi collaboratori, con una caterva di persone che hanno succhiato a questa mammella senza ritegno, cioè magistrati, amministratori giudiziari curatori fallimentari, avvocati, affaristi, cancellieri, collaboratori a vario titolo, consulenti ecc. Per tornare alla Confindustria, dalle varie situazioni giudiziarie è uscito indenne Catanzaro, altro antimafioso che gestisce la discarica di Siculiana, scippata al comune, assieme al fratello, vicepresidente, sempre di Confindustria Sicilia. Si potrebbe dire ancora tanto, ma facciamo solo un cenno ai politici che dell’antimafia hanno fatto una loro bandiera, che sono presenti a tutte le manifestazioni e agli anniversari, che hanno costruito le loro fortune grazie a questa bandiera, ammainata quasi sempre, ma pronta a sventolare nelle grandi occasioni. Qualcuno direbbe che siamo nella terra di Sciascia, quella dei professionisti dell’antimafia, qualche altro direbbe che siamo in quella del Gattopardo, in cui si fa vedere l’illusione del cambiamento per non cambiare, o nella terra di Pirandello, dove il caciocavallo ha quattro facce, o meglio ne ha una, nessuna, centomila.

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive il 25 gennaio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

«Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati».

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

«Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante».

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

«Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano».

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

«Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico».

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

«Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose».

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

«Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!»

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

«Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi.»

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

«Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione».

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

«L’affermazione di Caruso ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale».

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

«Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!»

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

«Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli».

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

«Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili.

Per esempio?

«Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica».

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

«La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati».

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

«Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!»

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

«È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole».

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

«Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan».

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari».

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

«Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito».

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quando si è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

«No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca».

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

«Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”.»

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

«Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato».

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

«Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!»

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

«Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente».

I guai dei paladini antimafia. Rosy Canale condannata a quattro anni. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio..., scrive L.R. il 23 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari regolarono i conti in Germania con uno scontro a fuoco che provocò sei morti, fondò, nel piccolo centro aspromontano scenario della faida, il «Movimento donne di San Luca». Un barlume di luce, in apparenza, una speranza, ci si illudeva, che si chiude, tristemente, con la condanna a 4 anni per truffa e malversazione, a fronte dei 7 chiesti dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Francesco Tedesco. Dunque, per il Tribunale di Locri che l’ha processata, Rosy Canale, per anni considerata un’icona della lotta alle cosche, ha davvero utilizzato finanziamenti pubblici destinati all’attività del «suo» Movimento per scopi personali. La storia, che getta altre ombre sul mondo dell’antimafia di professione, scosso negli ultimi mesi da micidiali colpi d’immagine, inizia il 12 dicembre del 2013, giorno in cui la Dda reggina, coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho, fa scattare le manette ai polsi di alcuni ex amministratori comunali, imprenditori e boss. La donna simbolo dell’antimafia, alla quale non viene contestata l’aggravante mafiosa, finisce ai domiciliari. L’inchiesta, non a caso denominata «Inganno», appare subito solida. Alla Canale i magistrati contestano di aver utilizzato 160mila euro per comprare vestiti delle più note marche e una minicar alla figlia, arredamento per la casa e oggetti di lusso. Quando il Tribunale del Riesame revoca l’arresto, la Canale va in tv a parlare di «grande montatura». La sentenza di ieri toglie, per ora, ogni dubbio. Eppure lei, la donna simbolo di San Luca, nei panni della paladina antimafia ci si era calata alla perfezione: vergando libri per raccontare la sua ribellione alla ’ndrangheta, ricevendo il premio «Paolo Borsellino» (poi ritirato). Persino il Los Angeles Times dedicò un reportage alle donne di San Luca. La pessima figura dell’«antimafia di professione», stavolta, ha varcato pure i confini nazionali.

Rosy Canale, 4 anni per truffa alla paladina della lotta alla ’Ndrangheta. La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei», scrive Carlo Macrì il 22 gennaio 2016. Era considerata un'icona dell'Antimafia Rosy Canale, l'imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l'obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca». È proprio attraverso questo movimento che la Canale, 42 anni, riuscì a ritagliarsi un ruolo nell'Antimafia, «parlando» alle donne del centro preaspromontano all'indomani della strage di Duisburg (sei morti) dell'agosto 2007. La procura distrettuale di Reggio Calabria l'aveva arrestata a dicembre del 2013 con l'accusa di truffa aggravata e peculato per distrazione. La donna, infatti si era impossessata dei fondi pubblici comunitari e italiani erogati per finanziare la sua fondazione antimafia. Centosessanta mila euro che anziché foraggiare il laboratorio dei saponi artigianali a San Luca, sarebbero finiti nelle tasche dell'imprenditrice che li avrebbe utilizzati per l'acquisto di abiti firmati e un'auto per la figlia, vestiti per il padre e beni di lusso. E quando la madre ha cercato di fermarla - come hanno ascoltato le microspie dei carabinieri - Rosy replicava: «Me ne fotto, non sono soldi miei». Un passato da imprenditrice alle spalle, attività abbandonata dopo aver subito la violenza delle cosche reggine e un futuro da attrice. La sua storia, infatti, è diventata Malaluna, un'opera teatrale con la regia di Guglielmo Ferro e le musiche di Franco Battiato. Nel 2013, proprio per il suo impegno antimafia, aveva ricevuto il premio Borsellino. Quel giorno disse: «Vorrei che Papa Francesco venisse fra gli ultimi e i dimenticati di San Luca». Quando Rosy Canale arrivò a San Luca era una sconosciuta.  Ascoltando in chiesa il perdono di Teresa Strangio che nella strage di Duisburg perse il figlio e il fratello, l'imprenditrice capì che le donne di San Luca alla fine erano propense a rinnegare ogni violenza e a ripartire. La Prefettura le affidò un bene confiscato alla famiglia Pelle per dare inizio alle sue attività culturali. Ricami, cucina tipica, ogni donna a San Luca sembrava muoversi verso una nuova vita.  Tutto svanì. Perchè con «Inganno» l'operazione dei carabinieri che aprì le porte del carcere alla Canale, sfumarono le idee e la rinascita di un popolo per far posto all'arricchimento di una donna considerata sino a quel momento una paladina dell'Antimafia.

Condannata a 4 anni Rosy Canale, fondatrice di "Donne di San Luca". L'ormai ex simbolo dell'antimafia calabrese riconosciuta colpevole di aver utilizzato a scopi privati gran parte dei fondi pubblici destinati al suo movimento, scrive Alessia Candito il 22 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Rosy Canale Era divenuta un nome e un volto noto dell'antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca, ma con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un'automobile. Per questo motivo, i giudici del Tribunale di Locri hanno condannato a quattro anni di carcere l'ormai ex stellina dell'antimafia Rosy Canale, smascherata dall'inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha svelato come la donna tenesse per sé gran parte dei fondi destinati al "Movimento delle donne di San Luca". Ex titolare di una discoteca, dopo anni trascorsi tra gli Stati Uniti e Roma Rosy Canale torna in Calabria all'indomani della strage di Duisburg, l'uccisione di sei persone vicine al clan Pelle-Vottari di San Luca, che nel 2007 svela alla Germania il volto della violenza mafiosa. Anche in Italia, l'episodio impone la 'ndrangheta al centro dell'attenzione nazionale. E Canale fiuta il business. Accreditandosi come imprenditrice "con la schiena dritta", vittima di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna si precipita a San Luca dove fonda un movimento che - almeno ufficialmente - avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla 'ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini. Grazie a una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate - scrivono i magistrati - "con l'unico scopo di cavalcare l'allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali", Canale si accredita in fretta. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore" le inviano finanziamenti per centinaia di migliaia di euro. Al centro di San Luca, ottiene anche un immobile confiscato che sarebbe dovuto diventare una ludoteca per le sue "donne di San Luca", ma dopo l'inaugurazione non entrerà mai in funzione. Canale sforna un libro, gira l'Italia con il suo spettacolo teatrale e spende senza freni. A chi, come la madre, le raccomanda prudenza e moderazione - raccontano le intercettazioni - la donna risponde, arrogante: "Me ne fotto". Ma forse, alla luce della sentenza delle Tribunale di Locri, avrebbe fatto meglio a dare ascolto a quei consigli.

La verità di Rosy Canale: "Non ho preso soldi, ma ora sono una persona finita, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 23 giugno 2014. "Io sono una persona finita perché è stata intaccata la mia credibilità a 360 gradi su quello che io, Dottore, ho lavorato per anni ed ho creduto con tutta me stessa". E, ancora: "Ho una sola amarezza, che ho stimato tante – col cuore, persone che lavorano qua dentro e persona che lavorano qua dentro si sono permessi di dire delle cose che non erano vere, non avevano prove documentali screditandomi a livello nazionale e internazionale". Due interrogatori. Uno al cospetto del Gip Domenico Santoro, l'altro, alcuni mesi dopo, davanti al pm Francesco Tedesco. Interrogatori lunghi e intensi che non hanno permesso, tuttavia, a Rosy Canale, ex eroina antimafia e promotrice del Movimento Donne di San Luca, di evitare l'udienza preliminare davanti al Gup Davide Lauro nell'ambito dell'indagine "Inganno" che, oltre a svelare le ingerenze delle cosche nella vita pubblica del borgo aspromontano della Locride, coinvolgerà anche la stessa Canale che, a detta della Procura, avrebbe utilizzato una parte dei finanziamenti concessi da varie Istituzioni al Movimento per proprie spese personali. A Rosy Canale, gli inquirenti arriveranno grazie ai numerosi contatti che la donna avrà con gli amministratori locali di San Luca, fino al momento dello scioglimento del Comune. Il Movimento "Donne di San Luca" otterrà - per la propria attività di sostegno alle donne vittime della 'ndrangheta – anche un bene confiscato: un immobile sottratto alla potente cosca Pelle "Gambazza" di San Luca, destinato a ludoteca, inaugurata nel 2009, ma mai entrata in funzione. Rosy Canale avrebbe ricevuto finanziamenti da un arco vastissimo di Istituzioni. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore". E il lungo interrogatorio dal Gip Domenico Santoro, nei giorni successivi all'ordinanza cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della donna si sofferma sui vari finanziamenti ricevuti. A cominciare da quello del Consiglio Regionale, in quel periodo presieduto da Giuseppe Bova:

GIUDICE -. Mi dica di come nasce il finanziamento di 5.000 euro da parte della Presidenza del Consiglio Regionale.

INDAGATA CANALE -. Con una telefonata, Dottore, perché era periodo pre-elettorale e c'era gente che regalava soldi, se gliela devo proprio dire tutta in maniera sfacciata.

GIUDICE -. Ma con chi l'ha fatta questa telefonata?

INDAGATA CANALE -. Con Strangio, il segretario di...

GIUDICE -. Con l'Avvocato Giuseppe Strangio.

INDAGATA CANALE -. Esatto.

E però ci sono anche i soldi ricevuti dal Ministero della Gioventù, in quel periodo retto da Giorgia Meloni, "Giorgietta", come la chiama Rosy Canale in alcune intercettazioni. Un finanziamento che sarebbe nato da una telefonata del Capo Dipartimento del Ministero della Gioventù, Andrea Fantoma, interessato, a detta della Canale, alle attività delle Donne di San Luca:

INDAGATA CANALE -. E tra l'altro il Dottore Fantoma mi disse, proprio per chiarezza, che qualunque cosa succedeva e avevo bisogno di qualunque riferimento, l'uomo sul territorio che li rappresentava era Franco... aiutatemi... Franco... il Consigliere Regionale arrestato con l'accusa di avere collusioni...

GIUDICE -. Morelli?

INDAGATA CANALE -. Franco Morelli, esatto. Tra l'altro, Dottore, nel mio cellulare ci sono due o tre messaggi inviati al Dottor Morelli, dove io dico per conto del Dottor Fantoma mi ha detto di contattarla per dire se ci sono delle iniziative a livello regionale che ci possano aiutare in qualche modo, questa persona non mi rispondeva né telefonicamente alle chiamate e né ai messaggi, e poi un giorno mi scrisse: "Guardi, se vuole ci incontriamo" e lo può verificare agli atti, sennò le produco io il cellulare mio e lo può evidenziare, "Se vuole ci vediamo, tanto io non sono... non mi piace avere contatti telefonici" e poi voglio dire è questo.

Nel corso dell'interrogatorio di garanzia, il Gip Santoro contesta all'indagata una serie di conversazioni anche piuttosto imbarazzanti, dalle quali, secondo le indagini condotte dai pm Nicola Gratteri e Francesco Tedesco, emergerebbe l'uso disinvolto per fini personali di soldi destinati al Movimento Donne di San Luca: "Io ho un modo molto goliardico nel parlare a volte, spiritoso, che viene frainteso, è facilmente fraintendibile" si difende Rosy Canale. L'ex pasionaria antimafia, però, nega con forza di essersi appropriata di somme destinate per la lotta alla 'ndrangheta su un territorio difficile, come quello di San Luca: "Si può fare una visura patrimoniale e vedere che cos'ho, si può fare una visura di qualunque tipo, si possono prendere sotto sequestro i miei vestiti, Dottore, e vedere se ci sono cose più costose di 30 euro, vestiti come scarpe, non ho macchine intestate, cioè se io avessi preso questi soldi, che non ho preso Dottore, ci dovrebbe essere, come dire, un cambio di tenore che io non ho mai avuto, Dottore una traccia qualunque. Quando mi viene scritto qua, le ripeto, che io ho pagato una settimana bianca per mia figlia...". A proposito di antimafia e di lotta alla 'ndrangheta, nei propri racconti, spesso a ruota libera, Rosy Canale non disdegna qualche stoccata ad altri movimenti legalitari, quelli sì, a suo dire, fatti di parole e poco altro: "Io non sono stata una di quelle che scende in campo, Dottore, con i fiorellini, che va sottobraccio con i Procuratori per avere i finanziamenti di altro genere e fare le manifestazioni e poi intelligentemente e meno, come dire, sprovvedute di me, mettono le pezze d'appoggio e poi si fanno i fatti loro, io sono stata una di quelle che è scesa in campo a sporcarsi le mani a San Luca, e queste cose se si sarebbero realizzate, e magari il Signore si fossero realizzate, avrebbero cambiato il volto di quel paese, perché questi soldi... se io mettevo in campo una cosa del genere con il Ministero, che doveva fare questa cosa, perché il fatto di cavalcare la legalità molta gente la cavalca, ma la cavalca in altri sensi, Dottore, io sono andata a San Luca, ho vissuto con quella gente, io mi sono battuta lì. L'unica cosa è che Rosy Canale non ha fatto la favoletta, è andata lì sul territorio e oggi è qui a parlare con Lei per questo motivo, invece di fare le passerelle come altri". Lei avrebbe lavorato, lei si sarebbe battuta. E il Movimento sarebbe stato una cosa seria. Rosy Canale lo ribadisce anche lo scorso 30 aprile, quasi cinque mesi dopo l'emissione dell'ordinanza nell'ambito dell'operazione "Inganno": Viene scritto viene detto che il movimento delle donne è stato creato e fondato per creare con raggiri e artifizi diciamo per sottrarre dei soldi pubblici o comunque ecco allora, io brevemente sicuramente perché capisco che il tempo è prezioso per tutti però desidero che lei mi ascolti allora, io ho fondato questo movimento sono arrivata a San Luca poco dopo della strage di Duisburg per un desiderio mio personale. Già da subito avevo scritto una lettera via mail mi ero messo in contatto su facebook con il sindaco di allora che era Giuseppe Mammoliti scrivendo il mio cordiglio più profondo per tutto quello che era successo da calabrese, da persona che ama profondamente questa terra, lui mi rispose, da quel momento io ho iniziato a pensare a qualcosa che poteva che io nel mio pi piccolissimo potevo creare e fare per quella comunità". In quell'occasione, però, Rosy Canale ammetterà: "Io ho fatto un sacco di ingenuità". Con riferimento all'interrogatorio di garanzia, invece, più volte, il Gip Santoro contesta all'indagata le proprie intercettazioni, spesso dai contenuti autoaccusatori. Tutte frasi che Rosy Canale bolla come delle semplici chiacchiere, magari sconvenienti e superficiali, ma solo chiacchiere con le proprie amiche o con i propri familiari: "Le do questo aspetto, allora io e mio padre siamo molto... a volte parliamo di queste dinamiche qua, di alcuni aspetti della parte storica di quella che è una costruzione proprio... ricostruzione storica della 'ndrangheta, perché ci sono tutti degli aspetti anche, come dire, culturali, sociologici". Al Gip Santoro, però, le chiacchiere interessano poco. Interessano molto di più i fatti contestati alla donna, che, sempre secondo la Procura, avrebbe utilizzato decine di migliaia di euro per varie utilità personali: dall'acquisto due autovetture – una Smart e una Fiat 500 – a quello di vestiti e mobili, nonché la possibilità di effettuare viaggi di natura privata. "Me ne fotto". Così Rosy Canale rispondeva alla madre, che le raccomandava di spendere con attenzione i soldi che le arrivavano da Istituzioni varie: dalla Presidenza del Consiglio Regionale, alla Prefettura, passando per l'associazione "Enel Cuore". A detta dei giudici, i soldi destinati al Movimento "Donne di San Luca" "sono stati biecamente piegati ai propri interessi personali dalla presidente di quel movimento". Nell'ottobre 2009, in particolare, sarebbe arrivato un grosso finanziamento e proprio in quel momento, Rosy avrebbe sua figlia e "le chiede di che colore vuole le Hogan perché sono arrivati i soldi". La ragazza chiede "quanto si tiene lei e Rosy risponde che poi vedrà". Ma Rosy Canale si difende di fronte alle varie intercettazioni. Anche quella in cui ammetterebbe di aver tenuto per sé 3000 euro tra i fondi destinati alla ludoteca:

INDAGATA CANALE -. Aspetti, Dottore, non voglio mettere in difficoltà nessuno, però c'è una cosa, io questi 3.000 euro sono stata autorizzata dalla Prefettura a prenderli, loro mi dissero "Riserva per te, per il lavoro che stai facendo, 3.000 euro".

GIUDICE -. C'è una carta scritta?

INDAGATA CANALE -. No, non c'è niente di scritto.

GIUDICE -. Chi gliel'ha detto? Lei capisce che nel momento... o si avvale della facoltà di non rispondere o me lo dice, si sta difendendo, mi sta dando una prova d'alibi, tra virgolette.

INDAGATA CANALE -. Lo so, Dottore, però... il Dottore Priolo me lo disse.

GIUDICE -. Va bene.

INDAGATA CANALE -. Che era il mio angelo custode, mi disse... mi disse: "Guarda Rosy, tu stai facendo un lavoro grandissimo e credo che sia giusto che tu abbia qualcosa, prenditi 3.000 euro, non di più, però questi 3.000 euro prenditeli perché sono giusti".

Gianluca Calì ha acquistato all'asta un'abitazione di pregio un tempo di proprietà dei boss di Bagheria, Michelangelo Aiello e Michele Greco. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ne ha più potuto usufruire, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti nel mirino della procura, scrive Giuseppe Pipitone il 28 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Ha acquistato all’asta una villa un tempo di proprietà dei boss mafiosi. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ha più potuto usufruire dell’abitazione, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti sotto inchiesta. Da quando Gianluca Calì ha deciso di tornare a lavorare nella sua Sicilia i guai sono spuntati ad ogni angolo. Come funghi. Siamo ad Altavilla Milicia, zona costiera tra Bagheria, Casteldaccia e Palermo. È qui che Calì torna nel 2009 per aprire una succursale della sua concessionaria d’automobili milanese: la Calicar. Ma al pronti via, qualcosa comincia subito ad andare storto: a Calì arriva immediatamente una richiesta di pizzo dalla cosca mafiosa locale. “Richiesta che non mi sono mai sognato di assecondare, li ho denunciati” sottolinea lui da siciliano orgoglioso. Il 3 aprile del 2011 alcune automobili della sua concessionaria di Casteldaccia vanno a fuoco. La storia di Gianluca Calì, l’imprenditore antiracket, finisce sui giornali. “Mi è stato vicino soprattutto il centro Pio La Torre” dice lui. Intanto le indagini degli inquirenti portano in carcere 21 affiliati al clan di Bagheria: tra questi anche i suoi estorsori. Storia finita? Neanche per idea. Perché nel frattempo Calì ha avviato le pratiche per acquistare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona”, spiega. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello e al suo sodale Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata nelle disponibilità di un istituto di credito che lo mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice, dopo di ché mi aggiudicai la casa”, spiega Calì. E per un po’ sembra passare tutto liscio. La quiete però dura poco. Perché l’8 febbraio scorso la villa che fu dei boss viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se la costruzione fosse stata costruita di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo attuando dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo ritorna in possesso dell’immobile. I “solerti” ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un duplice intoppo burocratico? Un errore? Possibile. Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria ricattavano gli abitanti della zona minacciando il sequestro di immobili. In cambio chiedevano somme di denaro. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi – in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ha respinto l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati” scrive sempre il gip. A Calì però non è mai arrivata una richiesta formale di “messa a posto” per dissequestrare la villa. “Finora ho speso migliaia di euro per far valere un mio diritto contro un verbale che non sta né in cielo né in terra. Eppure questi si accontentavano di 500 euro”. Dalle maglie dell’inchiesta sui forestali però emerge anche altro: l’ombra della mafia di Bagheria. Un elemento in più se si pensa che i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco sono affidati dall’imprenditore palermitano a suo fratello, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli della piovra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato: condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo. Solo una coincidenza? Può darsi. Nel frattempo la villa che fu dei boss rimane sequestrata in attesa che la Cassazione si esprima nel settembre prossimo. “Io volevo soltanto provare a rilanciare la nostra terra. Ma per un imprenditore onesto, imbattersi non solo nella mafia, ma anche in infedeli servitori dello Stato non è un bel segnale”. E in Sicilia, isola che vive soprattutto di segnali, è ancora peggio.

Vatti a fidare dell'antimafia. Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama" il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

l pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive il 18 gennaio 2016 Carmelo Caruso su "Panorama". In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse. Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio". Le piace studiare il sottosuolo? "Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi".

È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra?

"Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato? "A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza". Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo". Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici? "Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi". Quando si ammala la magistratura? "Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "Per i beni confiscati alle mafie servono trasparenza e concorrenza". Il presidente dell'Anticorruzione, su "Panorama", spiega perché Libera "è diventata un brand di cui qualche speculatore potrebbe volersi appropriare", scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. "C’è chi usa l’antimafia, e va smascherato". Si esprime così Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato anticamorra attivo a Napoli, in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio. Cantone parla dell’opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia aveva lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, il magistrato che di Cantone è stato diretto successore nella Procura di Napoli, suscitando la sdegnata reazione (e un annuncio di querela) da parte di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Proprio su Libera, Cantone dice a Panorama: "È un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo Paese. Le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini, e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui le siamo grati. Certo, Libera è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un 'brand' di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato". Quanto al "caso Saguto", con l’inchiesta che a Palermo ha scoperchiato un sistema apparentemente deviato nella gestione dei beni sottratti alla mafia, Cantone dichiara a Panorama: "Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, ma lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche, soprattutto quando passano incarichi lucrosi e discrezionali a professionisti con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali".

Nessun monopolio, per allargare il fronte di chi combatte i clan. E bisogna consentire di vendere i beni sequestrati. Dopo l’inchiesta sui giudici di Palermo e le polemiche interne a Libera, interviene Giuseppe Di Lello, il magistrato del pool di Falcone e Borsellino, scrive il 21 gennaio 2016 “L'Espresso”. Le polemiche nell'antimafia dell'ultimo anno, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto magistrati che si occupavano a Palermo del sequestro dei beni ai mafiosi, e lo scontro interno a Libera, sono i punti che affronta Peppino Di Lello, ex magistrato dello storico pool antimafia di Caponnetto, Falcone e Borsellino, in un intervento scritto per l'Espresso che sarà pubblicato nel numero in edicola da venerdì 22 gennaio 2016. Di Lello affronta il problema dei beni sequestrati e ne propone la vendita: «Qualche rimedio sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato». L'ex magistrato antimafia che ha lavorato con Falcone e Borsellino, facendo riferimento all'inchiesta che ha coinvolto il presidente del tribunale misure di prevenzione, Silvana Saguto, scrive: «Il “caso Palermo” ha fatto emergere il problema degli incarichi agli amministratori giudiziari, assegnati quasi dappertutto con una inconcepibile discrezionalità: trasparenza e obiettività possono essere realizzate solo con una legge ad hoc. Ancor più difficile sarà applicare questi principi di buona amministrazione nell’assegnazione dei beni confiscati». Di Lello poi punta sulle associazioni antimafia: «Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 ndr) ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia».

Soffiate, call Center e anonimi: viaggio nel covo di Cantone, scrive Antonello Caporale. Il ministero dell’Onestà dista un alito dalla Fontana di Trevi e solo cento passi da Palazzo Chigi. Il padrone di casa è Raffaele Cantone, personalità il cui potere avanza come le quotazioni dell’oro in tempi di crisi. Ogni giorno un po’ di più. Cantone infatti non è un magistrato ma un metallo prezioso, insieme diga anticorruzione e tutor del corso collettivo sulla moralità pubblica. Scrutatore delle coscienze sporche, selezionatore delle pratiche migliori, dei buoni propositi e delle buone persone. Tutti lo vogliono, lo cercano e, se del caso, lo annunciano. Non è solo Matteo Renzi a utilizzarlo un po’ come le casalinghe fanno con Mister Muscle, il detersivo che spurga in cinque minuti. Expo, Giubileo, Mafia Capitale, l’arbitrato per gestire il rimborso dei clienti truffati dalle banche fallite. A una grana di rilevante entità nazionale segue la convocazione di Cantone che perciò a volte sembra, immaginiamo persino contro la propria volontà, il dodicesimo giocatore della squadra di governo in campo. Col tempo, e dal momento che deviare verso di lui produce profitti, un po’ tutti aspirano a una carezza cantoniana. È esploso il caso Quarto? Ecco Cantone. E Beppe Sala, il mister Expo candidato alla carica di sindaco di Milano, ha già annunciato che con Cantone sicuramente farà un patto, stringerà ancor di più l’amicizia fattiva e gli chiederà un occhio supervigile sui costumi meneghini, sottintendendo che lui può permetterselo ma gli altri candidati? Al palazzo di questo speciale ministero che è l’Autorità nazionale anticorruzione si accede dominati dalle decorazioni liberty della galleria Sciarra, ricca di partiture architettoniche, dipinta da Giuseppe Cellini. Palazzo sontuoso e imperiale come l’inquilino che lo ospita (la sua scrivania è un Luigi XVI niente male). Qui giungono le perorazioni dell’Italia onesta, le denunce, a volte le illusioni o le delazioni di un popolo che il nostro sente “iconoclasta, votato spesso al nichilismo. Sa quanti anonimi arrivano?”. Dottor Cantone, è l’Italia del rancore che bussa alla porta? “Credo proprio di sì. Ma la nostra dev’essere una casa di vetro, si accomodi pure”. Cinque piani di trasparenza, al quinto eccoci alla sala delle riunioni. “Sono stato nominato il 24 aprile 2014 e devo dire che la macchina ha iniziato a funzionare presto e bene”. L’organico prevede 350 tra funzionari e impiegati, un numero prossimo a essere raggiunto. Sono 302 gli effettivi, naturalmente divisi in sezioni. “La nostra missione è prevenire la corruzione, anticipare le mosse, contestare e, soprattutto, suggerire buone pratiche. Il nostro più grande potere è la moral suasion, la forza di questa Autorità è la sua reputazione. L’autorevolezza conta di più di ogni norma e devo dire che i frutti che si stanno avendo non sono modesti”. Giuristi di impresa, architetti, esperti di appalti, finanzieri. “Nel primo anno abbiamo “lavorato” 120.828 atti, una enormità. Rappresenta la somma delle denunce, degli esposti, delle deduzioni e controdeduzioni, è il risultato di un lavoro meticoloso, puntiglioso. Nell’anno 2015 il numero è lievitato a 151.988. Chi denuncia? “Purtroppo molti sono anonimi, noi approfondiamo laddove avvertiamo segnalazioni circostanziate di fatti evidentemente rilevanti. Facciamo una cernita e teniamo conto. Devo dirle però che la gran parte degli anonimi esala un sentimento purtroppo comune di noi italiani: in premessa la fanfara di grandi ruberie poi stringi stringi e arrivi alla miseria del furto dell’energia elettrica”. Chiunque scriva, email o lettere, sappia che c’è un ufficio protocollo occupato da una decina di impiegati. Stanze larghe e comode come altrove non è. La capo ufficio: “Leggiamo e smistiamo per competenza. Ci dividiamo in turni”. Si smista alle sezioni e da lì si avanza. Se viene ritenuta utile e documentata la segnalazione parte il servizio ispettivo. “Controlliamo l’appalto e teniamo un lumino acceso anche in corso d’opera”, dice Angela Di Gioia, segretario generale. Il baco della corruzione ha un concepimento seriale e uno sviluppo tipico. Tardano i lavori, s’interrompono spesso, si chiede l’aggiornamento prezzi, si autorizza la variante. O ancora: si affida l’appalto producendo un progetto esecutivo finto cosicché i lavori avanzino a vista e possano deviare. Al primo piano di palazzo Sciarra fa ingresso il malcostume italico che poi viene distribuito per piano. Più sale e più acuta è la rimostranza, grave il danno alle casse pubbliche. Ai trecento militi dell’onestà si aggiungono cinquanta lavoratori di uno speciale call center che gestisce via telefono le procedure corrette. Telefonano dalle amministrazioni centrali e locali. Telefonano i funzionari e telefonano le imprese. Un grande via vai di parole a leggere i dati sul numero dei contatti. Nel 2014 risultano 432 mila telefonate, nel 2015 già lievitate a 682 mila. Cantone riceve un compenso di 180mila euro l’anno, i quattro consiglieri (un magistrato e tre professori universitari) 150mila. Il presidente ha fatto il conto, visti i tempi, pure degli scontrini. Le differenze con Renzi si notano. Il premier, quand’era presidente della Provincia di Firenze, riuscì nell’impresa di far fuori quasi un milione di euro. Cantone mangia e beve di meno e non ha avuto finora bisogno del letto a cinque stelle. Nel 2014 per vitto e alloggio ha speso 1.065 euro. Da: Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016.

Mafiosi si nasce o si diventa? Quei minori tolti a mamma mafia. Sono 30 i minori sottratti per decisione dei tribunali alle famiglie della ’ndrangheta e affidati a coppie o comunità. Per i boss l’affronto peggiore. Perché così si spezza la trasmissione della cultura criminale, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Dite al Dottore che i figli non si toccano». Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché figli, nipoti e mogli, garantiscono la continuità dell’impero. Per questo il capo dei capi di Reggio Calabria, Giuseppe De Stefano, ha reagito in malo modo quando il pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al tribunale d e i minorenni di far decadere la patria potestà sui piccoli eredi. Un colpo durissimo per il padrino dello Stretto che ha sempre reagito a processi, sequestri di beni e latitanze, con un sorriso beffardo. L’affronto, senza precedenti, aveva aperto una crepa profonda in quel monolite criminale che da 40 anni dominava l’intera città. Educare la prole a un avvenire da mafioso può avere conseguenze pesanti: l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alla ’ndrangheta. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati i provvedimenti di questo tipo e sempre più casi sono finiti sotto la lente degli inquirenti. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è l’unico ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Dalle informazioni di cui è venuto a conoscenza “l’Espresso”, il numero è destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie, in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole, ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». Il legame di sangue in questa organizzazione non ha eguali nel mondo della criminalità. E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. «Spara!». Il padre ordina, il figlio esegue. Ha solo 7 anni, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza. L’arte della ’ndrina si apprende tra le mura domestiche. In un’altra casa, le cimici hanno catturato in diretta una lezione di mafia: il patriarca spiegava all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per apprendere direttamente sul campo. Come a San Luca, cuore delle tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Nel processo Fehida, che ha visto alla sbarra i carnefici della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, c’erano anche alcuni minorenni accusati di associazione mafiosa e concorso esterno. Crescono così i figli d’onore, fanciulli di ’ndrangheta, costretti a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno da cadaveri o ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis. Intere dinastie sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per esempio, la ’ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e i suoi due figli maschi. Secondo gli ultimi dati del ministero, aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni accusati di associazione mafiosa. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. La «smuzzunata» è il battesimo da ’ndranghetista dei bimbi appena nati. È un diritto e un privilegio che spetta solo ai figli dei boss. Un marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non scritto. Che trasforma la famiglia naturale in ’ndrina, nucleo fondante della mafia calabrese. «Quando la moglie di uno ’ndranghetista di grado elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato nelle fasce con la “smuzzunata” e, per il rispetto goduto dal genitore, entra a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita. Percorrerà così tutta la gerarchia mafiosa». Giuseppe Scriva, è il pentito che a metà anni ’80 ha sviscerato i segreti della più potente tra le mafie moderne. E sono proprio queste regole, tra mistero e leggenda, che hanno garantito ai clan calabresi continuità generazionale. Le nuove leve, i figli e nipoti degli anziani padrini, hanno lanciato la ’ndrangheta nel mercato della modernità, mantenendo intatto, però, il dna arcaico. Sono giovani che investono milioni di euro a Roma come a Toronto, ma legati indissolubilmente alle antiche regole della “famiglia”. Negli ultimi vent’anni il tribunale dei minorenni di Reggio ha celebrato cento processi per reati di mafia. Gli imputati erano rampolli non ancora diciottenni delle cosche più blasonate. Giovanissimi ma con un curriculum da malavitosi esperti. Le condanne non hanno, però, frenato la loro ascesa criminale. Così a distanza di tempo c’è chi è rinchiuso al carcere duro, chi, invece, è stato ucciso e chi ha conquistato il vertice. Negli stessi vent’anni l’ufficio, ora diretto dal presidente Roberto Di Bella, ha giudicato anche una cinquantina di casi di omicidio. «Il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare e che invece abbiamo abbandonato», ragiona Di Bella, che dal suo insediamento ha dato vita a un protocollo unico in Italia. È convinto che il documento firmato con procura dei minori, antimafia e servizi sociali può davvero salvare molte vite dalla morte e dal carcere. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni ’90. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta nel suo piccolo ufficio-trincea. L’anno della svolta è il 2012: «Da allora stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». Una misura estrema. Che ha sollevato molte critiche, anche da parte della chiesa. È convinto che sia la strada giusta don Pino De Masi, vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nel territorio caldissimo della piana di Gioia Tauro. «Dobbiamo mettere questi ragazzi nelle condizioni di scegliere un’alternativa che non sia l’interesse della cosca», è netto De Masi. «Nella mia parrocchia vengono anche i rampolli, qualcuno timidamente mi dice che il cognome che porta gli pesa. Sta a noi aiutarli a fare il passo successivo», spiega il parroco. Il fronte degli scettici, invece, ha azzardato persino un paragone: «Dalla confisca dei beni a quella dei figli». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. I primi giorni dopo l’allontanamento sono i più difficili. Chi conosce i casi racconta di incubi che angosciano le notti dei bambini. Sono pensieri di morte, con simboli ben precisi: bare, sangue, violenza. I brutali insegnamenti riaffiorano nella nuova vita distante dai papà-boss. Il tribunale si occupa anche dei minori colpevoli di un reato e messi alla prova come alternativa al carcere. Vengono affidati a comunità ma restano in Calabria. Continuano così a frequentare l’ambiente di provenienza. La maggior parte respira cultura mafiosa da quando è nato. Una mentalità che distorce il rapporto con le istituzioni: «Ricordo un ragazzo, ospite di una comunità, con i tatuaggi di un carabiniere sotto la pianta del piede, così da calpestare la divisa a ogni passo, e il giuramento della ’ndrangheta sul cuore», racconta un operatore sociale. A volte per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza dello Stato. Come spiegare altrimenti il gesto di quel gruppo di mamme che ha chiesto aiuto al presidente Di Bella. Chiedono di essere portate via insieme ai figli. Lontano dai mariti. È una piccola rivoluzione in corso. L’avanguardia è fatta da una decina di madri che hanno deciso di chiedere aiuto al tribunale e di collaborare. «È un fenomeno del tutto nuovo. Queste signore hanno esperienze terribili alle spalle, quindi vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. E c’è anche un lieto fine perché molti dei casi trattati, inviati al nord, non vogliono più tornare nei paesi d’origine», aggiunge il presidente. Non sempre però il finale è dei migliori. I figli di Maria Concetta Cacciola - la pentita che la famiglia ha spinto al suicidio per aver scelto di andare via da Rosarno per collaborare con la giustizia - sono tornati nel paese degli zii. Nel frattempo il padre che teneva segregata in casa Maria Concetta è tornato in libertà. Gli educatori che lavorano con i due adolescenti sono amareggiati, perché in quel contesto l’esempio esplosivo di ribellione della loro mamma è stato depotenziato. «Il figlio maschio è come se avesse rimosso la vicenda, è intriso purtroppo di quella mentalità che sua madre ha messo sotto accusa», racconta una fonte. Un’occasione di riscatto persa. Al civico 404 del corso principale di Reggio Calabria c’è un piccolo ufficio che segue la gran parte dei casi di allontanamento. Attualmente i ragazzi affidati a questa squadra sono dieci. Provengono tutti da cosche affermate nel panorama criminale. «Interveniamo immediatamente dopo la decisione del tribunale», spiega la dirigente Giuseppa Maria Garreffa, che specifica: «Alla base di ogni allontanamento c’è sempre un procedimento nei confronti dei genitori». In queste stanze si lavora ininterrottamente. «Siamo sovraccarichi», sospira Garreffa, «ma resistiamo». Finché questi giovani seguono il percorso studiato dal team del ministero tutto sembra andare per il meglio. Poi, quando compiono 18 anni, sono liberi di tornare nel paese in cui sono nati. E una volta rientrati il cognome pesa ancora come un tempo. «Il contesto in cui tornano è spesso decisivo. Vengono accolti, “rieducati”, indottrinati. Non dimenticherò mai quando un ragazzo ci disse: “grazie per quello che fate, ma io devo... non posso scegliere”. Ecco, il dovere di seguire le orme dei padri è la vera condanna di questa terra». Come in “Onora il padre” di Gay Talese, il passaggio di consegne tra padre e figlio è un automatismo che imprigiona i più giovani. Il figlio del boss, per i compaesani, è sempre il figlio del boss. E va riverito. Un meccanismo che molto spesso vanifica i risultati ottenuti lontano dell’ambiente familiare. È un investigatore a raccontarci una scena che ricorda il Padrino di Francis Ford Coppola: «In un paesone arroccato nell’Aspromonte, al termine del funerale dell’anziano del clan si è formata la fila per salutare con grande rispetto il capomafia e il suo bambino, prossimo erede, che per l’occasione aveva fatto ritorno a casa dalla struttura dei servizi sociali». Il passaggio è devastante: da un luogo e una scuola in cui amici e compagni li considerano semplici coetanei con cui giocare o fare i compiti, a una realtà in cui l’etichetta di provenienza esercita ancora fascino sugli altri. «Se i servizi sociali sono inadeguati, se non c’è lavoro, se manca il diritto alla mobilità, come possiamo pensare di lottare contro una multinazionale del crimine che offre denaro e successo immediato ai giovani?», conclude Garreffa. «Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza», ragiona Di Bella. Una soluzione la propone il pm Lombardo, il primo ad aver intrapreso, nel 2008, la strada del distacco forzato: «Prima di arrivare alla misura estrema della revoca, si potrebbe immaginare un modello misto, flessibile. Con percorsi di sostegno ai genitori che, però, devono dimostrarsi volonterosi e pronti a tagliare con il passato». S. ha un cognome ingombrante. Nella Locride molti tremano solo a sentirlo pronunciare. Il suo sguardo però non è arrogante. Sorride spesso, preferisce parlare in dialetto, anche se con l’italiano se la cava abbastanza bene. Ha compiuto 18 anni da poco, e invece di dedicarsi allo studio e al divertimento, ragiona già da manager navigato: «Ormai in questa terra non si può più investire denaro», sussurra. Fa il cassiere nell’hotel di famiglia, dissequestrato da poco. Guadagna 1.600 euro al mese. Non male per un ragazzo così giovane, in una provincia, Reggio Calabria, ultima per qualità della vita secondo la classifica del “Sole 24 Ore”, che comprende tra gli indicatori il tenore di vita e l’occupazione. Incontriamo S. in una saletta del centro don Milani, un punto di riferimento per gli adolescenti di Gioiosa Marina e Gioiosa Ionica. Comuni attaccati, con due sindaci e due giunte differenti. Nella piazza di Gioiosa Ionica c’è un murale dedicato a Rocco Gatto: il mugnaio comunista ucciso dalla ’ndrine del paese per non essersi piegato alle loro richieste. È il simbolo dimenticato della Locride anti ’ndrangheta. Il suo omicidio doveva servire da monito per tutto il neonato movimento antimafia. All’inizio di dicembre, invece, il nuovo e giovane sindaco, Salvatore Fuda, è stato minacciato con alcuni colpi di pistola sparati sulla fiancata dell’auto. La violenza è il ponte che lega il passato e il presente di questi luoghi. S. è cresciuto a Gioiosa. Si presenta all’appuntamento ben vestito, il suo abbigliamento è tutto firmato. L’orologio costoso di metallo nero al polso destro, il bracciale d’argento in quello sinistro. S. sogna di trasferirsi in Canada, dagli zii. Per il momento si divide tra la cassa dell’albergo e il commercio di olio in società con il fratello. È finito al don Milani per tre bravate, l’ultima è guida senza patente: «Guidavo una moto 125, che sarà mai?», sorride. Il tribunale gli ha concesso la messa alla prova, che prevede un percorso di volontariato. Il responsabile del centro è Francesco Riggitano e tutto il tempo che ha disposizione lo dedica ai ragazzi di questi paesi della Locride. «Ci sono famiglie mafiose storiche, importanti, nelle quali la trasmissione mafiosa è evidente. La nostra esperienza ci dice però una cosa: si incide più facilmente sulla manovalanza, su quei ragazzi le cui famiglie non sono criminali da generazioni. Diverse mamme di questi soldatini si sono rivolte a noi per toglierli dalla strada». Il centro è frequentato da tanti ragazzi. Una risorsa straordinaria in questo deserto della Locride. D’altronde crescere qui, o a Rosarno, o tra i boschi dell’Aspromonte, oppure nel quartiere Archi di Reggio Calabria, è una lotta quotidiana. Non ci sono cinema, teatri, polisportive. Sale giochi e strade abbandonate diventano gli unici spazi di aggregazione. Al Don Milani c’è anche una squadra di calcio, la Seles (acronimo di Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport), diventata un punto di riferimento per bambini e adolescenti. Gli allenamenti hanno strappato i giovani dalla strada. Simbolicamente è come aver dato un calcio alla ’ndrangheta. Per Riggitano e i suoi collaboratori non è tutto facile, anzi. «Su 42 comuni della Locride, solo il 30 per cento di questi ha assistenti sociali di ruolo», denuncia Francesco. Troppo pochi per svuotare le madrasse dei clan, che trasformano ragazzini senza possibilità in picciotti d’onore.

Non crescerai mafioso: i minori tolti alla mafia. Sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici dei minorenni hanno deciso di allontanarli dalle famiglie di 'ndrangheta. Togliendoli ai padri-padrini per offrirgli un'alternativa alla vita scelta per loro dagli adulti, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 14 gennaio 2016. C'è un nuovo fronte nella lotta alla 'ndrangheta aperto dai magistrati di Reggio Calabria. Qui, infatti, il tribunale dei minorenni è l’unico in Italia ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Un numero destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole o ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega a “l'Espresso” il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. Bambini che a sette anni sono costretti a sparare, ragazzi più grandi che assistono a lezioni di mafia impartite dai papà-boss oppure adolescenti trasformati in vedette durante le faide. Crescono così i figli d’onore. Senza una vera alternativa e senza possibilità di scegliere. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. D'altronde la 'ndrangheta è fondata sulla famiglia: i legami di sangue hanno un valore enorme in questa organizzazione, più che in qualsiasi altra mafia. Tanto che esiste un rito, la «smuzzunata», per i bimbi appena nati. È Il battesimo da 'ndranghetista, un diritto che spetta solo ai figli dei capi. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni Novanta. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che ha creduto fortemente in questo protocollo. «Dal 2012 stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. Gli interventi dei giudici stanno dando i primi risultati. Hanno stimolato la reazione di diverse donne. Che hanno deciso così di chiedere aiuto e di collaborare. La ribellione, quindi, è possibile. E questo gruppo di mamme lo dimostra: una decina di mogli di alcuni importanti padrini che hanno bussato alle porte del tribunale per collaborare. Lo fanno, dicono, per salvare i figli.

Pro e contro l'allontanamento forzato. Quattro opinioni (e quattro libri) prendono posizione sul distacco dei bambini dalle famiglie mafiose, scrive Angiola Codacci-Pisanelli su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». Sembrano parole inventate per giustificare i giudici calabresi che tolgono i figli a chi è condannato per mafia per dare a quei ragazzi un futuro lontano dalla delinquenza. Invece sono parole vere, dette da un giovane mafioso che per i suoi crimini sconterà 26 anni, continuerà a sognare di costruirsi una vita migliore e alla fine, sconfitto da una burocrazia ancora più impietosa dell’ergastolo “ostativo”, uscirà come il Miché di Fabrizio De André: «Adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir...». Siamo a Torino alla fine degli anni Ottanta, ai margini di un maxi processo alla mafia catanese. Salvatore, uno dei più pericolosi tra i 242 imputati che assistono alle udienze chiusi in gabbie d’acciaio, chiede un colloquio al Presidente della Corte d’Assise, Elvio Fassone. Le sue parole, con quella nostalgia per un destino diverso da quello assegnatogli dalla «lotteria della vita», segnano un punto di svolta nel rapporto tra quel pluriomicida e il giudice che firmerà la sua condanna. Ne nasce un rapporto epistolare durato 26 anni, un libro composto e struggente (“Fine pena: ora”, Sellerio) e l’impegno personale di Fassone per mitigare una pena che «è una vera barbarie: una sentenza della corte europea del 2013 ci obbligherebbe a riesaminare caso per caso dopo 25 anni di carcere». Nel libro il rapporto malato tra infanzia e mafia torna tre volte. Nel bambino che Salvatore era e che non aveva altra strada che la delinquenza. Nei figli che non ha potuto avere dalla “ragazza perbene” che non ha fatto in tempo a sposare e che dopo anni d’attesa ha rinunciato ad aspettarlo. E nell’ansia per i nipotini, «quattro discoli» che con il padre anche lui in carcere e la madre che «si arrabatta come può» ormai «non rispettano nessuno». Salvatore si tormenta: «Dovrei esserci io insieme a loro, gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro altrimenti finiscono dove sono finito io». Eppure Fassone non è favorevole all’idea di togliere i figli ai mafiosi, un provvedimento che, se andasse avanti una proposta presentata nel 2014 dal deputato renziano Ernesto Carbone, potrebbe diventare legge. «Sono sempre riluttante davanti agli interventi coercitivi, anche se fatti con la certezza di “fare del bene” a un innocente», spiega Fassone. «Mi rendo conto però che quando un nucleo è radicato in ambito mafioso può essere una scelta accettabile. Purché però non si perdano i contatti con la madre. Pensiamo a questi bambini: con il padre in carcere, la madre diventa ancora più importante...». A preoccupare l’ex giudice torinese quindi non è tanto la possibilità che la perdita dei figli diventi una pena accessoria ancora più esasperante per dei condannati già difficilissimi da recuperare, quanto l’effetto sui bambini. Che oltretutto quando arriva la decisione dei giudici sono spesso già adolescenti. Non è troppo tardi? No, spiega Massimo Ammaniti, specialista di psicologia dell’età evolutiva. Nel suo “La famiglia adolescente» (Laterza), lo studioso mette a fuoco gli anni in cui «si conclude per i figli la fase del rispecchiamento e comincia - o dovrebbe cominciare - un processo diverso, la mentalizzazione». È questo il momento giusto, spiega a “l’Espresso”, «per cercare di costruire un senso civico che nasce da un’educazione a far proprie le regole e a capire il punto di vista dell’altro. Un’educazione all’empatia e alla mentalizzazione, la capacità di “leggere nella mente dell’altro” che entra in crisi fra i dodici e i quattordici anni, quando i ragazzi iniziano a prendere le distanze dal modello dei genitori». Ma il distacco forzato dai genitori è giustificato? «Sì, perché chi cresce in una famiglia mafiosa è vittima di una forma di abuso psicologico. Non è molto diverso da quello che succede ai bambini soldato della Sierra Leone. Toglierli alla famiglia è un modo per proteggerli da un meccanismo di affiliazione tanto più potente perché fa uso anche dell’affetto. E dal pericoloso senso di onnipotenza che ne deriva: appartenere a una famiglia mafiosa crea un’identificazione col gruppo che porta a un disturbo dell’identità, perché ci si sente parte di un sé grandioso». E comunque parliamo di affido temporaneo, «ben diverso dalla pulizia etnica o politica, dai bambini tolti ai nomadi in Svizzera o ai desaparecidos in Argentina». Questi distinguo non bastano a chi considera i provvedimenti «una vera barbarie, oltretutto con risultati minimi». È categorica Silvana La Spina, scrittrice catanese che nell’ultimo libro, “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti) si è allontanata dall’attualità, ma che all’atteggiamento dei bambini di fronte alla malavita ha dedicato anni fa “La mafia spiegata ai miei figli (e anche ai figli degli altri)” (Bompiani). «Lo Stato non può pensare di salvare un solo bambino lasciando intatta la cultura malata di interi territori. Deve entrare nelle famiglie: medici, psicologi, assistenti sociali devono trovare gli “anelli deboli” che possono spezzare la catena, lavorare con le donne che sempre più spesso si oppongono silenziosamente». Allontanare un singolo bambino dal “contagio” «può creare una forma di rancore controproducente», nota la scrittrice. Che aggiunge: «Se è vero che la ‘ndrangheta ha ancora comportamenti tribali, lo Stato non può limitarsi a togliere un bambino dalla tribù. Deve aiutare la tribù intera». «I giudici calabresi hanno ragione», ribatte Melita Cavallo. «Ne sono convinta fin dagli anni Novanta: l’ho scritto chiaramente nel mio libro “Ragazzi senza”. Se si fosse intervenuti allora non vivremmo lo stato di cose di oggi». Alla vigilia dell’uscita di “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza), ritratto delle “nuove” famiglie italiane attraverso quindici storie vere, l’ex presidente del tribunale per i minorenni di Roma da poco in pensione ha ben presente la situazione delle famiglie mafiose: «Non si può mai procedere per categorie. Il Tribunale decide sui casi singoli: non concorderei mai con un allontanamento “di massa” dei bambini da ambienti mafiosi, ‘ndranghetisti o camorristi. E comunque si nomina un tutore che fa da tramite tra la famiglia e il bambino nella sua nuova situazione: si evita così che nel piccolo si crei una ferita che non sarebbe facile risanare nel tempo». Ma c’è un altro modo di sottrarre questi piccoli alla “lotteria della vita” che li porta alla delinquenza. «Lo Stato deve intervenire pesantemente: non con esercito e polizia ma con la scuola. Una scuola che prende bambini e ragazzi dalle 8 alle 16, 30, in un territorio ricco di ludoteche, palestre e luoghi di incontro per suonare, disegnare, leggere, creare insomma un gruppo alternativo al modello familiare. Questo tipo di politica non paga subito, i suoi effetti si registreranno dopo anni, ma salverà migliaia di ragazzi». E non più solo i bambini del singolo camorrista che a vent’anni da quando lei aveva deciso l’allontanamento dei figli le scrisse dal carcere ringraziandola «perché i ragazzi si erano salvati».

Figli dei boss Luperti Riina e Company mafiosi per sempre. Brindisi e mafia, Luperti querela «Emiliano mi ha dato del mafioso». Controffensiva dell’ex assessore di Consales: «In Commissione antimafia Emiliano ha portato città indietro di vent’anni e ha fatto passare me per quello che non sono», scrive "Il Corriere del Mezzogiorno" il 22 febbraio 2016. «Posso accettare qualsiasi critica sul mio operato politico, ma nessuno dica che sono un mafioso. Mafioso no, proprio non posso accettarlo. Per me, per la mia famiglia». L’ex assessore all’Urbanistica del Comune di Brindisi, Pasquale Luperti, con questa motivazione annuncia che querelerà il presidente della Regione Michele Emiliano. Dal governatore, infatti, si sarebbe sentito offeso per i riferimenti, fatti anche in sede di Commissione antimafia, al padre Salvatore e allo zio Antonio, il primo già condannato per associazione mafiosa. I due furono uccisi alla fine degli anni novanta nell’ambito di una guerra di mafia in seno alla Scu scoppiata per la gestione del traffico di sigarette di contrabbando. Emiliano nel dicembre aveva chiesto le dimissioni di Luperti dalla giunta guidata da Mimmo Consales (Pd), arrestato per corruzione lo scorso 6 febbraio. «Con il suo racconto - spiega Luperti - Emiliano ha portato Brindisi indietro di vent'anni, facendo passare me per quello che non sono e cioè una persona collegata con la Sacra corona unita che ha potuto creare infiltrazioni nella pubblica amministrazione. Mio padre è morto 20 anni fa, e se io sono diverso lo devo anche a lui. Ci ho messo tantissimo per farmi conoscere e apprezzare. Accetto tutte le critiche ma non l'appellativo (mai detto in maniera esplicita da Emiliano, ndr) di mafioso. Quel mondo mi ha distrutto una parte di vita».

"Il giorno della civetta" e i figli dei boss, scrive di Valter Vecellio. "Lasci stare mia figlia", ruggisce il capo mafia. Il capitano dei carabinieri che gli sta di fronte, ed è venuto ad arrestarlo, gli chiede conto delle ingenti somme di denaro depositate in tre diverse banche, il suo apparente non far nulla, l'irrisoria denuncia dei redditi, nonostante il reddito reale sia elevato; e osserva che anche a nome della figlia risultano, altri, cospicui depositi, lei che studia in un costoso collegio svizzero...Poi, dopo lo scatto, il boss riprende il controllo dei nervi: "Mia figlia è come me", sibila, ma più a rassicurarsi, che a smentire il capitano; e magari, chissà, col tarlo, il dubbio, il sospetto che forse quell’uomo in divisa così diverso da lui per esperienze, cultura, nascita e accento, possa aver ragione e compreso quello che lui non ha capito e non vuole capire quando, poco prima gli aveva detto: "Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiate: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta...". E’ una scena de "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, più del romanzo che del film. Nel film la ragazza si vede, compare, è devota nel porgere i calzini al padre, svegliato di soprassalto, e anche complice: il boss infatti le affida qualcosa che deve far “sparire”. Nel romanzo è invece una presenza evocata, non compare mai. Il romanzo - è bene ricordarlo - Sciascia lo scrisse più di cinquant'anni fa. Il capitano Bellodi e don Mariano Arena sono di fronte uno a l'altro, il mafioso poi descrive quelle che a suo giudizio sono le cinque categorie in cui si divide l'umanità; Bellodi individua nella legge, nel rispetto del diritto, le "armi" per sconfiggere la mafia. E’ un brano che autorizza una cauta speranza: quella che attraverso lo studio, la cultura, i figli e i nipoti di mafiosi riescano a levarsi di dosso la mafiosità dai loro padri e zii e nonni vissuti come "naturale", una pelle; e diventino appunto pietosi, rispettosi. Anni dopo, non a caso, richiesto su quello che i ragazzi potevano fare contro la mafia, Sciascia lapidario risponde: “Magari una marcia in meno, e un libro in più”. Quasi naturalmente ho pensato a quel brano de “Il giorno della civetta”, nell'apprendere che la diciassettenne figlia del boss latitante Matteo Messina Denaro (si dice erede di Totò Riina), avrebbe convinto la madre a lasciare la casa dove le due donne hanno sempre vissuto, e per andare altrove. Un po' frettolosamente si è scritto che la ragazza - e con lei la madre - si sono "ribellate": "la ragazza vuole vivere lontano dai familiari del papà. Una scelta rivoluzionaria perché suona come sfida ai codici di Cosa nostra''. Ribellione è una forzatura. La ragazza, che ha un suo profilo su facebook, il giorno del compleanno del padre, gli fa gli auguri, sotto forma di un cuoricino rosso, e scrive frasi di delicata malinconia: "Quanto vorrei l'affetto di una persona e, purtroppo, questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino...". Già perchè la ragazza, a differenza di altri figli di boss (quelli di Totò Riina, o di Bernardo Provenzano, o Nitto Santapaola, per esempio) non avrebbe mai visto il padre in vita sua. Sa chi è, quello che ha fatto e fa, ma non lo ha mai visto. Con la madre ha vissuto per quasi vent'anni nella casa della madre di Messina Denaro, e con le sorelle di lui; ma ora aspira a vivere una vita normale di una normale diciassettenne. Ha un fidanzatino, vorrebbe fare quelle cose che fanno tutte le sue coetanee, fuori dalla "gabbia" della mafiosità della famiglia del padre. La sua non è una ribellione, piuttosto la richiesta di una liberazione. Qualcosa deve aver toccato il cuore spietato del boss, o "semplicemente" ha fatto i suoi conti, si è reso conto che era meglio allentare di qualche anello la catena. Perché una cosa è indubitabile: se le due donne possono andare a vivere altrove significa che il boss si è convinto che la cosa si può fare. C’è da augurarsi ora, che la ragazza, staccandosi da quell'ambiente e vivendo normalmente la sua giovinezza, come la figlia di don Mariano Arena, e nonostante l’ambiente in cui è vissuta, il retaggio, i condizionamenti patiti e subiti, ne acquisti in “gentilezza”, “pietosa” verso tutto ciò che il padre disprezza, “rispettosa” verso tutto ciò che i mafiosi non rispettano. Merito della cultura, della “lettura di qualche libro in più”? Altri figli di boss, come quelli di Bernardo Provenzano, hanno studiato e si sono laureati in Germania, e con la mafia non hanno nulla a che fare. Si sono liberati, o vogliono cercare di liberarsi, della “pelle” mafiosa. Altri, al contrario, proprio grazie a lauree e specializzazioni in prestigiose università, hanno ulteriormente affinato le tecniche criminali e ampliato gli “imperi” dei padri e dei nonni. Ad ogni modo, resta l’intuizione di Sciascia, che merita di essere approfondita e studiata. Se dicessi che già cinquant’anni fa aveva capito tutto, lui per primo inarcherebbe il sopracciglio, con un gesto di muto rimprovero. Tutto no, ma tanto, e l'essenziale, probabilmente sì.

Chi condanna i figli dei Boss, scrive Alessandro Ziniti su "La Repubblica". Il figlio di Totò Riina chiede il rilascio della certificazione antimafia. Indiscutibilmente è una notizia e, come tale, i giornali, "Repubblica" in testa, la pubblicano con il dovuto rilievo. Due settimane dopo, a Corleone, l'azienda agricola dei figli del boss e la lavanderia della moglie e dei figli di Bernardo Provenzano sono costrette a chiudere i battenti. Il prefetto e la Camera di commercio non hanno dato le necessarie autorizzazioni e le due attività, di per sé assolutamente legali, devono immediatamente cessare. Certo, è un'altra notizia che fa scalpore e che fa discutere. Ma, con altrettanta certezza, avrebbe fatto più clamore se agli eredi dei due capi assoluti di Cosa nostra fosse stata rilasciata la certificazione antimafia. Vi immaginate, lo Stato che rilascia la patente di antimafiosità ai figli di Riina e Provenzano? Impossibile. Eccole, allora, a secondo della prospettiva da cui la si guarda, le tante facce dell'ultima vicenda che ha riportato Corleone agli onori della cronaca. Lo Stato, con i provvedimenti dei giorni scorsi, ha - nei fatti - detto ai giovani figli dei capi di Cosa nostra che a loro non è consentita alcuna attività "lecita". Intendiamoci: l'azienda di macchine agricole e la lavanderia non sono state chiuse perché condotte irregolarmente ma perché i legami dei titolari con la criminalità organizzata "appaiono inequivocabili". E dunque, in assenza dei requisiti personali, non sono nelle condizioni di ottenere le certificazioni che le leggi dello Stato richiedono ad un qualunque cittadino. I figli dei boss sono dunque condannati a non potere avere un futuro da "qualunque cittadino"? I provvedimenti di questi giorni dicono di sì, ma davanti all'umano dubbio morale o alla semplicistica "solidarietà" che i giovani rampolli di Cosa nostra possono raccogliere, vale forse la pena di riflettere sul fatto che a decretare questa terribile condanna non è solo lo Stato (almeno quello che non intende abbassarsi ad alcuna "trattativa") ma, primi di tutti, i loro padri. Quei padri che, in cella o latitanti da una vita, non sono riusciti a costruire per i loro figli un futuro migliore. Certo, non deve essere stata facile la decisione del prefetto di Palermo prima, del sindaco di Corleone poi, e poi ancora del presidente della Camera di commercio: la ragion di Stato ha prevalso, e non avrebbe potuto essere diversamente, su quella del "recupero" di questi ragazzi alla società civile. Dice il sindaco di Corleone Pippo Cipriani, ogni giorno a contatto con i giovani Riina e Provenzano: "Nessuna persecuzione, per carità. Io sono stato il primo a tendere loro una mano quando sono tornati a Corleone. Certo, pretendere che questi ragazzi rinneghino i padri forse è troppo, ma da loro non è mai arrivato neanche un segnale, il più piccolo, della volontà di intraprendere una strada diversa. L'apertura di quelle attività era il loro modo di riaffermare il controllo sul territorio, un controllo che, in uno Stato civile, spetta alle istituzioni". Poche decine di giorni prima e poche centinaia di metri più in là, Giuseppe Riina, accettando per la prima volta di parlare davanti alle telecamere della Rai, mostrava orgoglioso la sua azienda e spiegava: "Noi vogliamo lavorare nella legalità, non vogliamo vivere tutta la vita con questo fardello sulle spalle, se lo Stato non vuole che lo facciamo ce lo dica chiaramente". E la risposta, inequivocabile, è arrivata poco dopo. Lo Stato non consente. Ma c'è ancora un'altra faccia della vicenda: perché questi provvedimenti arrivano solo ora se le attività, soprattutto quella dei Provenzano, era aperta da ben quattro anni senza che nessuno avesse mai mosso un dito? E ancora perché si è mossa solo l'autorità amministrativa e non anche quella giudiziaria? Riconosciuti "nullatenenti", i due boss corleonesi non hanno mai "potuto" risarcire, così come sancito da decine di sentenze, le vittime delle loro attività criminali. Le misure di prevenzione hanno colpito in tutti questi anni i loro presunti o accertati prestanome. Ma se quelle due piccole attività sono state messe su con i proventi di quelle famiglie mafiose alle quali - dicono i provvedimenti - i ragazzi sarebbero inequivocabilmente legati perché non sono state sequestrate? Tanti perché, ognuno dei quali avrà sicuramente una valida risposta. Forse le spalle di un prefetto, di un sindaco, di un presidente di Camera di commercio sono troppo esili per reggere da sole il peso del futuro di questi ragazzi o forse la vicenda di Corleone è lo specchio fedele dell'impasse dell'antimafia.

La figlia di Riina: vi sembro donna di mafia? L’ultimogenita di Salvatore e Ninetta Bagarella si racconta. La sua infanzia in clandestinità, nelle campagne palermitane, e l’arrivo a Corleone dopo la cattura del padre, il 15 gennaio 1993. L’impatto con la società e oggi il desiderio di esprimersi attraverso l’arte, scrive Siana Vanella il 4 febbraio 2014 su "Panorama". L'appuntamento è alle 12, all’entrata del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni. Il cartello «Corleone» indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia città, vista l’ora che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo pesce». Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di polipi da preparare. Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi azzurri. «Il colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna, sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline. Sul suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi entusiasmava l’idea che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi matite e album nuovi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

«Ho un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli. Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”, Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali».

Si respirava profumo di arte?

«Mamma ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque, ereditato l’amore per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto. Da piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono diventati i protagonisti delle sue tavole. Rappresentano un po’ il mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per esprimere i miei stati d’animo, adesso per rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti».

C’è qualcosa che le manca per completare il quadro della sua serenità?

«La mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la società. A questo aggiungete le visite in carcere. Non riesco ancora a dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce, anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante. Per me l’arte diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri realmente chi sono».

Nel suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché a quell’età e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un artista da cui ha tratto spunti creativi?

«L’ispirazione nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola».

Oltre alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?

«Sicuramente la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia».

Che cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?

«Da papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo. Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni, ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte». Da mamma credo di aver ereditato l’amore per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con nuove persone».

In questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti: è un po’ Lucia a dover sostenere Antonietta?

«Crescendo, un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perchè pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma, stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.

Lei aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche. Da anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle iniziative a favore dell’infanzia. Così, venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere, perché mi sento realizzata quando faccio del bene».

RIINA FAMILY LIFE. Mi chiamo Salvatore Riina, sono nato a Corleone e sono il figlio secondo genito di Totò Riina e di Ninetta Bagarella. Dopo essermi consultato con la mia famiglia, soprattutto con i miei genitori, ho deciso di scrivere questa biografia per raccontare la storia della mia famiglia e dei rapporti tra noi fratelli e sorelle e mio padre Totò e mia madre. Figli, tutti, nati e cresciuti latitanti, dovendo seguire gli “spostamenti” forzati dei miei genitori. Ne parlo con l’affetto di un figlio, anche se mio padre si chiama Totò Riina. Voglio raccontare dall’interno la vita della famiglia più “conosciuta” al mondo, ma solo di nome. Io voglio invece raccontare i fatti. Davvero tante saranno le sorprese.

«La mia vita con Salvatore Riina, mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo», scrive Giovanni Bianconi il 4 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia. Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari. E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò... E così restammo lì fino alla fine di agosto». Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta». È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare». Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori. Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani». Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva». Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.

"Licenziata per il cognome che porto". Parla la nipote di Totò Riina. Maria Concetta Riina, nipote del boss, è stata definita "presenza inquietante" dal prefetto di Trapani. "Non posso scontare le colpe di mio zio", scrive Carmelo Caruso il 20 luglio 2015 su "Panorama". «Chi le dice che non ci sia mai stata tra i tanti che hanno reso omaggio in silenzio e anonimamente…». Una Riina non può andare il 18 luglio in via d’Amelio a commemorare Paolo Borsellino? «Non so più se per me esista un luogo da dove non essere cacciata, inseguita e marchiata». Cambiare il cognome? «Pensa che basterebbe?». Forse no, ma la aiuterebbe. «E però, se lo facessi sarei una cattiva figlia. A quale figlia si può chiedere di dimenticare il padre?» Più semplicemente si libererebbe di suo zio Totò Riina, di Corleone, della genetica, e chissà perfino di quell’interdittiva del prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, che ha definito la sua presenza in azienda “inquietante”. «Ho 39 anni e mio zio l’ho conosciuto solo quando lo hanno catturato. In tutta la mia vita l’ho visto solo due volte». E mentre parla Maria Concetta Riina si fa più piccola della sua statura, che è quella dei Riina, prova a sgonfiare il viso pasciuto, a rallentare gli occhi svelti e azzurri che vigilano su una fronte rotonda d’adipe mediterranea, tutta carne e salute che invece di appesantire alleggerisce, scioglie il carattere e lo pacifica. Dunque non è sguardo di mafia ma solo quello eccitato della siciliana che fuma dalle narici, quel modo tutto loro che hanno le donne nell’isola quando mettono le mani sui fianchi e implorano i santi e Dio per farsi vendicare dai torti, «sono nelle mani del Creatore». Crede? «Si, sono cattolica. Sono normale, italiana come tutte. Se vuole saperlo non vado a messa ogni domenica. È una colpa anche questa?». Suo padre Gaetano è stato arrestato nel 2011, così come i suoi cugini, e sono sempre accuse per mafia. «Conosco mio padre e sono sicura che non abbia commesso nessun reato. Oggi posso solo attendere che esca dal carcere. È un uomo di 82 anni con un tumore alla prostata, un rene malandato, una scheggia conficcata nella gamba. Accetto la sua reclusione in galera, se a stabilirlo è la giustizia, ma non posso essere condannata per la mia famiglia, perseguitata come un’appestata». Il padre Gaetano a Maria Concetta non ha trasmesso solo il cognome ma pure il nome della nonna, così come ha fatto Totò con la sua prima figlia, la matriarca dei Riina che fino a 90 anni si trascinava in tribunale e taceva, come taceva Ninetta Bagarella che di fronte al suo Salvatore si eclissava, dimenticava i suoi studi magistrali e tornava moglie, «perché questo vuol dire che deve essere il mio destino» rispondeva ai giudici la maestra Ninetta: «Ho studiato pure io. Diplomata in ragioneria. Per due anni ho frequentato la facoltà di giurisprudenza poi ho lasciato». Voleva fare l’avvocato per difendere suo zio? «Lo ripeto. Per me è stato un estraneo fino al suo arresto. Ero curiosa quanto voi di vedere la sua faccia». In Sicilia non bisognerebbe “latitare” dalla famiglia? «Mi sono allontanata e ho provato a costruirne una. Ma evidentemente non basta se un prefetto definisce la mia presenza “inquietante” costringendo il mio datore di lavoro a licenziarmi, a lasciarmi senza uno stipendio dopo dieci anni di attività». Suo zio dopo la Sicilia ha dannato anche lei. «Non posso essere dannata per ciò che ha fatto e se lo ha fatto». Vede? È prigioniera del cognome. «Io non credo che abbia potuto commettere da solo tutto quello per cui è condannato e che fosse solo lui il padreterno». Ha chiamato sua figlia con il nome della nonna? «No». L’abbigliamento di Maria Concetta Riina non è il nero castigo della letteratura di mafia, rosari e spine alle donne e lupara e velluto ai mariti, ma bensì il colore di questa estate torrida a Mazara del Vallo dove ha casa: t-shirt bianca da madre indaffarata, jeans da spesa e mercato, elastico ai capelli fulvi per afferrare meglio i venti. Di Maria Concetta Riina non esistono fotografie, che rifiuta, a differenza di sua cugina e dell’altra figlia di Totò, Lucia che si è mostrata e raccontata proprio a Panorama. «Non me lo chieda. Altro che fotografia. Vorrei scomparire e se non avessi perso il lavoro non sarei qui a parlare». Andare? «Io voglio restare. Sono incensurata, non ho neppure una multa per divieto di sosta. E poi anche andare via dalla Sicilia non basterebbe. Dopo il cognome è il viso che dovrei mutare. Più degli avvocati avrei bisogno di un chirurgo estetico che mi cambi i tratti, mi faccia perdere peso. A volte credo che anche il corpo mi imprigioni a una storia che non mi appartiene». Nello studio dell’avvocato Giuseppe La Barbera, un uomo dal corpo solido come una montagna, ad accompagnare la Riina c’è il marito, «ci siamo sposati nel 2011 e oggi abbiamo una figlia di due anni. E ho più pietà per lui che per me. Gli ho portato come dote un bollo, ha dovuto sopportare le battute degli amici». E infatti l’unico che si aggira sperduto in questo fondaco di legali e in questa giurisprudenza di concorso esterno per associazione di nome, è proprio quest’uomo di trentanove anni, magro come quegli esseri che consumandosi si asciugano nel peso ma addensano pensieri, si chiudono nel mutismo che in Sicilia è dolore acerbo, un frutto che non cade dall’albero. «Da due anni non lavora, ha il terrore ogni volta che spedisce un curriculum. Rimane in silenzio. Quale marito sarebbe felice di vedere sua moglie segnata come un’indegna». Non sapeva di sposare una Riina? «Ha sposato me e non certo mio zio o mio padre. Lui per primo mi ha imposto come precondizione di rimanere a distanza dalla mia famiglia. L’unica colpa è che si è innamorato di me». Con una disposizione del prefetto di Trapani che ha definito «inquietante» la sua presenza in azienda senza contestare reati ma solo prevedendo possibili infiltrazioni mafiose, Maria Concetta Riina è stata licenziata da segretaria nella concessionaria di automobili dove lavorava da dieci anni, licenziamento per giusta causa e che La Barbera insieme alla sua collega Michela Mazzola vogliono adesso impugnare: «Ricorreremo al giudice del lavoro, chiederemo il reintegro e un’indennità risarcitoria» spiega l’avvocato nel suo studio di Villabate, pochi chilometri da Palermo, l’unico comune d’Italia che ha avuto sia lo scioglimento per mafia che il commissario chiamato a governarlo indagato a sua volta per mafia. E certo anche La Barbera sa che è possibile rincorrere il diritto ma che è impossibile chiedere di cambiare i connotati ai clienti. «Comprendo pure il mio datore di lavoro. Lo hanno costretto a licenziarmi. Era addolorato ma non aveva scelta. Mi chiedo solo perché» dice Maria Concetta che anche quando è seduta si sente un’imputata. Non crede che l’abbia assunta per riverenza come scrive il prefetto? «Mi ha assunta dopo avermi conosciuta in spiaggia sotto l’ombrellone. Un’amicizia che è nata e che poi si è tradotta in un lavoro da segretaria, lontana da qualsiasi contatto con il pubblico. Se avesse provato riverenza nei miei confronti non avrebbe osato licenziarmi per un’interdittiva. Fin quando mi è stato possibile ho lavorato come farebbe la signora Rossi da mattina a sera. Io e mio marito siamo una delle tante famiglie normali di questo paese. 1100 euro di stipendio, un mutuo, la bambina lasciata alla nonna. E se non mi avessero licenziata sarei rimasta quella persona anonima che ho sempre cercato di essere in paese. Solo oggi agli occhi di tutti sono tornata a essere una Riina. Non esco più di casa per paura dell’ottusità della gente». La ignoravano o la temevano? «Mi presento a tutti come Maria Concetta, ormai sono abituata a omettere il mio cognome e non perché me ne vergogni, ma perché so benissimo che tutti penserebbero a mio zio e smetterebbero di vedermi come donna e madre. Oggi, dopo questa interdittiva, non sono più una donna ma un’entità». La Barbera, che mafiosi ne ha difeso, finora mai si era imbattuto nell’accusa di mafia per biologia che si dice pronto a smontare nei tribunali ma che prima ancora vorrebbe abbattere più come pregiudizio che come capo: «È evidente che qui siano gravemente compromessi i principi costituzionalmente garantiti del diritto al lavoro. Siamo di fronte ad un inorridimento delle norme giuridiche. La mia cliente cerca solo una giusta e anonima quotidianità». E anche Michela Mazzola insieme a Claudia Gasperi, due giovani avvocate determinate e specializzate in diritto del lavoro, e che adesso difendono la Riina, dicono che più delle norme di mafia qui andrebbero rilette quelle sullo statuto dei lavoratori: «Si tratta di un vero e proprio atto persecutorio a una lavoratrice», dice la Gasperi. Volete fare “guerra” allo Stato? «Agiremo contro il prefetto e il ministro degli Interni - aggiunge La Barbera a volte sfiduciato e disincantato anche lui - non ho mai visto tanta ipocrisia. Va bene il diritto, ma qui siamo alla barbarie dei nomi come destino». In Sicilia, lo ripetiamo, adesso è l’anagrafe che andrebbe bonificata. Ecco, forse dopo i migranti è arrivato il momento di assegnare lo status di rifugiato anche ai figli senza colpa, ai nipoti senza macchia come Maria Concetta Riina, concedere l’asilo dal cognome. «Ditemi cosa debbo intanto fare per vivere. Nessun azienda può assumermi. Neppure per togliere la spazzatura da un ristorante mi assumerebbero. Me lo cerchi lo Stato un posto di lavoro dove il mio nome non possa avere influenze o destare referenze. Me lo dica lo Stato». Lasciamo Palermo pensando che davvero tutto ci inquieta tranne questa donna.

Intervista di Dina Lauricella ad Angelo Provenzano figlio di Bernardo Provenzano. Il figlio del Boss Provenzano parla per la 1a volta a Servizio Pubblico il 15.3.2012. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Il figlio di Bernardo Provenzano star per turisti. E quei rapporti difficili nella famiglia del boss. Angelo Provenzano è diventato, per fare soldi, un'attrazione per gli americani che arrivano in Sicilia e vogliono immergersi nelle atmosfere del Padrino. E una vecchia intercettazione di una discussione col fratello spiega cosa significa avere il boss dei boss come padre, scrive Lirio Abbate il 30 marzo 2015 su "L'Espresso". L'attrazione per i turisti americani che pagano un viaggio di andata e ritorno per la Sicilia, anzi per Corleone, è diventato Angelo Provenzano, 39 anni, figlio del vecchio capomafia Bernardo Provenzano. Gli Yankees sono ancora legati alle immagini del film il Padrino. Immagini che raccontavano di don Corleone e del clan siciliano. Oggi un tour operator sfrutta quel mito grazie anche al fatto che il punto finale della visita guidata a Palermo è proprio Corleone, dove i turisti incontrano personalmente la star, Angelo Provenzano, ingaggiato dalla società americana. E lui racconta a modo suo la mafia, la sua vita e la latitanza del padre. Scelte personali che hanno il solo scopo di fare soldi. A sei mesi dall'arresto di Bernardo Provenzano i poliziotti avevano registrato un'interessante conversazione fra i figli del boss Angelo e suo fratello Paolo. È il 28 settembre 2005 e gli agenti ascoltano i due fratelli, mentre chiacchierano in una cabina della motonave La Suprema, il ferryboat che da Palermo li porta a Genova. Paolo sta trasferendo tutte le sue cose in Germania dove in quel momento si trasferiva per un periodo di insegnamento, ed ha chiesto al fratello di guidare con lui un’auto piena zeppa di bagagli. È una conversazione importante che alla luce del risvolto “turistico” di Angelo Provenzano è utile ricordare per analizzare la vita dei due ragazzi e della loro madre. Per comprendere che rapporto avevano con il padre, durante la latitanza. Questa intercettazione l'avevamo riportata per la prima volta nel libro “I Complici” scritto con Peter Gomez, in un capitolo che raccontava proprio di “due fratelli in barca”. Il rumore della sala macchine è un cupo ronzio confuso, i due figli del boss stanno cenando. Sul tavolino pieghevole di formica c’è il cibo che Saveria, loro madre, ha preparato a casa. I ragazzi lo guardano e pensano che nelle ultime settimane le incomprensioni in famiglia sono aumentate. Le tensioni sono ormai evidenti: a zio Simone, il fratello di Binu che li ha allevati in Germania, è stato persino vietato di entrare in casa quando Saveria è sola. Ha fatto troppe domande che non doveva, anche sull’operazione alla prostata di suo fratello Bernardo, si è lasciato sfuggire molte parole di troppo. Ma il capo dei capi lo ha scoperto, si è adirato e ha disposto l’ostracismo nei suoi confronti. «Lo zio Simone non si lamenta. Dice soltanto che ci sono delle cose mal riportate oppure che quello [Binu] è uscito folle. Altra soluzione non ne ha», spiega Paolo. «E le cose che sono mal riportate [secondo lui] da dove vengono? [Intende dire] che gliele andiamo a riportare male noi altri? Giusto». «O la mamma, Angelo». Dunque zio Binu, in quelle prime settimane di autunno, è ancora lì, vicinissimo a Corleone, tanto vicino che i suoi parenti lo vanno a trovare, discutono con lui, parlano di un’abitazione che deve essere lasciata in eredità a qualcuno, riaprono vecchie ferite, solo nascoste, ma mai del tutto rimarginate. Il suo arrivo, dopo quattordici anni di lontananza, in un nucleo familiare che ormai era riuscito a trovare da solo i propri equilibri, sta minando dalle fondamenta ogni certezza. E oltretutto Paolo, che ha solo ventitré anni e che di fatto non frequenta più il padre da quando ne aveva nove, si è dovuto confrontare con un genitore che è per lui un estraneo. Dice al fratello: «Tra l’altro, ci sono sempre state cose che a me hanno dato fastidio: perché quando lui [nel 1992] ha detto di partire [cioè di tornare a Corleone], siamo dovuti partire a prescindere da tutti nostri cazzi di problemi e nessuno se ne è mai fatto un baffo? [E anche] questa volta [quando] io sono arrivato [dal mio nuovo lavoro in Germania, era] il primo sabato [libero], va bene? E siamo dovuti andare là, siamo andati a finire là [nel suo nascondiglio]. L’interesse suo non so quale sia. Io non vedo interesse in un colloquio, in un dialogo con lui: almeno personalmente con me non c’è mai stata una cosa del genere. [...] Quando mi dovevo laureare [nel marzo del 2005] e dovevo fare l’ultimo esame, non gliene è fottuto a nessuno se io potevo avere i miei problemi e invece dovevo andare a fare la bella statuina da lui. Perché poi io vado a fare [solo quello] da lui. Tu [Angelo] bene o male, sei sempre stato più coinvolto, ma io da lui ho sempre fatto la bella statuina, fin da piccolo». Il doloroso sfogo sul difficile rapporto con un padre latitante (nel vero senso della parola) va avanti per cinque minuti buoni. La cabina della motonave si riempie di risentimenti, di recriminazioni, di frasi che forse Paolo vorrebbe non aver mai pronunciato. Poi il fratello maggiore lo interrompe: «Paolo, vuoi sapere come la penso? Lui nel posto dove si trova ci si è davvero trovato per caso». «E io dovrei essere contento di una cosa del genere? Io devo essere contento che le cose succedano per caso? Io devo essere contento che ora si sta ricostituendo questa sorta di unione [familiare]… per caso! Anzi no, io lo chiamo caso e lui la chiama invece volontà di Dio [...] e poi neanche te lo ammettono che è per caso, Angelo». «No, assolutamente perché…». «[Pensa di aver fatto per noi] tutte cose, lui. [Papà continua a ripetere:] “ora ti racconto di quando [io e gli zii] eravamo piccoli”. [Dice] che suo padre gli dava le bastonate e che lui a nove anni se ne andava a vendere i [parola incomprensibile], e invece noialtri [abbiamo avuto tutto]. [Ma] quando ti [fa] la domanda: “Ti è mai mancato niente?” [Si può] mai aspettare una risposta positiva? [Perché la fa,] perché cerca sicurezza? [...] Mi dispiace [dirlo], mi dispiace». Angelo non lo contraddice, ma invita a riflettere. In famiglia, come in ogni famiglia, tutti hanno le loro colpe, le loro responsabilità. Ce l’ha Saveria, loro madre, «che ha subito tutte le decisioni, che non ha mai avuto il coraggio di dire: “questa cosa mi piace, questa cosa non mi piace, facciamola così, facciamola colì”». E ce le hanno anche loro, perché in casa Provenzano «hanno subito tutti». «Se poi ci sono anche delle responsabilità personali questo è un discorso. [Lo possiamo] addossare al destino, alla volontà di Dio... [Ma] i dati di fatto sono che noi abbiamo subìto tutta una serie di situazioni e le continuiamo a subire. Non ci si può né ribellare né provare ad aggiustare la croce per portarla con comodo. [Io] non l’ho mai detto a nessuno, [...] ma quanti si sono resi conto che la situazione, che abbiamo vissuto noi, è addirittura peggiore di avere un padre morto?». Quante domande, quanti interrogativi senza risposta. «[Stiamo vivendo] cose assurde, Angelo. O assurdo sono io. Boh, mi piacerebbe tanto saperlo certe volte. Mi piacerebbe veramente cominciare a capire la vita come va… e se continua così». «Quando ci sveglieremo e lo avremo capito avremo settanta anni ciascuno, Paolo, e sarà troppo tardi».

“Fiero di mio padre”: il figlio di Bernardo Provenzano parla a Servizio Pubblico. L'intervista esclusiva al primogenito del boss di Cosa Nostra in onda nella puntata di stasera del programma di Santoro. "Falcone e Borsellino? Due vittime immolate sull'altare della patria, due vittime della violenza", scrive David Perluigi il 15 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La verità processuale dice che mio padre è stato il capo di Cosa Nostra. Certo, a pensare che oggi, a distanza di 20 anni dalle stragi, sui giornali si sta parlando di revisione, dobbiamo riscrivere qualche verità a questo punto”. Le parole sono cadenzate, intervallate da sospiri, pronunciate per la prima volta davanti a una telecamera da Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, 36 anni il primogenito del capomafia corleonese. Bell’aspetto, ben vestito, buona dialettica, lavora nel settore vinicolo. Sicuro di sé, si definisce “fiero del padre”. E’ il ritratto che se ne ricava dall’intervista video esclusiva rilasciata all’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella, che andrà in onda stasera alle 21. Mesi di tentativi, attraverso la mediazione di uno degli avvocati dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio: un primo contatto un anno fa, un “no che lasciava comunque delle aperture” racconta al Fatto la giornalista palermitana “poi nuovi, pazienti tentativi, fino a un mese fa quando il legale di famiglia, mi dice: 'Chiami lei signorina direttamente il signor Angelo questa volta'”. Studi da geometra, incensurato, come anche il fratello più piccolo di tre anni, Francesco Paolo, “unico, e io per lui, compagno di giochi per 16 lunghi anni, gli anni anche della mia latitanza. Ho vissuto in un reality show, essere figlio di una persona latitante per 43 anni, vuol dire essere messo sotto controllo e ne sono stato consapevole. Solo dopo la fine della mia ‘latitanza’ è cominciata la mia rinascita, il contatto con la gente, prima conoscevo solo pochi volti”. Gli viene chiesto cosa ne pensa dei collaboratori di giustizia e alle loro ricostruzioni sul periodo stragista. Provenzano accenna un sorriso: “Sì, è un’anomalia tutta italiana questa dei collaboratori di giustizia. Ma stiamo parlando di uomini e si possono dare anche delle indicazioni sbagliate. In ogni cosa in cui c’è l’uomo c’è la possibilità dello sbaglio”. “Sulle stragi, sopra l’impronta della mafia, si accavalla l’ombra dello Stato”, interviene la giornalista. “In questi anni – risponde – mi sono cimentato nello studio delle cose, mi sono imbattuto nella strage di Portella della Ginestra, dopo 50 anni scopriamo, forse, che non è stata opera di un bandito, Salvatore Giuliano, ma di un pezzo dell’esercito italiano. Mi sembra che sia un copione che venga recitato la seconda volta e non è su queste cose che si può fondare una fiducia incondizionata, quando qualcosa parte dall’interno dello Stato – continua – si rischia di perdere la fiducia”. “Chi sono per lei Falcone e Borsellino?” chiede Lauricella. “Per me sono due vittime immolate sull’altare della patria. Sono due vittime della violenza”. Fa attenzione a non usare mai il termine “mafia” Angelo Provenzano; anche quando gli viene chiesto “la mafia le fa schifo?”, lui risponde: “Tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. Sul punto in cui Riina sostiene che sia stato Bernardo Provenzano a venderlo allo Stato, Angelo è netto: “Se riesce a ottenere il permesso dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), vada a rivolgere la domanda direttamente a mio padre”. Sulla possibilità che un giorno il padrino possa collaborare con la giustizia, replica: “Nello stato attuale trovo che sia difficile immaginarlo che collabori con lo Stato, sarebbe una dimensione totalmente nuova”. “Ma cosa chiede oggi lei in concreto, nei fatti?”. “Quello che io chiedo è che si faccia una perizia per capire se mio padre è capace di intendere e volere, se a livello neurologico possa essere curato. Vorrei dignità. Ma deve stabilirlo lo Stato. Noi siamo consapevoli che sarà difficile che venga scarcerato, chiediamo però che venga curato. Mio padre – prosegue – vive un decadimento neurologico tale da non poter ricevere cure chemioterapiche per il suo tumore alla prostata. Perché ci deve essere questa discriminante? Perché si chiama Provenzano? Perché è un membro di Cosa Nostra?”. “L’incapacità di intendere e volere potrebbe mettere a rischio il proseguimento di processi fondamentali?”, conclude la giornalista. “Che qualcuno si prenda allora la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam”.

La giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare?

Le aziende messe ko dallo Stato in nome dell'antimafia. In fumo 72mila posti di lavoro. Non è mai stato creato un albo degli amministratori giudiziari e neppure una tabella dei compensi. E i furbetti fanno affari e disastri, scrive Luca Fazzo, Lunedì 05/01/2015, su "Il Giornale". Serrande abbassate sul Café de Paris, nel cuore di via Veneto, a Roma. Trentadue operai al posto di 2.500 alla Colocoop di Milano. Un buco di due milioni e mezzo alla Calf di Catania, che prima macinava utili. Cos'hanno in comune un bar nella Capitale, una cooperativa di lavori stradali, una società di servizi portuali in Sicilia? Sono passate nel tritacarne della legge antimafia, quella che prevede misure draconiane per colpire gli interessi economici della criminalità. Legge sacrosanta nei princìpi. Ma che si risolve in una Caporetto quando, dopo che aziende grandi e piccole sono finite nel mirino della giustizia, accusate a ragione o a torto di essere la longa manus delle cosche, a prenderle in mano è lo Stato. Dovrebbe essere lo Stato a incarnare l'economia buona che prende il posto di quella cattiva, mandando avanti secondo legalità ciò che prima viveva nell'orbita del crimine. Risultato: un disastro. L'ultimo rapporto di Srm, l'osservatorio sull'economia meridionale di Intesa San Paolo, parla di settantaduemila posti di lavoro (diecimila più dell'intera Fiat!) persi nel passaggio delle imprese dalle mani del crimine a quelle dello Stato. Di oltre millesettecento aziende sequestrate, ne sono ancora vive trentotto. Trentotto. E va bene che la catastrofe può avere più di una spiegazione nobile: l'azienda mafiosa sta a galla più facilmente, perché non rispetta le regole, paga in nero, intimidisce i concorrenti, soggioga i clienti. Tutte armi che lo Stato non ha. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dietro alla catastrofe dei beni c'è anche un colossale problema di inefficienza dello Stato, che si è assunto un dovere che non è in grado di compiere. A partire dai livelli più alti. Il Codice antimafia varato nel 2011 prevedeva che venisse creato un albo nazionale degli amministratori giudiziari, i professionisti incaricati di gestire le aziende confiscate: sono passati più di tre anni, e l'albo ancora non c'è. A febbraio dello scorso anno, il governo ha promesso il varo di una tabella nazionale dei compensi da pagare agli amministratori: non si è vista neppure questa, col risultato che ogni tribunale si regola a modo suo, e a mandare avanti (e più spesso ad affossare) le aziende sono commercialisti pagati a volte cifre spropositate. Anche sui criteri di scelta ci sarebbe da discutere: nell'inchiesta su Mafia Capitale compare il nome di Luigi Lausi, uno dei professionisti cui il tribunale romano ha affidato una lunga serie di aziende confiscate, di cui Salvatore Buzzi dice «Lausi è mio». E a volte, come nel caso della Piredil di Milano, si scopre che gli amministratori inviati dal tribunale continuavano a trescare con i vecchi proprietari. Ci sono tre modi in cui lo Stato interviene per colpire gli interessi economici del crimine. Il primo, il più semplice, è l'interdittiva antimafia spiccata dalle prefetture, che non decapita le aziende ma si limita a bloccare i loro appalti pubblici: spesso è più che sufficiente per affossarle. Sacrosanto quando dietro ci sono davvero i clan; meno quando, come nel caso della Colocoop, nel frattempo i manager sospettati di essere collegati ai clan sono stati assolti. Poi c'è il sequestro disposto dai pm durante le inchieste. Infine, ed è lo strumento più usato, il provvedimento delle cosiddette «misure di prevenzione», che può scattare a prescindere dall'esistenza di un'inchiesta penale, sulla base di un semplice sospetto, o anche se il processo penale è finito in nulla. Il provvedimento ha una durata massima di diciotto mesi, quanto basta per disintegrare qualunque azienda, ed è inappellabile. Il caso più eclatante da questo punto di vista è probabilmente quello di Italgas, l'azienda di distribuzione gas di Snam, tremila addetti, messa sotto amministrazione giudiziaria dal tribunale di Palermo il 9 luglio 2014 sulla base di remoti contatti di un manager locale con una ditta in odore di mafia. Il manager non è mai stato neanche indagato, la ditta è stata assolta con formula piena, ma Italgas rimane commissariata. Per giovedì prossimo era fissata un'udienza, ma a fine dicembre i pm hanno chiesto e ottenuto il rinnovo del commissariamento per altri sei mesi; nel frattempo, secondo alcuni calcoli, gli amministratori nominati dal tribunale hanno già presentato parcelle per diversi milioni di euro. Nel corso dell'audizione davanti alla commissione Antimafia, il deputato di Scelta civica Andrea Vecchio ha motivato così il trattamento riservato all'azienda: «Mi sono arrivate chiacchiere da bar secondo le quali, in passato, la quasi totalità delle imprese che hanno messo i tubi per la Snam, da nord a sud, erano mafiose». Così, tra inchieste serie e chiacchiere da bar, l'elenco delle aziende inghiottite e distrutte in nome dell'antimafia cresce giorno per giorno. Fare i conti di questo disastroso business è quasi impossibile. Secondo le stime più caute, il valore totale dei beni confiscati è intorno ai dieci miliardi di euro, ma la commissione Antimafia parla di un totale superiore ai trenta miliardi. Una parte di questo colossale patrimonio è costituito da beni immobili, che hanno il pregio di essere poco deperibili, e di poter essere dati in affido a associazioni antimafia come Libera di don Ciotti, o usate - è uno degli ultimi casi - per alloggiare i carabinieri della compagnia di Partinico. Ma la fetta più grossa è quella delle attività imprenditoriali, ed è qui che lo Stato-manager fa i danni peggiori. Dal momento della confisca di primo grado, i beni vengono presi in mano dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati, guidata da un prefetto. In teoria, dovrebbe esserci anche un consiglio direttivo, ma è vacante da tempo, compresi i due «qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali», che dovrebbero cercare di evitare la dissipazione dei beni sequestrati. Così, nel frattempo, la distruzione va avanti. Gli amministratori giudiziari vengono pagati profumatamente, qualunque siano i danni che producono. «La verità - dice un addetto ai lavori - è che oggi fare l'amministratore dei beni confiscati è un business ambito. Si fanno un sacco di amicizie, non si rischia niente, si guadagna bene».

Antimafia, la profezia di Sciascia. È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi, scrive Paolo Mieli il 6 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina (rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

“Meno attacchi in cambio di soldi”: indagato a Palermo paladino della tv antimafia. Pino Maniaci, direttore di Telejato. Il direttore di Telejato Pino Maniaci è sospettato di aver estorto favori e compensi a due sindaci. Le conversazioni intercettate, scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 “La Repubblica”. Chiedeva, e avrebbe ottenuto, "contributi" e posti di lavoro in cambio di una linea morbida della sua televisione nei confronti di alcuni sindaci del Palermitano. Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato di Partinico (Palermo), tv di frontiera antimafia, è sotto inchiesta, come racconta "Repubblica" oggi in edicola. La procura di Palermo ipotizza il reato di estorsione. Un'accusa gravissima per un personaggio che, da anni, dalla sua tv conduce battaglie contro mafia e malaffare. L'ultima, quella contro la gestione dei beni confiscati in cui sono coinvolti l'ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto (sospesa dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm), altri tre magistrati e l'amministratore giudiziario, Gaetano Cappellano Seminara, tutti indagati per vari reati e costretti alle dimissioni. "La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato", replica il direttore di Telejato a "Palermo Today". Maniaci è stato più volte ascoltato e intercettato dai carabinieri nell'ambito di altre indagini: avrebbe ottenuto favori in cambio di una "linea morbida" della sua emittente nei confronti dei due amministratori comunali, i sindaci di Partinico e Borgetto. Dalle conversazioni intercettate sarebbero emersi altri elementi a carico di Maniaci che avrebbe ottenuto dal sindaco di Partinico e da quello di Borgetto, Gioacchino De Luca, finanziamenti sotto forma di pubblicità per la sua emittente televisiva. I due sindaci, interrogati da carabinieri e magistrati, avrebbero fatto delle ammissioni. Gli inquirenti avrebbero espresso anche qualche dubbio in relazione ad uno degli ultimi atti intimidatori che Pino Maniaci avrebbe subito nel dicembre del 2014 quando due suoi cani furono avvelenati ed impiccati. Per gli investigatori non si tratterebbe di una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vicenda privata. Ad aggravare la posizione di Maniaci, proprio le ammissioni di Salvatore Lo Biundo e Gioacchino De Luca, rispettivamente sindaci di Partinico e Borgetto. Maniaci tuttavia si ritiene estraneo ai fatti e così commenta: “La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”. Da parte sua Pino Maniaci rispedisce le accuse al mittente: “La vendetta della procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”, ha detto il giornalista a PalermoToday. “Sapevamo di questa inchiesta, nata prima dello scandalo Saguto e che parte da alcune intercettazioni ben precise. Una – ha detto ancora al quotidiano – è quella fra l’ex prefetto di Palermo Silvana Cannizzo e la stessa Saguto, che a domanda rispose: ‘Ha le ore contate’. Penso possa entrarci anche la denuncia per stalking di Cappellano Seminara, che aveva l’obiettivo di farmi mettere sotto controllo il telefono. Il piano era ed è quello di bloccarmi per impedirmi di fare il mio lavoro. Chiederemo con il mio avvocato di essere sentiti, perché siamo sicuri che quello che dicono i magistrati sulle ammissioni è totalmente falso. Qualcuno non vuole che nostra inchiesta su incarichi Ctu e sezione Fallimentare continui. Ma noi andiamo avanti”.

Telejato, Maniaci: "Io indagato? L'Antimafia mi vuole fermare". Il direttore di Telejato Pino Maniaci risponde alle accuse in un'intervista di Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it il 22 aprile 2016.

"Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia". Pino Maniaci, il direttore dell'emittente tv Telejato noto per le sue scomode inchieste antimafia, commenta a caldo in un'intervista su Affaritaliani.it la notizia riportata da Repubblica secondo la quale sarebbe indagato dalla Procura di Palermo con l'ipotesi di reato di estorsione.

Pino Maniaci, Repubblica scrive che lei sarebbe indagato con l'ipotesi di reato di estorsione.

«L'avvocato mi aveva detto di aspettare e non fare dichiarazioni prima di parlare con lui ma io non sono il tipo. Non avendo nulla da nascondere non ho nessun problema a parlare».

Ha ricevuto l'avviso di garanzia?

«Io non ho ricevuto nessun avviso di garanzia, non si capisce nemmeno che inchiesta è. Vogliono tirarmi un po' di merda addosso».

Si scrive che lei avrebbe ottenuto favori in cambio di un linea morbida della sua emittente Telejato nei confronti di due amministratori comunali.

«Intanto siamo nel campo delle ipotesi, ho letto testualmente. Quindi non capisco come sul campo delle ipotesi e su delle indagini in corso ci sia questa violazione grave. Come la possiamo definire, fuga di notizie? Non so come definirla...»

Ma che cosa risponde alle accuse?

«Entrando nel merito di quello che ho letto personalmente siamo stati querelati come emittente dal presidente del consiglio comunale di Borgetto perché in un servizio abbiamo detto che sono andati in America sia il presidente sia il sindaco a incontrare dei malavitosi. Tra le altre cose, il Comune tramite il sindaco si è costituito parte civile nel processo quindi non capisco dove sarebbe questa linea morbida di cui si parla».

Nessuna linea morbida neppure verso il Comune di Partinico?

«Sul Comune di Partinico abbiamo fatto giornalmente dei servizi sulla mala gestio che sono ovviamente verificabili negli archivi di Telejato».

Si scrive anche che sua moglie sarebbe stata assunta dal Comune di Partinico.

«Tutte minchiate. Sul campo delle assunzioni, io ho tutta la famiglia disoccupata e quindi non capisco come sia venuta fuori questa cosa. O meglio, forse lo capisco...»

Che cosa vuole dire?

«Partiamo da una denuncia che ho ricevuto a suo tempo per stalking da Cappellano Seminara. Una denuncia che ha fatto sì che mi tenessero sotto controllo non per diffamazione ma, appunto, per stalking. E poi c'è la questione dell'inchiesta sui beni sequestrati. E' un'inchiesta che non è piaciuta a molti e probabilmente c'era qualcuno che voleva bloccarla. Sa che cosa mi ha detto un magistrato? Mi ha detto così: "A questo punto stai attento che non ti ammazza la mafia ma l'antimafia"».

Pino Maniaci non potrà risiedere nelle province di Palermo e Trapani. Le intercettazioni svelano che non era minacciato dai boss, ma dal marito della sua amante, che gli avrebbe bruciato l'auto e impiccato i cani. Ma lui diceva in Tv: “Sono perseguitato per le mie inchieste”. Lo aveva chiamato pure Renzi per esprimergli solidarietà e poco dopo Maniaci commentava: "Mi ha telefonato quello stronzo", scrive Salvo Palazzolo il 4 maggio 2016 su “La Repubblica”. Non sono stati i boss di Cosa nostra a bruciare l’auto di Pino Maniaci, il direttore di Telejato diventato in questi anni un simbolo dell’antimafia. Non sono stati i boss a impiccare i suoi due amati cani. La mafia non c’entra proprio niente in questa storia. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo svelano che le intimidazioni a Pino Maniaci le avrebbe fatte il marito della sua amante. E lui ne era ben consapevole. Ma ai giornali e alle Tv annunciava in pompa magna: “E’ stata la mafia a minacciarmi per le inchieste del mio tg”. Quel giorno, era il 4 dicembre dell’anno scorso, gli telefonò persino il presidente del Consiglio per esprimere solidarietà. E qualche minuto dopo, lui si vantava al telefono, con un’amica: “Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi”. E’ un altro Pino Maniaci – niente affatto eroe della legalità - quello che emerge dalle intercettazioni dei carabinieri della Compagnia di Partinico. Il giornalista è indagato per estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica: avrebbe preteso soldi e favori per ammorbidire i suoi servizi televisivi. Questa mattina, gli è stato notificato un provvedimento di divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Il provvedimento è stato emesso dal gip Fernando Sestito su richiesta dei sostituti procuratori Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Roberto Tartaglia e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Un’inchiesta che si aggiunge alle altre di questi ultimi mesi sui simboli dell’antimafia finiti nella cenere. Pino Maniaci è accusato di aver estorto al sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo anche un’assunzione per la sua amante. Un contratto di solidarietà al Comune per tre mesi: “Alla scadenza, non poteva essere rinnovato – ha ammesso il sindaco interrogato dai carabinieri – ma Maniaci diceva che dovevamo farla lavorare a tutti i costi e allora io e alcuni assessori ci siamo autotassati per pagarla”. Intanto, lui si vantava al telefono con l’amante: “Per quella cosa ho parlato, già a posto, stai tranquilla, si fa come dico io e basta. Qua si fa come dico io se ancora tu non l’avevi capito… decido io, non loro… loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa”. Per i magistrati è la prova chiarissima delle “vessazioni” imposte dal giornalista antimafia. Maniaci era ormai in pieno delirio di onnipotenza. All’amante diceva di volerle fare vincere un concorso all’azienda sanitaria locale di Palermo. Grazie alle sue solite buone amicizie. “Quello che non hai capito tu è la potenza… tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci. Stai tranquilla che il concorso te lo faccio vincere”. E spiegava di essere in partenza per ritirare un premio antimafia: “A me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi, appena intitolato l’oscar di eroe dei nostri temi”. Era il novembre 2014. In un’altra occasione: “Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione”. Nei giorni scorsi, il giornalista si è difeso sostenendo di essere vittima di un complotto, per le sue denunce sulla gestione dei beni confiscati. Ma nel novembre 2014, l’inchiesta sulla gestione allegra della sezione Misure di prevenzione di Palermo non era neanche nella mente dei magistrati di Caltanissetta, che iniziarono a indagare nel mese di maggio successivo. L'indagine su Maniaci è nata per caso, durante alcuni accertamenti dei carabinieri sulle amministrazioni comunali. E stanotte è anche scattato un blitz dei carabinieri del Gruppo Monreale, fra Partinico e Borgetto, coinvolge nove presunti mafiosi. “C’è il sindaco che mi vuole parlare – diceva ancora all’amante – per ora lo attacco perché gli ho detto che se non si mette le corna a posto lo mando a casa, hai capito? A natale non ti ci faccio arrivare, che te ne vai a casa e non ci scassi più la minchia”. Poi aggiungeva: “Mi voglio fare dare 100 euro così domani te ne vai a Palermo tranquilla”. Intercettazioni che per la procura diretta da Francesco Lo Voi non lasciano spazio a interpretazioni. Il direttore di Telejato sussurrava ancora, a proposito del sindaco: “Dice che in tasca non ne aveva e che stava andando a cercare i soldi… i piccioli li deve andare a cercare a prescindere… così ne avanzo 150 di iddu”.

Indagine su Maniaci, il giornalista: "Abbiamo toccato poteri forti, me l'aspettavo". Il direttore di TeleJato è un fiume in piena: "Non ho nulla da temere, dopo il caso Saguto mi immaginavo qualcosa del genere. A proposito, a che punto è quell'inchiesta?", scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Da accusatore ad accusato dalla procura di Palermo con l’ipotesi di reato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e di Borgetto dai quali avrebbe ottenuto favori e contributi, cosa succede? “Abbiamo toccato poteri forti ed ovviamente ci aspettavamo una reazione che è puntualmente arrivata”. Pino Maniaci, direttore della emittente Telejato che copre un vasto territorio del palermitano e del trapanese, è un fiume in piena, si difende poco ma attacca molto come è nel suo stile preannunciando che attraverso il suo avvocato, l’ex pm antimafia Antonino Ingroia, denuncerà i magistrati che lo hanno indagato. Intanto su Facebook e Twitter il popolo del web si divide fra colpevolisti e innocentisti.

“L’iniziativa della Procura – afferma Maniaci - è un vero e proprio agguato ed una vendetta per il lavoro che abbiamo fatto e che facciamo ancora oggi contro il malaffare e l’ illegalità anche all’ interno della magistratura come nel caso dell’ inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia dove a capo di tutto c’era l’ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto ed il suo clan, che è stata indagata e punita dal Csm che l’ha sospesa dalle funzioni e dallo stipendio anche se lei continua a prendere oltre 5000 mila euro al mese”.

La Procura che tende agguati e che si vendica? Mi pare un po’ eccessivo o no?

“Guarda che già nel settembre scorso qualcuno dentro la procura di Palermo mi aveva avvertito dicendomi che entro dicembre sarei stato arrestato e che sarebbe stata proprio l’antimafia e non la mafia ad attaccarmi cosa che è puntualmente accaduta”.

Ma ci sarebbero delle intercettazioni che, secondo l’accusa, dimostrerebbero che avresti compiuto dei reati, ottenendo favori dai due sindaci di Borgetto e Partinico in cambio, diciamo così, di un occhio di riguardo nei loro confronti nei tuoi servizi giornalistici.

“Allora io dal sindaco di Borgetto contro cui ho fatto dei servizi per alcuni suoi viaggi sospetti negli Stati Uniti (e per questo mi ha anche querelato) dove avrebbe incontrato alcuni mafiosi, non ho ottenuto nulla. Da sua moglie, invece si”.

Che cosa?

“Dei contratti pubblicitari per Telejato dove pagava 250 euro al mese, cifre che fanno veramente ridere”.

Ed il posto di lavoro per una sua conoscente al comune di Partinico?

“Io non ho fatto assumere nessuno e dico e ripeto che nella mia famiglia, sono tutti disoccupati”.

Quindi nessuna assunzione di favore?

“Ripeto, nella mia famiglia sono tutti disoccupati”.

Quindi nulla di illegale? Ne sei proprio certo?

“Non ho nulla da temere, queste accuse della Procura di Palermo mi fanno ridere. Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia né di conclusione delle indagini e questa è stata una vendetta per le mie inchieste sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Le mie intercettazioni sono nate a “tavolino”. Ci aspettavamo una cosa del genere soprattutto dopo la denuncia dell’avvocato Cappellano Seminara, amico della Saguto, anche lui finito indagato, che ha dato modo e possibilità alla procura di mettere sotto controllo il mio telefono e di intercettarmi. In Italia guai a toccare i poteri forti e tra questi la magistratura ma io continuerò il mio lavoro ed anche per questa indagine, attraverso il mio avvocato, Antonino Ingroia, li denuncerò, per competenza, alla Procura di Caltanissetta”.

Con quali accuse?

“Non posso anticipare nulla per il momento, ma starete a vedere….Proprio nei giorni scorsi su Telejato abbiamo ampliato lo spettro della nostra inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella sulla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, dove ci sono interessi enormi e dove girano gli stessi nomi e cognomi, di amici degli amici dei magistrati e di altri amministratori giudiziari. Tutto questo dà fastidio, molto fastidio, ecco perché tentano di fermarmi con indagini che non hanno nè capo nè coda”.

Ma sapevi di questa inchiesta nei tuoi confronti?

“Qualcosa avevamo intuito proprio dalle intercettazioni relative alla Saguto ed ai suoi amici che sono stati tutti indagati dalla Procura di Caltanissetta: a proposito a che punto è questa inchiesta?”.

CE LO ASPETTAVAMO DA TEMPO E ALLA FINE È ARRIVATO. Scrive Salvo Vitale il 22 aprile 2016 su "Telejato". “Quello là è questione di ore” aveva detto la signora Saguto, quando era ancora “come un dio” sull’alta sedia di Presidente dell’Ufficio misure di prevenzione. Una battaglia Portata avanti dalla redazione di Telejato aveva svelato un “sistema di potere” attorno a cui ruotavano e continuano a ruotare quelli che oggi si possono considerare la nuova classe dominante di Palermo, ovvero avvocati, magistrati, cancellieri, curatori ed amministratori giudiziari, commercialisti, giornalisti, sindaci, imprenditori e commercianti mafiosi che hanno fatto professione di antimafia, affaristi, pentiti usati con il telecomando, a seconda delle cose che gli dicono di dire. Quando è scoppiato il terremoto ed è saltato il tappo, alcuni giudici hanno dovuto lasciare la poltrona, sono stati spostati ad altri incarichi, alcuni amministratori giudiziari sono stati sostituiti, ma sono ancora al loro posto, nessuno di loro si è preoccupato di fare le consegne e pertanto è stato necessario nominare qualcuno che se ne preoccupasse. Era chiaro che, alcuni dei responsabili di questo finimondo non potevano passarla liscia. Non sappiamo che cosa succederà ai giudici di Caltanissetta, che stanno indagando sui loro colleghi, probabilmente saranno “ammorbiditi” dai loro superiori, nella stessa misura in cui Maniaci è accusato di essersi ammorbidito con due sindaci, ma sappiamo oggi che cosa è successo a Pino Maniaci. Il suo telefono, da tempo sotto controllo, probabilmente dopo la denuncia per stalking avanzata da Cappellano Seminara, avrebbe fornito chissà quali elementi, in base ai quali si poteva studiare un bel capo di accusa. Non è stata una “questione di ore”, ma, da settembre ad adesso ci sono voluti quasi nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un parto. Sarebbe stato troppo sfacciato far partire l’accusa nel momento in cui è scoppiato lo scandalo, e perciò, in base alla norma tutta nostra, secondo cui “la vendetta è un piatto che si mangia freddo”, la procura di Palermo ha deciso di mollare il missile adesso che le acque si sono calmate, o, come si dice in siciliano, “a squagghiata di l’acquazzina”, quando la brina si è sciolta. Il metodo è sempre lo stesso: chiamare un giornalista con cui la procura è in contatto, dargli la notizia, quasi sempre anche all’insaputa dell’indagato, fornirgli anche qualche brano sospetto di intercettazioni, da trasmettere, non tutte insieme, ma un poco al giorno, per tenere la vicenda in caldo, ed è fatta. [Pino era stato sentito dai magistrati della procura di Palermo qualche mese fa e pensava di avere chiarito tutto, e invece no]. Ha dovuto nominare due difensori, uno dei quali è Antonio Ingroia, l’altro Bartolo Parrino. L’accusa è ridicola e non merita di essere commentata. Basta ascoltare i telegiornali, per rendersi conto che quotidianamente i sindaci di Partinico e di Borgetto sono “massacrati” da Pino per la loro, diciamo “presunta”, incapacità a risolvere gli enormi problemi del loro territorio. Non parliamo poi della triste vicenda dei cani impiccati: quella che circolava a Partinico, allora, era la tremenda accusa che i cani fossero stati uccisi dallo stesso Maniaci per farsi pubblicità, e un nutrito gruppo della gente di facebook si è apprestato a condividere questa infame accusa, così come oggi mostra soddisfazione per quello che è venuto fuori, con le loro idiote condivisioni. Costoro non si aspettano una condanna: Pino è già stato da loro condannato e da tempo. Fra l’altro, proprio per non farla “vastasa” si è fatta scivolare l’ipotesi che il “canicidio” sia stata opera di qualcuno che si voleva vendicare personalmente e non un’intimidazione mafiosa. Così si toglie, guarda un po’ dove arriva l’intelligenza inquirente, anche, oltre che credibilità, questa sventolata patente di giornalista antimafia che Maniaci si è guadagnata sul campo. La notizia è arrivata dopo che Maniaci, assieme a Lirio Abbate, è stato ritenuto uno dei giornalisti più impegnati in Italia, ma anche dopo che “Reporter sans frontieres” ha pubblicato la graduatoria sui paesi in cui la libertà di stampa è in pericolo: l’Italia è scivolata dal 65simo al 74esimo posto. Fare giornalismo in Sicilia è già difficile. Le querele per diffamazione fioccano e ormai non si contano più, ma quando si ci mette anche la magistratura è il caso di chiedersi se non è meglio cambiar mestiere.

RETTIFICA. Si rettifica l’affermazione, nel senso che Pino Maniaci non è stato mai sentito dalla Procura di Palermo e, sino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia. Tutto quello che è venuto fuori è stato reso noto da un articolo su “La Repubblica”, a firma F. Viviano. In tal senso i legali di Maniaci hanno annunciato che lunedì prossimo sarà presentata alla Procura di Palermo una formale richiesta di accesso agli atti per sapere se esiste un capo d’imputazione, su che cosa e su quali elementi è fondato e per chiedere l’audizione dello stesso presunto imputato. Anche ai giudici di Caltanissetta sarà inviata dal collegio di difesa di Maniaci, formato da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino, una richiesta di accesso degli atti e alle intercettazioni da cui si evincerebbe che, da parte di alcuni settori della Procura di Palermo e di altre forze istituzionali ci sarebbero state manovre e tentativi di fermare l’azione di Telejato.

Pino Maniaci aveva previsto tutto: ecco l’intervista del 13 Novembre 2015 di Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York". In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo - di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

Caso Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci?

Gira voce che vogliono arrestarla…ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei? 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto notizie su di lei…

Maniaci: “La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci: “Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non entusiasmante, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci: “Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci: “Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci: “E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci: “Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per raccontare vent’anni di antimafia, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci: “Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci: “Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci: “Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci: “Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci: “Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci: “Pagavano il ‘pizzo’. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci: “No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci: “Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci: “Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci: “Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci: “Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci: “Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci: “Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci: “Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

La doppia vita di Pino Maniaci: dalla lotta alla mafia alle estorsioni. Il direttore di Tele Jato era un paladino della legalità, accusatore di magistrati per la gestione dei beni confiscati. Ricattava i sindaci per far assumere la sua amante, scrive Felice Cavallaro il 4 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. I cani glieli avrebbe impiccati il marito della sua amante. E per fare lavorare la stessa signora nel Comune di Borgetto avrebbe ricattato sindaco e consiglieri. Sarebbe questa la verità di una classica estorsione e di una storia di «femmine» maturate fra le pieghe di un impegno antimafia che ha visto per anni nei panni di un inflessibile paladino il direttore della piccola e combattiva emittente di Partinico, Pino Maniaci. Lo stesso implacabile accusatore di magistrati e amministratori finiti a Palermo sotto inchiesta per la gestione dei beni confiscati. A cominciare dalla ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, intercettata a maggio dell’anno scorso con il prefetto: «Quando matura la cosa di Maniaci...?». Stavolta le intercettazioni sono tutte a carico di quest’altro simbolo dell’antimafia che cade sotto il sospetto di essersi inventato una parte delle intimidazioni mafiose. Una parte. Non dimentichiamo lo sfogo del boss di Partinico, Vito Vitale, soprannominato Fardazza, intercettato qualche anno fa in carcere a Torino: «Sta televisione si sta allargando troppo». Anche questo tassello deve aver pesato nel 2009 quando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia iscrisse come «pubblicista» d’ufficio Maniaci, editore e conduttore del Tg di TeleJato, nonostante i suoi precedenti penali: furto, assegni a vuoto, truffa, omissione di atti d’ufficio. Tutto considerato ininfluente e cancellato dal rinnovato impegno antimafia. Conteso da tutte le scuole italiane per raccontare la sua vita, le continue presunte minacce ricevute e la storia dei Cento passi di Peppino Impastato, modello al quale si ispirava, Maniaci adesso non potrà nemmeno soggiornare nel suo paese accusato di estorsione «per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto onde evitare commenti critici sull’operato delle amministrazioni». Si tratta però di «cifre ridicole», come le ha definite lo stesso Maniaci la scorsa settimana, intervistato in Tv dalle Iene. Di volta in volta avrebbe «strappato» al sindaco di Borgetto e ad altri personaggi politici locali poche centinaia di euro, «pezzi da 100 o 150 euro». Il sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo e i suoi consiglieri si sarebbero addirittura autotassati pur di pagare lo stipendio all’amante di Maniaci, dopo un corso trimestrale non rinnovabile. E questo sempre per il timore di ricatti. Accusa pesantissima di un’inchiesta condotta dai carabinieri di Monreale e Partinico, sotto il diretto controllo del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Una squadra di magistrati al completo proprio per le ovvie ripercussioni che la notizia può determinare all’interno di un pianeta antimafia che vede ormai cadere i suoi simboli uno dopo l’altro. Dal presidente della Camera di commercio Roberto Helg alle inchieste tutte da definire contro il presidente di Confindustria Antonello Montante e del vice presidente nazionale di viale dell’Astronomia Ivan lo Bello, inciampato nella storiaccia del porto di Augusta con il compagno della dimissionaria ministra Guidi. Nel caso di Maniaci le voci delle scorse settimane erano state clamorosamente smentite dallo stesso direttore parlando di una «vendetta» covata fra i magistrati dopo le accuse alla Saguto. Le intercettazioni a suo carico sarebbero però precedenti al cosiddetto «caso Saguto» ufficialmente esploso solo nel maggio 2015. Ma è anche vero che Maniaci le sue battaglie (fondate) sulla gestione dei beni confiscati le cominciò un anno prima. Quando anche il prefetto Giuseppe Caruso denunciò gli stessi imbrogli. A prima vista sembra però che quelle denunce e le presunte estorsioni procedano su due linee parallele. Con un solo punto di incontro: l’amante e il marito tradito, disposto a impiccare due cani e bruciare l’auto di Maniaci. Storia dello scorso dicembre, quando su Tele Jato rimbalzarono le solidarietà di mezzo mondo e la telefonata di Renzi della quale parlava, ignaro di essere intercettato, il direttore-simbolo, travolto da un delirio di onnipotenza: «Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione... Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi».

TELEJATO: PESANTI OMBRE SUL PASSATO DI PINO MANIACI. Scrive Dario Milazzo il 26 aprile 2016 su l’Urlo”. Episodi inquietanti sembrerebbero contraddistinguere il passato di Pino Maniaci: l’imprenditore avrebbe commesso diversi reati quando era ancora imprenditore edile. Dopo l’indagine per estorsione spuntano altri elementi che potrebbero macchiare l’immagine di Pino Maniaci. Pino Maniaci è l’editore di Telejato, emittente comunitaria famosa per le inchieste e per le battaglie anti-mafia. Come sappiamo Maniaci risulta attualmente indagato a Palermo per il reato di estorsione (Indagato il direttore di Telejato per estorsione). Da fonti autorevoli abbiamo appreso che l’editore di Telejato avrebbe avuto in passato diversi problemi con la giustizia. Si tratterebbe di una sfilza di condanne, tutte passate in giudicato, che avrebbero portato il Maniaci a scontare pene detentive (non possiamo dire se ai domiciliari o in carcere).  Ma l’imprenditore di Partinico nel periodo “pre-Ordine” avrebbe goduto anche di indulto e di amnistia. I reati contestati sarebbero: emissione di assegni a vuoto, furto, abuso d’ufficio, truffa e ricettazione. Ricordiamoci inoltre che Pino Maniaci era stato processato nel 2009 per il reato di esercizio abusivo della professione. Come ci ha confermato l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Maniaci fu processato perché, dopo circa 10 anni di attività giornalistica, non aveva mai presentato le pratiche per ottenere il tesserino di giornalista commettendo così, ovvero scrivendo senza essere iscritto all’Ordine, il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Dal processo per esercizio abusivo della professione giornalistica Pino Maniaci venne assolto per insussistenza del fatto. Tornando ai fatti passati, pesanti sono le accuse che sono state lanciate a Pino Maniaci dall’ingegnere Vincenzo Bonomo, ex assessore di Partinico. In base a quanto asserito dall’ingegnere ed insegnante di Partinico, l’editore di Telejato avrebbe gestito in passato un laboratorio d’analisi cliniche di Montelepre sfoggiando una falsa laurea. Da sottolineare il fatto che fra Vincenzo Bonomo e Pino Maniaci non correrebbe buon sangue: in passato l’ingegnere ha querelato per diffamazione ben 5 volte l’editore di Partinico. I guai giudiziari che in passato avrebbero coinvolto l’editore non hanno nulla a che vedere con la sua attività giornalistica e con l’indagine che lo coinvolge attualmente. Ribadiamo inoltre che Pino Maniaci ha dato tantissimo all’antimafia e alla sua Sicilia, proprio per questo motivo ci aspettiamo da lui una presa di posizione chiara e forte che sia una smentita o una conferma dei fatti contestati.

Indagini su Pino Maniaci: alcuni tasselli del mosaico, scrive Salvo Vitale il 28 aprile 2016 su "Telejato. L’ESTORSIONE È UN REATO. IL SINDACO È UN PUBBLICO UFFICIALE. SE IL SINDACO SUBISCE UNA ESTORSIONE O È AL CORRENTE CHE UNA ESTORSIONE SIA STATA COMPIUTA DA QUALSIASI CITTADINO, HA IL DOVERE DI DENUNCIARE L’ESTORTORE. Quindi, se il sindaco non denuncia rischia di diventare omissivo e compie un reato, anzi, diversi reati, a cominciare dall’omissione di atti d’ufficio. Sono passati due anni, almeno da quello che è trapelato fuori dalla presunta indagine su Pino Maniaci, della quale ancora non gli è stato notificato NULLA, così come nessuna denuncia è stata fatta dai due sindaci per il presunto tentativo di estorsione. Ergo, o il giornalista della Repubblica si è inventato tutto, o la Procura si è inventato tutto, oppure ha cercato in tutti i modi di costruire e imbastire un atto d’accusa farlocco, oppure ancora abbia interpretato male alcune frasi, oppure non è vero che i sindaci abbiano subito un’estorsione, ma rimane il fatto che se il fatto è successo, un reato, quello di non denunciare l’estortore, è stato commesso dai due sindaci. Perché questo reato non è stato loro contestato? Non dovrebbero essere oggi in galera o lì vicino? Forse quel reato non c’era, ma se non c’era tutto dovrebbe sgonfiarsi come un palloncino. SI VA DELINEANDO A POCO A POCO IL QUADRO E I VARI TASSELLI DEL PUZZLE CHE LO COMPONGONO, CON IL QUALE SI È CERCATO DI TAGLIARE L’ERBA AI PIEDI DI PINO MANIACI, DI ZITTIRE UNA BOCCA DIVENTATA TROPPO FASTIDIOSA E POSSIBILMENTE DI INCHIODARLO DISTRUGGENDO L’ALONE DI PALADINO DELL’ANTIMAFIA CHE EGLI HA CERCATO DI COSTRUIRE ATTORNO A SÉ. L’infamia ha una sua base nell’affermazione, che abbiamo letto sulla Repubblica, secondo la quale l’efferata morte dei due cani di Pino sarebbe motivata da questioni personali. Niente minacce mafiose, la mafia è innocente. Anche per tanti altri delitti, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, a Beppe Alfano, a Pippo Fava, all’inizio l’affermazione è stata sempre quella: la mafia è innocente. È la posizione tipica dei mascalzoni che vogliono distruggere l’immagine di una persona proprio in quello che lo caratterizza positivamente. Ma andando indietro, è il 16 febbraio 2016, si tratta di un’intervista a Pino. Emerge dalle sue dichiarazioni che non è una novità che il suo telefono è intercettato e che si sta mettendo assieme la trappola per incastrarlo. Una serie di persone che lo hanno contattato telefonicamente, come risulta dai tabulati, sono chiamate dalla Procura e sono talora invitate a confermare quanto è stato già scritto deciso a tavolino, invitate a firmare quello che dovrebbero dire, in modo abbastanza perentorio. “Sto venendo a prendere i soldi delle magliette. Vedi chi ti tappiu”. Che vogliamo di più, è una chiara richiesta di pizzo. Oppure, se vogliamo andare indietro, c’è una dichiarazione di Pino sul presidente del consiglio comunale di Borgetto: egli sostiene che è collegata a certi ambienti mafiosi. Il presidente reagisce denunciando Maniaci. I consiglieri comunali chiedono che la cosa sia chiarita, il sindaco denuncia Maniaci ritenendo che sia stato offeso il Comune, così sarà il Comune a pagare l’avvocato, e il resto, su come andrà a finire, è tutto da scrivere, ma è chiaro che le dichiarazioni non possono essere lette a pezzettini, e che fanno parte di un insieme. Quell’insieme che Silvana Saguto ha cercato di mettere su, con l’assenso e il benestare degli amici giudici di Magistratura Indipendente, tutti suoi colleghi affettuosi, Virga, Lo Voi, Petralia, ma anche con le riserve e l’opposizione di altri giudici, al punto da arrivare a farle affermare: “Se quelli lì si sbrigassero non ci sarebbe bisogno di ….”. Chi sono quelli lì che ci stanno andando con i piedi di piombo? Insomma si ha l’impressione che la nuova linea è stata lanciata, dopo che Vespa, tanto per mettere una pezza alla minchiata dell’intervista a Salvuccio Riina, chiama in televisione Angelino Alfano, e questo gli dice, più o meno che, visto che la mafia sta finendo, anche l’antimafia dovrebbe finire. Cazzate dietro cazzate con l’annuncio a cui oggi tutti i pennivendoli di regime si sono associati: l’antimafia è morta, sono tutti corrotti, tutti sono nella stessa barca che affonda, la Saguto, Pino Maniaci che l’ha impallinata, Saviano, che rilascia false notizie, Salvatore Borsellino che abbraccia Massimo Ciancimino, Helg, Montante, Lo Bello, Ciancio, ricchi e poveri, colpevoli e innocenti, boss e vittime, don Ciotti e Libera, Addio Pizzo, tutti nello stesso mucchio, tutti uguali, tutti a mare, dopo di che, dopo questa grande piazza pulita di discredito e di merda, Cosa Nostra, con i suoi colletti bianchi, con le sue toghe, con i suoi avvocaticchi, con i suoi imprenditori, con le sue aziende liberate dalla paura di finire sotto inchiesta, davanti a una magistratura intimidita potrà tornare a imperare, senza più bisogno di boss nascosti: basterà metterli bene in evidenza come componenti del sistema politico che ci regge, farli diventare onorevoli, oggi si decide a tavolino, presidenti ecc. e tutto sarà risolto. Insomma, il sogno fatto in modo un po’ rozzo da Totò Riina e in modo più sapiente da u zzu Binnu in Sicilia e da Licio Gelli nel resto d’Italia, diventerà realtà.

Pino Maniaci: il fango, la stampa e l’ignoranza, scrive Massimiliano Perna il 30 aprile 2016 su “Il Megafono”. Pino Maniaci è un delinquente, un finto paladino dell’antimafia. È anche un pregiudicato, come qualcuno, con eccitazione, sta urlando ai quattro venti in queste ore. Pino Maniaci è pure un estortore. Non presunto, per carità, lo è e basta. Lo avete deciso voi. Lo ha deciso la stampa, o almeno quella parte che non vede l’ora di beccarne un altro che possa aggiungere crepe a un movimento sempre più instabile. Lo ha deciso una parte dello stesso movimento antimafia, soprattutto quella che non è mai stata sul campo e ha fatto il proprio nido sulle tastiere e dietro uno schermo, pontificando, accusando, giudicando senza appello persone e storie, vite e vissuti. Pino, oggi, per molti colleghi e per diversi presunti antimafiosi di questo Paese non è più quel giornalista coraggioso, onesto e ostinato che da anni denuncia, a suo rischio, tutto quel che non va nella provincia palermitana e in Sicilia. Uno della cui amicizia si può andare fieri. Pino adesso, d’improvviso, è diventato un uomo da osservare con sospetto. La campagna denigratoria nei suoi confronti è di una violenza inaudita e non sono violenti soltanto gli attacchi velenosi dei detrattori o il ghigno dei nemici nascosti, ma anche i silenzi di chi dovrebbe sostenerlo e che invece preferisce non dir nulla, non esporsi. Tutti ad accettare giudizi vergognosi, senza battere ciglio. Sintomo non di cautela, ma di profonda ignoranza, che è uno dei problemi più grandi anche del movimento antimafia. Un movimento troppo affollato, dove entra chiunque e dove chiunque, solo in virtù della partecipazione a qualche evento o presidio o della lettura di qualche libro o articolo, si sente in diritto di esprimere qualsiasi giudizio nei confronti di chi la mafia la sfida ogni giorno o l’ha sfidata per anni. Sul campo. Il tutto in un Paese (e in un contesto giornalistico) che vive di antipatie, invidie, fazioni, manie, fanatismi e che perde spesso di vista la realtà. Così, in molti hanno partecipato, più o meno direttamente e senza condizionali, alla gara di lancio del fango su Pino Maniaci e Telejato. E lo hanno fatto nonostante non avessero a disposizione nient’altro che un articolo nel quale si parla di una grottesca estorsione (soldi e posti di lavoro chiesti ai sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea morbida di Telejato nei loro confronti) e si annunciano intercettazioni sensazionali. Stop. Non si fa riferimento ad altro, non si racconta la storia più recente di Pino e della sua tv, non è chiaro quale sia il contesto di queste intercettazioni, quale sia il loro contenuto, non sappiamo nemmeno se esistano davvero. C’è solo un articolo con una notizia frammentata e ciò basta a scatenare l’inferno. Poco importa che a Pino non sia arrivata alcuna notizia di indagine, non sia giunto alcun avviso di garanzia. Di sicuro, però, qualora questa indagine fosse reale, qualcuno andrebbe punito per violazione del segreto di ufficio e dovrebbe spiegare come mai la stampa abbia saputo prima del diretto interessato. Ovviamente, la maggior parte finge di ignorare che Pino, in questi ultimi due anni, ha smascherato il malaffare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, mettendo nei guai giudici molto potenti, come Silvana Saguto, e avvocati altrettanto potenti. Sappiamo benissimo come vanno queste cose e come, quando tocchi certi ambiti, la reazione (peraltro attesa) possa in qualche modo arrivare colpendoti sempre nel tuo punto più caro. Accusano Pino, infatti, proprio delle cose contro le quali si è sempre battuto. Provano a gettare un’ombra su di lui e sul suo impegno e lo fanno comunicando alla stampa una notizia che aizza i suoi detrattori. Qualcuno poi decide di andare oltre e finisce per affondare le mani nel passato di Pino, tirando fuori storie note come se fossero sensazionali e inedite. “Pino Maniaci ha avuto problemi con la giustizia”, scrive un giornale online a cui non diamo nemmeno l’onore del nome per non fargli pubblicità (visto che lo leggono in quattro), elencando tutta una serie di presunti reati, oltre a raccogliere l’accusa non dimostrata di un nemico dichiarato di Telejato, un ex assessore del Comune di Partinico. A tal proposito, sempre l’ignoranza e la disinformazione fanno sì che la gente non presti attenzione al fatto che i comuni di Borgetto e Partinico siano attaccati quotidianamente e duramente dall’emittente Telejato. Addirittura la presidenza del consiglio comunale di Borgetto aveva querelato la tv di Pino Maniaci per diffamazione e lo stesso sindaco si era costituito parte civile contro l’emittente. Non vi pare allora quantomeno contraddittoria la storia della “linea morbida” verso i due sindaci in cambio di soldi e favori?  Ma torniamo indietro al passato “burrascoso” di Maniaci. Dove starebbe la notizia? Lo stesso Pino (nel libro Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, Caracò editore, 2012) aveva scritto e raccontato del suo passato e dei problemi vissuti, della galera per un caso di omonimia, della sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e infine del suo momento di svolta, legato a quanto accaduto a Capaci e in via D’Amelio. Riportiamo qui alcuni passaggi che qualche giornalista sprovveduto farebbe bene a leggere: “…I miei delatori lo sanno bene ed ogni volta che qualcuno mi vuol attaccare, non avendo altro, subdolamente non fa che ricordare che Pino Maniaci non è altro che un pregiudicato della peggior specie e non un giornalista accreditato. Già perché io non ho fatto sempre questo mestiere. Proveniente da una famiglia non proprio agiata ma neanche mala cumminata, sin da ragazzo mi sono sempre sbracciato. […] Ho fatto mille lavori sino a diventare anche un piccolo imprenditore edile, ed è qui che cominciano i miei guai. Siamo negli anni ’80, lavorare nel settore edile e nel mio territorio non è cosa facile. I soldi non bastano mai ed è così che l’impresa che costituisco cammina sempre sul filo del rasoio. Si vive di pagherò e di assegni postdatati e ai fornitori sta pure bene”. Pino racconta di essere stato arrestato in una operazione antimafia, ma per errore, perché omonimo di un affiliato (che poi si scopre essere un suo lontano parente). Sarà Giovanni Falcone ad accorgersi dell’errore e a liberarlo. Ma mentre è in galera, fuori per l’attività di Pino le cose peggiorano: “Con me lontano, i lavori non vanno avanti, i creditori spariscono mentre rimangono i debiti e i fornitori che incassano gli assegni, ovviamente scoperti. Le cose si mettono male ed oltre a una denuncia per mafia, cominciano i miei guai per gli assegni non pagati”. Eccolo il passato “ombroso” di Pino, quello dal quale derivano la sua forza e, soprattutto, la sua scelta, dovuta alla rabbia provata per le stragi del ‘92, di ritirare la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione e di impegnarsi attivamente nella lotta alla mafia. Un impegno che da quel momento non si è mai fermato, che ha portato alla bellissima realtà di Telejato, palestra ed esempio per tanti giovani e per tanti giornalisti liberi. Un uomo onesto, sia nel raccontare il suo passato che nel vivere il suo presente, con coraggio e senza fare sconti a nessuno. Anche se questo atteggiamento poi, come vediamo, qualcuno glielo fa pagare. Noi, che persone come Pino le abbiamo avute accanto, le abbiamo conosciute da vicino, sul loro campo di battaglia, ci schieriamo dalla sua parte e dalla parte di chi resiste e rifiuta di farsi mettere cappelli politici o di movimento. Siamo in attesa di vedere come evolverà questa vicenda, convinti che sia solo un tentativo, anche piuttosto banale e goffo, di screditare chi ha osato troppo. Più avanti, quando tutto sarà chiarito, avremo poi tutto il tempo per ricordarci di chi oggi, senza nulla in mano, dalle tastiere e dalle pagine di certi giornali, ha già emesso illegittime sentenze e sputato calunnie.

La calunnia è un venticello. Pino Maniaci e le indagini presunte, scrive il 30 aprile 2016 Martina Annibaldi su "Stampa Critica”. Da circa vent’anni è il volto di Telejato. Unico tra gli italiani, insieme a Lirio Abbate, a finire nella lista dei 100 eroi mondiali dell’informazione stilata da Reporter Sans Frontier. Pino Maniaci è per tanti di noi il simbolo vivente di una lotta alla mafia che è fatta di impegno quotidiano e di coraggio. Quel coraggio di raccontare le distorsioni e i veleni di una terra, la propria. Anni di battaglie, di intimidazioni, di violenza, di querele a catinelle (più di duecento, ad oggi!) nel tentativo ancora mai riuscito di tappare la bocca a lui e alla sua redazione. Pino è sempre andato avanti ma, si sa, prima o poi dove non arriva la crudeltà o la minaccia arriva quel leggero venticello dell’infamia a colpire chi avrebbe dovuto tacere e non lo ha fatto. “Meno attacchi in cambio di soldi: indagato a Palermo paladino della tv antimafia”, è il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica venerdì 22 Aprile che apre il caso Maniaci. Secondo la ricostruzione fornita dal giornalista, Pino Maniaci sarebbe indagato dalla Procura di Palermo per estorsione ai danni del sindaco di Partinico, Salvo Lo Biundo, e del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca. In cambio di soldi, il volto di Telejato, avrebbe promesso ai due primi cittadini un ammorbidimento dei servizi che li riguardavano e richiesto posti di lavoro per i propri familiari. Le indagini sarebbero state aperte dopo una serie di intercettazioni da parte dei Carabinieri e, alla luce di quanto emerso, avrebbe persino spinto gli inquirenti a ripensare la matrice delle intimidazioni violente subite dal giornalista siciliano nel 2014, quando i suoi due cani vennero prima avvelenati e poi impiccati dalla mafia. Per un istante, un solo istante di spaesamento, a molti di noi si è gelato il sangue. Ma si è trattato di un istante e nulla più. Perché in fin dei conti hanno ragione a Telejato quando dicono che se lo aspettavano. Perché la mafia ha smesso di essere solo quella dei Messina Denaro e dei Riina. La mafia ha smesso di fare patti con lo Stato. La mafia si è fatta Stato attraverso la corruzione e l’insediamento nei poteri forti. E quei poteri forti non vogliono essere toccati, perché se li tocchi ti fanno male, molto male ma senza colpo ferire. Pino Maniaci a quei poteri forti ha dato fastidio, e tanto. Lui e la sua redazione da anni si battono per portare alla luce non solo i traffici della mafia “ufficiale” ma anche i movimenti occulti di quell’antimafia intrisa di cultura mafiosa che solo di recente è finalmente venuta alla luce, permettendo di mandare a casa la ormai ex Presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, finita sotto inchiesta insieme a tre magistrati e ad una serie di amministratori giudiziari per aver messo su un sistema fatto di favori, di clientelismo e di enormi quanto loschi guadagni sui beni confiscati alla mafia. È la stessa Saguto che, intercettata al telefono con l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo (indagata a sua volta per concussione) riferendosi a Telejato parla di “ore contate”. “Mi sembra che la storia sia chiarissima: l’avvocato Cappellano Seminara mi ha denunciato per stalking solo per fare in modo che io venissi intercettato: ma basta andare a vedere i servizi del mio telegiornale per capire che i sindaci in questione vengono attaccati almeno una volta al giorno. Senza contare che il presidente del consiglio comunale di Borgetto mi ha persino querelato di recente”, dichiara Maniaci, assistito dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino. Finora nessun avviso di garanzia a carico del giornalista siciliano (peraltro, come già sottolineato dallo stesso Ingroia, grave violazione del segreto d’ufficio, qualora l’inchiesta esistesse realmente) solo indiscrezioni di stampa che continuano a montare nel silenzio assoluto della Procura di Palermo. Maniaci si dichiara pronto a chiarire ogni dettaglio, qualora questa inchiesta passasse dell’essere presunta all’essere reale. Certo è che, in un Paese in cui gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le condanne a carico dei politici e dei potenti passano sempre in secondo piano o si gonfiano in polemiche mordi e fuggi, fa sorridere (o forse fa piangere) il polverone sorretto da presunti e da condizionali. Quello che sta montando nei confronti di Pino Maniaci ha il sapore esatto delle macchinazioni a cui la mafia, nel senso più ampio ed onnicomprensivo del termine, ci ha abituati da sempre. Infangare, affossare, calunniare. Delegittimare, insinuare il dubbio su tutto, persino sulla violenza subita. Come quei tanti giornalisti morti di mafia su cui ancora aleggia il sospetto del delitto passionale. A Maniaci i cani li hanno ammazzati per motivi personali, questa sarebbe la nuova versione dei fatti. E forse tanto basterebbe per far riflettere. E poi quella denuncia per stalking, perché per stalking? Cappellano Seminara avrebbe, forse, potuto tentare la denuncia per diffamazione ma sceglie lo stalking. Perché, si sa, non serve che il reato sia realmente accaduto, basta qualche stralcio di intercettazione qua e là, o forse neanche quello, per gettare un’ombra indelebile su alcuni personaggi. Lo scandalo è montato, e forse cadrà nell’ombra una volta raggiunto il suo apice, cadrà nell’ombra prima che arrivi la versione ufficiale, prima che la Procura faccia chiarezza su questa indagine fantasma. Pino Maniaci resta in attesa che questo silenzio venga dissipato. Altrettanto sarebbe opportuno che facesse l’intera comunità, perché non si giudichi, ancora una volta, sospinti solo da quel famoso venticello dell’infamia.

"Caso Saguto, che fine ha fatto?". L'e-mail e la ferita aperta, scrive Riccardo Lo Verso il 28 aprile 2016 su "Live Sicilia". Va bene il convegno. Va bene il confronto “meritorio” sul tema della disabilità, ma l'indagine sulla Saguto che fine ha fatto? A rivolgere la domanda al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Lia Sava, è un magistrato di Palermo. “Cara Lia...”, comincia così la lettera che Maria Patrizia Spina, presidente della quinta sezione della Corte d'appello, ha girato a una mailing list di colleghi. Una sezione, la sua, particolarmente attenta all'argomento visto che tratta, nel secondo grado di giudizio, le decisioni che un tempo venivano prese dal collegio presieduto da Silvana Saguto, oggi sospesa dal Csm. Un collegio azzerato dall'inchiesta dei pm di Caltanissetta, coordinati proprio dalla Sava che, oltre a fare l'aggiunto, oggi è anche il capo pro tempore dei pm nisseni in attesa della nomina del nuovo procuratore. La Sava è promotrice di un convegno in programma fra qualche giorno a Palermo. Ecco perché è a lei che la Spina chiede se sia “opportuno” organizzare un convegno a Palermo “mentre si attendono gli esiti sul caso Saguto”. Caso che, in un passaggio della lettera, viene definito “sistema” e per il quale tutti “ci aspettavamo gli esiti dell'indagine”. La Spina mette per iscritto un'esigenza diffusa tra i magistrati palermitani. Quando scoppiò lo scandalo si disse che in gioco c'era la credibilità dell'intero distretto giudiziario palermitano. Non restava che aspettare che venisse fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Il punto è che bisogna fare i conti con i tempi delle indagini e con quelli che servono ai giudici per tirare le somme. Il fattaccio beni confiscati venne a galla nel settembre 2015, quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria fecero irruzione nella stanza della Saguto, al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia. Si scoprì che c'erano le cimici nel suo ufficio. L'indagine era partita qualche mese prima, quando i pm di Palermo si accorsero che c'erano finiti dentro alcuni magistrati e trasferirono il fascicolo a Caltanissetta per competenza. La conferma dei tempi dell'inchiesta si è avuta fra dicembre e gennaio quando gli indagati - dalla Saguto all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dal giudice Tommaso Virga al figlio Walter, all'ex prefetto Francesca Cannizzo - ricevettero l'avviso di proroga delle indagini. I termini scadono fra giugno e luglio prossimi, ma se i pm non avranno finito di analizzare le informative dei finanzieri in teoria avrebbero l'opportunità di chiedere una nuova e ultima proroga di ulteriori sei mesi. E torniamo al tema sollevato dal giudice Spina nella sua e-mail. I magistrati, ma non solo loro, aspettano “gli esiti delle indagini”. Aspettano di conoscere il contenuto completo di quel quadro che, a giudicare da quanto finora emerso, sarebbe connotato da favori, soldi e forse anche mazzette. Tra i reati ipotizzati, infatti, c'è pure la corruzione. Il punto è che i bene informati continuano a ripetere che quanto finora trapelato è poca roba rispetto al materiale raccolto. Si vedrà. Intanto l'attesa pesa. Innanzitutto ai magistrati stessi. L'e-mail del giudice sta facendo parecchio discutere nelle stanze del Palazzo. Non sappiamo se altri colleghi abbiano contributo al dibattito on line, oppure se abbiano scelto la strada del silenzio. Il silenzio che ha caratterizzato la polemica sollevata, sempre via e-mail, dal pm Antonino Di Matteo sulla presenza del professore Giovanni Fiandaca a un evento formativo della Scuola superiore della magistratura. Invitare il "nemico" del processo sulla Trattativa Stato-mafia a "fare lezione" ai magistrati palermitani: è opportuno?, si è chiesto di Di Matteo. Fiandaca ha risposto a muso duro: "Da lui censura fascista". Nessuna risposta dai colleghi a cui il pm ha girato il messaggio di posta elettronica.

Il mare magnum del caso Saguto. Obiettivo: "Blindare" le prove, scrive Riccardo Lo Verso il 29 aprile 206 su "Live Sicilia”. Un numero maggiore di indagati di quanti finora emersi, decine di amministrazioni giudiziarie setacciate, tonnellate di carte da spulciare, un elenco sterminato di favori, o presunti tali, e assunzioni. Ed ancora: nomine, consulenze e soprattutto passaggi di denaro. Benvenuti nel mare magnum dell'inchiesta sui beni confiscati alla mafia. “Che fine ha fatto il caso Saguto?”, si chiede, come ha raccontato Livesicilia, un giudice della Corte d'appello di Palermo. Risposta complicata perché complesse sono le indagini che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha delegato ai finanzieri della Polizia tributaria di Palermo. Considerata la mole di lavoro, a dire il vero, gli undici mesi finora trascorsi sembrano persino pochi per potere già tirare le somme. Eppure almeno una parte delle indagini sembra destinata ad arrivare alla conclusione prima dei caldi mesi estivi, quando scadrà la proroga di sei mesi iniziata fra dicembre e gennaio scorsi. Di proroga i pm nisseni, coordinati dall'aggiunto Lia Sava, potrebbero sfruttarne un'altra, sempre di 180 giorni. Il punto è che si è partiti da un caso singolo - la gestione della concessionaria Nuova Sport Car sequestrata ai Rappa e affidata dal giudice Silvana Saguto al giovane avvocato Walter Virga, figlio di un altro giudice, Tommaso - e si è scoperto un fenomeno. Un sistema, come viene definito, dove la gestione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sarebbe stata piegata ad interessi personali fino a ipotizzare reati pesantissimi come la corruzione e l'autoriciclaggio. Il caso è esploso nella sua drammatica evidenza una mattina di settembre con i finanzieri che piombano nella stanza della Saguto e nella cancelleria del Tribunale. Tutti, gli indagati per primi, a quel punto sanno di essere finiti sotto inchiesta, anche se dalle intercettazioni sembrava che lo avessero già intuito da un po'. Nell'ufficio dell'ex presidente, infatti, c'erano le cimici. Perché svelarne l'esistenza e spegnere la microspia nella stanza dei bottini? Perché, evidentemente, era giunto il momento di scoprire le carte forse per stoppare qualcosa, oppure perché gli investigatori avevano ascoltato già ciò che serviva. Che deve essere molto di più di quanto finora trapelato. Le intercettazioni finora conosciute ci hanno svelato un sistema di nomine clientelari, favori, piccoli e grandi - cassette di frutta e laurea del figlio della Saguto inclusa -, ma non è tutto. Da approfondire, secondo i pm, è il corposo capitolo del presunto patto corruttivo fra Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara che avrebbe ottenuto la gestione di grossi patrimoni in cambio di consulenze per il marito del'ex presidente, l'ingegnere Lorenzo Caramma, pure lui sotto inchiesta. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati a Caramma dal 2005 al 2014, in un arco temporale che è iniziato quando la Saguto era membro del collegio delle Misure di prevenzione ed è proseguito quando dello stesso collegio il magistrato è divenuto presidente nel 2010. C'è un dato certo perché scolpito nei nastri delle intercettazioni. La famiglia della Saguto aveva un tenore di vita altissimo, che ad un certo punto divenne insostenibile. Il magistrato diceva a Elio, uno dei suoi tre figli: "Dobbiamo parlare, perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale, non è possibile più... voi non potete farmi spendere 12,13,14 mila euro al mese noi non li abbiamo questi introiti perché siamo indebitati persi". In realtà, dall'analisi della carta di credito del magistrato, si è scoperto che di soldi ne arrivavano a spendere in un mese fino a 18 mila euro. Per rimediare, secondo la Procura nissena, l'ex presidente avrebbe ottenuto soldi in contanti da Cappellano Seminara. E qui si innesta un altro passaggio delicato. L'ipotesi, smentita dai presunti protagonisti, è che una sera di giugno l'amministratore giudiziario possa avere portato ventimila euro in un trolley a casa Saguto. Nelle intercettazioni si parlava di “documenti”. Altra domanda: perché non bloccare Cappellano con la prova regina? Possibile risposta: perché a fini investigativi la prova, o presunta tale, poteva essere meglio cristallizzata seguendo i successivi passaggi del denaro. "Non è emersa alcuna traccia di scambi di denaro tra la mia assistita e gli amministratori giudiziari, e gli accertamenti bancari lo confermano - disse l'avvocato della Saguto, Giulia Bongiorno - le accuse sono palesemente sbagliate". In altre conversazioni fra l'ex presidente e il padre si parla di mazzettine di denaro. Non sarebbero solo i soldi in contanti, però, che i finanzieri hanno cercato per riscontrare le parole intercettate. Parole da cui emergerebbe la convinzione di potere godere dell'impunità. Una sicurezza che avrebbe spinto i protagonisti a commettere degli errori e a lasciarne traccia? Lo scopriremo e forse non si dovrà neppure attendere molto tempo ancora. Il lavoro degli inquirenti impegnati a "blindare" ciò che sarebbe già stato acquisito sembra muoversi su più livelli. C'è quello più alto dove compaiono i nomi della Saguto, di Cappellano, dei Virga e di qualche altro rappresentante delle istituzioni come l'ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. La sola Saguto è stata sospesa, tutti gli altri trasferiti. E poi, a cascata, ci sono i livelli più bassi che arriverebbero fino ai “raccomandati” per un post di lavoro o per una consulenza. L'inchiesta potrebbe procedere per step.

Amministrazioni giudiziarie e curatele fallimentari: “U mancia mancia”, scrive il 19 aprile 2016 Salvo Vitale su Telejato. Sono state dissequestrate alcune aziende che erano finite sotto le grinfie della dott.ssa Saguto senza sufficienti motivazioni, ma solo perché alcuni protagonisti del cerchio magico, in particolare i cosiddetti “quotini”, avevano pensato di sistemarsi a vita spolpandone le risorse. Il caso del capo dei “quotini”, Cappellano Seminara è uno dei più sconvolgenti e ancora oggi aspetta di essere esplorato in tutte le sue “malefatte”. Man mano che i nuovi amministratori giudiziari, nominati per effettuare le consegne scavano per cercare di capire dove sono finiti i soldi, si configurano casi di falso in bilancio, casi di fornitori non pagati che reclamano i loro soldi, addirittura di vasche da bagno strappate dal loro posto e messe in vendita di nascosto o portate in altra struttura. Milioni di debiti che sicuramente non saranno pagati da chi ha combinato questi dissesti, ma che, come al solito graveranno sulle spalle dei proprietari cui è stato riconsegnato il bene sotto sequestro. Sono stati cambiati alcuni amministratori giudiziari, ma in qualche caso, come per i beni dei Virga, dove Rizzo è stato sostituito con Privitera, tutto è rimasto come prima, anzi peggio di prima, perché Privitera viene da Catania una volta la settimana, riceve solo chi decide lui e non vuole prendere alcuna decisione se non con l’autorizzazione di Montalbano. Addirittura a una ragazza ha fatto firmare una ricevuta di un acconto datole per il suo lavoro di cento euro, cioè l’elemosina e a qualche altra lavoratrice che reclamava un minimo di acconto e che aveva ritirato dalla scuola la figlia, perché non poteva darle nemmeno i soldi per il panino, ha detto che ci vuole sempre l’autorizzazione di Montalbano per avere un sussidio. Insomma, storie di ordinaria miseria all’ombra dell’antimafia. Ma se in questo settore si aprono spiragli, altre porte sembrano chiudersi: si presentano in redazione lavoratori disponibili e pronti a prendere in mano aziende sotto sequestro e destinate al fallimento, ma Montalbano li indirizza agli amministratori giudiziari, i quali dicono che “ci pensano loro” e che non hanno bisogno di aiuto. Spiragli di lavoro che potrebbero funzionare, ma ai quali viene chiusa ogni possibilità prima di cominciare. Ben più serrata e impenetrabile è la situazione degli uffici che si occupano di fallimenti e di curatele giudiziarie. Qua diversi avvocati, nominati, non si sa se frettolosamente o in modo complice dal tribunale, sono stati capaci di costruire le proprie ricchezze acquistando o facendo acquistare da prestanomi i beni messi in vendita, anzi svenduti in un particolare momento in cui all’asta si presentava solo chi era stato deciso che doveva acquistare. Beni immobili di milioni di euro venivano e vengono aggiudicati per pochi spiccioli e, se in qualche occasione il proprietario ha deciso di ricomprare ciò che era suo, allora il prezzo sale. Una vera e propria casta della piccola e media borghesia palermitana si è proposta e agisce come classe dominante, non facendosi scrupoli anche di amministrare e gestire le risorse di Cosa Nostra. L’arresto di alcuni professionisti fatto anche recentemente, è un semplice indizio di quanto serpeggia in modo sotterraneo. Quella che il grande Mario Mineo e poi Umberto Santino e altri chiamano “borghesia mafiosa”, è in grado persino di spremere soldi a Cosa Nostra, dal momento che i mafiosi fanno collette tra i loro amici per pagare gli avvocati dei loro parenti in carcere. Ma le nostre sono solo parole e considerazioni tratte da quanto sono venute dichiararci le persone danneggiate da queste trappole. Sicuramente sotto c’è ben altro che forse non sapremo mai, c’è un verminaio altrettanto grave di quello dei sequestri giudiziari e di cui qualche spiraglio speriamo che si apra con il nuovo presidente della sezione Fabio Marino.

Il Paladino, la mafia, le corna, scrive Vincenzo Marannano il 4 maggio 2016 su “Di Palermo”. L'indagine su Pino Maniaci, la mafia spacciata per una trita storia di amanti e di vendette e quella verità, se di verità si tratta, che arriva sempre tardi. Troppo tardi. La prima vittima eccellente, in questa ennesima storia nebulosa, è sicuramente la verità. Azzoppata intanto da mesi di indiscrezioni, colpita duramente da chi ha accreditato – con premi, patenti di legalità e attestati di stima – qualcuno che a quanto pare non era poi così accreditabile, e trafitta infine da indagini troppo lunghe. Perché – se confermata la ricostruzione degli investigatori – due anni per dirci che a bruciare un’auto non era stata la mafia ma un marito geloso forse sono un po’ troppi. E perché consentire per mesi a carovane di associazioni e rappresentanti delle istituzioni di sfilare quasi in pellegrinaggio verso la sede di una televisione che (sempre se le prove supereranno l’esame del processo) invece estorceva denaro in cambio di una linea più morbida, fa male anche e soprattutto alle credibilità delle istituzioni e alla parte sana del movimento antimafia. La verità in Italia purtroppo viaggia spesso a due velocità. Il tribunale dell’opinione pubblica, basato solitamente su semplici indiscrezioni, è molto più rapido di quello della giustizia. E un cittadino tante volte finisce per essere condannato anni prima di vedere conclusa, in un modo o nell’altro, la sua vicenda processuale. I tempi della giustizia sono lunghi. Le prove o gli indizi impiegano ancora troppo per diventare informative degli investigatori prima, richieste della Procura dopo e, infine, ordinanze dei gip. Così ci ritroviamo con reati compiuti a partire dal 2012 che, se va bene, approderanno in un’aula di tribunale dopo cinque anni. Con tutti i limiti e i problemi che questo comporta. Sia per chi i reati li commette, ma anche per chi deve discolparsi di qualcosa che non ha mai fatto. C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato. Nell’era di internet e dei social network – e dei pulpiti offerti a chiunque grazie a strumenti come Twitter o Facebook – qualsiasi notizia lascia ormai una traccia quasi indelebile, nel bene e nel male. Se un’inchiesta impiega cinque o vent’anni per arrivare a sentenza, fino a quel momento l’unica verità, parziale, sarà quella emersa dalle indagini o dalle indiscrezioni. A questo aggiungiamo che ogni giorno plotoni di internauti si svegliano, leggono il tema del momento e si improvvisano arbitri, giudici, allenatori, investigatori, opinionisti. E che, purtroppo, le chiacchiere da bar non si disperdono più tra un bicchiere e l’altro ma restano impresse e spesso diventano verità a uso e consumo di chi non è in grado di selezionare e capire cosa è informazione e cosa, invece, è solo opinione. O “curtiglio”. Questa leggerezza porta a condannare semplici indagati o ad esaltare modelli impresentabili. E in questa continua improvvisazione si finisce col rovinare carriere o (chissà cosa è peggio) col costruire o inventare di sana pianta eroi, paladini o semplici “bolle” che quando si sgonfiano o esplodono danneggiano tutto l’ambiente in cui hanno proliferato. La storia di Pino Maniaci non fa differenza. Autoproclamatosi paladino dell’antimafia, in questi anni è stato celebrato da un capo all’altro del Paese (e perfino all’estero) grazie anche alla ribalta concessa da televisioni nazionali abituate a fare informazione semplicemente mettendo un microfono davanti alla faccia dell’intervistato. Senza scavare o chiedere conferme. Perché a molti è bastato sentire dalla sua viva voce che la mafia aveva bruciato la sua auto per costruire una verità che invece spettava a qualcun altro accertare. Perché in un momento storico in cui comandano l’audience e i like su Facebook, è sicuramente più popolare una storia di ribellione a Cosa nostra che la solita trita e ritrita questione di corna. Perché c’è sempre qualcuno, prima degli investigatori, pronto a dire che è stata la mafia a bruciare quella macchina o a piazzare quella finta bomba. Perché – spesso anche nella categoria dei giornalisti – bisogna arrivare sempre primi (per vincere cosa?), dare una notizia in più anche se non verificata o (peggio) sostituirsi agli investigatori nelle analisi o ai giudici nelle sentenze. A scapito di una verità che, come un frutto rarissimo, purtroppo ha ancora tempi troppo lunghi per maturare.

Per l'avv. Antonio Ingroia “il corpo del reato è un video che è stato montato dai Carabinieri (c’è la firma, perché c’è lo stemma dei Carabinieri), ed è stato distribuito inserendo intercettazioni e atti giudiziari che noi ancora non conosciamo se non attraverso quel video, perché non fanno parte degli atti trasmessi al giudice e comunque non fanno parte dell’ordinanza cautelare, trattandosi di fatti penalmente irrilevanti, ma servivano soltanto a distruggere l’immagine di Pino Maniaci. Perché dentro queste indagini ci sono rancori e vendette di amministratori locali, che hanno avuto la grande occasione di liberarsi della voce libera di Telejato e di Pino Maniaci. Ma c’è stata anche un’operazione che era attesa… L’operazione era attesa, com’è noto dalle intercettazioni della Procura di Caltanissetta, sui magistrati e gli amministratori giudiziari indagati per gravissimi reati, per i quali, invece, al contrario di Pino Maniaci, sono a piede libero. La verità vera è che si voleva macchiare Pino Maniaci, e si è macchiato, per due o tre piccole presunte piccole estorsioni (parliamo di centinaia di euro) a fronte di magistrati, avvocati, professionisti e amministratori giudiziari che sono imputati per centinaia di milioni di euro, che sono stati sottratti allo Stato, e sono oggi a piede libero, e altro non aspettavano in questi mesi, che approdasse a destinazione questa indagine. E’ grave e inquietante e noi faremo denuncia di questo, per il fatto che questi, magistrati, prefetti e avvocati sapessero che c’era questa inchiesta che bolliva in pentola e gradivano che arrivasse in porto. Per questo presenteremo denuncia”.

Ingroia diventa garantista per incassare una parcella. L'ex pm è l'avvocato del direttore di "Telejato" Maniaci, icona antimafia accusata di estorsione. Ora scopre che la sua vecchia Procura fa "indagini mediatiche". E denuncia pure i carabinieri, scrive Paolo Bracalini, Sabato 07/05/2016, su "Il Giornale". Da pm d'assalto a paladino degli imputati, la rivoluzione (personale, più che civile) di Antonio Ingroia è compiuta. Si fatica a riconoscere nell'ex pasdaran della Procura di Palermo pronto a mettere sotto accusa anche il Quirinale, l'autore di esternazioni tipo «questo provvedimento (della sua ex Procura, ndr) è sproporzionato», «c'è un accanimento accusatorio», «Pino Maniaci è stato crocifisso mediaticamente», «è grave e inquietante che i magistrati sapessero prima dell'inchiesta», «siamo di fronte a gossip, ad un processo mediatico alla vita privata», e poi indignarsi perché i pm avrebbero fatto «il copia incolla delle informative dei carabinieri», infilando nell'ordinanza anche «chiacchiere senza alcuna rilevanza penale», utili solo a «sporcare l'immagine» delle persone. Dopo la carriera da pm finita con un duello (perso) col Csm e l'addio alla toga, e poi la brevissima carriera da leader politico finita con il disastro elettorale, l'incarico ricevuto da Crocetta in una partecipata regionale siciliana andato a schifìo pure quello, Ingroia è tornato in pista come avvocato. Ma nemmeno in questo campo mancano incidenti e scivoloni per 'U comunista immuruteddu (il gobbetto comunista), soprannome affettuoso che gli diede Borsellino ai tempi in cui Ingroia era il suo vice a Marsala. Tra i suoi primi assistiti, dopo aver detto che «per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti», l'ex pm si è scelto Augusto La Torre, già boss della camorra di Mondragone (spiegando che «si può condurre una battaglia antimafia anche difendendo un pentito»). E adesso è proprio lui, l'avvocato Ingroia, a difendere il direttore di Telejato, Pino Maniaci, già simbolo dell'informazione antimafia, accusato dai giudici di Palermo di aver usato la sua posizione per estorcere denaro a politici. Ingroia ha un debole per i paladini dell'antimafia, ma non sempre ci prende, anzi. Nei lunghi mesi del processo sulla presunta «trattativa Stato-mafia», sua ultima ossessione giudiziaria, Ingroia è arrivato a riconoscere «quasi un'icona dell'Antimafia» in Ciancimino jr, rivelatosi poi un testimone tutt'altro che affidabile (condannato per calunnia), dopo essere stato elevato però (anche grazie ai talk show dei giornalisti amici di Ingroia) a fonte di verità suprema sulle malefatte della politica collusa coi clan, quasi sempre di centrodestra. Ma adesso che il segugio delle trame occulte e dei segreti inconfessabili della Repubblica è passato dall'altra parte della barricata, ha sposato con lo stesso impeto il garantismo. Nel difendere Maniaci, l'ex pm minaccia sfracelli. Accusa la Procura di Palermo di «inseguire il gossip» e di aver costruito un'indagine sul nulla, minaccia la Procura di Caltanissetta («Non possiamo non denunciarne l'anomalia...), vuol portare in tribunale pure i carabinieri, «per avere distribuito lo spot promozionale dell'accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci, inserendo la faccende dei cani e di Matteo Renzi (a cui Maniaci dà dello str..., ndr), faccende che non avevano alcuna rilevanza penale. La Procura ha il dovere di chiedere formalmente all'Arma chi ha predisposto questo video e poi chi lo ha distribuito». Ma non denuncia mica solo i carabinieri, mezza Sicilia: «Faremo anche una denuncia al sindaco di Borgetto e del suo addetto stampa, e denunceremo per calunnia alcune delle persone che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente». Anche qui Ingroia intravede una trattativa nascosta: «Si voleva marchiare Pino Maniaci per due o tre presunte piccole estorsioni», che invece per il suo legale corrispondono alla riscossione di diritti pubblicitari. Maniaci è stato interrogato dal gip, a cui ha esposto la sua linea: «Mi hanno buttato addosso merda perché qualcuno vuole fermarmi». Per un complotto, non c'era migliore avvocato di Ingroia. Sempre che abbia più fortuna come legale che non come pm o leader di partito.

Il mio amico Maniaci. Masaniello, Pancho Villa, il contadino o il brigante che dopo anni di ribellione viene infine scoperto dai nobili, dalla corte, scrive Riccardo Orioles il 05/05/2016 su “I Siciliani”. “Ha visto com’è spontaneo, don Alonzo? Mangia colle mani! Es un hombre del pueblo, poco da fare…”. “È un campesino, si vede. Un liberal campesino. Però potrebbe anche farsi la barba ogni giorno”. “Ed ecco a voi… Pino Maniaci! Il coraggioso giornalista di…”. “Di Partinico”. “Ecco, di Partinico! Nel cuore della Sicilia maffiosa! Ci dica, Maniaci, lei ha paura quando affronta la mafia?”. E Maniaci – e Pancho Villa, e Masaniello – risponde, come tutti si aspettano, con una parola volgare. “Eh eh – sorride il presentatùr – Pane al pane, eh? Scusate, amici telespettatori, ma stiamo parlando con un protagonista della lotta alla maffia… Uno che non bada certo a parlare da intellettuale…”. Altra malaparola di Masaniello (o di Pancho Villa, o di Maniaci), altro sorriso complice del presentatore. E lo spettacolo va avanti. Francisco Arango Arambula di San Juan del Rio in realtà era uno dei migliori generali del Ejercito Republicano. Aveva cominciato con quattro compagni, poi dieci, poi cinquanta. Abilissimo tattico, uno dopo l’altro aveva sfasciato i battaglioni del dittatore, lassù nel Norte. E ora eccolo qua, nel Palazzo Presidencial, imbarazzato e felice, lisciandosi i baffoni e cercando di rispondere alle domande dei capi liberales con l’occhialino. (E anche Gennaro Aniello, come sindacalista e politico, non era poi tanto male. L’unico, in tutta Napoli, a capire che la gabella sul pesce era la chiave di tutto, che là si doveva insistere, coprendosi con “Viva el Rey” ma senza mollare un momento). Pino Maniaci è uno dei migliori cronisti che ho conosciuto, e ne ho conosciuti un bel po’. “Dilettante” all’inizio, ma rapidamente cresciuto, e all’antica, in questo mestiere. Uno che è in giro all’alba, per colline e campagne, per prendere i particolari, non solo le grandi linee, dell’ultimo omicidio o di una cronachetta qualunque. E buona capacità, anche, di coordinare un’inchiesta grossa, di mettere insieme dati, di trarne conclusioni razionali (la dottoressa Saguto ne sa qualcosa). E ora eccolo qui, insieme a los generales e ai marchesi, coccolato e schernito (ma elegantemente): “Don Pancho!”, “Excellencia!”, “Gran Maniaci!”. Finché un bel giorno – come Tomaso Aniello, come Francisco – è scasato di testa. Come la nobiltà, del resto, pazientemente aspettava. È una storia di poveri. Decine o centinaia di euri, banconote e monete, raccolte senza osar crederci, impaurito e spavaldo. “Hai finito di stentare”, dice alla donna. Potrà lavare i pavimenti trecento euri al mese, una ricchezza. “Hai visto? Fanno quello che voglio! Comando io!”. È un nobile pure lui adesso, uno che può afferrare le cose, può comandare. Così fanno i signori, i ricchi della città, i generali, gli avvocati. E così, se dio vuole, faremo pure noialtri, d’ora in avanti. Ce lo siamo meritato. Inizia la breve ricchezza, la povera ricchezza, soldini di rame e di tolla (ma ai poveri pare oro sonante) del campesino Francisco, del pescatore Masaniello. “Comando io!”. E i nobili, con pazienza, aspettano allegramente il passo falso. “Avete visto? – si preparano a dire – Don Montante, el senor Costanzo, il barone Lo Bello: v’incazzavate con loro, voi communisti, ma in fondo che cos’è mai successo? Chi vede quattrini se li piglia, e voi non siete meglio degli altri: guardate il vostro eroe, che cos’ha fatto!”. Cosi i milioni dei ricchi si confondono colle quattro monete dei poveracci: tutta roba rubata, tutta la stessa cosa. “Vi prego, voi velocisti, telegiornali, giornali vari, che mai avete fatto inchieste… Che fate servizi fiume sull’eroe antimafia decaduto, e ci godete. Noi siamo i ragazzi di Telejunior. In quelle stanze di Telejato ci abbiamo passato giornate intere. A impappinarsi nel registrare i servizi, a fare le rassegne stampa, a montare. In giro a fare domande, a Borgetto, a San Giuseppe Jato, al tribunale di Palermo. I vostri coltelli feriscono, fanno un male che nemmeno vi immaginate. Ma io devo fare scudo. Con gli occhi gonfi, la nausea che va e viene, il naso rosso paonazzo. Io devo fare scudo ai miei ragazzi, ai ragazzi di Telejunior. Io Michela, e Salvo e Arianna e Danilo, e Marco, Ivano, Eleonora, Pasquale e Giulia e tutti gli altri”. Un altro ragazzo, un militante, da Milano: “Da me su Maniaci non avrete parole, solo dolore”. Telejato deve continuare. Come la lotta contro la gabella a Napoli, come la tierra y liberdad dei contadini. Con Masaniello, con Pancho Villa, dopo Pancho Villa, dopo Masaniello. Perché siamo noi questa lotta, noi popolo, noi banda di disperati. Non un singolo capo, che prima o poi può crollare. Voi nobili, voi giornalisti importanti, guardate solo ai capi. Ma noi abbiamo vissuto un’altra storia, un’altra grande speranza e sofferenza. Noi siamo qui, noi non molliamo. Caro Pino, rimettiti dall’ubriacatura, ingollati ‘sto caffè e torna com’eri prima. In culo alla nobiltà e a tutto il gran giornalismo italiano: noi siamo viddani zappaterra, non baroneddi. Ce ne fottiamo di comandare, non c’interessa diventare come loro, vivere è ciò che ci piace. Ti aspetto e ti stringo la mano. (Fino a un minuto fa, altro che stretta di mano, volevo salutarti con un calcio nel sedere. Ma abbiamo cavalcato insieme, stracciati e miserabili ma orgogliosi. Gliene abbiamo date, ai signori. E torneremo a dargliene. Forza, un altro caffè, tutto d’un fiato. Ti aspetto). Collega Letizia, aspetto i suoi ordini. Lei è la mia nuova direttrice. Telejato continua, non c’è bisogno di dirlo. Mi spiace per lorsignori, ma si va avanti. Sono già al computer, mi dica cosa debbo fare. “Perché, la storia di Telejato, e di tutti noi ragazzi, non si può cancellare così. Siamo tutti stretti l’uno all’altro, e rimarremo in questo modo, qualunque sia il pensiero di ciascuno, qualunque emozione. Qualunque cosa accada. Uniti. Insieme”.

Il ruolo dei Carabinieri e della Procura nella vicenda di Pino Maniaci, scrive il 10 agosto 2016 Salvo Vitale su "Telejato". MAN MANO CHE IL TEMPO PASSA ED È FINITO LO STUPORE SUSCITATO NEL MOMENTO IN CUI È VENUTA FUORI LA NOTIZIA, I MARGINI DELLA VICENDA CHE HA INTERESSATO PINO MANIACI SI FANNO PIÙ CHIARI E, PER MOLTI VERSI, PIÙ INQUIETANTI. Tutto è iniziato nel 2013, quando “per caso”, nell’ambito di una serie di intercettazioni disposte per indagare eventuali collusioni tra i mafiosi e i politici di Borgetto, viene registrata una sospetta telefonata di Maniaci al Sindaco di Borgetto. Va detto che Maniaci si era occupato, attraverso la sua emittente, di strane commistioni che vedevano un consigliere comunale che aveva preoccupanti parentele mafiosi o, addirittura, rapporti di comparaggio con un esponente delle forze dell’ordine. Non si sa le intercettazioni abbiano preso il via, grazie alle denunce di Maniaci o se siano state decise da altri canali d’indagine. La telefonata di Maniaci consentiva l’apertura di un capitolo su di lui, dal momento che vi si raffiguravano le caratteristiche dell’estorsione. Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto in cambio di un ammorbidimento della linea del suo telegiornale nei suoi confronti. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove e provini che potessero costituire elementi d’accusa nei suoi confronti. Ben più di quanto non ne siano state raccolte sui nove mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Contemporaneamente Telejato ha, in quel periodo, aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano, ma nessuno era intervenuto né tantomeno aveva il coraggio di intervenire sulle distorsioni della giustizia che venivano consumate all’interno della citata sezione. Una convocazione, di Maniaci, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore…” diceva il prefetto Cannizzo alla Saguto, la quale poi si lamentava con la stessa per il ritardo della procura: “Se quelli lì si spicciassero…”, mentre scherzava con Cappellano sul “dover chiedere il permesso” a Telejato per prendere la decisione di un sequestro. Una corsa contro il tempo che è finita con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto e sui provvedimenti di sospensione o di trasferimento, del prefetto, dei giudici Licata e Chiaramonte e di Tommaso Virga e sul rinnovo dei magistrati di tutta la sezione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano “’a squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si è sciolta la brina. CERCHIAMO DI RICOSTRUIRE, CON L’ABBUONO DELL’IMMAGINAZIONE, LA STRATEGIA DELLA PROCURA. Primo obiettivo, distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso aveva denunciato da anni le malefatte è stato un colpo da maestri, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione e le richieste di denaro di Maniaci non c’era nessuna differenza. Le prime garantivano protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantiva un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, Vittorio Teresi, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Altra trovata: non essendoci ancora processo, bisognava pure studiare qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è pensato di adottare la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista e provocarne la chiusura. Caduto l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, dall’altra una sorta di contributo assistenziale “per comprare il latte” o qualche vestitino a una bambina malata, figlia di una donna sposata con un “malacarne” e additata a tutta Italia come la sua “amante”, si è disposta la revoca della misura, costata a Maniaci una ventina di giorni d’esilio, e si è trovato un altro escamotage per tornare a riproporne l’allontanamento: c’era un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non erano stati pagati tre mesi d’affitto per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi ha negato tutto, ma è stato indagato per le discordanze tra l’intercettazione e la sua dichiarazione, mentre Davì, che aveva concesso a Maniaci l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. A questo punto il ricorso è finito in Cassazione, la quale, ad ottobre, dovrà pronunciarsi se reiterare l’allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente, ci sia dietro. Il montaggio del video e la contestuale distribuzione delle registrazioni delle intercettazioni sembra uno dei capolavori usati per avere lo strumento principe nella demolizione dell’immagine di Maniaci. C’è tutto: il sindaco di Borgetto che gli conta i soldi in bella mostra, la sparata offensiva nei confronti della telefonata di Renzi, il disprezzo per una targa-premio che gli era stata conferita, gli apprezzamenti della presunta amante sulla capacità, anzi sulla “potenza” di Maniaci nel tenere in scacco gli amministratori di Partinico, il disprezzo per tutte le istituzioni, dai politici, alle forze dell’ordine, a magistrati, definite corrotte ed espressione del malaffare e infine l’accusa più infamante, quella di avere utilizzato l’uccisione dei due cani, di cui egli conosceva l’esecutore, non come un atto di gelosia di un marito cornuto, ma come un attentato mafioso nei confronti della sua attività giornalistica… Per quest’ultimo caso viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme nell’operazione Kelevra, ad aver compiuto il barbaro gesto. Una volta confezionata la polpetta avvelenata ci sono, ci siamo cascati tutti, senza renderci conto che dietro tutto non c’erano reati, ma elementi d’accusa deboli, ma erano evidenti altri elementi che riguardavano il senso della morale, nei confronti di una persona atteggiatasi a fustigatore dei costumi e a giudice delle immoralità altrui. Persino i più noti antimafiosi, come Lirio Abbate, che ha chiesto a “Reporters sans Frontieres” di cancellare il nome di Maniaci dall’elenco dei giornalisti a rischio, o Claudio Fava, che, sbagliando premio, ha dichiarato Maniaci indegno di potere ricevere il premio Mario Francese hanno condiviso quanto propinato dai magistrati. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, inframezzata dai ricorsi dei colleghi Lari e Lo Forte e dalle supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista, come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, a Partinico, uno dei suoi principali bersagli. Lo Voi, la cui nomina è stata definita come una “nomina politica”, ovvero voluta direttamente da Renzi e da Alfano, si è insediato a Palermo nel 2015. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo, da Caltanissetta si affrettano a dire, subito, che Maniaci non c’entra niente, certamente è lui ad affidare il caso “Maniaci”, più nove, a quattro magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia e che con una dedizione più degna di altra causa, hanno usato i giornalisti che ruotano attorno alla procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria. La materia prima su cui muoversi è data da quanto è in mano alla caserma dei carabinieri di Partinico, la quale, per un verso non invia più le informazioni sulla propria attività a Telejato, per l’altro assicura ancora la tutela. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe ancora voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse cancellate o omesse. È di questo che Maniaci accusa la Procura e i Carabinieri, in una sua denuncia. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e quella di costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, mentre continua all’infinito la strategia della graticola, quella su cui venne bruciato San Lorenzo, di cui oggi ricorre l’anniversario: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa. Cosa che potrebbe andare bene quando l’imputato è colpevole. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Sul rapporto tra i Carabinieri e Telejato, scrive il 6 agosto 2016 Salvo Vitale su Telejato. COM’ERA E COS’È CAMBIATO DOPO L’OPERAZIONE KELEVRA. Il video diffuso in tutta Italia su Pino Maniaci e i testi delle intercettazioni ripropongono il problema del ruolo che hanno avuto i carabinieri dietro tutta questa vicenda e lascia diversi interrogativi sulle motivazioni che stanno dietro le loro azioni. Va premesso che Telejato ha sempre avuto con i carabinieri uno stretto rapporto di collaborazione, che ne ha da sempre trasmesso i comunicati, anche quando questi riguardavano trascurabili vicende, tipo il sequestro di un grammo di marjuana e di 20 euro considerati come proventi della sua vendita. Ai carabinieri sono state dirottate alcune lettere anonime, ben dettagliate su nomi e affari loschi, ricevute a Telejato. Con i carabinieri, e in particolare con una figura “leggendaria”, come il capitano Cucchini, sono state portate avanti alcune attività che poi hanno condotto al sequestro dell’impianto della distilleria Bertolino, chiusa per quattro anni o all’arresto dei Fardazza e alla lotta per la demolizione delle stalle. Va detto che Cucchini aveva spostato l’allora Nucleo Operativo, che ancor oggi è composto dalle stesse persone e che scherzando abbiamo ribattezzato Nucleo aperitivo, a espletare servizi d’ufficio e si era servito di personale più giovane. Il principio da lui seguito era che dopo trent’anni, poco più poco meno, chi lavora in una caserma diventa sì un esperto del territorio e dei suoi problemi, ma può talmente affezionarsi al suo ruolo sino a mettere casa e famiglia e ad avviare contatti, richieste di lavoro per i propri familiari e conoscenze che potrebbero finire con il gettare un cono d’ombra sulla trasparenza dell’operato dal personale di cui parliamo. Non saremo noi a parlare di queste cose, in quanto, se ne hanno voglia, spetta a chi fa le indagini indagare, magari anche al proprio interno. Ottimo anche il rapporto con i carabinieri ai quali è stato affidato l’incarico di far la tutela a Maniaci. Il 2013 è un anno in cui cominciano le intercettazioni che riguardano Maniaci, ma è anche l’anno in cui vengono spediti alla caserma di Partinico il capitano De Chirico e il tenente Alimonda, i quali fra poco, ultimati i loro tre anni, saranno promossi e trasferiti. Di qualcuno di essi Telejato ha detto che a Partinico non ci volevano ragazzini di 22 anni usciti dal corso da poco, ma gente con le palle quadrate. Apriti cielo!!! A qualche altro che gli chiedeva come mai la gente si rivolge a Telejato e non ai carabinieri, Maniaci ha detto che la gente ritiene Telejato un’istituzione più seria di altre istituzioni. Anche qua apriti cielo. E tuttavia anche questo sembra troppo poco per motivare alcune azioni, come quella della diffusione del “gossip” ovvero di tutta una serie di telefonate personali tra Maniaci e la sua presunta amante, che non hanno alcuna rilevanza penale, ma tali da ingenerare nel di lei marito la volontà di arrivare all’eliminazione fisica della persona che aveva offeso il suo onore. E che tale sospetto sia, sino ad oggi, motivato, lo si può ricavare dalla fedina penale dell’interessato, che risulta, agli atti, essere tossicodipendente (è schedato al SERT come cocainomane), alcolizzato, spacciatore, individuo violento con sei denunce fatte dalla moglie per maltrattamenti vari, al punto che questa ha scelto la separazione. Ultimamente è stato beccato con otto grammi di cocaina e un coltello a serramanico ma rimesso a piede libero. Quindi è evidente, dopo la diffusione delle telefonate morbosamente registrate dai carabinieri di Partinico, che l’esposizione di Maniaci, ne comporta il rischio dell’eliminazione fisica. Inutile chiedersi se i carabinieri si sono posti il problema e come mai la loro “presa di distanze” è arrivata al punto che non vengono più fornite notizie e informazioni all’emittente Telejato, mentre, per contro, viene ancora effettuata la tutela. C’è qualcosa che non funziona.

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

I 100 EROI DELL’INFORMAZIONE SONO 99 – GIUSTIZIALISMO TRIONFERÀ. REPORTER SENZA FRONTIERE CONDANNA PINO MANIACI ALLA DAMNATIO MEMORIAE. Quanti sono i 100 eroi mondiali dell’informazione? Sembra una domanda simile a quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ma è meno scontata di quanto appaia. Perché i “100 Information heroes” selezionati da Reporters sans frontières, la nota ong che si occupa di libertà di stampa, in realtà sono 99. Ne manca uno, tra l’altro uno dei due italiani originariamente presenti nella lista, il giornalista siciliano Pino Maniaci (l’altro è Lirio Abbate, che invece mantiene lo status di eroe). Maniaci era entrato nel club dei 100 giornalisti che nel mondo si erano distinti per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi e per aver affermato il principio della libertà di stampa anche a rischio della propria incolumità. Reporter senza frontiere (Rsf) descriveva Giuseppe ‘Pino’ Maniaci come il coraggioso direttore di “una piccola stazione televisiva antimafia”, Telejato, che si occupa di “omicidi e racket, che sono una parte della vita quotidiana in Sicilia”. “È stato citato in giudizio centinaia di volte e ripetutamente minacciato e una volta è stato picchiato dal figlio di un boss mafioso”. Ora però sul sito Rsf la foto di Maniaci non c’è più, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata: i 100 eroi sono diventati 99 e la ong che si batte per la libertà di stampa non spiega da nessuna parte perché. Cos’è successo? A maggio su tutti i giornali è scoppiato il “caso Maniaci”: il giornalista impegnato da anni nella lotta alla mafia e all’illegalità è indagato dalla procura di Palermo con l’accusa di estorsione, avrebbe ricevuto da alcuni sindaci poche centinaia di euro e favori in cambio di soldi. Pochi spiccioli, ma comunque un comportamento deprecabile. Dalle intercettazioni sono emersi altri aspetti poco piacevoli, come ad esempio la possibilità che alcune intimidazioni che avrebbe subìto – e per cui aveva ricevuto la solidarietà anche del premier Matteo Renzi – in realtà non sarebbero minacce mafiose ma vendette personali del marito della sua amante. Maniaci ne era consapevole, ma ha cavalcato l’ipotesi dell’intimidazione per aumentare il proprio prestigio di giornalista antimafia. In ogni caso questi aspetti più personali, per quanto censurabili, non vengono contestati dalla procura e rispetto alle accuse di estorsione il giornalista si difende dicendo che il passaggio di denaro si riferisce all’acquisto di spazi pubblicitari. L’indagine va avanti e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Rsf invece ha già emesso una sentenza di condanna, senza però pubblicare la sentenza. Perché Maniaci è stato rimosso dal sito? Ne è stato informato? Rsf ha pubblicato un comunicato ufficiale sulla vicenda? “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, ha risposto alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà fnita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione’”. La scelta sarebbe anche legittima, ma restano aperte alcune questioni gravi sul modo di operare della ong che stila classifiche sulla libertà d’informazione del mondo. La prima è un dettaglio, che però indica il livello di approfondimento che Rsf ha dedicato alla vicenda: Maniaci non è “incriminato”, ha solo ricevuto un avviso di garanzia e i pm non hanno ancora chiesto il rinvio a giudizio. L’altra è la totale assenza di trasparenza: mai Rsf ha comunicato che la posizione di Maniaci è sospesa e per quali motivi, né ha chiesto spiegazioni al giornalista, sia per avere gli elementi per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Rsf ha semplicemente sbanchettato Maniaci, come si faceva in Unione Sovietica con le foto dei compagni caduti in disgrazia dopo le purghe, come fanno ancora oggi tutti quei regimi autoritari e totalitari nemici della libertà di stampa. Al posto della sospensione e di un giudizio pubblico e trasparente, Rsf ha scelto la damnatio memoriae, la cancellazione di ogni traccia del sospetto, come se Maniaci non fosse mai stato uno dei 100 “Eroi dell’informazione”. Che Rsf e i suoi premi non sono una cosa seria l’aveva intuito lo stesso Maniaci che, mentre in pubblico era impettito per il premio simbolo del giornalismo impegnato, in un’intercettazione diceva: “M’hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”. Non più dell’informazione, ma eroe della sincerità. Il Foglio Quotidiano – anno XXI numero 179 – pag. 2 – 30/07/2016 Autore: Luciano Capone

Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato. L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori (non è sempre un reato?) si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Bernardo Provenzano. Il padrino. L’ultimo atto. Una lenta agonia di Stato Così si è spento Zu Binnu. Ormai non riusciva più a nutrirsi e pesava solo 45 chili, scrive Lu. Ro. su “Il Tempo” il 14 luglio 2016. Disteso sul letto, come morto, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo nel carcere milanese di Opera. I capelli lunghi e addosso il camice del nosocomio. Peso: 45 chili. Incapace di muoversi, di interloquire, di capire cosa accadeva intorno a lui. E anche di nutrirsi. A farlo ci pensava un sondino naso-gastrico, che andava non più dal naso allo stomaco, ormai non funzionante, ma direttamente all’intestino. In queste condizioni il boss dei boss Bernardo Provenzano ha abbandonato questo mondo. È così che lo Stato italiano, dopo anni di dinieghi e inspiegabili prese di posizione, alibi più o meno adattabili alle drammatiche circostanze e spiegazioni inammissibili, ha voluto far morire Zu Binnu. Senza pietà. Senza compassione. Senza umanità. Non sono bastate le battaglie del suo avvocato, Rosalba Di Gregorio, a restituire un minimo di dignità umana a chi, certo, non ne ha avuta; non è stato...

Lo stato confusionale di Provenzano. Quando il boss perse la lucidità, scrive Riccardo Lo Verso il 13 Luglio 2016 su “Live Sicilia”. Pensieri sconclusionati, frasi incomplete, una sorta di balbettio scritto che lo porta a ripetere più volte una parola, uno stato confusionale che si manifestava nel non sapere dove e perché fosse detenuto. Le lettere che Bernardo Provenzano scriveva ai suoi familiari sarebbero state la prova che il padrino corleonese negli ultimi tempi era gravemente malato. “Delle due l'una: o siamo di fronte a un grande simulatore oppure a un uomo gravemente malato e dissociato dalla realtà”, diceva i legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che ha condotto una inutile battaglia per ottenere un regime carcerario meno afflittivo. Erano i giorni in cui gli esami diagnostici avevano evidenziato delle lacune cerebrali dovute a un'ischemia. Una patologia che si aggiungeva al tumore alla prostata confermato dalle perizie. A fare suonare il primo campanello d'allarme sulle condizioni di salute di Provenzano era stata una lettera del 5 marzo 2001. Al di là dei limiti grammaticali di una persona non scolarizzata, i ragionamenti erano lineari. Il boss spiegava alla moglie di essere stato sottoposto ad alcune visite mediche. In alcuni passaggi, però, si leggevano parole ripetute senza una logica: “Amore mio carissimo. E figli Angelo e Paolo con gioia ho ricevuto la vostra lettera... amore mio carissimo non ricopio a tutto quello che mi chiedi spero spero spero con il tempo di spiegarti... amore mio mi dice se sò cosa anno scritto nel diario diario non l'ho letto ma tu mi che ho avuto una eschemia, non so cosa sia...” L'11 maggio Provenzano riprendeva carta e penna. Il destinatario era ancora la moglie: “Oggi mercoledì 11 maggio. Amore mio ho ricevuto la tua lettera. Amore mio grazie delle notizie che al ritorno che avete avuto un buon viaggio. Amore mio mi dici che ero troppo sofferente e ne se addoloratissima. Che cosa mi hanno fatto, se c'erano i dottori che mi hanno visitato, se mi hanno cambiato le medicine Non lo so Amore mio vuoi sapere che sto Amore mio sento stanco...”. A un certo punto il ragionamento si interrompeva e riprendeva con una datazione diversa: “02-05-2001 tuo marito che ti pensa Amore mio e figli Angelo e paolo carissimi smetto con la penna non con il cuore... - chi scrive perde lucidità - che smetto con la presente e ne ricevo un'altra ricevuta ieri giovedì di paolo, che con il volere di Dio iniziare quella che ho ricevuto dopo da paolo e scritto te amore mio. Ora con piacere a rispondere in quella lunga tua - e lascia il periodo tronco - Con quello che mi succede nel rispondere con affetto segue i seguito...”. Il 23 maggio Provenzano sceglieva un telegramma per comunicare con il fratello Salvatore. "Mio caro fratello e Figlio come state padre e figli si unanomia si incoraggia essendo due. Io vi chedo scusa, e cioè mi prometto di scrivervi e sorte no veglio chiare vi sforzano a emesso senza scrivere e il mio pensiero s sforza e si vede la mia vecchiaia e aspetta oggi aspetta domani ho ensato di scriverti ora smetto con la penna non con il cuore augurandovi un mondo di bene per tutti vi benedica il signore che vi protegge vi benedica il signore vi protegge”. Il 9 giugno 2001 Provenzano sembrava smarrito: “Ma io sono qui da solo non so dove sono sono. Oggi c'è la videconferenza non ci vado per scrivere e voi potete parlare con l'avvocato dicci la nostra posizione ed chiedere per ottenere colloqui tra noi i mia moglie e i mie figli Angelo paolo e mamma con lo sta bene con l'avvocato perché io sono forse più malato di quello che vi dico”. Poi, fornisce il suo indirizzo ai parenti come se mai prima d'ora non avesse ricevuto le loro lettere: “Ripeto se potete parlati parlare con l'avvocato della mia posizione vi do il mio indirizzo: Sono in via Burla numero n.53.L3:100 Parma. Con questo mi potete scrivere mi potete venire attrovare ce possiamo parlare di presenza oppure uno scritto dopo che avete parlato con l'avvocato così cerchiamo la serenità che ci manca a tutti...”. Sempre a giugno Provenzano scriveva di nuovo. Forse era una risposta alla moglie e ai figli che gli chiedevano cosa volesse portato al prossimo colloquio. Il capomafia, invece, di rappresentare le sue esigenze, si limitava a ricopiare il contenuto della lettera che ha ricevuto: “Avevo tue amore mio mi dici che stai in pensiero la mia salute ma io ho pensieri per la mia salute se ho capito bene e studiare e comprendere nella mia miseria... Figlio mio mi addolora tanto con la desolazione e triste Figlio Angelo mi dici scrivi tutto quello che capita e che succede Ho chiesto ho chiesto il foglio per edere per il foglio per vedere per vedere cosa ti posso portare per il prossimo colloquio qui scrivimi quello che posso portare Amore mio chiudi la lettera augurandoti sempre di stare meglio”.

Provenzano è uscito dal carcere, scrive Simona Musco il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Il boss alla fine è morto. Era in coma da anni ma restava al 41 bis. È già guerra sui funerali. «Qui non lo vogliamo». Bernardo Provenzano era già morto. Lo era già due giorni fa quando, ormai in coma, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto l’ennesima istanza presentata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio affinché il boss di Cosa Nostra venisse scarcerato. Ma i suoi trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso all’interno della mafia, per il giudice, lo avrebbero esposto ad «eventuali “rappresaglie” connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» del quale era a capo. Provenzano è così rimasto al 41 bis, senza che moglie e figli potessero salutarlo. Il figlio Angelo, lunedì scorso, aveva fatto richiesta di un permesso straordinario, che gli era stato negato. Ed è arrivato proprio ieri, dopo la morte del padre. «I veri detenuti al 41 bis sono i parenti – denuncia ora la Di Gregorio -, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere». Le condizioni di Provenzano si sono aggravate venerdì, quando a causa di un’infezione polmonare è entrato in coma irreversibile. Ma il carcere duro, ha dichiarato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, «in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato ha ricevuto cure puntuali ed efficaci». Negli ultimi anni, l’avvocato Di Gregorio ha presentato tre istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Alle prime avevano dato parere favorevole le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma si sono incagliate poi nel parere della Direzione nazionale antimafia. Diverse perizie, nel corso del tempo, hanno confermato la gravità delle sue condizioni: non era più ricettivo, incapace, dunque, di comandare e inviare messaggi. Il 12 maggio del 2012 le videocamere del carcere di Parma lo avevano immortalato nella sua cella intento a infilarsi un sacchetto in testa. Non un tentativo di suicidio, secondo i suoi legali, bensì i segni che non ci stava più con la testa. A dicembre dello stesso anno cadde riportando un ematoma al cervello. Entrato in coma e operato, non si è più ripreso. Il gip lo ha anche dichiarato incapace di prendere parte in maniera cosciente al processo sulla trattativa Stato-mafia. Le patologie di cui soffriva sono state definite dai «plurime e gravi di tipo invalidante». Non parlava più, faticava a muoversi. Ma la giustizia italiana non ha ceduto di un millimetro. Così, nel 2013, la famiglia si era rivolta alla Corte europea dei diritto dell’uomo, denunciando l’incompatibilità del suo stato di salute col regime del 41 bis. A gennaio 2015, il Tribunale di sorveglianza di Roma confermava l’esigenza di trattenerlo lì per questioni di sicurezza pubblica, «sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali» con Cosa Nostra. A settembre, invece, la Cassazione giustificava il carcere duro proprio con la necessità di assicurargli cure adeguate. Il figlio Angelo, nominato curatore speciale del padre, tempo fa aveva anche rilasciato un’intervista shock: «anche un pluriergastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano – aveva detto a Repubblica -. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam». Ma era già morto, ribadisce la Di Gregorio, che ha appreso della morte del boss mentre era in aula a Caltanissetta per il Borsellino quater, tramite un sms inviatole proprio da Angelo. Lo era dal momento «in cui è caduto ed è stato operato al cervello. Era un vegetale. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva più reazioni di nessun genere». Intanto il pg di Palermo, Nico Gozzo, è intervenuto a muso duro: lo Stato, polemizza sul suo profilo Facebook, avrebbe potuto far sentire «la differenza tra uno stato di diritto» e «le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile». Il senatore Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, ha invece chiesto di evitare «sontuosi funerali» nella sua città, Corleone, per evitare di trasformare il boss in un mito. Ma il sindaco Lea Savona ha messo le mani avanti: «Oggi si celebra il nostro 25 aprile. Mi opporrò alla possibilità che si celebrino qui i funerali».

Era morto ma loro non lo sapevano, scrive Tiziana Maiolo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico. Quel corpo “viveva” nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi. Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di “quel” Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della “trattativa Stato-mafia” che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti. Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare “il corpo” dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un po’ tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un po’ sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: “Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Era il 24 marzo scorso. Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove “il corpo” era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. “Provenzano – ci aveva detto – non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso”. Che cosa ha esattamente? “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson”. Ma dice qualche parola comprensibile? “A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma”. Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire “il corpo” dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata “trattativa Stato-mafia”.

«Quando hanno aperto la cella...», scrive Piero Sansonetti il 14 luglio 2016 su "Il Dubbio". Ve la ricordate quella canzone struggente di Fabrizio de André? «Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè…». Altri tempi, naturalmente. Non esisteva ancora il “justicially correct” e qualcuno dedicava le canzoni anche ai delinquenti. De André lo faceva spesso. Era un tipaccio De André. Figuratevi che perdonò persino i suoi rapitori e si rifiutò di accusarli in tribunale. Comunque Miché era un delinquente simpatico. Aveva ucciso per amore di Maria. Provenzano no: è stato un assassino matricolato, feroce, ha devastato la Sicilia, ha seminato morte per 45 anni. Il problema è che l’ “umanità - il senso dell’umanità, che è uno dei pilastri, forse il più grande pilastro della civiltà e della modernità, e che è un sentimento, l’unico, espressamente previsto dalla nostra Costituzione - non si applica solo alle persone perbene, o a quelli che ci stanno simpatiche, ma a tutti. La forza della civiltà è lì: nell’umanità e nella cancellazione della categoria della vendetta. Quando la vendetta diventa il carburante (o addirittura lo scopo) della giustizia, la civiltà scivola via e scompare. Provenzano da molti anni era in stato semi-comatoso e poi comatoso. Applicare a lui le misure del 41 bis (concepite, ufficialmente, per ragioni di sicurezza e non di punizione) è stata una scelta illogica, illegale e crudele. La crudeltà è crudeltà e basta: che la si applichi ad Abele o a Caino, non cambia. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore, è stato crocifisso (dal “Fatto Quotidiano”) perché aveva ricordato il senso del 41 bis e aveva spiegato che secondo lui deve essere corretto, mitigato, in modo che resti una misura di sicurezza e non di vendetta. Non si è alzata una voce a difesa di Migliore, né dal mondo politico né da quello del giornalismo e dell’intellettualità. Qualche giorno dopo il “Fatto” è tornato sull’argomento per farcii sapere che aveva avuto notizia di un barattolo di miele entrato proditoriamente in una cella di 41 bis, e per esprimere sdegno verso questa “mollezza”! E’ normale che esista una parte della società (e anche dell’intellettualità e della classe dirigente) che tra modernità e giustizialismo sceglie il giustizialismo. Non è normale che non esista una parte delle classi dirigenti che si oppone al giustizialismo, apertamente, senza nascondersi. Oggi, se volete rivolgervi a una autorità morale (e politica) che contrasta la ferocia e chiede civiltà, avete una sola possibilità: chiedere udienza al papa.

Ingroia: «Fu cerniera tra Stato e Cosa nostra. Ma il suo 41bis era un accanimento», scrive Giulia Merlo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. L’ex procuratore di Palermo Antonio Ingroia e Bernardo Provenzano. Uno è il pm che gettò le basi per l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, l’altro il capo di Cosa Nostra e presunto ingranaggio della trattativa. I due si sono incontrati nel carcere dove Provenzano ha passato in regime di 41bis gli ultimi dieci anni, e Ingroia lo ha definito «un uomo dell’altro Stato», riconoscendo però che il carcere duro nei suoi confronti è stato un «accanimento superfluo».

Cosa intende con la definizione di «uomo dell’altro Stato»?

«Lo Stato non è un blocco monolitico. Ha una faccia pulita, che è quella di tutti gli uomini e le donne che sono caduti per difenderlo, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Esiste però anche una faccia cupa, fatta dei visi dei molti che hanno “trescato”, conducendo trattative di cui la mafia è stata parte. Non mi riferisco solo a quella tra Stato e mafia, ce ne sono state molte altre. Penso ad esempio allo sbarco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, in cui la mafia è stata un soggetto attivo».

E con questo Provenzano cosa c’entra?

«Lui è stato uno degli uomini-cerniera di questa trattativa. Provenzano ha passato la vita a difendere e proteggere gli interessi della mafia ma anche quelli di questo altro Stato. E lo ha fatto fino alla morte, non rivelando nessuno dei segreti su cui molte inchieste hanno provato a far luce».

Quando lo ha conosciuto, Provenzano era già sottoposto al regime del 41bis, che non gli è stato revocato nemmeno negli ultimi anni di vita, quando era malato. Ha condiviso questa scelta?

«Oggi tutti, con il senno di poi, diranno che la misura fosse irragionevole. Io lo dissi in tempi non sospetti e mi sono già preso molte critiche da parte dei paladini dell’antimafia. Anch’io mi considero un militante dell’antimafia, eppure credo che il regime di carcere duro sia stato eccessivo e sconsigliabile, anche per chi viene considerato il peggiore tra i boss mafiosi. Io ho conosciuto Provenzano quando era già vecchio e malato e penso che il 41bis sia stato un accanimento superfluo nei suoi confronti».

Che impressione le ha fatto quando lo ha incontrato?

«Ricordo di aver pensato che era un uomo diverso dal “zu’ Binnu u Tratturi” di cui si raccontavano i feroci assassinii. L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. Durante l’interrogatorio, mi è anche sembrato di leggere in lui un conflitto interno, un’indecisione profonda».

Indecisione su che cosa?

«Mi sembrava indeciso sull’ipotesi di voltare pagina, aprendo un dialogo con l’altro Stato, quello pulito di cui dicevo prima, oppure rimanere coerente con se stesso e rimanere in silenzio. Alla fine è rimasto fedele, oppure è stato indotto in qualche modo a rimanere fedele alla mafia e ha portando con sé i segreti di Cosa Nostra e quelli del doppio Stato».

“Zu Binnu” si arrese per 2 milioni di euro, scrive Rocco Vazzana il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’intermediario all’Antimafia mise subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss voleva una buona uscita e un mese di “silenzio” dal momento dell’arresto. A Roma, via Giulia, sede della Direzione nazionale antimafia. Un uomo varca il portone della Superprocura accompagnato dalla Guardia di Finanza. È il novembre del 2003 e vuole parlare con Pier Luigi Vigna, il capo della Dna. Si chiama Vittorio Crescentini, è un faccendiere, e dice di avere notizie importanti da riferire. Ma non si presenta davanti ai magistrati in veste di informatore, come pure era capitato in altre occasioni, questa volta dice di essere un mediatore, un messaggero per conto di Bernardo Provenzano. Ma l’uomo pone subito una condizione: non dirà neanche una parola in presenza di magistrati siciliani. Vigna accetta di ascoltarlo e chiede ai sostituti Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, entrambi calabresi, di assistere al colloquio investigativo. Provenzano è latitante da più di 40 anni, e adesso, vecchio e stanco, vorrebbe aprire «un tavolo di accomodamento» per trattare la resa. Perché un capo, anche se non più operativo, non si arrende incondizionatamente. E l’intermediario arrivato in Via Giulia mette subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss pretende una buona uscita da due milioni di euro e un mese di riserbo dal momento dell’arresto. Un periodo di tempo utile a fornire elementi investigativi agli inquirenti lontano dal clamore mediatico. Gli inquirenti lo ascoltano con attenzione, sono convinti che Crescentini non sia un millantatore, perché se qualcuno si presenta in Dna dicendo di avere notizie su Provenzano non può essere un impostore, è la convinzione dei magistrati. Il faccendiere, poi, fornisce anche qualche elemento sulla latitanza del ricercato numero uno: sarebbe nascosto nel Lazio, in un luogo non meglio definito. Per Pier Luigi Vigna la cattura di Provenzano sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriere già brillante. Nel 2003 il capo dell’Antimafia è a un passo dalla pensione e non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di chiudere col botto. Ma prima deve superare l’ostacolo più grosso: la richiesta di denaro. La palla deve passare ad altre autorità, bisogna informare subito il ministero dell’Interno della faccenda. «Mi pare di ricordare che Vigna disse che avrebbe informato il ministero dell’Interno e per correttezza anche il procuratore della Repubblica di Palermo (che all’epoca era Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato, ndr) », racconterà quasi dieci anni dopo Vincenzo Macrì, uno dei magistrati presenti agli incontri con il mediatore. «Non era compito del nostro ufficio stabilire tempi e modi di un eventuale accordo. Non so con chi parlò Vigna. So che allora il capo del Sismi era Niccolò Pollari. E che i Servizi segreti diedero la loro disponibilità in linea di massima a reperire il denaro». La trattativa, dunque, si complica. Il faccendiere dice che si rifarà vivo ma passano altri otto mesi senza ricevere più notizie del boss. Vittorio Crescentini ritorna in Via Giulia nel luglio del 2004, pochi giorni prima del 71esimo compleanno di Pier Luigi Vigna, che festeggerà il primo agosto. Il secondo colloquio investigativo si conclude come il primo. È ancora un incontro interlocutorio, il messaggero non fa altro che confermare le richieste già avanzate prima, ma aggiunge un elemento: incontrare il boss è diventato più complicato anche per lui. Scopriremo solo dopo che in quel periodo il latitante corleonese non godeva di ottima salute, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Marsiglia, come documentato nel 2005 dalla procura di Palermo. Ma 71 anni, per Vigna, non sono solo candeline da spegnere su una torna, significano anche un’altra ricorrenza più amara: la pensione. E nonostante una legge ad hoc (in realtà concepita per impedire a Gian Carlo Caselli di andare alle guida della Dna) conceda a Procuratore nazionale un anno di proroga, fino al primo agosto del 2005, Vigna non riuscirà a portare a termine l’arresto. L’ultimo colloquio investigativo accertato con Vittorio Crescentini, infatti, risale al novembre del 2005. Alla Direzione nazionale antimafia c’è un nuovo capo: Piero Grasso, appena arrivato da Palermo. Spetta a lui gestire l’ultimo contatto con l’uomo che dice di essere stato delegato da Provenzano. Il nuovo procuratore chiede a Macrì e Cisterna, i due pm che avevano già seguito il caso, di partecipare all’incontro. Ma Grasso, a differenza del suo predecessore, non si fida molto del faccendiere, è convinto che sia un «millantatore». E chiede all’intermediario di fornire una prova biologica del boss latitante, come racconterà anni dopo il magistrato siciliano nel corso di un’audizione al Csm: «Quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia», spiega Grasso. «Eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico sanitario». In altre parole, i magistrati avevano in mano il dna del boss corleonese. «Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa - un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa... Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto. Per quanto ne so questo è l’ultimo incontro con l’intermediario». Il boss, ancora tutto intero, sarà catturato pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, dal procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e dal capo della Squadra mobile Renato Cortese.

Il questore del blitz: «Così ho catturato Bernardo Provenzano», scrive Vincenzo R. Spagnolo il 13 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Con la morte, oggi, di Bernardo Provenzano, esce di scena uno dei capi mafia più temuti e sanguinari. Quando venne arrestato, l'11 aprile 2006, Due giorni dopo, il 13 aprile su Avvenire comparve questa intervista al vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese. «Quando ho incrociato il suo sguardo sorpreso, sono stato certo. Per anni ho avuto il suo volto davanti negli identikit. Ha provato a chiudere la porta a vetri, ma io e il resto della squadra l'abbiamo sfondata. Allora ha abbassato le braccia, sussurrando: non sapete l'errore che state commettendo». È l'epilogo della caccia, raccontato dall'uomo che dal 1998 l'aveva condotta in silenzio, ombra fra le ombre, sulle tracce del capo di Cosa nostra. Il «cacciatore» è il vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese, a capo della squadra di 30 poliziotti del Servizio centrale operativo e della Mobile palermitana, incaricati di stanare Provenzano. Hanno passato 8 anni sulle orme del fantasma di "Binnu u tratturi", pedinando familiari, affiliati e postini. Mancandolo per un soffio più volte, come nel 2001 nelle campagne di Mezzojuso («Sapevamo che nel casale c'era un malato di prostata: pensavamo a lui e invece trovammo Benedetto Spera»), fino a martedì, quando lo spettro si è materializzato e gli «acchiappafantasmi» della Polizia gli hanno messo le manette. Cortese ha la barba scura e i capelli ricci come i suoi avi della Calabria magnogreca, ha 42 anni (lo "zu Binnu" era già uccel di bosco un anno prima che nascesse), ma di boss ne ha scovati altri: da Brusca a Spatola, da Vitale ad Aglieri, la cui cattura gli valse una promozione per meriti straordinari. Ora forse gliene toccherà un'altra: «Non so - sorride -. Piuttosto, ci ha fatto piacere la valanga di attestati di stima che sta giungendo in questura a Palermo. Non eravamo abituati. In una e-mail c'era scritto: magnifici sbirri! Già. E ci ha colpito l'accoglienza riservata dalla folla a Provenzano: fischi e epiteti che mostrano che il sentimento della gente comune sta cambiando, che la mafia è vista come il Male e non come un potere a cui appoggiarsi. La rinascita dovrà fare i conti con l'altra Sicilia, quella dell'omertà: Provenzano lo avete trovato a Corleone, a pochi chilometri da casa».

Dov'era stato in questi 43 anni?

«A parte il viaggio per le cure a Marsiglia, quasi sempre in Sicilia. Per i boss, è regola fondamentale mantenere il contatto col territorio. Spostarsi dalla propria terra è un segno di debolezza che un capo come Provenzano non poteva mostrare». 

Per il procuratore Piero Grasso, le indagini hanno rivelato una vasta rete di coperture, a livello mafioso, imprenditoriale, politico... 

«È stata una lunga investigazione, con molti filoni, che speriamo conducano presto ad altri risultati». 

Quando siete stati certi che in quel casolare c'era lui?

«Da mercoledì 5 aprile avevamo messo gli occhi su quella masseria. La catena di "postini" sorvegliati ci aveva portato lì. Ma poteva anche essere disabitata: nessuno usciva fuori. Abbiamo sorvegliato a distanza con microtelecamere, aspettando gli eventi. Una settimana dopo, il blitz». 

Perché solo allora?

«Perché martedì 11, prima delle 9, qualcuno ha messo fuori un sacchetto bianco: una conferma che il casale era abitato. E alle 10 è arrivato un uomo a noi noto, con un pacco per l'inquilino misterioso. Allora ho fatto scendere un furgone con 20 uomini. E siamo entrati dentro».

Dopo, qual è stato il suo primo pensiero?

«Ho pensato che era andata bene, che potevamo mandare in archivio 8 anni di lavoro duro, notte e giorno, senza riposi né ferie. Ho pensato ai miei uomini, ai sacrifici imposti a noi stessi e alle famiglie per arrivare al risultato. E poi ho pensato anche ad altri: a poliziotti di altissimo valore che lavorarono alla Mobile di Palermo: uomini come Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà e altri ancora. La mafia li ha uccisi, è vero, ma ignora che la loro eredità si respira ogni giorno nei nostri uffici. Ecco, questa vittoria dello Stato non è solo nostra. Appartiene anche a loro». 

La pm che lo fece catturare “Dopo l’arresto ci minacciò”. Il magistrato Sabella: sono tanti i segreti che non ha svelato, scrive Guido Ruotolo il 14/07/2016 su "La Stampa".

Marzia Sabella, lei è stata uno dei pm della Procura di Palermo - insieme all’allora aggiunto Giuseppe Pignatone e al pm Michele Prestipino - a coordinare le indagini del pool di poliziotti guidati da Renato Cortese, per la cattura di Bernardo Provenzano, ’u tratturi. Chi era Provenzano?

«Come direbbe Wikipedia, “Provenzano era un criminale italiano”. Aggiungo che era un criminale latitante da 43 anni, cioè uno smacco alle leggi dello Stato che ogni giorno ci sforziamo di applicare».

Quando erano latitanti, i due Corleonesi eccellenti, Totò Riina passava per il macellaio e zu’ Binnu Provenzano per l’intellettuale, il mediatore, l’ambasciatore. I pentiti ma anche le indagini ci hanno consegnato in realtà i ritratti di due veri mafiosi con personalità diverse. Corresponsabili delle carneficine e mattanze. 

«Ecco, era una questione di personalità diverse. Ma probabilmente anche una questione strategica: un tempo, per rendere proficui gli interrogatori ci si serviva di due figure, lo “sbirro” buono e quello cattivo. Per il resto, come riferito da tanti collaboratori, “erano la stessa cosa”».  

Ambedue le catture, Provenzano e Riina, sono state accompagnate da un alone di mistero. Addirittura si sono fatti processi con ufficiali dell’Arma dei carabinieri sul banco degli imputati, per la mancata cattura di Provenzano.

«Non abbiamo ancora una ricostruzione giudiziaria definitiva. Aspettiamo di conoscerla. Per le indagini più recenti che hanno portato alla sua cattura invece non vi sono misteri ma fasi investigative tracciabili minuto per minuto. Mi piace sottolinearlo perché ogni tanto ci si diverte a dare letture alternative».

Ha mai avuto sentore che Provenzano avesse avuto contatti, rapporti con pezzi dello Stato?

«La storia di quegli anni va ancora scritta o forse va riscritta. Ma quel “sentore”, che certo ho avuto, per il magistrato è solo uno spunto investigativo. Poi ci vogliono le prove. E chi le prove vuole cercarle e chi le vuole far trovare».

Con la morte di Provenzano si è chiusa una stagione? Insomma cosa è diventata oggi Cosa nostra?

«La stagione di Provenzano non si è chiusa con la sua morte, ma con il suo arresto: la fine della sua latitanza ha azzerato il “vantaggio” rispetto a Totò Riina che era e rimane, almeno formalmente, il capo della commissione. Ma Cosa nostra resta Cosa nostra, con i suoi alti e bassi, con le perdite e i guadagni, con il mutamento di uomini e di strategie, con la sua capacità di adattarsi alle stagioni e soprattutto con il suo talento speculativo d’avanguardia. Bisogna chiedersi piuttosto se negli ultimi anni abbiamo saputo leggere questo cambiamento, peraltro fisiologico, o se abbiamo scambiato l’integrazione sociale della mafia, che è la sua più pericolosa peculiarità, con la sconfitta della mafia». 

Nel libro che ha scritto con la giornalista Serena Uccello («Nostro Onore») lei racconta il dietro le quinte del lavoro di pm a Palermo. «Solo dopo averlo visto con i miei occhi - scrive - mi sono convinta che l’avevamo preso veramente (Provenzano, ndr)». Il suo lavoro come quello degli investigatori spesso è anche tanta fatica e sudore. Ne è valsa la pena?  

«Mi scordo sempre di fare bilanci tra la fatica personale e il risultato delle indagini. Un lavoro si porta avanti comunque, anche quando il traguardo non è la cattura di un noto latitante che porta il tuo nome sui giornali. Semmai il confronto va fatto tra l’impegno dello Stato, anche in termini di costi, e la cattura. Ed è certo che, in tal caso, ne è valsa la pena nonostante Provenzano, quell’11 aprile, ci avesse detto che non sapevamo quello che stavamo facendo, forse alludendo a conseguenze negative per il Paese dalla prossima riorganizzazione di Cosa nostra». 

L’ex procuratore Piero Grasso dice che Provenzano porta con sé tanti misteri. D’accordo? Quali quelli che avrebbe voluto conoscere?  

«Certo che sono d’accordo. Sono d’accordo anche con il “tanti” perché, appunto, sono molteplici, ma non sono tutti quelli che ci servirebbero e che oltrepassano la storia di Provenzano. Non saprei scegliere tra i misteri che avrei voluto conoscere. Se ce li avesse elencati uno per uno oggi saremmo a buon punto». 

Così i picciotti di Corleone diventarono boss, scrive Paolo Delgado il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Bernardo Provenzano è morto ieri in regime di carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis, quello che nel mondo viene considerato senza mezzi termini tortura. Era entrato in carcere nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Da un anno sopravviveva in stato vegetativo. Con tutta la sua ferocia e i suoi crimini, non avergli permesso di morire in un carcere normale copre di vergogna lo Stato italiano. Tra i contadini di Corleone diventati imperatori di Cosa nostra, Bernardo Provenzano è il più enigmatico. Era uomo di mano e di pistola, soprannominato Binnu u tratturi perché «tratturava tutto e dove passava lui non cresceva più l’erba», come da descrizione di Antonino Calderone, fratello del capomafia di Catania Pippo, uno dei tanti fatti ammazzare dai corleonesi. Però era anche "il ragioniere", perché il suo governo di Cosa nostra è stato mite a paragone della ferrea dittatura esercitata dai compaesani Totò u Curtu Riina e Leloluca "Luchino" Bagarella. Di Riina Binnu è stato sempre il compare più fidato, eppure proprio su di lui ha sempre aleggiato il sospetto di aver dato una mano a chiudere la carriera criminale dell’onnipotente zu’ Totò. Non per sete di potere ma per mettere fine alla guerra senza prigionieri che il capo dei capi aveva dichiarato allo Stato e dalla quale Cosa nostra rischiava di uscire distrutta. Per caso o per calcolo, è un fatto che quella guerra Provenzano scelse di non combatterla, recuperando l’uso antico della mafia siciliana: scivolare sott’acqua e rendersi invisibile quando la tempesta infuria. Biografie identiche quelle di Provenzano, Riina e dei fratelli Bagarella. Tutti di Corleone, poverissimi, figli di famiglie contadine nella miseria del dopoguerra siciliano, viddani cresciuti con la puzza della fame addosso. Amici sin dall’infanzia, complici sin dai primi crimini. Erano l’ultimo gradino di Cosa nostra, un altro universo rispetto all’aristocrazia mafiosa dei Bontade di Palermo, "principi di Villagrazia", o del corleonese don Michele Navarra, tanto potente da essere soprannominato "u patri nostru", grande elettore dei notabili Dc dell’epoca incluso Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello Stato. I futuri corleonesi erano manovalanza. Picciotti reclutati e combinati mafiosi da Luciano Leggio, campiere e braccio destro di Navarra, per occuparsi dei lavori sporchi e sanguinosi. Non avevano amicizie potenti tra i politici. Nella rete di alleanze famigliari e territoriali che costella e sostanzia la mappa di Cosa nostra neppure comparivano. Le sole risorse di cui disponessero erano la ferocia e la determinazione, figlie entrambe della fame. Se c’è un giorno che segna il passaggio dalla mafia tradizionale alla moderna Cosa nostra è il 2 agosto 1958, quando un autocarro bloccò in una strada di campagna la 1100 sulla quale viaggiavano u patri nostru con un giovane collega e i viddani di Leggio trucidano il potente boss con 92 colpi. Senza chiedere il permesso a nessun padrino. Incuranti dell’alto lignaggio mafioso della vittima e delle liturgie di Cosa nostra. Contando solo sulla forza e sulla potenza implicita nel fatto compiuto. L’uccisione di Navarra registra un modus operandi che i contadini di Corleone adopereranno più volte nei decenni seguenti: disprezzo per le regole mafiose, rapidità e spietatezza nel colpire, ferocia nello sterminare i nemici. La leggenda vuole che all’uccisione del dottore sia seguita una strage con almeno un centinaio di cadaveri. Le vittime della purga furono in realtà molte di meno, ma il metodo era davvero quello: niente prigionieri. Nel 1963 Provenzano fu denunciato per l’omicidio di uno degli ultimi fedeli di Navarra. Scelse di darsi latitante e tale sarebbe rimasto per i successivi 43 anni. Ancora più di Riina, Binnu era uomo d’armi, considerato più per le doti guerresche che per quelle diplomatiche o strategiche. Quando nel 1969 la "commissione" decise di eliminare il boss che aveva innescato la prima guerra di mafia negli anni ‘60, Michele Cavataio, nascostosi a Milano, ogni capo indicò uno o più killer. Leggio spedì Provenzano e Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, fidanzata e poi moglie di Riina. Arrivarono in via Lazio, dove si rifugiava la vittima, travestiti da poliziotti. Cavataio mangiò la foglia. Era un osso durissimo: pur colpito ferì a morte Bagarella, se la pistola non si fosse inceppata avrebbe eliminato anche Provenzano. Anche il mitra di Binnu si inceppò subito dopo. Provenzano non si fermò per questo. Strappò di mano a Cavataio la pistola, lo abbattè colpendolo col calcio della stessa. Il soprannome u tratturi se lo guadagnò lì. I corleonesi si erano ritagliati il loro posto nelle gerarchie di Cosa nostra, ma pur sempre di bassa forza si trattava. Quando nei ‘70, grazie all’eroina, i soldi iniziarono a diluviare sulle famiglie siciliane, i viddani dovettero accontentarsi delle briciole. A chi gli proponeva di eliminare Riina, diventato capo dei coleonesi dopo l’arresto di Leggio, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, la più potente di Palermo, rispondeva con noncuranza: «Ma no, lascialo correre, tanto sempre da qui deve passare: è viddanu». Bontade, detto "il Falco", era il figlio di don Paolino Bontà, uno che prendeva pubblicamente a schiaffoni i politici poco solerti nell’obbedire. Aveva amicizie potentissime, un esercito ai suoi ordini, alleati quasi altrettanto potenti come Totuccio Inzerillo, cugino dei Gambino di New York. Riina e Provenzano lo fecero ammazzare la notte del 23 aprile 1981 inaugurando per la prima volta l’uso del Kalashnikov nell’isola. Bissarono meno di un mese dopo, adoperando la stessa arma per eliminare Inzerillo nonostante la protezione dei Gambino. La cosiddetta "seconda guerra di mafia", che cominciò con quelle raffiche di mitra, fu in realtà una mattanza a senso unico, il massacro di chiunque fosse considerato un nemico dai corleonesi. I grandi pentiti come Buscetta hanno sempre sostenuto che Cosa nostra è morta allora. Non hanno tutti i torti. La mafia siciliana, a modo suo, era sempre stata una democrazia. Nessuno aveva mai preteso di essere "capo dei capi". Il rigido rispetto delle regole era una favola, ma l’idea che persino i mafiosi dovessero adeguarsi a un codice c’era. Riina e Provenzano non conoscevano altro codice che il loro potere, la loro fu una dittatura tra le più spietate. Con lo Stato Totò u Curtu adoperò gli stessi mezzi che gli avevano assicurato l’impero su Cosa nostra. Ammazzò magistrati e poliziotti, provocò stragi, seminò terrore. Conosceva solo la forza, e con la forza tentò di costringere lo Stato a trattare. Uscito di scena lui, con l’arresto nel gennaio 1993, il cognato Bagarella decise di seguire la stessa strada. Provenzano no, e anche per questo riuscì a restare libero per 13 anni dopo la cattura di Riina, dominando con i suoi "pizzini", discretamente, senza spargere troppo sangue. Con gli anni, il sanguinario viddano morto ieri era diventato, a modo suo, un mafioso della vecchia scuola.

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Attilio Bolzoni: “Ci serve un pentito di Stato, un Presidente della Repubblica, un uomo dei servizi segreti o un Generale”. Intervista di Francesca Scoleri del 23 luglio 2016 su “T&M”.

Dott. Bolzoni, i suoi colleghi Nuzzi e Fittipaldi sono stati recentemente assolti da una accusa che il mondo del giornalismo non dovrebbe assolutamente conoscere: reperire informazioni. Lei ben conosce questo drammatico paradosso, ma a differenza dei suoi colleghi appena citati, ha dovuto affrontare il carcere per aver pubblicato le rivelazioni di un pentito. Chi non conosce la storia potrebbe pensare sia accaduta sotto il fascismo e invece eravamo quasi negli anni 90. Cosa ricorda oggi di quei giorni?

«La mia storia racconta una Palermo molto particolare. Il mio arresto e quello di Saverio Lodato – lavoravamo insieme in quel periodo – rappresenta solo uno specchio di quel momento. Noi siamo stati il capro espiatorio perchè l’obiettivo non eravamo noi. Era un segnale. Noi siamo stati arrestati innanzitutto, con un reato infamante per un giornalista: concorso con pubblico ufficiale - rimasto ignoto – in peculato. Una parola che fa venire in mente un reato economico, un giornalista che ha dimestichezza col denaro…In realtà, avevamo pubblicato la cantata di un collaboratore di giustizia, un capomafia, Nino Calderone, che parlava dei rapporti fra mafia e politica e quindi, la cosa fece infuriare molto. Il Procuratore che fece l’ordine di cattura quel 16 marzo 1988, non ha mai arrestato un solo ladro di galline a Palermo. Solo due giornalisti. Noi, lavoravamo da tanti anni su quel fronte perchè, nei primi anni 80, dopo la guerra di mafia – la città mattatoio, è nato un nuovo giornalismo a Palermo, molto più libero, quindi quello fu un avvertimento in puro stile mafioso da parte di quel magistrato. Siamo nell’88, appena pochi anni prima, nessuno parlava di mafia, nessuno scriveva di mafia ma adesso se ne parla troppo e a sproposito. Nel giro di 30 anni, si è passato dal silenzio assoluto, a un rumore fondamentalmente silenzioso. Che cos’è la mafia? Per me la mafia non è più quella dei corleonesi di Totò Riina, quella è stata una parentesi violentissima durata 25 anni. La mafia si traveste, cambia pelle e quando fa questo processo, noi non la riconosciamo mai. La cercavamo nei campi ed era già nei cantieri, la cercavamo nei cantieri ed era già a fare la droga, la cercavamo nella droga e faceva finanza. Oggi la mafia è molto più pettinata, profumata, politicamente corretta e sta nei convegni insieme a noi e il limite più grosso di una certa antimafia, è l’incapacità di riconoscerla».

Da oltre 30 anni, racconta la Sicilia e la mafia che per nostra sciagura, ha percorso la via preannunciata da Sciascia quando diceva “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…” Un sistema consolidato composto da criminali, colletti bianchi e imprenditoria, è questa la mafia che ha conquistato la nazione?

«Dopo le stragi, ho lavorato 10 anni sui corleonesi ma nei 10 anni successivi sono rimasto disorientato, non capivo più cos’era la mafia. Perché? I corleonesi, sono una piccola parentesi nella storia della mafia, 25 anni di violenza, ma prima dei delitti eccellenti degli anni 80, erano passati circa 80 anni dall’ultimo delitto eccellente, era il 1893 quando ci fu l’uccisione del marchese Notarbartolo, il simbolo di Palermo, del Banco di Sicilia. Quindi, la mafia si nasconde e se non la cerchi non la trovi. Invece i corleonesi, hanno rappresentato solo il braccio armato di altre forze, preliminare di un sistema politico mafioso in Sicilia. I delitti eccellenti non li hanno voluti solo i corleonesi, anche se materialmente, li hanno commessi. Se pensiamo al delitto La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, non possiamo pensare che siano solo questi 70 caproni di Corleone. Gente che veniva dal niente ed è tornata nel niente. La mafia oggi occupa posti chiave del potere in Sicilia e in Italia ed è una mafia che non sempre riconosciamo subito. La mafia proletaria, la mafia popolare è stata quasi decimata, ma l’aristocrazia mafiosa va avanti e c’è ancora molto da scoprire su come alcuni personaggi abbiano salvato il sistema criminale italiano».

Lei ha visitato il covo di Bernardo Provenzano dopo la sua cattura, disse che era “un covo miserabile pieno di Crocifissi, rosari e santini”. Attraverso il processo trattativa Stato-mafia e il processo sulla mancata cattura di Provenzano, scopriamo a distanza di oltre 20 anni, che Provenzano è sfuggito alla cattura in più occasioni. Le ultime sentenze su Mori e Obinu, ci consegnano un’irrilevanza penale della mancata cattura, lei che idea si è fatto?

«Prima della mancata cattura di Provenzano, c’è stata la mancata perquisizione del covo di Riina. Dietro ogni cattura eccellente, c’è sempre un mistero. Riina è stato latitante dal 1969 al 1993. Provenzano, è stato latitante dal 1963 al 2006. Non avevano lo status di latitanti, avevano lo status di capi di Stato riconosciuti perché chi è latitante per tutto questo tempo, è di fatto, un latitante libero. Solo quando hanno cominciato a cercarli li hanno presi. Tutta la vicenda della trattativa, non solo processuale ma anche storica, è strettamente legata ai misteri del covo di Riina e alla mancata cattura di Provenzano. Mi fanno sorridere quelli che dicono la trattativa non c’è. Da quando esiste lo Stato italiano, c’è un pezzo di apparati che tratta con le classi criminali italiane e questo è un dato storico.  Che poi, il dottor Di Matteo, riesca a dimostrarlo nel suo processo è un altro discorso che riguarda il corso della giustizia. Ma il fatto che lo Stato italiano, ripeto, non la mafia ma lo Stato abbia chiesto accordi e abbia trattato con la mafia, è dal 1861, accade da quando esiste l’Italia. Gli ufficiali dei carabinieri sono stati assolti sia per quel che riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, sia per la mancata cattura di Provenzano e questo è il risultato giudiziario. Ma da quel processo sono emerse verità che erano state nascoste. Il magistrato ha dei confini precisi che sono determinati dalla legge, dai codici, dalle regole e fuori da quel confine non può andare, ma un osservatore, uno storico, un giornalista, un esperto, può avventurarsi in altre ipotesi. Io, da cittadino italiano, non mi accontento delle sentenze su Capaci e Via D’Amelio, verità che mi hanno offerto dei magistrati anche bravissimi perché sono arrivati fin là, ma io non mi accontento perché sono convinto che a fare quelle stragi non sia stata solo Cosa nostra il che non significa che abbiano fatto male le indagini. In alcuni casi sicuramente ci sono stati depistaggi però dobbiamo capire che la verità storica non coincide mai con la verità giudiziaria. Nel 1984 arriva Buscetta e per la prima volta si rompe il muro di omertà di Cosa nostra, sono passati 32 anni ma il muro dell’omertà di Stato non si è rotto. Oggi ci serve un pentito di Stato: un Presidente della Repubblica, un Generale dei carabinieri un capo dei servizi segreti…un pentito di Stato potrebbe offrirci frammenti di verità che ad oggi non sono ancora affiorati».

Con il libro “La giustizia è cosa nostra”, lei e il compianto Giuseppe D’Avanzo, avete cercato di dimostrare come le manine del potere soccorrono abitualmente la mafia. Sono le stesse manine che intralciano il lavoro di ottimi investigatori – mi viene in mente l’attuale capo scorta di Nino Di Matteo, Saverio Masi, che accumula note di merito eccellenti fino a quando non individua il covo di Provenzano. Da quel momento in poi, viene trattato alla stregua di un delinquente. Come si fa la guerra alla mafia in queste condizioni?

«La mafia non sarebbe mafia se non avesse dei complici dentro gli apparati. Il libro è di 30 anni fa e racconta di processi aggiustati e il simbolo di questi processi aggiustati è quello che riguarda l’uccisione del Capitano Basile. E’ il processo più tormentato della storia giudiziaria per quanto riguarda la mafia. Hanno provato a condizionarlo e ad aggiustarlo da dentro il palazzo di giustizia in tutti i modi ma non ci sono riusciti. Prima dell’era Falcone, i processi a Palermo si trattavano nei corridoi, nei villini a mare…non si discutevano nelle aule di giustizia. I mafiosi stavano in carcere pochi mesi o pochi anni, ma sapevano che dovevano uscire. Dopo l’arrivo di Falcone e Borsellino, avviene una rivoluzione e si ristabiliscono le regole. Si è scoperto che un pezzo di magistratura era complice. All’epoca però, era molto più evidente la complicità del potere, oggi è molto più subdola e meno riconoscibile. Un’antimafia legata al potere ad esempio, non è una vera antimafia. Si parla dell’isolamento di Di Matteo, non posso dimenticare, un paio d’anni fa, il vecchio CSM è andato a Palermo e il vice presidente non ha stretto la mano a Di Matteo. E’ stato un bruttissimo segnale. Di Matteo non è un buon magistrato perché indaga sulla trattativa o non è un buon magistrato in assoluto? Il vice presidente che dichiara – il protocollo mi impedisce di incontrare Di Matteo – indica un atteggiamento ambiguo».

La negazione della trattativa Stato-mafia ha raccolto molti consensi, almeno quanto oggi la giustificazione della stessa. Maria Falcone, ad esempio, ha dichiarato “Se trattativa c’è stata, non credo che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana”. Eppure c’è una sentenza che ne prova l’esistenza. La trattativa c’è stata. Ma l’oggetto dell’accordo qual é stato secondo lei? Lunghe latitanze e mancata perquisizione del covo di Riina per cominciare?

«Ci sono verità indicibili. Gli Stati, non solo l’Italia, hanno sempre trattato con le classi pericolose. Non sono corpi fuori dalla società. La trattativa c’è stata prima, durante e dopo le stragi che poi questa abbia rilevanza penale o meno non è fondamentale. Il negazionismo va molto di moda, ad esempio – Roma mafia capitale – è altrettanto evidente che ci sono organizzazioni mafiose radicate da decenni a Roma ma la maggior parte degli osservatori e della popolazione ne nega l’esistenza. Io ho seguito molto il processo di mafia capitale, sono andato in aula a Rebibbia e c’erano degli imputati, un famosissimo commercialista e un famosissimo consigliere comunale del PD, che si chiedevano – ma noi che ci facciamo qui? – non si rendevano nemmeno conto del perché fossero li. Non bluffano. E’ tanto fradicio il tessuto sociale e politico della Capitale che non si rendevano conto delle ragioni per le quali erano lì insieme al nero Carminati, un signore, che per 18 anni è rimasto libero e in un Paese civile, un personaggio come Carminati non può rimanere libero ma anche lì, siamo nelle zone di confine dove non sai mai chi è guardia e chi è ladro. Roma come Palermo. Gli stessi contesti».

La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

«L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per u paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale. In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso. Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne».

Un sentito grazie a Sabrina D’Elpidio e Annalisa Insardà per aver contribuito alla realizzazione di questa intervista.

La giustizia è Cosa Nostra. Edito da Mondadori, 1995, di Attilio Bolzoni, Giuseppe D'Avanzo. E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Racconta di giudici e di boss, di avvocati e di politici, di processi di mafia pilotati e di inchieste insabbiate, di Palazzi di Giustizia condizionati dal volere degli uomini d'onore. E ripercorre alcuni scabrosi episodi che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sono diventati clamorosi "casi giudiziari". E' scritto a quattro mani da Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, due tra i più bravi cronisti italiani di storie di mafia. 

Lo stato nascosto. Le trattative che portarono alla pax mafiosa. Libro di Antonio M. Moccia, Rosalia Monica Capodici. Questo è un libro diverso, particolare, una riflessione, che gronda in ogni sua pagina della passione civile degli autori, sugli aspetti più delicati dell'intero sistema criminale mafioso. Quelli che hanno condizionato, e continuano a condizionare, la nostra democrazia ed un quadro politico istituzionale sempre più esposto alla erosione del cancro mafioso. Si parla, e lo si fa con cognizione di causa e grande onestà intellettuale, dei nodi essenziali del sistema di potere mafioso: il rapporto con la politica, i tanti compromessi, la mediazione, i sotterranei "dialoghi pericolosi" tra lo Stato e la mafia, l'isolamento e la delegittimazione di tanti uomini delle istituzioni che, sull'altare della convenienza o dell'opportunità politica, sono stati traditi dallo Stato prima di essere uccisi dal tritolo o dal piombo dei mafiosi.

Recensione Libro: Lo stato nascosto. Per il politico, stringere il patto con l’organizzazione mafiosa significa insomma effettuare una precisa scelta di campo. Significa impegnare, da subito, i propri futuri comportamenti, anche sul piano istituzionale, in una logica di servizio a beneficio degli interessi dell’organizzazione. Di cosa parla Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia. Ci sono argomenti come quello trattato nel libro Lo stato nascosto – le trattative che portarono alla pax mafiosa di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia che non solo devono essere discussi ma anche approfonditi per ricordare che bisogna lottare contro i poteri violenti e che per quanti anni siano passati dalle stragi di Falcone e Borsellino non è cambiato poi molto. Da questo libro degno di attenzione – già solo per la sfida lanciata dai due scrittori di portare alla luce fatti ai più celati che riguardano la gestione dello Stato da parte della mafia, – Capodici e Moccia sono riusciti a dare una visione globale del potere nascosto utilizzando i fatti e non le teorie. Nel libro Lo stato nascosto, infatti, si utilizzano le sentenze, i risultati dei processi, ma non quelli conosciuti ai più, al contrario si porta alla luce tutto ciò che i giornalisti hanno trascurato, non sappiamo ovviamente se la distrazione da parte della stampa è stata voluta o meno. Quel che conta adesso è sapere. Tutto ciò che viene raccontato in questo libro ci riguarda da vicino, fa parte della nostra quotidianità senza che in alcuni casi ce ne rendiamo conto ed è per questo che è fondamentale aprire gli occhi sulla verità e scoprire chi gestisce la maggior parte della nostra ricchezza, delle nostre stanze di potere, dei traffici e di parte della società. La presenza della mafia si è diffusa a qualsiasi livello e settore: che si tratti di istituzioni o quartieri non c’è distinzione, perché le organizzazioni criminali sono ormai ovunque. Le conseguenze che portano questo sistema criminale possiamo prevederlo e osservarlo continuamente, basta guardare il telegiornale, ma la mafia condiziona la democrazia anche quando non ce ne rendiamo conto, è questo che tendono a sottolineare con il loro libro Capodici e Moccia. Ciò che viene portato sotto i riflettori, e quindi alla portata di tutti i lettori, è il rapporto che intercorre tra Stato e mafia, i compromessi a cui vanno incontro chi gestisce la politica, ma nel libro Lo stato nascosto c’è anche spazio per gli eroi che hanno combattuto e purtroppo sono caduti per tradimento o isolamento sotto il nemico. Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia, pubblicato dalla casa editrice Salvatore Insenga Editore va letto e discusso senza ombra di dubbio. Vorrei concludere citando una frase di Paolo Borsellino che potete leggere nella prefazione di Nino Di Matteo: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

Crocetta e i gran maestri della massoneria convocati in commissione nazionale antimafia. Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione, scrive Rino Giacalone il 30/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia all’indomani delle audizioni in Sicilia, ha convocato il presidente della Regione Crocetta e i gran maestri degli ordini massonici per approfondire i temi emersi nel corso della missione a Palermo e Trapani, dove tanto si è parlato di indagini giudiziarie che riguardano i contatti diventati stretti tra mafia e massoneria. Un fronte che non serve solo, hanno detto in audizione i magistrati di Trapani e Palermo, a coprire la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ma rappresenta la nuova stagione criminale di Cosa nostra che se non spara più, grazie al sostegno della massoneria, «ha migliori capacità di inquinare i settori della vita politica, sociale ed economica del territorio» ha tra l’altro affermato la presidente della commissione Rosy Bindi.  Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione Rosario Crocetta. Certamente tra le domande che attendono il governatore siciliano quelle relative a Patrizia Monterosso segretario generale di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione Sicilia. Il nome della Monterosso nel corso del processo a Catania contro l’ex governatore Raffaele Lombardo, è stato fatto dal pentito agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Tuzzolino ha affermato che la Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano, dove avrebbe fatto da garante ad una serie di affari sugli impianti eolici. La Monterosso ha già smentito la circostanza: «Non appartengo alla massoneria, le uniche volte in cui mi sono imbattuta in cose che riguardano questo tipo di associazione sono state delle mail ricevute all’indirizzo istituzionale della segreteria generale, nel luglio 2015 ho ricevuto due messaggi da una loggia di Catania, c’era una lista di 17 nomi, forse si trattava di iscritti, ma io ho subito denunciato alla Polizia Postale di Catania, a novembre 2014 nella casella di posta è arrivata una email del Grande Oriente d’Italia, direttamente da Palazzo Giustiniani. Anche in questo caso ho denunciato».  In commissione nazionale antimafia però la circostanza ha suscitato attenzione. Critico è stato il leghista “siciliano” Angelo Attaguile: «Come siciliano - ha detto - sono preoccupato, i politici passano i burocrati restano, da siciliano mi preoccupo che al Governo regionale ci siano funzionari e burocrati che non dovrebbero stare al loro posto».  Mantenendo poi fede a quanto annunciato in Commissione nazionale antimafia sono stati convocati gran maestri degli ordini massonici, il prossimo 3 agosto verrà sentito in gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi. La presidente Bindi ha spiegato a Trapani il perché di queste convocazioni, «intendiamo sapere se siano a conoscenza di logge segrete nel trapanese, della cui esistenza abbiamo appreso dai magistrati e soprattutto come intendano comportarsi». 

Il caso Trapani: una saldatura tra mafia e massoneria. La visita della Commissione in Sicilia. Bindi: “Sui beni confiscati abbiamo dato troppa voce in capitolo all’agenzia regionale”, scrive Rino Giacalone il 21/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia è pronta ad aprire un caso Trapani e denuncia: «la latitanza di Matteo Messina Denaro è coperta da intrecci tra mafia e massoneria altolocata». Massoneria che oggi starebbe cavalcando un forte attacco contro la magistratura trapanese: «certe indagini stanno dando fastidio». Forti i toni usati dalla presidente Rosy Bindi, ma anche dal suo vice Claudio Fava, dai commissari Davide Mattiello (Pd), dai 5 Stelle Mario Giarrusso e Francesco Dell’Uva e dal leghista siciliano Angelo Attaguille. «Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi - dice la presidente Bindi - abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese».  Se volete venire a conoscere cos’è la nuova mafia, che c’entra tanto con le stragi del 1992, bisogna venire in provincia di Trapani. E la commissione antimafia su questo ha raccolto tanto ascoltando magistrati, giudici, investigatori. Claudio Fava: «Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria ed è strano che esista un concentrato di logge segrete a Castelvetrano, la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro e del suo sistema di potere». «In questa provincia - dice il deputato Davide Mattiello - bisogna ricercare quell’accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull’esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito coperture altolocate per la sua ventennale latitanza».  I magistrati trapanesi ascoltati, a cominciare dal procuratore Viola, hanno confermato indagini aperte sul fronte della massoneria ma hanno consegnato precisi elementi dei contrasti che la magistratura trapanese subisce. «Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - racconta il senatore Mario Giarrusso - abbiamo sentito parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole che altri giudici usavano a Trapani negli anni ’80, quando si scopriva la loggia segreta Iside 2. Abbiamo sentito i magistrati inquirenti che si sono detti non al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio». «C’è una Procura sotto tiro - dice il vice presidente Fava - sotto le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti».  La presidente Bindi ha annunciato che verranno convocati i vertici degli ordini massonici, i Gran Maestri saranno convocati in commissione: «Chiederemo loro se sanno di logge segrete e se sanno perché non hanno denunciato, se invece non sanno chiederemo che agiscano per espellere questi corpi fornendo collaborazione all’autorità giudiziaria». Tanti i temi toccati, con l’annuncio, dopo avere ascoltato in giudici della Corte di Assise, Pellino e Corso, che verrà aperto un approfondito esame sui depistaggi emersi durante il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Affrontato anche il tema della gestione dei beni confiscati, partendo dall’assedio che oggi continua a subire la Calcestruzzi Ericina, l’impresa confiscata al boss di Trapani Vincenzo Virga. C’è un progetto che prevede di mettere in rete la Calcestruzzi Ericina e tutte le imprese del settore che producono calcestruzzo, oggi sequestrate e confiscate.  Ma il progetto registra forti ritardi nell’attuazione e i ritardi stanno tutti dentro l’agenzia nazionale dei beni confiscati. La commissione ha puntato attenzione sulla sede regionale dell’agenzia e la Bindi ha chiosato: «Credo che sia stata lasciata all’agenzia regionale troppa voce in capitolo». Infine è stato affrontato il caso Castelvetrano, dove il Consiglio dopo un tira e molla si è sciolto per non far restare consigliere quel Lillo Giambalvo intercettato a esaltare la figura del latitante Matteo Messina Denaro. A Castelvetrano la commissione ha registrato attraverso le audizioni un maxi concentrato di logge, troppe per il territorio che protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro.  La commissione ha sentito il sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l’ex capogruppo del Pd Pasquale Calamia. «Ci saremmo aspettati una presa di distanza del sindaco di Castelvetrano che non c’è stata» ha detto la presidente Bindi e il vice presidente Fava continua: «Se Castelvetrano fosse in Baviera non ci porremmo il problema di una Giunta dove siedono tre assessori appartenenti alla massoneria, ma si tratta della città di Messina Denaro». E sul boss, latitante dal 93, la presidente Bindi aggiunge: «Aspettiamo anche noi la buona notizia della cattura».  

"Nel Trapanese una nuova cupola fatta di mafia e massoneria", scrive Rino Giacalone il su "Live Sicilia" il 20 luglio 2016. "Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese". Sono le parole della presidente della commissione parlamentare antimafia, on. Rosy Bindi, espresse a conclusione della tre giorni siciliana, una missione durante la quale numerose sono state le audizioni ma c'è stata anche la significativa presenza alle manifestazioni a ricordo dei 24 anni dalla strage di via d'Amelio. "Abbiamo ritardi anche politici da scontare - ha detto ancora l'on. Bindi -. Falcone e Borsellino non sono stati mai ascoltati da una commissione antimafia, a 24 anni dalla strage di via d'Amelio abbiamo ascoltato Lucia Borsellino, figlia del procuratore aggiunto paolo ucciso con la sua scorta il 19 luglio del 1992, a lei abbiamo promesso il nostro impegno, ma dobbiamo anche dire che si tratta di restituire non solo a lei e alla famiglia Borsellino, e ancora alla famiglia Falcone, alle famiglie dei poliziotti uccisi, dobbiamo restituire al paese segmenti di verità che appartengono al Paese". Commissione antimafia che ha raccolto tanto sulla mafia in provincia di Trapani, ascoltando magistrati, giudici, investigatori. "Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria, anomalo che un concentrato di logge segrete esiste a Castelvetrano, la terra - ha detto il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava - dove il boss latitante Matteo Messina Denaro ha costruito il proprio sistema di potere". "Lavoreremo per capire meglio - ha aggiunto il deputato Pd Davide Mattiello - ma abbiamo la forte impressione che qui bisogna cercare quell'accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull'esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito altolocate coperture per la sua ventennale e perdurante latitanza". "Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - ha detto il senatore Mario Giarrusso di 5 Stelle -, non è possibile sentire parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole di altri magistrati, quando a Trapani negli anni '80 si scopriva la famosa loggia segreta Iside 2". E un quadro pesante a proposito degli uffici giudiziari trapanesi emerge al termine delle audizioni fatte a Trapani dalla commissione parlamentare antimafia. Situazione che ha spinto la presidente Rosy Bindi a ipotizzare la possibilità che a parte la relazione finale prevista a fine legislatura su tutte le missioni svolte nel corso del mandato parlamentare, su Trapani potrebbe esserci una specifica relazione. Sullo scenario già descritto delle connessioni tra mafia e massoneria, si è sviluppata una attenzione che poteri occulti dedicano proprio alla Procura di Trapani, "nel 2016 - ha detto il senatore 5 Stelle Giarrusso - sentiamo magistrati inquirenti che non dicono non sentirsi al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio, un clima assurdo che rimanda ad altri tempi ed altre vicende". Sulle parole di Giarrusso si sono ritrovati altri commissari come Fava, vice presidente della Commissione antimafia: "Siamo preoccupati del clima pesante che riscontriamo nei confronti degli uffici giudiziari, abbiamo l'esatta percezione che c'è una Procura sotto tiro, con intrusioni e pedinamenti, sono le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti, la Commissione avrà scrupolo e attenzione". Su questi temi sono stati sentiti dalla commissione antimafia in prefettura a Trapani il procuratore della Repubblica Marcello Viola ed i pm Marco Verzera e Andrea Tarondo, e le dichiarazioni rese dai magistrati sono state secretate. In particolare la commissione antimafia ha ascoltato i giudici della Corte di Assise che hanno processato e condannato due boss mafiosi all'ergastolo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, risalente al 1988. "Abbiamo apposta voluto ascoltare i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, presidente e giudice a latere della Corte - ha detto il presidente Bindi - perché interessati al processo e interessati a conoscere la fase dei depistaggi". "Non escludo - ha aggiunto il vice presidente Claudio Fava - che per questo delitto si faccia ciò che è stato fatto per altri analoghi delitti". Chiaro il riferimento alla costituzione di una commissione che come è stato fatto per il delitto di Peppino Impastato, si occupi anche del delitto Rostagno.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scriveva già a suo tempo Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconocimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante. "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore". Salvo Palazzolo

Ecco a voi il "nano" e il circo dell'antimafia, scrive Simona Musco il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Nino Lo Giudice, il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria, accusa il poliziotto Giovanni Aiello, "Faccia di mostro", di essere l'autore della strage di via D'Amelio. «È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro». Chi è "faccia da mostro" - Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il 94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra». Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.

Lo Giudice: ''Faccia da mostro dietro via d'Amelio''. Il pentito calabrese: "Fu lui a premere il pulsante per la strage", scrive “Antimafia Duemila” il 09 Agosto 2016. Un altro pentito torna a parlare di "faccia da mostro", l'uomo dei servizi che secondo alcuni collaboratori di giustizia (tra cui i siciliani Vito Galatolo e Vito Lo Forte, e il calabrese Consolato Villani) avrebbe preso parte a molte stragi ed omicidi eccellenti. È Nino "il nano" Lo Giudice, scrive di Walter Molino il 9 agosto 2016 su Il Fatto Quotidiano, a parlare nuovamente di quel personaggio che sarebbe stato riconosciuto nell'ex poliziotto Giovanni Aiello. “È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta" ha detto il pentito calabrese, aggiungendo che "fu lui a schiacciare il pulsante in via d’Amelio" e a confidarglielo è stato, ha precisato, "Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona" ma "quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Scotto, condannato in primo grado ma poi assolto in appello per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è fratello di Gaetano, imputato per l’omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi da Cosa nostra nel 1989, oggi in libertà. La storia della collaborazione di Lo Giudice è tra le più travagliate: tre giorni prima dell'udienza, nel giugno 2013, nella quale il pentito doveva comparire a deporre al processo "Archi-Astrea" a Reggio Calabria, l'ex mafioso si era allontanato dalla località protetta senza lasciare alcuna traccia, tranne un memoriale nel quale ritrattava le sue deposizioni sostenendo che era stato costretto e “spronato da più parti”. E una pen drive con delle immagini dove il collaboratore diceva “non mi cercate, tanto non mi troverete mai”. Poi però era stato arrestato, a novembre, in un appartamento alla periferia della città. Ora che è tornato a collaborare le sue dichiarazioni sono state verbalizzate dalle procure di Reggio Calabria e Catanzaro, oltre ad essere condivise con quelle oltre lo Stretto in Sicilia. Sulle sue dichiarazioni poggiava il lavoro del sostituto Gianfranco Donadio, allora incaricato dal presidente del Senato Piero Grasso di fare luce sulle indagini riferite alle stragi del '92 e '93, in particolare sul ruolo che avrebbero ricoperto elementi riconducibili ai servizi segreti e ad ambienti “deviati” dello Stato. Lo Giudice, nel memoriale, aveva accusato proprio Donadio di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, tra cui anche quello di “faccia di mostro”. Il superprocuratore Franco Roberti, il 6 settembre 2013, aveva avocato su di sé le indagini. Poi ci fu una misteriosa fuga di notizie sulle colonne de Il Sole 24 ore e L’Ora della Calabria in merito al resoconto di due riunioni nel quale il pm aveva esposto gli sviluppi di un’indagine. Sarà solo a settembre 2014 che il pentito 'ndranghetista chiarirà il perchè del suo agire, spiegando ai pm di aver "iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi". In seguito, proseguiva Lo Giudice, "mi portarono fuori città" dove "c’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”. Ora il collaboratore confermerebbe di aver riferito a Donadio solo circostanze veritiere, aggiungendo poi altri dettagli su "faccia da mostro": "Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via d’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi (condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,ndr) che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. “La seconda volta - continuava - Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella” e in seguito “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Anche per queste dichiarazioni Lo Giudice è stato recentemente sentito dal pm di Palermo Nino Di Matteo. Ed è proprio per l'omicidio Agostino che oggi lo stesso Aiello è indagato a Palermo assieme ai boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Vincenzo, padre di Nino Agostino, pochi mesi ha riconosciuto "faccia da mostro" in Aiello, durante un confronto all'americana nel quale ha confermato che si tratta dello stesso personaggio presentatosi a casa sua pochi giorni prima dell'omicidio chiedendo del figlio. Lo Giudice nelle sue dichiarazioni parla di Aiello anche in riferimento all'assassinio del commissario Ninni Cassarà, datato 6 agosto 1985, alla barbara uccisione del piccolo Claudio Domino (colpito da proiettili a 11 anni), al fallito attentato all'Addaura e alla strage di Capaci, entrambi contro il giudice Giovanni Falcone. "Il nano", tra l'altro, è il solo a dichiarare di aver ricevuto "di prima mano" le parole confidenziali di Aiello. Ma altri ex mafiosi di Cosa nostra parlano di "faccia da mostro" dichiarando che “frequentava Fondo Pipitone” a Palermo (feudo della famiglia mafiosa dei Galatolo, ndr) e che era “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”.

«Io prete, vi ricordo mio padre: giudice ucciso da Riina e dimenticato da tutti». Padre Giuseppe, prete a Imola, è il figlio di Alberto Giacomelli, giudice ucciso a Trapani il 14 settembre del 1988 su ordine di Totò Riina: «Mio padre non ha nulla di meno di altri magistrati uccisi dalla mafia», scrive Nino Luca l'11 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il coraggio di una firma». Questo potrebbe essere il titolo di un libro dedicato al magistrato Alberto Giacomelli. Ma quel libro non è stato mai scritto. Nessuno l’ha potuto leggere. Nessuno ci ha pensato. Anche per questo il vile omicidio di Alberto Giacomelli è caduto nell’oblio, in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra. Trovare una foto di Alberto Giacomelli su internet è una impresa. Un solo video, di un vecchio Tg Rai, racconta la sua morte. Una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. Alberto Giacomelli, magistrato, a sua volta figlio di un giudice, è in pensione da quindici mesi. Alle 8 del mattino, saluta la moglie ed esce dalla sua casa padronale immersa tra le palme e i gerani, nelle campagne di Trapani, frazione Locogrande. A bordo della sua Fiat Panda, percorre la strada sterrata, poi svolta a sinistra per immettersi sulla provinciale che conduce in città. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto, poi gli sparano tre colpi con una Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. Quando muore Alberto Giacomelli ha 69 anni. Nessuna targa in queste strade polverose ne ricorda il sacrificio. Nel 1985 Giacomelli, presidente della sezione del tribunale di Trapani «Misure di prevenzione», aveva disposto il sequestro di una villetta e dei relativi terreni a Mazara del Vallo. Beni riconducibili a Gaetano Riina, fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. La sua firma doverosa sul documento di confisca derivava da una delle prime sentenze di applicazione della legge «Rognoni -La Torre». Giacomelli aveva compiuto il suo dovere di giudice. Due anni dopo i Riina impugnarono il sequestro. Gaetano, fratello per più famoso capo dei capi, cercò di mantenere il possesso della casa facendosi nominare «affidatario». Ma un’altra sentenza, di altri giudici, confermò la confisca decisa da Giacomelli. L’anno dopo la «vendetta» fu consumata. «Giacomelli - svelò il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori - fu ammazzato per “una questione di famiglia”. Non famiglia “Cosa nostra” ma “famiglia di sangue”». Dopo 14 anni di depistaggi, il 28 marzo 2002, Totò Riina viene condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante. La sentenza definitiva il 12 marzo 2003.Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. I killer non sono stati mai individuati con certezza. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un magistrato in pensione nella storia d’Italia. La sua firma di servitore dello Stato, lo condannò a morte. A distanza di 28 anni, il figlio Giuseppe, sacerdote a Imola, ha voglia di raccontare la storia del padre. Innanzitutto perché la sua figura rischia di essere dimenticata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Poi, per ristabilire la verità, quella verità troppe volte «mascariata» (macchiata) da falsi pentiti: «Giocava alle corse clandestine di cavalli organizzate a Locogrande», si disse. Oppure: «Bisogna indagare nelle sue proprietà terriere...». Tutto falso. Un anno prima, sconosciuti avevano bruciato la villa dei Giacomelli a Custonaci: «La casa si riempì di fumo - racconta padre Giuseppe - ma allora non abbiamo dato peso eccessivo all’episodio. Mio padre riceveva qualche telefonata di minacce... ma lui riattaccava senza raccontare nulla». Oggi padre Giuseppe reclama per la propria famiglia il riconoscimento di vittima della mafia. «Il rammarico più grande - afferma dalla sacrestia della chiesa del Pio Suffragio di Imola - è l’oblio in cui è caduto l’omicidio, quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno. Non c’è una gerarchia delle vittime della mafia. Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

Mafia, quei padrini nella nebbia della Padania. Per anni ho raccontato come giornalista l’invasione delle cosche al nord. Ora la giustizia conferma una verità che nessuno voleva vedere, scrive Giovanni Tizian il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". La nebbia della pianura padana è un mantello naturale sotto il quale nascondere intrallazzi e imbrogli. Alibi perfetto per chi vuole fingersi cieco. «Ciechi che pur vedendo non vedono», rifletteva così il protagonista di “Cecità”, capolavoro del premio Nobel José Saramago. Benché il romanzo si riferisse all’indifferenza di cui è intrisa la nostra società, il concetto si adatta benissimo ai tanti seguaci della filosofia del “non vedo, non sento, non parlo”. Le tre scimmiette dell’omertà mafiosa hanno risalito la penisola. Hanno seguito la linea della palma. Come aveva profetizzato Leonardo Sciascia quando paragonava l’avanzata culturale e finanziaria della mafia verso i ricchi territori del Nord al fenomeno climatico propizio alla coltivazione della palma che, secondo gli scienziati, saliva verso nord di 500 metri ogni anno. Una voce rimasta inascoltata, quella dello scrittore siciliano, da alcuni giudicata fin troppo allarmistica. Lo stesso giudizio guardingo e superficiale riservato ai cronisti che hanno raccontato i focolai mafiosi sparsi lungo la penisola. Chi scrive e parla di mafie conosce bene questi silenzi istituzionali. Ostacoli insidiosi. Generano confusione, disorientano i cittadini e isolano i giornalisti, colpiti sempre più spesso da querele temerarie, che sanno di messaggio minatorio. Fin dai primi articoli che ho scritto sulla Gazzetta di Modena ho provato, insieme ai colleghi, a sbriciolare quel muro di reticenza e inconsapevolezza che circondava la provincia. Dapprima nessuna reazione. Solo la curiosità di qualche cittadino e l’attenzione delle associazioni antimafia. Poi arrivò l’ironia di alcuni politici, in difesa del “buon nome” della regione. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il mio giornale di allora, e così oggi L’Espresso, mi hanno sempre sostenuto. E siamo andati avanti. Fino a quando due di quelle inchieste mi sono costate un pezzo di libertà: inquietanti minacce di morte e l’assegnazione di una scorta. Sono trascorsi quasi sei anni dall’intercettazione di quella telefonata, «gli spariamo in bocca», che ha cambiato all’improvviso la mia vita e quella della mia famiglia. Gli articoli che avevano disturbato il boss legato alla ’ndrangheta sono finiti agli atti del processo Black Monkey. Tre anni di dibattimento in tribunale a Bologna per stabilire se l’organizzazione al cui vertice stava Nicola “Rocco” Femia fosse associazione mafiosa. Tra le tante parti civili, insieme all’Ordine dei giornalisti, c’ero anch’io. Il 22 febbraio scorso la corte ha pronunciato il verdetto di primo grado: il gruppo Femia è mafia e dovrà risarcire il giornalista, sia me sia l’Ordine. I giudici hanno certificato, dunque, l’esistenza in Emilia Romagna di una cosca autonoma e moderna. E non meno importante, hanno riconosciuto nell’informazione un valore democratico da tutelare dalle ingerenze del potere criminale. A queste latitudini, dove ormai la palma cresce rigogliosa, i padrini sono al vertice di organizzazioni poco militari e molto imprenditoriali. Corrompono e solo se strettamente necessario sparano. Spesso sono nuclei autonomi nelle decisioni e nelle strategie. Condizionano la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, il mondo delle professioni, le forze dell’ordine e anche pezzi di informazione. Per anni chi ha provato a denunciare la complessità di tale groviglio di interessi è stato etichettato come un folle speculatore e, perché no, pure incosciente. Intanto alcuni prefetti negavano, qualche sindaco riveriva i capi ’ndrina e inveiva contro la stampa. Assessori, consiglieri e candidati vari replicavano immagini note al Sud: in fila dai boss per elemosinare qualche voto. Fino ad arrivare ai consigli comunali sciolti per mafia. Più noi cronisti individuavamo le ferite sul corpo malandato della pianura padana, più le risposte oscillavano tra l’indifferenza, lo scherno, la negazione e le querele. Poi sono arrivate le intimidazioni. E qui qualcuno ha suggerito che sarebbe stato forse necessario chiedere aiuto a un medico specialista per farsi prescrivere una cura antibiotica. La speranza è che gli antibiotici facciano effetto al più presto. Prima che sia troppo tardi. Per chiudere con la stagione dello stupore e inaugurare il tempo della consapevolezza. Tra la nebbia cercano riparo ancora troppi complici insospettabili. Stanare i mafiosi e i loro manutengoli non può essere compito esclusivo dei magistrati o delle forze dell’ordine. Né di qualche visionario giornalista.

"La mia vita a metà per aver denunciato la 'ndrangheta al Nord". "Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista, scrive Giovanni Tizian il 23 febbraio 2017. Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan. Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza. Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna. Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo, il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena. Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo. Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia. In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali. Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi. Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo. Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.

Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».

Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».

L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo

Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:

a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;

b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;

c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.

Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni. 

Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.

Storia di Pino Maniaci su Cnn: «Ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio», scrive il 26/12/2016 “La Sicilia”. La celebre rete televisiva americana dedica al direttore di Telejato, recentemente indagato per estorsione, un ampio servizio sulle sue pagine on line. "Pino Maniaci è stato uno dei pochi ad avere avuto il coraggio di denunciare la mafia in Sicilia". La Cnn dedica al direttore di Telejato un lungo servizio pubblicato sulle sue pagine on line, un servizio dove ricostruisce la vicenda di Maniaci finito sotto inchiesta a sua volta per estorsione ai danni di un amministratore locale. "He goes after the mob; now he’s the target", ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio, scrive il reporter Joel Labi, in una lunga inchiesta nella quale compare anche una intervista video intitolata "The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". "Il reporter Pino Maniaci - scrive la Cnn - è stato una delle poche persone a denunciare pubblicamente la mafia in Sicilia". Maniaci, sottolinea l’influente emittente televisiva statunitense, "ha usato la sua piccola televisione fatta in casa per combattere il crimine organizzato" da allora "è diventato bersaglio a sua volta".

Parola anche ad Antonio Ingroia, legale di Maniaci: "non ho mai visto niente di simile nei miei vent'anni come magistrato e avvocato", afferma l’ex pm. "Si sta utilizzando un video (quello delle intercettazioni ambientali, ndr) per distruggere un uomo di televisione...". Non è la prima volta che la storia di Maniaci finisce sulla stampa internazionale. In passato anche The Guardian e l’Economist hanno dedicato spazio al direttore di Telejato.

Caso Maniaci, Ingroia: “Ci voleva la CNN per ricordare un processo surreale”, scrive "Telejato" il 26 dicembre 2016. “C’è voluta la CNN per ricordare che in Italia sta per cominciare un processo surreale come quello a carico di un giornalista coraggioso come Pino Maniaci. Pur avendo milioni di notizie da dare, la più grande tv del mondo ha deciso di raccontare con un lungo articolo sulla homepage del suo sito internet la storia di un’indagine basata sul nulla, costruita dalla Procura di Palermo su accuse infondate o su fatti per i quali Maniaci ha fornito ampia e puntuale spiegazione”. Così l’avvocato Antonio Ingroia, difensore con l’avvocato Bartolomeo Parrino di Pino Maniaci. “Dovrebbe far riflettere – aggiunge – com’è stato trattato il caso in Italia, dove la gran parte della stampa ha già processato e condannato mediaticamente Maniaci, con superficialità e approssimazione, dando per certa la tesi della Procura. Una dimostrazione di sconcertante conformismo, un conformismo confermato anche dalla reazione di alcuni organi di stampa nazionali, subito pronti a criticare la CNN con l’accusa di aver dimenticato di dare la notizia dell’uccisione dei cani di Maniaci e della reazione che Maniaci ebbe. Una circostanza non rilevante ai fini del processo e di cui comunque Maniaci ha ampiamente dato spiegazione nelle sedi opportune. Ma tant’è – conclude Ingroia – c’è chi ha già emesso la sua sentenza e non vuole sentirsi dire che forse si è sbagliato”.

Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti, scrive il 28 settembre 2016 "Telejato". «Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.»

Xylella, Trentino contro la Puglia: «Causa vostra, giù export di mele», scrive Marco Mangano il 20 novembre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Xylella Fastidiosa spacca l’Italia ortofrutticola. Il batterio killer degli ulivi, oltre ad assestare colpi violenti al paesaggio, al territorio, all’immagine della Puglia, arreca «danni collaterali» (mutuando il titolo del famoso film interpretato da Arnold Schwarzenegger) anche alla parte dell’economia agricola del tutto estranea alla batteriosi. La Giordania esige dagli esportatori certificati in cui si assicuri l’assenza della patologia. Ciò, oltre ad avvenire per l’uva pugliese, si verifica per le mele trentine. Ed è qui che casca l’asino: i produttori della Val di Non puntano l’indice contro la Puglia: sostengono che se non fosse stato per loro non avrebbero subito alcun calo nell’export verso la Giordania. Un danno riflesso alla zona delle mele d’eccellenza.  «Stiamo incontrando problemi di ordine burocratico poiché la Giordania chiede ai produttori pugliesi di dichiarare sul certificato fitosanitario che i prodotti sono esenti da Xylella», afferma Giacomo Suglia, presidente pugliese dell’Apeo (associazione produttori ed esportatori ortofrutticoli) nonché vicepresidente nazionale di FruitImprese. «Ritengo - osserva - che il ministero delle Politiche agricole debba intervenire per fare chiarezza: intendo dire che sarebbe opportuna una campagna attraverso cui i Paesi importatori potessero essere rassicurati circa l’impossibilità che prodotti come l’uva, le mele e molti altri possano essere colpiti dal batterio. I frutti sono estranei alla patologia e, pertanto, non possono arrecare alcun danno alla salute, né trasferire la patologia». Insomma, la Xylella diventa una questione di politica agricola, per nulla trascurabile. La Puglia deve difendersi non soltanto dagli attacchi della sputacchina, l’insetto vettore che spadroneggia fra gli uliveti, assicurando notti insonni agli olivicoltori del Barese (dove si produce l’altissima qualità), ma anche dalle accuse del Nord. Diamo un’occhiata all’avanzata del batterio: dopo essere sbarcato a Ostuni e a Martina Franca (come anticipato in entrambi i casi dalla Gazzetta), la situazione pare incontrollabile. E non soltanto sul piano dell’espansione batterica. I nervi vengono messi a dura prova: abbiamo già riferito del conflitto fra Cia e Anas. Lo scorso 20 ottobre, in seguito all’individuazione di un focolaio a Ostuni, in una stazione di servizio all’altezza dei villaggi turistici «Monticelli» e «Rosa Marina», la Regione firmava un’ordinanza di sradicamento non solo dell’ulivo colpito dalla batteriosi, ma anche delle piante ospiti. Venivano, però, abbattuti l’albero ammalato e le piante che si trovavano nel raggio di cento metri dall’ulivo, ma non quelle (oleandri) che - nello stesso raggio di 100 metri - ricadevano e ricadono in aree di pertinenza dell’Anas. La confederazione sostiene che queste piante siano pericolose e che non abbia senso limitare lo sradicamento solo ad alcuni alberi. La Cia scrive all’Anas, sollecitandola a procedere nel più breve tempo possibile allo sradicamento.

La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri. 

‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

PER IL CULO SI PRENDONO LE SUPPOSTE, NON LE PERSONE.      

Mafia e ’ndrangheta unite dalle stragi: «Così lo Stato scenderà a patti». L’uccisione nel ‘94 di due carabinieri collegata agli attentati decisi da Cosa nostra. La procura di Reggio Calabria: «Gli attentati del 1993-1994 non vanno letti in maniera isolata», scrivono Giovanni Bianconi e Carlo Macrì il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Gaspare Spatuzza, soldato fedele che aveva già partecipato alla strage di Firenze del 1993 e si preparava a far saltare in aria un camion di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma (progetto poi fallito), il capomafia Giuseppe Graviano l’aveva detto chiaro: «In Calabria si sono già mossi». A colpi di mitraglietta: la stessa M12 che aveva ucciso due militari dell’Arma - Antonino Fava e Giuseppe Garofalo - e ferito altri quattro in tre diversi agguati fra il 18 gennaio e il 1° febbraio 1994. A sparare andarono due giovani ‘ndranghetisti, uno all’epoca minorenne, che subito dopo l’arresto dissero che trasportavano armi e non volevano essere fermati e controllati; un depistaggio per coprire il disegno che la Procura di Reggio Calabria, nove anni dopo la traccia delle prime dichiarazioni del pentito Spatuzza, ritiene di avere svelato: un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, con l’avallo di massoneria e spezzoni di servizi segreti deviati, per aggredire le istituzioni e costringere lo Stato a norme meno severe contro il crimine organizzato.

La presunta trattativa con le istituzioni, insomma, si estende anche alle cosche calabresi, e ieri è arrivato un nuovo ordine d’arresto per il boss stragista Giuseppe Graviano e per il capo ’ndrangheta Rocco Filippone, oggi settantasettenne, che secondo l’accusa all’epoca dei fatti fece da tramite tra i capi dei clan e delle ‘ndrine nelle riunioni riservate in cui si decise il ricatto allo Stato. Un’indagine avviata su impulso della Procura nazionale antimafia al tempo della gestione di Pietro Grasso, basata sulle dichiarazioni di decine di pentiti delle due organizzazioni e sulle indagini della polizia, Servizio centrale operativo e Servizio centrale antiterrorismo; ai mandanti degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri viene contestata anche «la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico».

Il disegno stragista che doveva condurre alla trattativa fu infatti figlio — secondo questa ricostruzione — dei mutamenti politici che caratterizzarono il biennio 1992-1994, ma in un certo senso cercò anche di orientarli. Perché dopo la fine dei partiti tradizionali, sia la mafia che la ‘ndrangheta si misero alla ricerca di nuovi referenti, e i boss dell’isola avevano in testa la creazione di un gruppo chiamato Sicilia Libera. I pm calabresi (il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto Di Bernardo) hanno acquisito e aggiornato l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» archiviata dai colleghi palermitani, che avevano scritto: «I vertici di Cosa nostra cambiarono cavallo abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che in effetti poi avrebbe vinto le elezioni) sicché a questo nuovo movimento, Forza Italia, andò il loro appoggio». All’esito della nuova indagine il pm Lombardo precisa che la strategia stragista «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi».

A confermare questa impostazione sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano, in cui il boss si lascia andare (consapevole o meno di essere intercettato) a espressioni di risentimento nei confronti di Silvio Berlusconi, «al quale rimprovera di non aver rispettato sostanzialmente i patti», sottolinea il giudice nel provvedimento di arresto. Che si sofferma anche sulla «straordinaria anomalia, davvero macroscopica» sull’allentamento del «carcere duro» introdotto dopo le stragi palermitane del 1992 con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Se nel ‘92 ci fu una sola revoca e una sola mancata proroga, che nel ‘95 diventarono 2 e 2, nel 1993 si ebbero 122 revoche e 358 mancate proroghe, mentre nei primi mesi del ‘94 ci furono 9 mancate proroghe. Numeri che per il giudice segnano una coincidenza «non casuale» tra le stragi del ‘93 e gli omicidi dei carabinieri di inizio ‘94 con quei provvedimenti, «sintomatici del fatto che lo Stato aveva recepito le rimostranze degli stragisti, che avevano così perseguito con successo il loro obiettivo».

Essenziale, perché il messaggio lanciato da mafia e ‘ndrangheta alle istituzioni andasse a buon fine, era che la vera matrice delle bombe e delle sparatorie restasse coperta. Ecco allora le firme della fantomatica sigla Falange armata, utilizzata anche da appartenenti al servizio segreto militare rimasto spiazzato dallo svelamento della struttura clandestina di Gladio, che pure erano alla ricerca di nuovi referenti politici. Le indagini dell’Antiterrorismo hanno portato alla luce tre rivendicazioni calabresi per gli attacchi all’Arma, mentre il pentito Tullio Cannella ha ricordato che dopo le bombe del luglio ’93 a Roma e Milano il boss corleonese Leoluca Bagarella «era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, e disse con soddisfazione e ironia: “Vedi che ora queste cose le appioppano alla Falange armata”, poi disse ancora con tono compiaciuto: “Vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!».

Mafie, massoneria e servizi segreti deviati: la congiura per rovesciare lo Stato. Le stragi calabresi e siciliane con il marchio della Falange Armata. Dal 1990 nacque la "Cosa sola". 'Ndrangheta, Cosa nostra e le altre mafie decidono di fare la guerra allo Stato, scrive Guido Ruotolo il 26 luglio 2017 su "Tiscali Notizie". Quando il maresciallo della stazione dei carabinieri di Polistena aprì la busta, quella fredda mattina del 4 febbraio del 1994, rimase di stucco. Imprecò ma non capì. Lesse anche la firma «Falange Armata» e rimase disorientato. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi - era scritto con il normografo, con un carattere tremante su quel foglio di carta stropicciato - uccisi sull'autostrada. È un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine…cornuti e bastardi e figli di puttana». Non capirono i carabinieri, e neppure gli inquirenti quella rivendicazione. E neppure quelle tre telefonate tutte dello stesso tenore: «Questo non è che l'inizio di una strategia del terrore».

Era il 18 gennaio del 1994 quando sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. E prima, nella notte tra l'1 e il 2 dicembre del 1993, e dopo, il 1 febbraio del 1994, altri quattro carabinieri rimasero feriti. Tutti colpiti da una stessa mitraglietta M12. Uno dei due esecutori materiali degli attacchi ai carabinieri spiegò che quegli omicidi o tentati omicidi furono fatti per impedire che quelle pattuglie intercettassero tre distinti carichi di armi. Anche per la mancata strage di via Fauro a Roma, l'autobomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, il 14 maggio del 1993, e poi per le stragi di Firenze, Roma e Milano, arrivarono rivendicazioni telefoniche della Falange Armata. Mai la Ndrangheta e Cosa nostra avevano rivendicato un omicidio, una strage. E ora, leggendo le 976 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria, contro il boss di Brancaccio, Palermo, Giuseppe Graviano, della cupola di Cosa nostra, e Rocco Santo Filippone, esponente di spicco della Ndrangheta dei Piromalli, quali mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, si scopre che furono proprio Cosa nostra e la Ndrangheta a rivendicare le stragi e gli attentati firmandosi Falange Armata.

L'ipotesi (che sarà approfondita da nuove indagini) della Procura reggina, del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha coordinato le indagini della squadra mobile e dell'Antiterrorismo, è che furono uomini dell'ex Sismi, in particolare esponenti «del VII Reparto cosiddetto “OSSI” che, fino a pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si occupava di Stay Behind, (Gladio, l'organizzazione paramilitare che doveva fronteggiare una eventuale invasione comunista, ndr) che, evidentemente, volevano destabilizzare il Paese creando un nuovo allarme terroristico. Costoro, che per anni avevano operato agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla “Falange Armata”. Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatta propria anche da Cosa nostra, nel corso della riunione di Enna (1991)».

Le indagini reggine aprono squarci e scenari mai coltivati prima, né a Reggio Calabria né a Palermo, Firenze e Caltanissetta, dove le procure hanno indagato sulle stragi di Palermo e del Continente e sulla trattativa Stato-Mafia. E questi scenari in sostanza ipotizzano che le varie mafie, anche la camorra e la Sacra corona unita, oltre che la Ndrangheta e Cosa nostra abbiano deliberato una strategia comune di attacco eversivo e terroristico contro lo Stato.

Per non essere equivocati, il gip ricorda che «la matrice stragista (il riferimento è ai tre attacchi alle tre pattuglie di carabinieri, ndr) frutto di un accordo tra Cosa nostra e la Ndrangheta, ha l'obiettivo di rompere con la vecchia classe politica e colpire le istituzioni e la società civile, nell'ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all'applicazione del 41 bis». Forse è giunto il momento di mettere in archivio vecchie «certezze». Intanto, dobbiamo retrodatare, e di molto, all'agosto del 1990, la riunione in cui la Ndrangheta che parla con Cosa nostra (un summit tra Ndrangheta e Cosa nostra si era già svolto a Milano) comunica al suo “popolo” che la strategia comune in via di definizione prevede una offensiva mia vista prima contro lo Stato.

Antonino Fiume, l'autista del boss (“capo crimine”) reggino, Giuseppe De Stefano, mette a verbale che nell'estate del 1990 al Villaggio Blu Paradise, in provincia di Vibo Valentia, già si parlava di adesione alla strategia stragista di Cosa nostra. E una conferma l'abbiamo con la decisione di rivendicare gli attentati con la firma di Falange Armata. «Sul finire del 1990 la Ndrangheta utilizza la rivendicazione falangista in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (Lodi, 11 aprile 1990), compiuto dal gruppo di fuoco lombardo dei Papalia perché l'educatore aveva scoperto i rapporti che lo stesso Papalia aveva intessuto con gli apparati di sicurezza». In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha ricordato che i pentiti attribuiscono a Antonio Papalia la decisione di rivendicare l'omicidio Mormile con la sigla Falange Armata: «L'indicazione di utilizzare la sigla in questione - sostiene il gip - veniva dai servizi di sicurezza, Il Papalia, infatti, era persona scarsamente scolarizzata e del tutto priva di strumenti culturali, pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo».

Quella presentata ieri in conferenza stampa dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, dal procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho e dagli investigatori della questura di Reggio guidata da Raffaele Grassi, è solo un frammento di una inchiesta che deve ancora esplorare nuovi territori. A partire dall'omicidio del sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l'accusa contro i capi mafia condannati all'ergastolo nel maxi processo a Cosa nostra. Le carte reggine lasciano intravedere anche scenari politici che maturano alla fine delle stragi del 93, cioè dell'inizio del '94 con il fallito attentato e contro i carabinieri. Ci sono pentiti che raccontano che ben prima della stagione delle leghe meridionali di Cosa nostra (Sicilia libera che si presentano alle elezioni provinciali di Palermo e Catania nell'autunno del 1993), c'era stata quella della Ndrangheta con Calabria libera. E i magistrati reggini vogliono capire perché la famosa riunione tra i movimenti indipendentisti e leghista meridionali a cui aderiscono Livio Gelli e lo stesso Vito Ciancimino si svolge a Lamezia Terme. E perché Totò Rina sceglie l'aula del Tribunale di Reggio Calabria per pronunciare il proclama contro i «tragediatori», i Lentini, Caselli, Violante. Insomma, l'inchiesta di Reggio sembra un trattore diesel. Cammina piano ma vuole arrivare molto lontano.

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni: "Strategia comune di 'ndrangheta e Cosa nostra per le stragi mafiose". Blitz condotto dalla Direzione distrettuale antimafia. In manette due elementi di vertice: sono tra i mandanti degli attacchi contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Le tre riunioni "preparatorie" e il racconto di Spatuzza su un fallito attentato a Roma, scrivono Fabio Tonacci ed Alessia Candita il 26 luglio 2017 su "La Repubblica". Se la procura di Reggio Calabria ha visto giusto, un pezzo di storia d'Italia va riscritto. Un pezzo delicatissimo e cruciale, a cavallo tra il 1993 e il 1994, quando l'assetto dei partiti fu rivoluzionato dalla discesa in campo di Forza Italia e nacque la Seconda Repubblica. Secondo i magistrati, infatti, non furono solo i Corleonesi a compiere le "stragi continentali", con le bombe in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma: alla strategia terroristica di destabilizzazione dello Stato partecipò, su richiesta di Cosa Nostra, anche la 'ndrangheta, con tre attentati in Calabria che lasciarono a terra i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo (18 gennaio 1994) e ne ferirono gravemente altri due. L'inchiesta si chiama, non a caso, "'ndrangheta stragista". E' il frutto di un lavoro durato più di quattro anni, a cui si sono dedicati principalmente il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, e i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria. Sono stati riascoltati decine di pentiti e collaboratori di giustizia, tra cui Antonino Lo Giudice e Giovanni Brusca. Decisive per rileggere i fatti di quel biennio sono state le dichiarazioni rese in altri processi da Gaspare Spatuzza, protagonista degli anni di sangue. Questa mattina è stato arrestato nella sua casa di Melicucco Rocco Santo Filippone, 77 anni, a capo del mandamento tirrenico della 'ndrangheta ai tempi delle stragi e tuttora "vertice della cosca Filippone, collegata alla più potente famiglia dei Piromalli di Gioia Tauro, al quale è demandato il compito di curare le relazioni con gli altri capi clan". Sono in corso una ventina di perquisizioni in tutta la regione. Un mandato di arresto è stato notificato in carcere anche a Giuseppe Graviano, il capo del mandamento palermitano di Brancaccio detenuto a Terni e "coordinatore" delle stragi continentali. L'alleanza 'ndrangheta-Cosa Nostra per mettere in ginocchio lo Stato e sostituire la vecchia classe politica "divenuta inaffidabile" si consolidò attraverso loro due.

Fu il boss dei boss Totò Riina, secondo gli inquirenti, a decidere di chiedere alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia del terrore. Dopo il suo arresto nel gennaio 1993, seguito alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si tennero nell'autunno di quell'anno almeno tre importanti riunioni in Calabria tra mafiosi e 'ndranghetisti: una in un villaggio turistico in provincia di Vibo Valentia, cui parteciparono tutti i capi delle cosche; una a Melicucco (alla presenza forse dello stesso Giuseppe Graviano); l'ultima a Oppido Mamertina. Territorio dei clan Mancuso, dei Pesce, dei Mammoliti ma soprattutto dei Piromalli, quelli che più avevano stretto i rapporti con i Corleonesi. I calabresi decisero di aderire al piano dei siciliani. E per questo organizzarono tre attentati contro i carabinieri, cioè contro quell'istituzione dello Stato che aveva materialmente arrestato Totò Riina. Il primo, nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1993, quando il commando composto da Giuseppe Calabrò, Consolato Villani (entrambi già condannati) e Mimmo Lo Giudice (deceduto), tentarono di uccidere due carabinieri a Saracinello con un mitra M12, senza riuscirsi e senza neanche ferirli; il secondo, il 18 gennaio 1994, quando con la stessa arma furono ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, gli appuntati Fava e Garofalo; il terzo, l'agguato ai due carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, che non morirono ma rimasero gravemente feriti.

E' in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, affiliato della famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano. Ai magistrati ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Graviano al cafè Doney di via Veneto, a Roma, durante il quale il boss gli fece capire che dovevano riprendere l'iniziativa, con qualcosa di sconvolgente. "Abbiamo il Paese in mano, si deve fare per dare il colpo di grazia", mette a verbale Spatuzza. "Graviano mi dice che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150". Quel luogo era lo Stadio Olimpico di Roma. Il giorno fissato, secondo Spatuzza, era "il 22 gennaio 1994". Un sabato. La macchina, una Lancia Thema riempita con 120 kg di tritolo, 30 kg in più rispetto a quello usato in via D'Amelio. Ma il telecomando non funzionò. Nonostante lo stesso Spatuzza premette più volte il pulsante, l'auto (che era posizionata in viale dei Gladiatori, vicino alle camionette dei carabinieri) non esplose.

Nell'indagine "ndrangheta stragista", cui hanno partecipato anche il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, il pm Antonio De Bernardo, i poliziotti del Servizio centrale operativo, dell'Antiterrorismo della polizia di Prevenzione, sono diversi "i fili" che vengono tirati dagli inquirenti. Nelle mille pagine dell'ordinanza cautelare, infatti, si ricostruisce l'intera strategia di destabilizzazione dello Stato, a cui erano interessati in quei primi anni Novanta non solo 'ndrangheta e Cosa nostra: vengono approfonditi i legami delle cosche con la massoneria, gli apparati deviati dei servizi segreti (possibili ispiratori della strategia stragista) e l'appoggio che le mafie offrirono alle leghe meridionali. Emergono anche gli interessi della galassia dell'eversione nera e l'influenza che tutto ciò ebbe sul nascente assetto politico dei partiti. "Sullo sfondo delle stragi - scrivono i magistrati - appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2 ancora in cerca di rivincite".

Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia. L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'inchiesta anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra). Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando. Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare. Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato. È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord. Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico. Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese. La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti. Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto. Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga. Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio. Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero. Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero. Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato. La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione. È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti. L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.

Strategia comune 'ndrangheta e mafia, l'atto di accusa dei giudici. Dopo il blitz dell'Antimafia che ha portato agli arresti degli organizzatori degli omicidi dei carabinieri del '94, ecco la ricostruzione degli investigatori, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'ordinanza di custodia cautelare che accusa Giuseppe Graviano, Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio, di 45 anni, inizia la sua ricostruzione dalla pagina oscura dei tre assalti ai carabinieri nella zona di Reggio fra dicembre 1993 e febbraio 1994. Questa vicenda è stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale firmato dall'allora aggiunto Gianfranco Donadio. Le dichiarazioni del killer dei carabinieri, Giuseppe Calabrò, incaricato dallo zio Rocco Filippone, rappresentano una sostituzione del movente tipica dei depistaggi. Calabrò disse che Fava e Garofalo erano stati uccisi perché seguivano l'automobile carica di armi di Calabrò, guidata da Consolato Villani, imparentato con la famiglia Lo Giudice, al tempo minorenne e oggi pentito. In realtà, le tre aggressioni condotte in quaranta giorni segnalano il coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista di Cosa Nostra che aveva colpito a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).

I Graviano di Brancaccio erano già legati per affari di droga alle 'ndrine della Tirrenica e chiesero ai calabresi di partecipare alle stragi volute da Totò Riina in modo da “garantire e realizzare i desiderata di Cosa Nostra” nel contesto del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con le elezioni fissate il 28 marzo 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi che in Calabria farà eleggere Amedeo Matacena junior, primula rossa della latitanza a Dubai dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisognava sostituire, dicono i magistrati: “una vecchia ed ormai inaffidabile classe politica con una nuova, diretta emanazione delle mafie”. E aggiungono: “i tre delitti, nella la loro apparente incomprensibilità, come si vedrà, avevano dei tratti e delle tracce comuni, presentavano delle simmetrie tali, da indurre a ritenere, ragionevolmente, che i loro autori non agissero a caso o per sanguinaria imperizia, ma, piuttosto, seguissero un copione ben studiato, un preciso cliché, che, per la verità, avrebbe potuto consentire, già all'epoca dei fatti, a chi indagava su quelle vicende, di poterle ricondurre ad un medesimo disegno criminale di stampo mafioso/ terroristico”. E più oltre: “Sia l'opinione pubblica, sia la classe dirigente del paese, sia gli appartenenti all'Arma, dovevano intendere che il solo fatto di indossare una divisa rappresentava un rischio che trasformava il militare in un bersaglio. Ed è qui, proprio qui, attraversando questa linea di confine, che si passa dalla logica criminale a quella terroristica. E venendo ad un episodio più risalente nel tempo, in questa logica terroristica, come sarà poi analizzato, a dimostrazione dell'ampiezza del disegno criminale di cui ci si occupa, si poneva, anche, l'omicidio dell'Ispettore di PS Giovanni Lizzio in servizio presso la Questura di Catania. Tale delitto avvenne il 27.7.1992 a Catania per mano di sicari della famiglia Santapaola che così, all'epoca, intesero aderire alla richiesta dei Corleonesi di attacco frontale allo Stato”.

“L'elaborazione di tale disegno eversivo (servente rispetto a quello "politico") manifestò i suoi primi segnali di esistenza ben prima dell'inizio della cd stagione stragista in un periodo che può essere ricompreso fra due eventi determinanti nella presente ricostruzione, e cioè fra la prima rivendicazione ( avvenuta nell'autunno del 90) a nome delle sedicente organizzazione eversiva "Falange Armata", avvenuta in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, delitto consumato vicino Milano, nell'Aprile del 1990, per mano di sicari della potentissima cosca calabro-lombarda dei Papalia che su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza utilizzò quella sigla per rivendicare il delitto, e le riunioni di Enna, dell'estate-autunno 1991, in cui i vertici di Cosa Nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista programmando che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla "Falange Armata". Giova, ribadire nuovamente, e sottolineare che, anche in relazione agli episodi oggetto della presente trattazione risulta la rivendicazione "Falange Armata"... la stessa sigla Falange Armata — poi utilizzata per rivendicare gli attentati materialmente eseguiti dalle mafie - è stata ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose... il fatto che lo stesso Paolo Fulci, già direttore del Cesis (proveniente però da una carriere diversa, quella diplomatica) in quegli anni fu vittima (precisamente in un periodo immediatamente successivo al disvelamento della struttura Gladio, ma precedente alla stagione stragista) di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili ai servizi di sicurezza (e, in particolare, come vedremo, riconducibili alla cd VII Divisione del Sismi — struttura che istituzionalmente si era occupata di organizzare e sovraintendere a stay behind e, quindi alla struttura Gladio)”.

“Per il numero e lo spessore dei soggetti intervenuti quella di Nicotera Marina fu sicuramente la più importante e tuttavia, altri incontri (che per comodità possiamo definire "satellite") su questo tema messo sul tavolo dai corleonesi, si svolsero in Calabria come risulta da numerose dichiarazioni acquisite sul punto. Ed è importante dire che in nessuna delle riunioni in questioni la `Ndrangheta prese, ufficialmente, una posizione netta. Risulta che non vi fu mai, all'interno della `Ndrangheta unitaria, una unanimità di vedute e che almeno all'epoca ed ufficialmente (parliamo di un periodo che va dal 1990, passando per il 1991- in coincidenza, sostanzialmente, con la riunione di Enna di cui si è detto, fino all'estate del 1992, cioè subito dopo la strage di Via D'Amelio, epoca in cui si svolse l'incontro plenario di Nicotera Marina) venne in sostanza presa - salve alcune eccezioni che poi vedremo - una posizione attendista. Insomma la `Ndrangheta nel suo complesso, intesa come forza unitaria, cioè, per motivi tattici, sia esterni (non si poteva opporre un rifiuto agli amici siciliani) che interni (si è detto che non vi era unanimità di vedute) fece intendere ai siciliani di essere pronta a collaborare se specificamente richiesta e se necessario, senza, però, attivarsi motu proprio. La partita, in realtà, come vedremo, si giocava sottobanco. Infatti, nel complessivo attendismo (quando non scetticismo) della `Ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti, invece, quelle che ruotavano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri - che, non a caso, avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata ( che in Italia aveva un nome e cognome, certificato da sentenze e da atti di di Commissioni Parlamentari d'Inchiesta : Licio Gelli ) —si muovevano nell'ombra, all'insaputa del resto della consorteria. Davano rassicurazioni agli amici siciliani fino a organizzare la riunione conclusiva di Melicucco a ridosso degli agguati ai Carabinieri, in cui si dava il via operativo agli attacchi armati per cui è richiesta cautelare”.

Madre contro figlio. Il ruolo di Filippone Maria in relazione alla ritrattazione di Calabrò Giuseppe. La correttezza dell'assunto appena riportato trova conferma nel contenuto della nota informativa della locale Squadra Mobile, del 15 maggio 2015 (successivamente integrate con ulteriori note informative di completamento e rettifica parziale, che si allegano alla presente) che, ad evasione di specifica delega verbale di questa Direzione Distrettuale Antimafia, ha collazionato e documentato alcuni specifici passaggi dichiarativi, registrati in sede di intercettazione telefonica e ambientale audio-video in carcere, riferibili a CALABRO' Giuseppe54 (operazioni autorizzate nell'ambito del presente procedimento penale, giusta R.I.T. 262/14 D.D.A., in data 10.02.2014). Giova precisare, peraltro, che nel corso della disposta attività di intercettazione, gli operatori di Polizia Giudiziaria hanno avuto modo di appurare fattivamente tutta una serie di criptici rimandi lessicali caratterizzati spesso da toni allusivi che, interfacciati con le risultanze probatorie già evidenziate nel corpo degli ulteriori atti di indagine, hanno consentito di mettere in evidenza le evidenti pressioni esercitate dai familiari del CALABRO', ed in particolare dalla di lui madre FILIPPONE Maria Concetta, al fine di costringere lo stesso a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in merito ai fatti per cui si procede, interamente ricavabili dal verbale di trascrizione dell'interrogatorio dal predetto reso in data 07 maggio 2014 presso la Casa Circondariale di Tempio Pausania (Olbia), in qualità di testimone. Tale programma delittuoso non risulta in alcun modo privo di rilevanza per il sol fatto che la prima missiva di timida ritrattazione sia stata inviata a questo Ufficio in data 10 maggio 2014 e, quindi, in data antecedente alle conversazioni di seguito riportate. Tale primo accenno del CALABRO' alla sua intenzione di ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in data 7 maggio 2014 va letto, invero, alla luce della precedente missiva dell'8 maggio 2014 in cui il CALABRO' aveva comunicato a questo Ufficio di voler confermare e rafforzare il suo contributo narrativo a favore della condivisa strategia stragista di `Ndrangheta e Cosa Nostra. La ritrattazione del 10 maggio 2014 è, quindi, il frutto della fortissima tensione emotiva che vive il CALABRO' nel periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni gravemente accusatorie rese a questo Ufficio. Appare fisiologico, invero, che il predetto dichiarante oscilli tra i propositi collaborativi e il timore di coinvolgere i propri prossimi congiunti in vicende di elevatissima rilevanza penale: tale assunto trova conferma letterale nelle parole che il CALABRO' pronuncia in data 8 maggio 2014: "Sono cosciente che, al termine delle mie affermazioni, molti miei congiunti saranno a rischio e, qualora ciò non dovesse avvenire, comunque tutti si allontaneranno da me rinnegando il ‘grado di parentela'. Appare evidente che il dichiarante senta un peso enorme sulle proprie spalle, che si traduce in un proposito collaborativo ancor più forte il giorno successivo alle dirompenti dichiarazioni del 7 maggio 2014 per poi trasformarsi dopo qualche giorno in un ritorno al desiderio di non provocare ricadute pesantissime sui soggetti chiamati in correità. Solo quando si registra l'intervento minaccioso e deciso della madre, FILIPPONE Maria Concetta, il detenuto, come di seguito documentato, abbandona definitivamente i suoi propositi collaborativi a favore dell'Autorità Giudiziaria — destinati a fornire ulteriori elementi di prova utili nell'ambito della presente indagine — per adottare nuovamente la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione ancora residuo nel più assoluto silenzio. La palese condotta intimidatoria consumata da FILIPPONE Maria Concetta è da ricondurre in primo luogo alla voluta e programmata delegittimazione processuale del CALABRO', in grado di pregiudicare il corretto inquadramento delle complesse dinamiche criminali sottostanti alle azioni delittuose consumate in provincia di Reggio Calabria ai danni di appartenenti all'Arma dei Carabinieri e, quindi, di individuare nella figura del fratello FILIPPONE Rocco Santo e nel nipote FILIPPONE Antonino le ulteriori figure a cui riconoscere un ruolo di assoluto rilievo causale nella consumazione dei gravissimi delitti oggetto di contestazione in questa sede... Sin dal suo esordio "tutto dietro…di ritornare tutto indietro.." la donna condiziona le decisioni operative del figlio, esortandolo a tenere fede — nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso — "fede... fedeltà...fedeltà", a comportarsi stoicamente in un certo modo: "bocca chiusa... e non sbagli mai".

Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfrancesco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Aggiornamento del 26 luglio 2017. La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha. Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.

Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.

Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre. Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta.

«Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.

Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.

Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.

A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.

I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.

Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano.

Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.

La 'ndrangheta stragista che voleva attaccare lo Stato. In carcere i boss Filippone e Graviano, mandanti dell'omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo. Quei delitti, svela la Dda, erano parte di una strategia mirata a destabilizzare l'Italia. Gli incontri con gli emissari di Riina e il sì dei clan al progetto di aggressione alla democrazia. Le rivelazioni "calabresi" di Spatuzza, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Negli anni Novanta c’era un piano per destabilizzare l’Italia ma a portarlo avanti non è stata solo Cosa Nostra. Anche la ‘ndrangheta ha fatto la sua parte. Per questo motivo, questa mattina la Squadra Mobile di Reggio Calabria ha stretto le manette ai polsi di due elementi di spicco dei clan calabresi e siciliani. In carcere è finito Rocco Santo Filippone, elemento organico al potentissimo clan Piromalli di Gioia Tauro, ed è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento di Brancaccio, Palermo. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati nei pressi dello svincolo di Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati che nei giorni successivi sono quasi costati la vita ad altri quattro loro colleghi, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio Calabria il 1 febbraio, e Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti miracolosamente illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del ’93. Tutti delitti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore Lombardo insieme al sostituto della Dna, Francesco Curcio – che si inscrivono in una strategia di attacco allo Stato, che dopo i brutali attentati costati la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha continuato a mietere vittime anche fuori dalla Sicilia. E non solo a Firenze, Roma e Milano. C’è stata una tappa calabrese nella strategia degli “attentati continentali”, concordata dai vertici delle mafie tutte. Un piano funzionale alla costruzione dello Stato dei clan. Sono in corso di esecuzione anche numerose perquisizioni in diverse regioni d’Italia. Alle operazioni eseguite dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, dal Servizio Centrale Antiterrorismo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, partecipano anche i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sala convegni della Questura di Reggio Calabria, alla presenza del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti dei magistrati inquirenti e degli investigatori. A oltre vent’anni di distanza dal brutale omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dal ferimento rimasto senza perché dei loro quattro colleghi, si ricompone in un quadro inquietante quello che all’epoca fu considerato un delitto da balordi. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative. Perché fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata. Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie tutte, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e galassia nera. Tutti responsabili – affermano i magistrati di Reggio Calabria – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni, la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo al potentissimo casato mafioso dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo, c’erano i massimi esponenti dell’epoca della ‘ndrangheta calabrese e gli “emissari” siciliani di Totò Riina. Storicamente legato ai Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che vanta legami con la Sicilia fin dalle prime decadi del Novecento, il boss siciliano si era rivolto a loro per “convincere” i massimi vertici delle ‘ndrine ad aderire alla strategia degli attacchi continentali.

IL PROGETTO Questo tuttavia – emerge dall’indagine della Dda reggina – non era che un aspetto parziale di un piano ben più ampio e complesso, da maturare in più fasi, iniziato a maturare qualche anno prima. A svelarlo negli anni scorsi erano stati collaboratori di giustizia come Antonio Galliano e Pasquale Nucera, che avevano parlato ai magistrati del progetto delle mafie di «destabilizzare lo Stato». Un progetto cui la ‘ndrangheta non ha lavorato da sola.

«Parallelismo inquietante tra politica e strategia stragista». Il procuratore aggiunto di Reggio, Lombardo, durante la conferenza stampa sugli arresti di Filippone e Graviano. «Dopo la vittoria Forza Italia diventa il referente delle mafie». Curcio: «Vittime scelte perché simboli dello Stato». Roberti: «Con l’indagine si è aperto uno squarcio di verità importante per la giustizia, le vittime e la democrazia», scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". «Oggi collochiamo la ‘ndrangheta nel suo giusto ruolo». È soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. A poche ore dall’esecuzione dell’indagine “Ndrangheta stragista”, dalle sue parole traspare l’orgoglio per un’inchiesta complessa, da più parti osteggiata perché considerata “visionaria” o “romanzata” ma in cui tanto la Dda reggina, come la Procura nazionale antimafia, hanno sempre creduto. Un’inchiesta che oggi riscrive un pezzo della storia dell’Italia repubblicana. Non è vero, come per anni è stato da più parti sostenuto, che la ‘ndrangheta abbia detto no alle richieste di partecipazione alla strategia stragista. Al contrario, vi ha partecipato attivamente. E per una motivazione molto semplice. Quella lunga scia di sangue voleva essere prodromica a un mantenimento dell’influenza delle mafie tutte sullo scenario politico italiano. L’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e il tentato omicidio di altri quattro militari dell’Arma in quei tumultuosi anni Novanta dovevano essere un messaggio, o meglio parte di un messaggio. «Le vittime di quegli attentati non sono state scelte, al contrario di quanto successo in passato, perché avessero svolto una particolare indagine o avessero particolari meriti, ma perché - spiega il sostituto procuratore della Dna, Francesco Curcio - erano un simbolo dello Stato». E quello Stato, che all’epoca aveva il volto di una classe politica che proprio in quel momento cadeva sotto i colpi di Tangentopoli, per i clan era sempre stato “cosa loro”. E doveva continuare ad esserlo, nonostante i cambiamenti di facciata. «Uno degli aspetti più inquietanti di questa ricostruzione – dice al riguardo il procuratore aggiunto Lombardo - è la presenza di un parallelismo inquietante fra vicende politiche di quegli anni e strategia stragista». Le bombe e i morti degli anni delle stragi continentali, cui oggi si aggiungono anche gli attentati ai carabinieri in terra calabrese, non sono dunque stati semplicemente espressione della feroce reazione dei corleonesi all’arresto di Totò Riina. Per le mafie tutte – e questo è uno dei più importanti dati che emerge dall’inchiesta – erano funzionali ad un piano di lungo periodo. E che interessava tutti i clan che già da tempo avevano iniziato a parlarsi e a consorziarsi, soprattutto in territori di nuova colonizzazione come la Lombardia. Per non pestarsi i piedi vicendevolmente, lì i clan avevano iniziato a parlarsi. E in questo modo avevano capito di essere più forti insieme. Per questo, quando gli storici referenti istituzionali del loro dominio iniziano a venir meno è insieme che decidono di reagire. Si tratta di una strategia decisa ai massimi livelli. È stata definita in una serie di incontri, organizzati in Calabria e non solo, che hanno visto al tavolo i massimi vertici delle mafie. Ma soprattutto si tratta di una strategia che doveva rimanere segreta. Non a caso, molti di quegli omicidi e di quegli attentati sono stati firmati come “Falange armata”. E non a caso la base, i picciotti, i piccoli capi di ‘ndrangheta non ne hanno mai saputo nulla per scelta cosciente della direzione strategica dei clan. «La logica – spiega Lombardo - era quella di gestire un discorso di livello molto alto, dunque come aveva fatto Cosa Nostra, anche la ‘ndrangheta doveva mantenere il segreto su quale fosse stato il suo ruolo in quella stagione». Perché la “strage lenta” doveva rimanere segreta? In primo luogo, perché per essere efficace doveva provocare un diffuso sentimento di instabilità e paura, secondo perché solo in pochi, ben selezionati referenti dovevano essere in grado di cogliere la portata e il reale messaggio sotteso a quell’attacco. «Ci troviamo di fronte – dice Lombardo - a un’organizzazione criminale che tiene conto delle evoluzioni politiche, che aderisce prima ai movimenti autonomisti, fino alla riunione di Lamezia Terme del ’93, quindi abbandona il progetto autonomista nel momento in cui la nuova formazione politica, quindi Forza Italia diventa il referente di determinati ambienti e si avvia una stagione del tutto nuova». Gli attentati si fermano, in Italia torna la pace, le mafie sembrano ritirarsi in buon ordine. E non solo loro. Perché anche altri attori hanno partecipato alla strategia stragista. Per i magistrati, anche settori dei servizi di informazione un tempo legati a Gladio e al piano Stay behind, ben conosciuti e comodi in ambiente piduista, nei tumultuosi anni Novanta stavano vedendo crollare le fondamenta del loro potere. Il blocco sovietico si stava liquefacendo, gli assetti internazionali stavano cambiando, dunque anche le condizioni alla base del loro straordinario potere. Per questo, si ipotizza nell’inchiesta della Dda reggina, anche loro, insieme alla galassia dell’eversione nera con cui hanno sempre avuto contatti, hanno avuto interesse a lavorare con le mafie alla strategia di destabilizzazione. A rivelarlo non sono soltanto innumerevoli collaboratori che hanno presenziato agli incontri fra uomini dei clan e agenti dei servizi, ma anche la stessa sigla Falange armata. Presa in prestito forse dalla falange di franchista memoria. «Quando abbiamo chiesto ad un collaboratore che aveva partecipato all’omicidio Mormile se sapesse il significato della parola Falange, se il suo capo Domenico Papalia, glielo avesse spiegato – ricorda Curcio - lui ci ha risposto “mi hanno detto di rivendicare così”. Attraverso una serie di ulteriori dichiarazioni, abbiamo scoperto che risultano contatti fra questo Domenico Papalia con soggetti appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca». E non isolati ad un unico caso o un unico omicidio. La conferma viene dall’interno degli stessi apparati di intelligence. «Una straordinaria conferma è arrivata dall’ambasciatore Fulci, capo del Cesis proprio in quel periodo storico, minacciato dalla Falange Armata – spiega al riguardo il sostituto procuratore della Dna - Lui si convinse che queste minacce provenissero proprio dall’interno dei servizi. Per questo il tema di ulteriori indagini dovrà essere proprio questo: individuare i soggetti che si sono incontrati con esponenti della criminalità organizzata, quanto meno per suggerire strategie». Ma non è l’unico filone che i magistrati intendono seguire. «Con quest’indagine – dice il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è stato aperto uno squarcio estremamente importante di verità ed è estremamente importante per la giustizia, per le vittime e per tutto il nostro Paese e gli assetti democratici del nostro Paese. Fare chiarezza continuerà ad essere nostro obiettivo e nostro dovere anche in riferimento ad altre vicende che sono oggi oggetto di indagine e che si iscrivono in quella stagione, come l’omicidio del collega Scopelliti». Per il procuratore capo della Dna «fu ucciso in prevenzione, come alcuni anni prima era stato ucciso il collega Saetta». Tutti tasselli – promette – «che vanno anche oltre la stagione stragista e si vanno componendo».

Perquisizione per Bruno Contrada. Il provvedimento rientra nell'inchiesta della Procura di Reggio Calabria sugli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo. Per l'ex numero due del Sisde la Cassazione aveva revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, "Il Corriere della Calabria". La Procura di Reggio Calabria ha disposto una perquisizione in casa di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde condannato per concorso in associazione mafiosa per cui, nelle scorse settimane, la Cassazione aveva revocato la condanna. La perquisizione rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla. Nelle oltre mille pagine di ordinanza di custodia cautelare, non appaiono rifermenti diretti all’ex numero 2 del Sismi. Ma il suo nome c’è ed è legato a quello di Giovanni Pantaleone Aiello, ex agente della Squadra Mobile di Palermo «legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati». Di Aiello hanno parlato dopo anni di esitazione per serio timore di ritorsioni i collaboratori di giustizia Nino Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. «Lo Giudice era preoccupato non di un fantasma, ma di un soggetto (e di tutti i collegamenti che a questo facevano capo) in carne ed ossa che lui ben conosceva la cui pericolosità, evidentemente, considerava ben maggiore di quella di tutti gli altri soggetti (che non erano propriamente delle mammole) che, fino a quel momento, aveva chiamato in correità». Per il collaboratore - si legge nelle carte - Aiello «risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate». L’ex agente – indagato e perquisito nell'ambito di questo procedimento – è stato indicato da Villani e Lo Giudice come “Il mostro”, uomo legato ad ambienti dei servizi che avrebbe avuto un ruolo in una serie di fatti di sangue. 

A caccia di prove in casa Contrada. Controlli e misteri: esito negativo, scrive di Riccardo Lo Verso Mercoledì 26 Luglio 2017 su "Live Sicilia". I poliziotti della Squadra mobile di Reggio Calabria sono piombati a casa palermitana di Bruno Contrada nel cuore della notte. Quaranta minuti dopo le quattro. A caccia della prova dei rapporti oscuri fra l'ex poliziotto e Giovanni Aiello, soprannominato "faccia da mostro" per la profonda cicatrice che ne deturpa il viso. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello, oggi in pensione, presenza costante nei misteri d'Italia, avrebbe convinto l'ex carabiniere Saverio Tracuzzi Spadaro a mentire ai pm sul suo rapporto con Aiello e sul ruolo del poliziotto nelle file della 'Ndrangheta. La perquisizione a casa Contrada, che ha avuto esito negativo, rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. Diversi i punti che hanno condotto i pm fino a casa dell'ex numero tre del Sisde a cui la Cassazione ha di recente revocato gli effetti della condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Contrada è risultato in contatto con l'ex agente di polizia Guido Paolilli che lo aveva chiamato per commentare le sue dichiarazioni ai pm su Aiello. Sia "faccia da mostro" che Paolilli sono stati indagati a Palermo per l'omicidio dell'agente Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie nel 1989. Per Paolilli, che rispondeva di favoreggiamento, la Procura chiese ed ottenne l'archiviazione. Fu uno dei primi a indagare sul delitto Agostino, privilegiando la pista passionale. Aiello, accusato di omicidio, è ancora indagato dopo l'avocazione del fascicolo da parte della procura generale, decisa dopo diverse richieste di archiviazione da parte dei pm di Palermo. Contrada viene indicato dai magistrati reggini come la persone “più strettamente legata ad Aiello nella polizia di Stato”. Fonte dell'informazione sarebbe "una persona pienamente attendibile che non si nomina per evidenti motivi di cautela processuale". In passato è stato il pentito Nino Lo Giudice, detto il nano, a raccontare che Aiello gli fu presentato dal capitano Tracuzzi della Dia, condannato in appello a 10 anni perché considerato colluso con la 'Ndrangheta. Lo Giudice aggiunse che Aiello schiacciò il telecomando che innescò l'esplosione per la strage di via D'Amelio, e di avere saputo dallo stesso Aiello del suo ruolo nell'omicidio di Agostino e della moglie. Solo che quando iniziò a riferirlo ai magistrati sarebbe stato minacciato dagli uomini dei servizi segreti. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, l’avv. Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla.

Sbatti la faccia di mostro in prima pagina, scrive "Il Foglio" il 27/07/2017. Il passato che non passa e l’eterno ritorno delle accuse a Contrada. Avrà pensato a un incubo, o forse a mente sarà corsa alla vigilia di Natale del 1992, quando venne arrestato dai suoi colleghi con l’infamante accusa di essere un amico della mafia. Ma ormai quella dovrebbe essere storia passata, dopo venticinque anni di Calvario giudiziario fatto di condanne e assoluzioni, conclusosi poche settimane fa con la revoca della condanna da parte della Cassazione ma dopo che la pena di 10 anni di carcere è stata già pagata in pieno. E invece il suo non era un Calvario, ma una fatica di Sisifo: ogni volta che riesce a spingere il masso fino in cima al monte, il masso rotola giù e Bruno Contrada deve andare a riprenderselo. Anche a 86 anni. È successo infatti che l’ex numero due del Sisde è stato svegliato in piena notte per una perquisizione nella casa in cui vive con la moglie malata. Il blitz è stato ordinato dalla procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta – parallela a quella palermitana sulla Trattativa – sulla “ndrangheta stragista”, per gli attentati ai carabinieri dei primi anni Novanta. Ma cosa c’entra Bruno Contrada? Nell’ordinanza che accusa i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone quali mandanti della strategia stragista di attacco, l’ex poliziotto non compare direttamente. È coinvolto attraverso Giovanni Aiello, alias “faccia di mostro”, un ex poliziotto ultimamente accusato senza finora alcuna dimostrazione di ogni strage e nefandezza, dagli assassini di poliziotti e carabinieri alle stragi di Capaci e via D’Amelio fino alle bombe sui treni e l’omicidio di un bambino. Ebbene “Faccia di mostro” – che ultimamente ha sostituito il fantomatico Signor Franco nel ruolo di agente segreto supercattivo – sarebbe “legato a Bruno Contrada, sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata e apparati statali deviati”. È l’abbondanza di aggettivi che giustifica il blitz notturno. Ma cosa pensavano di trovare gli inquirenti, a distanza di oltre 20 anni dai fatti, a casa di un vecchio che è stato ingiustamente recluso per 10 anni in carcere? La perquisizione ha portato al sequestro di nulla, niente, nisba. Ma è servita a sbattere, ancora una volta, le facce di mostro in prima pagina.

Bruno Contrada, l'ultimo linciaggio. Il Paese dovrebbe avere la decenza di chiedergli almeno scusa: invece dobbiamo sentire i commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa, scrive Giorgio Mulè il 14 luglio 2017 su Panorama. Ci sono alcuni principi elementari del diritto che non necessitano di una laurea per essere compresi. Se cercate su Wikipedia, appunto, la massima "nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali" troverete questa spiegazione: "Rappresenta una massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione si fonda sull'assunto che non può esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento". Elementare, appunto. Dal che non si capisce perché questo Paese non abbia la decenza di chiedere scusa a Bruno Contrada, che dopo 25 anni di calvario giudiziario si è vista revocata la condanna a 10 anni di carcere (interamente scontata) per concorso esterno in associazione mafiosa: un reato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) era sconosciuto al codice penale. Per esser chiari: non poteva essere arrestato, non poteva essere giudicato, non poteva essere condannato, non doveva soprattutto scontare neanche un giorno di carcere. C'è voluta nel 2015 la Corte europea dei diritti dell'uomo per riportarci a forza dalla bara del diritto alla culla e la Corte di Cassazione, finalmente, ha ora emesso un vagito e revocato la condanna. Ma a Contrada, poliziotto palermitano di gran lignaggio e successivamente alto funzionario dei servizi segreti, nessuno chiede scusa e nessuno ha la parvenza di un rossore: deve invece subire un ulteriore, odioso supplemento di linciaggio. Che consiste in particolare nei commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa. Sono analisi figlie di una visione di "parte" che rimane spesso senza argomenti e si rifugia nel bollare come sconcertante o stupefacente (Antonio Ingroia dixit) la pronuncia della Cedu e della Suprema Corte e arriva a spingersi in una sorta di mascariamento degli operatori del diritto laddove sostiene (Gian Carlo Caselli dixit) che "negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia". A costo di passare per negazionista affermo convintamente che quella del concorso esterno, in verità, è un'enorme impostura perché presuppone che chi aiuta la mafia per nove anni come nel caso di Contrada lo possa fare a intermittenza un po' come quando leggete nelle ricette "q.b.": quanto basta. Si fa un favore a Totò Riina e poi si torna a fare il poliziotto, come se le "famiglie" fossero delle onlus di beneficenza che ricevono ogni tanto delle donazioni e non piuttosto delle schifose e crudeli macchine criminali fondate su un principio assoluto e invalicabile: o sei mafioso o non lo sei, non puoi mafiare a giorni alterni. O si aveva il coraggio (l'ardire) di processare Contrada per associazione mafiosa oppure, come finalmente ha riconosciuto la Cassazione, non si poteva condannare per un reato che non esisteva. Questo pacifico ed elementare principio è lo stesso che proprio alcuni magistrati invocano in questi giorni a proposito di una querelle godibilissima che loro stessi stanno mettendo in scena. La questione è legata alla promozione di un ex parlamentare del Pd, già ministro della giustizia ombra di quel partito, a presidente del Tribunale di Pordenone. Al Consiglio superiore della magistratura stanno volando gli stracci. Piercamillo Davigo e la sua corrente hanno abbandonato per protesta la giunta dell'Associazione nazionale magistrati perché sostengono l'assurdità di promuovere un ex parlamentare mentre si discute di una legge che regolerà in maniera severa le porte girevoli tra politica e toga. La risposta del presidente dell'associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte è stata: "Questa norma più severa al momento non esiste e noi, visto che siamo dei giuristi, ci dobbiamo muovere nel solco del diritto positivo. Pretendere che il Csm faccia un atto illegittimo è veramente una mostruosità logica e giuridica". Bene, esimi giuristi che rivendicate giustamente come insuperabile il diritto a essere giudicati in forza di una norma esistente: prendete il numerino, mettetevi in coda e chiedete scusa a Bruno Contrada.

Perquisito Contrada: «Sono venuti a casa mia alle 4 del mattino e non mi hanno detto perchè», scrive Giulia Merlo il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Accanimento o campagna elettorale? La procura di Reggio ordina il blitz nell’abitazione dell’86enne ex numero due del Sisde: cercavano carte e documenti di 25 anni prima. Alle 4 del mattino del 26 luglio, i poliziotti si sono presentati a casa sua a Palermo, con un ordine di perquisizione della procura della Repubblica del tribunale di Reggio Calabria. Ad aprire la porta hanno trovato Bruno Contrada, 86 anni, Capo della Mobile di Palermo ed ex numero 2 del Sisde, 10 anni scontati tra carcere e arresti domiciliari per un’accusa di concorso in associazione mafiosa poi revocata da una sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno.

Che cosa ha pensato, quando ha sentito suonare il campanello alle 4 del mattino?

«Ero a letto con mia moglie, immobilizzata ormai a tre anni e cardiopatica. La Polizia ha citofonato e, quando si sono presentati, il mio debole cuore ha sobbalzato. Sa, io ho due figli: in quel momento ho pensato che era successo qualcosa a uno di loro. Fino a quando non sono saliti, mi ripetevo «Si tratta di Antonio o di Guido?». Solo quando mi hanno mostrato quel foglio intestato Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, Direzione Nazionale Antimafia, mi sono un po’ rasserenato».

Come ha fatto a rassicurarla il pensiero che la Procura di Reggio cercasse proprio lei?

«Mi ha calmato il pensiero che i miei figli stessero bene. Subito dopo è subentrato l’interrogativo: perché? Era così lontana da me l’idea che potessi ricevere un ordine di perquisizione da Reggio Calabria. Lei deve sapere che io non ho mai prestato servizio in Calabria nè conosco nulla di quella regione. Nella mia carriera professionale mi sono occupato di crimine organizzato e di mafia, ma mai di fatti di ‘ndrangheta».

E quando ha letto l’ordine di perquisizione lo ha capito?

«Leggendo, ho visto che la perquisizione veniva effettuata nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ndrangheta risalenti agli anni Novanta, in particolare con riguardo all’omicidio di due carabinieri nel 1994».

Lei ricorda quei fatti?

«Ne ho avuto notizia quando ero detenuto in custodia cautelare nel carcere militare e so ciò che sanno tutti i cittadini che in quel periodo leggevano i giornali. Voglio ricordare che dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995, per trentuno mesi e sette giorni, io sono stato detenuto: per sedici mesi a Forte Boccea e per 15 mesi e sette giorni nel carcere militare di Palermo. A Palermo hanno addirittura riaperto una struttura dismessa da anni esclusivamente per me, per ricavarci una sola cella per la mia prigionia e i locali per il comando e per gli alloggi dei vigila- tori, trasferendo appositamente 25 uomini dell’organizzazione penitenziaria militare».

Quindi lei non sa nulla? Si parla di una sua connessione con Giovanni Aiello, soprannominato “faccia di mostro”, implicato nelle stragi degli anni Novanta.

«Io so solo che la procura sta indagando sui collegamenti tra mafia e ‘ndrangheta e che la perquisizione è stata disposta per un presunto mio rapporto con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigevo la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. In quegli anni Aiello prestò servizio per circa otto mesi e io lo ricordo vagamente: era uno dei tanti. Io con Aiello non ho mai avuto rapporti, nè personali, nè telefonici, nè tantomeno epistolari».

E quindi per questo è stata disposta la perquisizione…

«Sì, per il fatto che io ero dirigente della Mobile quando lui era stato lì. Le aggiungo che la Polizia ha perquisito anche casa di mio fratello, a Napoli, dove ho ancora la residenza anagrafica. Anche lì sono piombati alle 4 del mattino, spaventandolo moltissimo: mio fratello ha 80 anni ed è anche lui molto malato».

E hanno trovato qualcosa?

«A casa mia l’esito della perquisizione è stato negativo. Hanno cercato fino alle 7 del mattino, io li ho solo pregati di non fare troppo rumore per non svegliare mia moglie, che era sotto effetto di tranquillanti. Si sono concentrati sul mio archivio, in cui conservo le carte di 25 anni di processo e una raccolta stampa di migliaia di giornali. A casa di mio fratello, invece, hanno sequestrato qualche giornale».

Che tipo di giornali?

«Dei ritagli che parlavano di me nei primi tempi della mia carcerazione. Uno parlava di una perizia che mi era stata fatta, dove il consulente del tribunale, il primario della cattedra di psichiatria di Palermo, aveva stabilito che non era il caso che io venissi rimesso in libertà dalla custodia cautelare perchè, essendomi abituato al carcere, la libertà mi avrebbe creato uno squilibrio psicologico e sarei andato incontro a un trauma. Un fatto che suscitò l’indignazione del professore e psichiatra Cassano, dell’università di Pisa: quando ne venne a conoscenza telefonò a mio figlio per dirgli che avrebbe preso il primo volo per Palermo per farmi una nuova perizia, perchè non poteva accettare che si stabilisse che un uomo al quale viene ridata la libertà possa andare incontro a un trauma».

Insomma, non hanno trovato nulla.

«Ma che cosa dovevano trovare? Io gli ho anche detto di dirmi che cosa cercavano e che gli avrei messo tutto a disposizione. Tuttora non ho capito il perchè di questa perquisizione: il contesto calabrese non è il mio, non è quello in cui ho operato e non è quello per cui ho subito la carcerazione e i processi».

E ora che cosa succederà?

«Mi creda quando le dico che non so nulla di questa inchiesta calabrese. Non so neppure se sono indagato, persona informata dei fatti, sospettato… Ora l’avvocato se ne sta occupando e io cerco di riordinare le idee e di fare ricorso ai miei ricordi. Lei immagini quanti agenti, quanti carabinieri e quanti criminali un poliziotto ha conosciuto in 20 anni di squadra Mobile, 6 di Criminal Pol e altri 4 nell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia e per 10 anni nei servizi di sicurezza, fino al mio arresto».

E come si sente, ora, dopo la perquisizione?

«Secondo lei cosa deve pensare un uomo che ha combattuto per un quarto di secolo in un processo, che ha ottenuto una sentenza della Cedu che stabilisce che non solo non doveva essere condannato ma nemmeno processato, e che dopo tutto questo si vede irrompere la polizia in casa alle 4 del mattino? Sono turbato e confuso, con un interrogativo martellante: Che cosa vogliono da me?»

Dopo la perquisizione è stato convocato?

«No, nessuno mi ha chiamato per chiedermi se mai avessi avuto rapporti con questo Aiello. Anche per questo mi chiedo che bisogno c’era di fare questa perquisizione, ben sapendo tra l’altro che sarebbe poi andata su tutti i giornali».

Dopo tutto questo, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita in Polizia?

«Se dovessi pentirmi del mio passato dovrei dichiarare il fallimento della mia vita. Io sin da ragazzino quando ero un balilla mi sono considerato un uomo dello Stato: nei bersaglieri ho giurato fedeltà alla bandiera e alla Repubblica, poi nella Polizia di Stato ho giurato un’altra volta. Sono sempre stato un servitore dello Stato e delle sue istituzioni. Posso dichiarare io il fallimento di questa vita? Io ho fatto il poliziotto per passione, perchè ho sempre voluto servire la Patria, difendendo l’ordine e la sicurezza pubblica».

Ma si immaginava, a 86 anni, di dover combattere contro questo stesso Stato?

«Nei primi anni Ottanta temevo che qualcuno mi avrebbe sparato quattro colpi di pistola, come fecero con il mio collega e amico fratello Boris Giuliano, che fu ucciso a tradimento da un criminale. Ecco che cosa mi aspettavo. Non certo di venir colpito dalla calunnia, un veleno che forse è anche più atroce del piombo».

Accordo mafia-‘ndrangheta: nuova irruzione della Polizia reggina in casa di Contrada, scrive il 29 luglio 2017 "CN24".  La Dda di Reggio Calabria indaga su un presunto patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese per attuare la stagione delle stragi voluta da Cosa Nostra negli anni Novanta. Nell'ambito dell'indagine dei magistrati calabresi, volta a fare luce sull'uccisione di due carabinieri avvenuta nel '94 e sul ferimento di altri militari, nei giorni scorsi sono state emesse delle ordinanze di custodia cautelare a carico del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, già detenuto al 41 bis, e di Rocco Santo Filippone, esponente della 'ndrangheta. L’indagine, rientrante nell’operazione ‘Ndrangheta stragista, si concentra adesso sui rapporti tra Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, e Giovanni Aiello, ex agente di polizia con un passato nei servizi segreti, conosciuto con il nome di “faccia da mostro”. Nella notte di giovedì scorso gli agenti della Questura reggina hanno effettuato una prima perquisizione nell’abitazione dell'ex funzionario del Sisde e stamane è avvenuta una seconda irruzione. Dal canto suo reagisce il difensore di Bruno Contrada, l'avvocato Stefano Giordano, che afferma: "E' una vicenda dai contorni inquietanti". Il legale prosegue annunciando che chiederà un incontro al capo della Polizia, Gabrielli, per raccontargli "alcuni particolari rilevanti anche dal punto di vista disciplinare che riguardano i funzionari della Squadra mobile di Reggio Calabria che oggi si sono presentati a casa di Bruno Contrada. Gli aspetti penali poi verranno approfonditi in altra sede". "La prima perquisizione, il 26 luglio scorso – aggiunge Giordano - fu di notte. Una perquisizione che a Palermo ha dato per altro esito negativo mentre nell'abitazione di Napoli, in cui vive il fratello, e' stato sequestrato un giornale del 1994 in cui si parlava di Contrada. Oggi invece - racconta - si sono presentati alle 8 di mattina. Solo alle 13 sono stato avvertito dallo stesso Contrada e mi sono precipitato a casa sua". Giunto nell'abitazione del suo assistito, il legale ha chiesto l'esibizione di una delega, dell'invito a comparire o del decreto di perquisizione mentre i poliziotti si apprestavano a redigere un verbale di interrogatorio. "Non avevano nulla di tutto ciò per cui - va avanti il difensore di Contrada - li ho invitati a lasciare immediatamente l'appartamento. Sottolineando che non potevano fare nulla di tutto ciò. Questo tira e molla e durato quasi un'ora. Sono stato costretto a chiamare i Carabinieri ai quali ho riferito l'accaduto". Contrada, che a dire del suo avvocato non aveva capito di essere sottoposto ad un interrogatorio ma, così come la volta precedente, non ha fatto alcun tipo di obiezione, anche per una forma di rispetto verso coloro che ritiene dei colleghi. Tuttavia l'avvocato Giordano parla di "aspetti inquietanti", di "abuso della pazienza altrui" e di uno "Stato di polizia". Anche per questa ragione ha deciso di utilizzare Facebook per denunciare questa seconda perquisizione.

Contrada perseguitato: chi ordina le irruzioni?, scrive Errico Novi l'1 agosto 2017. Terza perquisizione in pochi giorni per l’ex funzionario del Sisde: gli agenti impiegati sempre più autonomi dai pm. E l’avvocato Giordano denuncia la procura di Palermo. «Sabato il mio assistito Bruno Contrada ha ricevuto un’ulteriore visita da parte della polizia giudiziaria, stavolta alle 8 di mattina. Solo dopo 5 ore, quando mi sono precipitato a casa sua, ho potuto accertare che il mandato non esisteva. Contro questo abuso presenteremo un esposto alla Procura di Palermo, al Csm e ai ministri competenti». Lo dice al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex numero 2 del Sisde, dopo l’incredibile nuova irruzione degli agenti. Intanto Contrada ha incontrato i dirigenti radicali, che si sono presentati a loro volta a Palermo per una “perquisizione” dimostrativa, al termine della quale l’ex 007 si è iscritto al partito e ha tenuto una conferenza stampa con Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Le perquisizioni sono addirittura tre. Una alle 4 di mattina del 26 luglio, mercoledì. Un’altra sabato, in orario appena meno teatrale, le 8 antimeridiane. Ma nell’intervista al Dubbio di sabato scorso, Bruno Contrada ha rivelato che un’ulteriore irruzione della polizia si era verificata sempre mercoledì 26 nell’abitazione napoletana in cui l’ex numero due del Sisde conserva la residenza anagrafica. Ha aperto suo fratello 80enne, sempre alle 8 del mattino. Di tutta la sconcertante vicenda si è occupato ieri anche il Corriere della Sera, con Pierluigi Battista che le ha dedicato la sua rubrica “Particelle elementari”. Di tutti, l’aspetto più grave è che la seconda visita fatta dagli agenti nella casa palermitana di Contrada non fosse accompagnata da formale autorizzazione. «Una irruzione senza titolo di perquisizione né delega», ha spiegato il difensore dell’ex 007, l’avvocato Stefano Giordano, «la polizia giudiziaria è stata fatta allontanare dal sottoscritto». Non è il primo caso recente di sfacciata disinvoltura delle forze dell’ordine che, in base all’articolo 109 della Costituzione, dovrebbero essere assoggettate all pubblico ministero. A parte la discutibile ipotesi, avanzata dalla Procura di Reggio Calabria, secondo cui Contrada potrebbe custodire informazioni illuminanti su “Faccia di mostro” Giovanni Aiello, e consentire così di scoprire se quest’ultimo fosse tra i mandanti dell’omicidio di due carabinieri avvenuto trentacinque anni fa, il dato allarmante è appunto la (tentata) irruzione illegittima di sabato scorso. Un arbitrio a cui il legale di Contrada è riuscito a porre fine solo quando ha composto il 112 per chiedere ai carabinieri di imporre la legge ai tre poliziotti. E che ora, come spiega il difensore, «sarà oggetto di un esposto che invieremo a Procura di Palermo, Csm, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, affinché siano valutati tutti i possibili profili penali e disciplinari». La Procura di Reggio Calabria non ha comunicato nulla sui fatti di sabato. Il questore Raffaele Grassi invece ha dichiarato che «non sono stati eseguiti perquisizioni o interrogatori». Affermazione che Giordano smentisce: «Sono in possesso di prove che è stato compilato un verbale di sommaria informazione». Sabato mattina i tre uomini della Polizia di Stato hanno indotto Contrada a consentire la copia di file e documenti dai suoi archivi in nome della “colleganza”. Cinque ore dopo, quando finalmente ha saputo di quanto avveniva a casa del suo assistito e si è precipitato sul posto, il difensore ha ottenuto che le copie digitali fossero cancellate. Nell’esposto si chiederà di valutare anche se «sussistessero i requisiti di urgenza per effettuare in orario notturno la perquisizione del 26 luglio». La legge prevede che debba appunto esserci una giustificazione per derogare agli orari ordinari. Il caso segnala ancora una volta un dato generale gravissimo: la polizia giudiziaria sembra muoversi sempre più spesso in un quadro di assurda autonomia dal- la stessa magistratura inquirente. Sempre nelle ultime ore, domenica scorsa, Matteo Renzi è tornato sulle «manomissioni» compiute, anche ai danni di suo padre, nel corso dell’indagine Consip. Anche in quella vicenda sono affiorati segni di probabile arbitrio da parte dei militari impiegati nell’attività investigativa. Indizi di un’azione sollecitata non solo dalle mere disposizioni della magistratura ma anche da tensioni e contrasti tutti interni ai carabinieri. Così come nel caso di Contrada è difficile tenere lontano il sospetto che antiche ruggini interne alla Polizia di Stato abbiano quanto meno favorito i modi spicci con cui è stata condotta la pseudo- perquisizione di sabato. L’interrogativo è se in Italia esista un problema di controllo delle forze dell’ordine impiegate nelle indagini penali. E se non sia opportuno rafforzare in tutte le maniere possibili l’assoggettamento di queste ultime alla magistratura.

Se questa è giustizia…scrive Piero Sansonetti il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Secondo voi c’è qualcosa di anche vagamente ragionevole nella decisione di mandare la polizia, in piena notte, a casa di un signore di 86 anni, per tirarlo giù dal letto e realizzare una perquisizione – evidentemente molto urgente – che dovrebbe servire a gettare luce su delitti di circa un quarto di secolo fa? Sapendo per di più che questo signore non è un tale che in tutti questi anni era irreperibile, ma è un ex dirigente dei servizi segreti che è stato in prigione per dieci anni (ingiustamente), è stato perquisito e interrogato decine di volte, processato, messo a confronto con decine di pentiti e di testimoni, tenuto in isolamento per mesi e mesi in un carcere militare, e alla fine assolto dalla corte costituzionale, appena due settimane fa? Esiste qualche persona al mondo che ritiene che la perquisizione realizzata l’altra notte potesse portare a qualche risultato? Che fosse utile? E che fosse necessario farla a sorpresa, prima dell’alba, in modo da impedire al sospetto di far sparire eventualmente carte che negli ultimi ottomila giorni (trascorsi da quando fu arrestato la prima volta) aveva dimenticato sul tavolino? È una vicenda paradossale quella che è capitata al dottor Contrada. Paradossale oltre ogni limite. Della sua storia abbiamo parlato varie volte nelle settimane scorse. Contrada è stato negli anni settanta e ottanta, e nei primi anni novanta, un poliziotto molto importante e un dirigente dei servizi segreti. Poi una sciagurata sera della vigilia di Natale, anno 1994, lo andarono a prendere a casa, a Palermo, lo sbatterono in fondo a una cella e ce lo lasciarono per molti anni. Un gruppo di pentiti, al solito, lo aveva accusato di essere stato amico della mafia. Contrada fu prima condannato, poi assolto, poi condannato di nuovo, scontò per intero la pena di dieci anni, poi fu riabilitato prima dalla Corte Europea e, ai primi di luglio, anche dalla Cassazione. L’Italia è stata condannata a risarcirlo. Ma la sua vita, ormai, era distrutta. Nei giorni scorsi si è molto discusso sul perché ci fu l’accanimento su Contrada. E se fu accanimento. Ora mi pare che la discussione, almeno su questo punto, può dirsi conclusa. Il dottor Contrada può senza tema di smentita considerarsi un perseguitato dallo Stato italiano. O forse è meglio dire: da pezzi dello Stato italiano. Resta il grande interrogativo: perché? Sarà difficile trovare una riposata sul passato, bisognerebbe andare a scavare di nuovo nella storia delle lotte di potere che erano aperte in quegli anni, a Palermo – e non solo – tra gli apparati dello Stato. Bisognerebbe andare a controllare le posizioni e gli interessi dei vari pentiti e i loro collegamenti con le varie cosche. Non è semplice. Più semplice, forse, è dare una risposta sul perché la persecuzione prosegue anche oggi. C’è un pezzo, piccolo probabilmente ma molto vistoso, di magistratura che concepisce il proprio lavoro come attività politica e non giurisdizionale. Tutto qui. E considera il filone aperto in Sicilia delle inchieste sulla presunta trattativa Stato- mafia (che ha dato vita a un processo che ancora procede, ma senza più imputati e senza capi di imputazione…) come una miniera d’oro. Adesso a qualcuno è venuta l’idea di estendere le indagini alla Calabria (dove, peraltro, pare che Contrada non abbia mai messo piede). A che serve? Quanto costa? Non sappiamo quanto costa. Possiamo provare a indovinare a cosa serve. L’impressione è che serva a creare nuove visibilità in vista della futura campagna elettorale. Nell’aria c’è l’idea che il prossimo parlamento sarà molto rinnovato, e forse dominato da partiti nuovi, come i 5 stelle. E ci sia spazio per personaggi e forze nuove che provengono da quella che i politologi chiamano società civile. Chi ha voglia e filo da tessere si fa avanti, si mette in mostra. Va bene, fate pure. Ma almeno con un minimo di buonsenso. Svegliare alle quattro di mattina un signore di 86 anni, sua moglie cardiopatica e suo fratello ottantenne, buon dio, non ha nulla che assomigli al buonsenso. 

L’attacco allo Stato di ‘ndrangheta e mafia siciliana, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". Un progetto mafioso e terroristico, per attentare al cuore dello Stato, colpendo una delle istituzioni più amate, l'Arma dei Carabinieri. Un progetto messo in piedi da 'ndrangheta e mafia siciliana, con l'inquietante collaborazione di pezzi dello Stato: la Procura di Reggio Calabria prova a riscrivere la storia d'Italia, partendo dagli attentati tre attentati compiuti in danno dei Carabinieri di Reggio Calabria, in cui persero la vita, il 18 gennaio 1994, gli Appuntati Antonino Fava Fava e Giuseppe Garofalo; rimasero gravemente feriti, l'1 febbraio 1994, l'Appuntato Bartolomeo Musicò e il Brigadiere Salvatore Serra e rimasero miracolosamente illesi, l'1 dicembre 1994, il Carabiniere Vincenzo Pasqua e l'Appuntato Silvio Ricciardo. Due i mandanti, il boss siciliano, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, con importanti collegamenti con la potente famiglia Piromalli. Omicidi e tentati omicidi che si inquadrano negli anni della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra, ma che ora vede anche la 'ndrangheta grande protagonista: un progetto eversivo, che infatti spinge la Procura retta da Federico Cafiero De Raho a contestare anche l'aggravante terroristica, oltre a quella mafiosa. La Dda di Reggio Calabria ha ricostruito – attraverso l'apporto di nuovi e fondamentali elementi raccordati e collegati tra loro – le causali degli attentati ai carabinieri, ma, soprattutto, matrici e scopi sottesi a tali delitti, che vanno a collocarsi nel contesto della strategia stragista nei primi anni '90 messa in atto dalle mafie, con il coinvolgimento oscuro e inquietante di schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2, ancora in cerca di rivincite nonostante l'ufficiale scioglimento nel 1982. Costanti e inquietanti i riferimenti investigativi alla figura del Venerabile Licio Gelli. A spingere gli inquirenti, il procuratore Federico Cafiero De Raho, l'aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Antonio De Bernardo, nonché il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e il sostituto della DNA, Francesco Curcio, sulla matrice unica e sul disegno volto in parte a destabilizzare e in parte a conservare lo status quo, una serie di caratteristiche comuni sui tre delitti, a cominciare dall'utilizzo dell'arma, un mitra M12. Si sarebbe trattato, dunque, di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione sarebbe maturata non all'interno delle cosche di 'ndrangheta, ma si sarebbe sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, come Cosa Nostra e 'ndrangheta. Sulla scorta delle dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, gli inquirenti avrebbero scoperto come numerose riunioni – quasi tutte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria – avessero ad oggetto l'inquietante joint venture tra le due mafie: a fare da collante, Rocco Santo Filippone, nonché Giuseppe Graviano, che con la sua famiglia ha avuto negli anni il compito di saldare legami e alleanze con i calabresi. Così, dunque, le mafie volevano partecipare a una vera e propria opera di ristrutturazione egli equilibri di potere sul territorio nazionale: e tale strategia appariva condivisa da pezzi deviati dello Stato, in contatto con il piduismo. Sul punto le indagini hanno evidenziato come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie sarebbe da far risalire a oscuri suggeritori appartenenti ai servizi segreti e, comunque, alla massoneria deviata. Il disegno terroristico mafioso era, dunque, servente rispetto ad una finalità "più alta", che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed inaffidabile classe politica con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Si stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della c.d. "prima Repubblica", intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando. Al culmine della strategia stragista del '93, a partire dal mese di settembre, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani facendo saltare in aria alcuni pullman dei Carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche calcistiche particolarmente affollate, attentato che doveva essere eseguito nella terza decade del Gennaio 1994 e che falliva soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno. Ad aprire squarci di luce agli inquirenti, un atto di impulso della Procura Nazionale Antimafia, che segnala alla Procura di Cafiero De Raho le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano, Gaspare Spatuzza, già capo mandamento di Brancaccio, il quale ha vissuto dall'interno ed in modo completo tutta la vicenda delle stragi del '93 e del '94, dai progetti condivisi ai momenti esecutivi. Da qui il lavoro di raccolta delle dichiarazioni di altri pentiti – alcune in parte già note, altre riattualizzate – e la costruzione dell'impianto investigativo, inquietante e affascinante, quanto, secondo gli inquirenti, solido. E subito, davanti agli occhi dei magistrati, appare come la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della 'ndrangheta tirrenica - d'intesa con esponenti reggini - diedero assicurazione ai Corleonesi, rappresentati da Graviano - di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone individuarono nel giovane Giuseppe Calabrò (nipote di Rocco Santo Filippone, poiché figlio della sorella Marina), l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, in quanto egli, dotato di una eccezionale preparazione militare ed una straordinaria dimestichezza con le armi, era privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale. Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (già condannati definitivamente come autori materiali dell'omicidio di Fava e Garofalo) vennero poi aizzati a scatenare la strategia di attacco contro i Carabinieri dal defunto Demetrio Lo Giudice classe 1937, emissario della cosca Libri per il quartiere Reggio Campi di Reggio Calabria che fece crescere da un punto di vista militare e criminale Calabrò e che infine lo spinse ad eseguire i delitti oggi contestati; tale dato risulta coerente in relazione alla posizione assunta dalle cosche di 'Ndrangheta di cui Filippone e Lo Giudice erano, all'epoca, eminenti rappresentanti (vale a dire quella dei Piromalli-Molè-Pesce, il primo e dei De Stefano-Libri-Tegano il secondo ) che, non a caso, erano le famiglie di 'ndrangheta che, all'epoca, avevano manifestato maggiore apertura nell'appoggio a Cosa Nostra nella strategia stragista. Un soggetto importante, Filippone, la cui figura è stata per anni sottovalutata e, con ogni probabilità coperta, anche dalla magistratura calabrese. E' lui l'uomo che salda i rapporti con Cosa Nostra: così dunque, si può affermare che mafia siciliana e 'ndrangheta non siano unite solo da progetti di natura economica, ma anche da progetti di natura politica, attraverso spinte autonomistiche, non solo in Sicilia, ma, ancor prima, in Calabria. Un'indagine su tre gravissimi fatti di sangue, tre complessi attentati alle istituzioni democratiche, che, quindi, apre scenari inquietanti almeno sugli ultimi 30 anni di storia d'Italia: la 'ndrangheta emerge non solo perché era in stretti rapporti con Cosa Nostra, ma in quanto risultava particolarmente inserita in quei rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta, proprio in quel periodo stragista in cui entrambe le organizzazioni (Cosa Nostra e 'Ndrangheta) sostennero il disegno federalista attraverso le leghe meridionali. "Oggi ricollochiamo la 'ndrangheta nel suo giusto ruolo" dicono gli inquirenti, che sottolineano inquietanti parallelismo tra le vicende politiche di quegli anni (nel 1994 verrà fondata Forza Italia) e la strategia stragista. Il partito di Silvio Berlusconi sarebbe così divenuto il referente di determinati ambienti, con l'abbandono del progetto autonomista. A tal proposito, nella complessiva ricostruzione dei fatti, assume inoltre particolare rilievo la vicenda della riunione intermafiosa di Nicotera Marina (VV), avvenuta dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, svolta all'interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (VV), come noto legatissima a quella dei PiromallI che aveva come tema proprio la questione stragista: non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, ciò a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta. Un'inchiesta che svela i contatti stabili tra le due organizzazioni, l'esistenza di componenti elevate e occulte e che si innesta nella seconda fase delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Consolato Villani e Nino Lo Giudice: questi, infatti, scompare dalla località protetta in cui si trovata (per poi essere catturato nuovamente dopo qualche mese) quando Villani inizia a parlare dei mandanti degli attentati ai carabinieri. Entrambi collaboratori, non avevano avuto il coraggio di rivelare i meccanismi in cui erano stati inseriti negli anni '90. Lo Giudice sparisce quando la parte più importante della sua carriera criminale sta per essere scoperta. "Perché, a distanza di 25 anni dalle stragi esistono ancora zone d'ombra?" si chiede il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Perché, come spiegano gli inquirenti, l'attenzione ora è posta sulle connivenze istituzionali, su agenti segreti infedeli, massoni che hanno controllato e controllano fette consistenti dell'Italia.

E il ruolo di Reggio Calabria e della 'ndrangheta ora, finalmente, appare per quello che è sempre stato: cuore pulsante di alcune delle vicende più oscure d'Italia.

Patto 'ndrangheta-mafia, il summit a Nicotera Marina dopo la morte di Falcone e Borsellino, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". Esponenti di Cosa Nostra e 'ndrangheta si incontrarono in Calabria dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo affermano i magistrati della Dda di Reggio Calabria, negli atti relativi all'operazione "'Ndrangheta stragista" di oggi. Il summit si tenne a Nicotera Marina (Vv), a all'interno del villaggio turistico "Sayonara", controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (Vv), legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro (Rc). Al centro dell'incontro, la strategia stragista inaugurata dai siciliani. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, "cio' - secondo la Procura antimafia - a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta". Sarebbe stato l'allora capo indiscusso della mafia siciliana, Salvatore Riina, il promotore della richiesta alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia di Cosa Nostra, con l'individuazione degli obiettivi istituzionali da colpire. Altre riunioni si sarebbero svolte nella zona del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta (Rosarno, Oppido Mamertina, Melicucco), in ambiti territoriali sottoposti alla giurisdizione criminale dei Mancuso, dei Piromalli, dei Pesce e dei Mammoliti. Cosa Nostra, ipotizzano i magistrati, aveva indirizzato proprio ai Piromalli/Molè, con i quali i rapporti erano strettissimi, la richiesta di promuovere gli incontri "in vista di una adesione generalizzata della 'ndrangheta alla strategia stragista che Cosa Nostra aveva deciso di intraprendere". Diversi collaboratori di giustizia, aderenti alle varie cosche di 'ndrangheta, avrebbero raccontato delle riunioni. Alle loro dichiarazioni la Squadra Mobile avrebbe cercato riscontro attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali e di altra natura. (AGI)

Il patto 'ndrangheta-mafia: le strategie eversive e i "suggeritori" istituzionali, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". C'era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della 'ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall'arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l'autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è' giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia (RC), considerato capo del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta all'epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi "continentali" eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell'ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista "ideato, voluto ed attuato - scrivono gli inquirenti - dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e 'Ndrangheta". Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell'ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e 'ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Dunque, dopo il tramonto della "prima Repubblica", i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica "proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando". Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della 'ndrangheta tirrenica, d'intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un'eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, "privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale". Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1993; dell'omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell'Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l'arma d' ordinanza. Anche quest'ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all'Arma, si sottolinea negli atti dell'inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio. Sullo sfondo del patto stragista stretto da Cosa Nostra e 'ndrangheta negli anni '90 "appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate a loro volta collegate a settori del piduismo ancora in cerca di rivincita". Lo scrive la Dda di Reggio Calabria negli atti relativi all'inchiesta "'Ndrangheta stragista" nell'ambito della quale la Polizia ha notificato oggi due ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di un boss della 'ndrangheta e di uno, già detenuto, della mafia. L'uccisione di due militari dell'Arma sull'autostrada A3 nel gennaio del 1994 ed il ferimento di altri militari sempre in Calabria, dunque, "vanno a collocarsi - scrivono i magistrati reggini - nel contesto della strategia stragista che ha insanguinato il Paese nei primi anni 90' e in particolare in quella stagione definita delle "stragi continentali". Secondo l'impostazione accusatoria, l'obiettivo strategico delle azioni contro i Carabinieri, al pari di quello degli altri episodi stragisti verificatisi nel Paese, "era rappresentato dalla necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di vera e propria ristrutturazione degli equilibri di potere in atto in quegli anni. E tale strategia - secondo gli inquirenti - appariva condivisa, da schegge di istituzioni deviate, da individuarsi in soggetti collegati a servizi d'informazione che ancora all'epoca mantenevano contatti con il piduismo". Dalle indagini sarebbe emerso come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie, fra cui quelli per cui è stata emessa l'ordinanza eseguita oggi, "è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno". (AGI)

L'accorduni tra 'ndrangheta e Cosa Nostra: attacco coordinato per le stragi degli anni '90, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". "Cade in maniera netta l'assunto secondo cui la 'ndrangheta, o cosche di primo piano di essa, sia stata totalmente estranea alla svolta stragista impressa da Cosa nostra negli anni '90. Molti aspetti di queste torbide vicende saranno chiariti". É quanto si apprende in ambienti investigativi che hanno coordinato l'inchiesta che ha portato all'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno avuto l'effetto di un colpo di maglio su oltre venti anni di storia criminale da cui la 'ndrangheta emerge come "alleato" affidabile di Cosa nostra "nell'attacco coordinato allo Stato ed alle sue istituzioni più rappresentative, come l'Arma dei Carabinieri". Gli inquirenti parlano senza mezzi termini di "progetto di disarticolazione della democrazia e delle istituzioni", in un quadro politico, come quello degli anni '90, caratterizzato dall'instabilità istituzionale e dalla chiusura della Prima Repubblica. "Sfuma così il tentativo - dicono gli inquirenti - di depotenziare le responsabilità della 'ndrangheta, per come raccontato finora, a seguito del rifiuto del boss Giuseppe De Stefano agli emissari di Cosa nostra negli anni '90 durante un incontro nella zona di Nicotera, che avrebbe sancito la contrarietà della 'ndrangheta alle stragi. E invece l'accorduni prese corpo proprio con gli autori dell'assassinio di don Pino Puglisi, ucciso dai Graviano a Brancaccio perché 'disturbava' taluni equilibri e complicità in quel quartiere di Palermo". Nel mosaico ricostruito dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria appaiono anche molti spunti di indagine chiuse frettolosamente negli anni '70 e negli anni '80, omicidi e intimidazioni contro personaggi pubblici che alla luce di quanto sta emergendo troverebbero una diversa valutazione, un filo di interessi economici e di potere tra parti deviate di istituzioni, estremismo di destra e, appunto, la 'ndrangheta.

Sinergie sempre più forti all’ombra della massomafia. La stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione. Il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta vertiginosamente con il crescente astensionismo. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”, scrive Paolo Pollichieni, Sabato 15 Luglio 2017, su "Il Corriere della Calabria". Funziona e regge. In una Calabria che si presenta devastata nel suo reticolo produttivo e ridotta a mal partito in quanto a rappresentanza politica, funziona e regge, anzi conosce una stagione di grande prosperità, quell’area che ha ormai smesso di essere “grigia” per diventare organica alla ‘ndrangheta nella gestione del territorio. Funziona e regge, in sostanza, quella camera di compensazione allestita al riparo da logge massoniche spurie dove potere criminale e potere politico si incontrano ed elaborano strategie tese al consolidamento del loro potere. Funziona e regge, quel modello criminale che affonda le radici già nelle cronache della prima indagine sulla massoneria deviata, quella di Agostino Cordova. Modello che ricompare sull’asse Lamezia-Vibo dieci anni più tardi, con la stagione delle “leghe” come veicolo per il traghettamento verso la seconda repubblica. Modello cristallizzato nell’indagine reggina denominata “Olimpia”, alla quale lavorarono Macrì e Mollace, Cisterna e Pennisi, Verzera e Di Palma. Carte oggi riscoperte e rivisitate ma che hanno stroncato più di una carriera e “mascheriato” più di un magistrato inquirente. Oggi quel “modello criminale” appare scolpito e scontornato nelle indagini di una magistratura meno aggredibile che, in uno con una polizia giudiziaria più autonoma, ci consegna una serie di indagini che a Vibo come a Lamezia, a Crotone come a Locri, a Gioia Tauro come a Reggio Calabria, evidenziano sempre più come la stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione e della sinergia criminale. Ci sarebbe materia per una riflessione attenta da parte di quel che rimane in Calabria di un ceto politico non cooptabile da parte della ‘ndrangheta. Anche il crollo della partecipazione democratica conosciuto in queste ultime tornate elettorali, oggi, si appalesa come funzionale agli interessi della massomafia: il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta di peso vertiginosamente in presenza di un altrettanto vertiginoso calo delle percentuali dei votanti. C’è questa voglia di riflettere da parte di quel che resta della Politica con la P maiuscola, in Calabria? Dobbiamo imporci di crederlo. Anche quando ti trovi a sbattere contro vicende come quelle reggine, dove l’isolamento di un assessore viene motivato con la sua irriducibilità davanti all’applicazione della legge. Anche quando devi prendere atto che la transumanza delle baronie politiche, lungi dall’essere bandita, diventa oggetto di adulazione da parte delle segreterie regionali più blasonate. Anche quando la sottovalutazione regna sovrana nella mente di chi fa incetta di deleghe e potere ritenendo che sigillare significa decidere. È questo lo scenario che abbiamo davanti in Calabria. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”; le indagini in corso, e quelle che arriveranno, possono creare la precondizione per ripulire la casa e renderla agibile ma sono ben altri i soggetti che debbono incaricarsi di evitare che venga nuovamente sporcata sino all’inagibilità. Non lo si otterrà nominando qualche magistrato in pensione al vertice della Stazione unica appaltante. Questo semmai è il segno di un senile ricorso all’imbellettamento. Serve lasciar spazio alle energie migliori e nella misura in cui questo si cercherà di fare chiaramente lo spazio selettivo si restringe. Fino a fare apparire asfittici i confini dettati dalla militanza storica in questo o quel movimento politico. È tutta qui la vera lotta alla ‘ndrangheta ed è tutta qui la battaglia per il cambiamento.  Le cosche sono attrezzate per sostenerla. Gratteri lo ha ripetuto anche di recente: investono meno in armi e più in settori di controllo sociale. Dai media alla clientela, dall’imprenditoria al controllo del consenso. Figurarsi che investono anche in “antimafia”.

Massoneria, coop rosse e consulenze: su cosa indaga Catanzaro. Gli incroci con Consip sono solo una piccola parte delle inchieste in corso. E riguardano gli affari della “Sviluppo srl” e di Rocco Borgia. Nel mirino di due Procure i legami con Cmc e aziende in procinto di chiudere affari con Regione, Anas e Sorical, scrive Martedì, 25 Luglio 2017 Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria". Rocco Borgia è un distinto signore, i suoi 74 anni li porta che è uno splendore. Merito, assicura ai suoi potenti amici, della “dieta calabrese” alla quale resta fortemente fedele, pur avendo lasciato la natia Melicucco da molti decenni. Oggi, infatti, vive a Roma, si definisce imprenditore e non fa mistero del suo alto grado in massoneria. Rimosso, invece, il suo passato da militante del vecchio Partito comunista italiano. È un maniaco della riservatezza, il che però non lo ha salvato da continue apparizioni nelle cronache giudiziarie del nostro Paese. L’ultima lo vede, nel febbraio scorso, perquisito nell’ambito delle indagini sulla Consip e sugli appalti da destinare al “Gruppo Romeo”. Una perquisizione giustificata dal fatto che gli inquirenti messi alle calcagna di Alfredo Romeo lo fotografano mentre va a pranzo con i vertici dell’Inps e poi a colloquio con il tesoriere del Pd, al Nazareno. In Calabria due Procure si occupano di lui ed entrambe seguendo il filo della cosiddetta “massomafia”, una “supercupola” che si incarica di mediare affari miliardari selezionando la classe dirigente locale, utilizzando le cosche per il controllo del territorio, garantendo i patti con le maggiori imprese nazionali. Anche nel nuovo assetto delle logge calabresi e nel voto per il rinnovo dei vertici nazionali, la “massomafia” avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Così, nel 2015, quando una “cooperativa rossa” affidataria di lucrosi appalti pubblici sull’asse Catanzaro-Cosenza deve scegliersi un “ambasciatore” che poi garantisca gli accordi, avrebbe puntato proprio su Rocco Borgia. Vero? Falso? È quanto stanno cercando di chiarire le indagini delle procure distrettuali di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quel che appare accertato è che la ingombrante figura del massone Rocco Borgia spacca la sinistra italiana. Il suo nome, infatti, figura in due articolate e durissime interrogazioni parlamentari. La prima risale alla scorsa legislatura e vede come primo firmatario Elio Lannutti. Siccome rimase senza risposta, ecco che viene riproposta nell’attuale legislatura, prima firmataria Laura Castelli. Gli interroganti chiedono lumi sul ruolo avuto dal Borgia alla guida di una missione italiana in Somalia. In particolare chiedono al ministro degli Esteri chi aveva accreditato il Borgia nella Ong italiana Cins. Chiedono anche di sapere se «l’alter ego apicale nel Cins, tale Umberto Santich sia lo stesso Santich sotto processo a Roma per lo scandalo che costò il posto al capo di Finmeccanica Orsi». Infine intendono sapere se i due, Borgia e Santich, fossero consulenti della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri rispondere che in effetti Umberto Santich lo è stato e anche Rocco Borgia, aggiungendo però che «Rocco Borgia era tra i rinviati a giudizio per reati di cui agli articoli 54, 110 e 640bis del codice penale per truffa ai danni del ministero degli Esteri».

In Calabria, a radicare attenzioni e competenze delle locali Procure, opererebbe oggi la “Sviluppo Srl”, in cui il Borgia, pur non comparendo come socio, avrebbe consolidati interessi, utilizzandola anche per una serie di sinergie con le “cooperative rosse”. In questo contesto è proprio l’indagine delle Procure calabresi a dar manforte all’inchiesta Consip, per un motivo molto semplice: dimostrerebbe un rapporto stretto tra Rocco Borgia e la Cmc, al punto da curarne le proiezioni e gli interessi in Calabria. La Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, è un colosso della cooperazione rossa e in Calabria costruisce di tutto. Alfredo Romeo teme che il nuovo assetto ai vertici dell’Inps possa nuocergli. Ne coglie le prime avvisaglie anche rispetto a interessi che la sua azienda ha nella gestione del patrimonio immobiliare dell’Inps in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Lazio. Lo dice chiaramente l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, Francesco Russo mentre parla con il Romeo: «A me mi stanno martellando, sono quelli di Cmc, incontrali, incontrali, incontrali». E lui per “incontrarli” si rivolge a Rocco Borgia concordando con lui una lauta consulenza attraverso, appunto, la Sviluppo Srl. Chiacchiere? Non pare proprio, visto che nelle perquisizioni condotte salta fuori una fattura intestata a Sviluppo Srl di 24.400 euro, versati dalla Romeo Gestioni in un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari, per «attività di consulenza e assistenza in merito a possibilità di sviluppo commerciale e partenariato in materia di efficentamento energetico». Identica dizione e identica casuale di altre “consulenze” che le inchieste calabresi troveranno nel corso delle loro indagini. Ovviamente cambiano i contraenti, non più la “Romeo Gestioni” ma altre aziende in procinto di concludere affari con la pubblica amministrazione e in particolare con Anas, Sorical e Regione Calabria. Da ultimo, la Guardia di finanza, nel sequestrare un parco eolico da 300 milioni di euro in quel di Isola Capo Rizzuto, perché riconducibile al clan ‘ndranghetistico degli Arena, rinviene e cataloga altre “consulenze” riconducibili alla Sviluppo Srl. Comprensibile la furiosa reazione del procuratore distrettuale Nicola Gratteri davanti a una “fuga di notizie” che appare solo artatamente giustificata con le inchieste dei carabinieri del Noe sulla Consip e sugli amici, veri e presunti, di Babbo Renzi. 

Omicidio Mormile, "Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti", scrive Antonella Beccaria il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.

Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 specialesplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo). In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo. Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro. Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia. La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato. Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale”. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto. Così successe e nell’ordinanza reggina si legge ancora (a parlare è sempre Foschini): “Antonio Papalia, come ci disse (a me, a Flachi, a Cuzzola, a Coco Trovato e altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione ‘Falange Armata’ dell’omicidio Mormile”. A questo proposito ha aggiunto il collaboratore di giustizia Antonino Fiume: “Tutti gli omicidi di un certo tipo venivano decisi dal ‘consorzio'”. Certo, affermazioni da riscontrare ancora, ma ce ne sarebbe abbastanza per tornare a indagare sul delitto Mormile e sulle complicità di uomini dello Stato in quell’omicidio. Per questo, forse, a processo ci fu chi puntò sulla sua inesistente “condotta non specchiata”.

La Falange Armata: quell'abbraccio tra mafie e servizi segreti, scrive Claudio Cordova giovedì 27 luglio 2017 su "Il Dispaccio". La vicenda della Falange Armata, collegata a centinaia di minacce, rivendicazioni, illecite inframmettenze nello svolgimento di funzioni pubbliche di governo, ha generato lo svolgimento di approfondite e complesse investigazioni in diversi Uffici Giudiziari. Va detto, è questo è un dato giudiziariamente accertato, che, mai, seppure ipotizzata, è stata trovata prova dell'esistenza di una vera e propria cellula terroristica-eversiva, inquadrabile in una fattispecie associativa – con una sua gerarchia interna, con una sua struttura, con un sua logistica, con armi, con dei suoi mezzi economici, delle sue basi - che rispondesse al nome Falange Armata. Essa è stata una sigla con la quale si sono, per un verso, rivendicati stragi, delitti ed attentati fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti da soggetti non inquadrabili nella sedicente struttura in questione (mafie, delinquenti comuni, ecc) e, per altro verso, anche, minacce, pressioni, intimidazioni, calunnie, commesse in danno di esponenti istituzionali con telefonate, missive, queste si confezionate da chi era intraneo alla sedicente Falange. Dietro questa sigla, ovviamente vi erano persone. Più esattamente, un gruppo - o forse, più di un gruppo - di soggetti che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione. Le rivendicazioni avevano oggettivamente un fine chiaro ed evidente: colorando della natura politico/terroristica fatti che non erano tali e la cui vera finalità non poteva essere apertamente dichiarata (quella di ricattare le istituzioni) servivano a creare un certo clima nel paese, evidentemente favorevole alle finalità di chi poneva in essere le azioni criminali e dello stesso gruppo che si nascondeva ed aveva intentato la sigla stessa. E il clima che voleva crearsi era un clima di terrore. Dunque, più nel dettaglio, l'intenzione di attribuire ad una organizzazione terroristica la responsabilità di una serie di fatti anche gravissimi di sangue, aveva un duplice ordine di ragioni: la prima, scontata, ragione (strumentale alla seconda) – che è inevitabile conseguenza degli atti terroristici - era quella, come si è detto, di creare paura nel paese. Che già conosceva il terrorismo e ne temeva la ferocia. Tutto ciò per ottenere qualcosa.

Falange Armata – o almeno quel gruppo che aveva inventato la sigla e la utilizzava secondo un preciso disegno – da un punto di vista materiale, si limitava a rivendicare, minacciare, calunniare. La falange armata, insomma, utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità. Finalità che, stando alle risultanze investigative, sarebbero esclusivamente di natura politica, quale espressione di una (sordida) lotta per il potere. C'è un inquietante filo rosso che lega le vicende stragiste. Alla fine del 2013, Tullio Cannella, le cui dichiarazioni sono importanti con riferimento alla ricostruzione dei rapporti anche di rilievo politico intercorrenti fra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta, dichiarava: "...A questo punto della lettura del verbale si richiede al Cannella se è in grado di meglio precisare cosa ebbe a sapere, nel contesto mafioso, degli attentati del 92/93. Il Cannella dichiara: era il Luglio del 93, Leoluca Bagarella era con me al villaggio Euromare di Buofornello. Era ora di pranzo ed era accesa la televisione. Andò in onda il tg e diedero la notizia degli attentati di Roma e Milano. A questo punto Bagarella che era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, disse con soddisfazione e con ironia:"vedi che ora queste cose le "appioppano" alla falange armata" poi disse ancora con tono compiaciuto: "...vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!". Io gli dissi " ma perché tu hai a che fare con i terroristi?". Bagarella rispose: "...Diciamo che abbiamo avuto qualche contatto". La sera ricordo che Bagarella era di ottimo umore. Gli avevo offerto i suoi sigari preferiti, i Barmorall. Se ne stava compiaciuto a fumare. Ad un certo punto ritornò il discorso sugli attentati e disse con tono serio "il "mio amico" ci ha a che fare con questi terroristi. Ma devono fare quello che diciamo noi. Se sgarrano gli tagliamo la testa". Quando Bagarella parlava con me del "suo amico" si riferiva univocamente a Provenzano Bernardo. Di ciò sono certo. In particolare lui, come ho già detto, quando doveva prendere una decisione importante mi diceva anche che ne doveva parlare con il "suo amico". Capivo, intuitivamente, che l'unico amico che era al di sopra di Bagarella, all'epoca (siamo dopo la cattura di Riina) era Provenzano. Poi ne ebbi la certezza. Una volta, in quel periodo, mi disse che dovevo risolvergli un problema del "suo amico" o meglio della moglie del suo amico e mi diede dei documenti, non ricordo ora di che genere, che riguardavano Saveria Palazzolo, moglie di Provenzano Bernardo. Insomma quando parlava del suo amico era chiaro fra noi che si riferiva a Bernardo Provenzano. Quando con me parlava dei Graviano, diceva: " quei cornuti dei Graviano". Diceva ciò in quanto sapeva del mio rapporto conflittuale con i Graviano stessi.

ADR: dalle notizie che in quel momento passava il tg, mi riferisco a quello di ora di pranzo che sentii con Bagarella, non si faceva alcun riferimento alla Falange Armata. Dunque fu sicuramente Bagarella ad introdurre il discorso sulla Falange Armata...omissis".

Cannella è stato il soggetto più vicino al boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella nel periodo delle stragi. E' colui che, in quell'epoca agevolava la latitanza del Bagarella, e, dunque, è colui che meglio e più di qualsiasi altro collaboratore di giustizia è in grado di riferire le reazioni, le frasi, i contatti, avuti dal Bagarella nel periodo della stragi continentali. In primo luogo, dalle dichiarazioni di Cannella emergeva che lo stesso Bagarella aveva affermato di avere rapporti con gli estremisti di destra. E che tali rapporti, in particolare, erano riferibili (oltre che a lui stesso) a Provenzano (il suo "amico"). In ogni caso gli estremisti dovevano fare quello che dicevano "loro". Le carte dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" si soffermano sul fatto se i legami fra Cosa Nostra e la destra estrema - davvero esistessero, in quanto gli ambienti deviati da cui derivava la sigla Falange Armata, erano collegati e connessi alla destra eversiva. Nota la convergenza fra Cosa Nostra, la destra eversiva di Stefano Delle Chiaie, la massoneria controllata da Licio Gelli (i cui rapporti con la destra eversiva sono pure stati ampiamente dimostrati) che si realizzò nei movimenti autonomisti-separatisti, nei quali non a caso, proprio Bagarella e il suo uomo, Tullio Cannella, ebbero ruolo significativo. E in effetti la sera del 14 Maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 Maggio 1993, alcune ore dopo l'attentato di via Fauro (che aveva come obbiettivo il giornalista Maurizio Costanzo) vennero effettuate telefonate di rivendicazione "Falange Armata"; la mattina del 27.5.1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all'Ansa rivendicarono l'attentato a nome Falange Armata; dopo gli attentati di Roma e Milano del Luglio 1993, furono effettuate rivendicazioni a nome Falange Armata. E, tuttavia, il fatto che le gravissime attività stragiste in esame, poste materialmente in essere da Cosa Nostra nel continente, fossero poi rivendicate "Falange Armata", non sembra sia stato il frutto di un caso, di una serie d' iniziative eterogenee e scoordinate fra loro che, però, hanno portato ad un risultato omogeneo. Appare dimostrato, sulla base di convergenti (e perfettamente sovrapponibili) dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, Salvatore Grigoli e Pietro Romeo, che Cosa Nostra, in persona di un uomo dei Graviano, Giuliano Francesco detto "Olivetti", ebbe a rivendicare (anche se non in tutti casi) con la sigla Falange Armata, gli attentati continentali. Questo spiega agevolmente la ragione per la quale Bagarella sapesse di tale imminente rivendicazione. E, come vedremo, si pone in perfetta coerenza e continuità con quanto, già anni prima, Cosa Nostra, e prima ancora la 'Ndrangheta, avevano concepito, programmato ed attuato. In particolare, Grigoli, il 26.3.2015, nel riferire degli intensi rapporti fra la famiglia di Brancaccio ed i calabresi, dichiarava:

"...A.D.R: Giuliano Francesco detto Olivetti - durante un incontro a cui eravamo presenti io, il predetto, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e forse altri, incontro durante il quale stavamo preparando, in un sito di Palermo dalle parti di Corso dei Mille, l'esplosivo per lo Stadio Olimpico - ad un certo punto, ci disse che era stato proprio lui a fare le rivendicazioni "Falange Armata" relative ai precedenti attentati sul continente. Se non erro disse che queste rivendicazioni le faceva da Roma. Ma non sono sicuro.

A.D.R: il Giuliano Francesco, di carattere è un po' chiacchierone e a volte dice cose che non dovrebbero dirsi secondo le regole di Cosa Nostra. Io ad esempio delle rivendicazioni al suo posto non ne avrei parlato.

A.D.R: Ovvio che tale iniziativa, quella della rivendicazione, era così delicata che il Giuliano (che seppure era chiacchierone non era bugiardo) non poteva che averla presa se non a seguito di un ordine superiore che non poteva che venire da Giuseppe Graviano (più che da Filippo). Questo il Giuliano non lo disse espressamente o meglio non ricordo se lo disse o no, ma è certo, in base alle nostre regole interne, che dovesse essere stato Graviano Giuseppe che coordinava in modo puntuale tutta l'attività stragista a dare questo ordine.

A.D.R: Effettivamente non so neanche io - e certamente neppure lo sapeva il Giuliano - cosa fosse esattamente la "Falange Armata". Io ritenevo fosse una sigla terroristica tipo Brigate Rosse ovvero altra sigla anche di estrema destra, per me era lo stesso. Prendo atto ed informazione dalla SV, che si tratta di una sigla che venne usata per la prima volta in Spagna in epoca franchista. Se è così, e non ne dubito, si tratta di una cosa molto raffinata e neppure Graviano Giuseppe, aveva una simile cultura. Direi che in Cosa Nostra quello che aveva più cultura era Matteo Messina Denaro che io ho personalmente conosciuto.

A.D.R: Io ho sempre pensato che fosse scontato che la rivendicazione Falange Armata servisse a depistare le indagini e sono convinto sia così anche in considerazione della vicenda Contorno. Non bisognava capire, o almeno non doveva apparire una immediata riconducibilità degli attentati di Roma, Firenze, Milano e dell'Olimpico a Cosa Nostra, mentre era inevitabile pensare che l'attentato a Contorno era riconducibile a noi. Per tale ragione, mentre facevamo uso di tritolo per gli attentati precedenti e fra questi l'Olimpico, per l'attentato a Contorno usammo della gelatina ed un esplosivo bianco, granuloso che noi chiamavamo dash, assai diverso dal tritolo. Preciso a sua richiesta che, ovviamente, qualcuno doveva capire che c'entravamo noi con questi attentati continentali, altrimenti che li facevamo a fare, ma non doveva essere immediatamente visibile la nostra presenza, la nostra mano. Chi di dovere doveva capire e venirci incontro riducendo il carcere duro e le altre misure contro il crimine organizzato. Erano discorsi che facevamo sempre all'interno del gruppo di Brancaccio che si occupava di queste vicende. Dovrei avere parlato di questi fatti anche con Nino Mangano.

A.D.R: Vidi di persona, per una delle ultime volte (o forse era anche l'ultima volta, ma a distanza di anni non posso essere sicuro) Giuseppe Graviano a Roma più esattamente lo vidi in una villetta vicino al mare in una località nei pressi di Roma che si chiama Torvajanica. Era un giorno o forse due giorni (propendo più per due giorni) prima dell'attentato fallito dell'Olimpico. Non ricordo esattamente l'ora in cui arrivò il Graviano ma era buio, forse era sera o pomeriggio inoltrato. A vostra domanda escludo di essere stato presente, sempre in quel giorno o anche il giorno prima o il giorno dopo, in un locale di via Veneto a Roma di nome Donnay unitamente al Graviano Giuseppe e allo Spatuzza. Escludo di essere mai stato con Graviano in locali di Via Veneto. A sua domanda non posso escludere che prima o dopo il suo arrivo a Torvajanica il Graviano si sia visto con lo Spatuzza nel predetto locale. Non conosco la circostanza. Nel villino di Torvajanica quella sera iniseme a me e Giuseppe Graviano c'erano Spatuzza, Giuliano, Lo Nigro, Benigno Salvatore, Giacalone e forse altri. Forse, ma non sono sicuro, vi era anche Vittorio Tutino ovvero Cristoforo, detto Fifetto, Cannella, unitamente al Graviano quali suoi accompagnatori. A sua domanda preciso che non posso assolutamente escludere che il Graviano giunse a Torvajanica anche insieme allo Spatuzza o con lo stesso. Dato il tempo trascorso, di questi dettagli non ho ricordo preciso. A vostra ulteriore domanda rispondo che non ricordo che nel villino, ovvero in altre circostanze legate all'attentato alla FFOO dello Stadio Olimpico, si sia fatto riferimento a vicende calabresi più o meno simili.

ADR: Ricordo che nel corso dell'incontro nel villino in questione Giuseppe Graviano nel dire che bisognava concludere e portare a conclusione, immediatamente, l'attentato all'olimpico da subito (già il giorno dopo o forse quello ancora successivo) disse che bastavano quattro persone per fare l'attentato, per cui invitò me e se non sbaglio il Giuliano a ritornarcene in Sicilia. In effetti la mattina successiva partimmo per la Sicilia io e probabilmente come ho detto il Giuliano...

ADR: Era il Lo Nigro che aveva stretti rapporti con la 'ndrangheta come la vicenda del traffico di "erba" con la 'ndrangheta e la sua partecipazione a cerimonie che si svolsero in Calabria, tipo matrimoni, dimostrano (sono fatti di cui ho ampiamente già parlato). Ricordo che in questa occasione di viaggio in Calabria il Lo Nigro venne anche fermato dalla polizia. Può darsi, non posso escludere, che pure i Graviano avessero questi rapporti in Calabria, ma non sono in grado di dire fatti specifici.

ADR: Non sono in grado di riferire di viaggi dei Graviano in Calabria. Ricordo, invece, che Giacalone nel corso del 93/94, talora andava a Milano, presso un Ristorante di cui non ricordo il nome su diretta richiesta di Giuseppe Graviano e/o di Mangano per consegnare delle lettere al proprietario di questo ristorante che non so dire chi sia. Forse potrebbe essere anche un calabrese come la SV mi chiede. Giacalone che era mio socio in una rivendita di auto e che era con me in grande confidenza, mi raccontava di questi viaggi milanesi o spesso partiva organizzando proprio davanti a me il viaggio. Mi disse che una volta si era trovato in mezzo ad una sparatoria in un bar o comunque in un locale milanese in cui casualmente si trovava nel corso del viaggio che aveva fatto per recapitare queste lettere. Non conosco il contenuto di queste lettere.

ADR: La mia conoscenza dei fatti stragisti si limita a ciò che avvenne in Cosa Nostra nel gruppo in cui operavo quello del mandamento di Brancaccio in cui era inclusa la famiglia di Corso dei Mille cui io appartenevo. Non so dire se vi furono condivisioni della strategia stragista con entità criminali diverse da Cosa Nostra..."

A sua volta, il collaboratore di giustizia, Pietro Romeo, il 26.3.2015, anche lui rimarcando i rapporti fra la famiglia di brancaccio ed i calabresi, riferiva: "...A.D.R. Mi chiedete se nel contesto della mia partecipazione ai fatti stragisti continentali ho avuto informazioni sulle rivendicazioni "Falange Armata". Vi rispondo di sì. Premetto che io sono uscito dal carcere tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. Quando uscii dal carcere – ero detenuto per delle rapine che avevo fatto - non ero uomo d'onore e, per la verità, non lo sono mai diventato. Tuttavia partecipai alle attività del gruppo di Brancaccio. In pratica quando, dopo la mia scarcerazione incontrai Giuliano Francesco, che io conoscevo come appartenente a Cosa Nostra, che faceva capo a Tagliavia Francesco di Corso dei Mille/Via Messina Marina, figlio di Giuliano Salvatore, esponente di rilievo della famiglia di Corso dei Mille. Del gruppo del Tagliavia facevano parte anche il Cosimo Lo Nigro ed il Barranca Giuseppe. Ebbene il Giuliano Francesco mi propose di entrare nel gruppo di fuoco guidato all'epoca da Nino Mangano. Si tenga presente che all'epoca erano in carcere sia i Graviano (capi di Brancaccio ma molto legati alle famiglie di Corso dei Mille e via Messina Marina) che il Tagliavia. Io accettai e così andai dalle parti di Roma ad aggregarmi al gruppetto che in quel momento doveva fare l'attentato a Contorno in località Formello, vicende tutte su cui ho reso ampie dichiarazioni. Venendo alla sua domanda le dico che il Giuliano che era persona molto loquace, di sua iniziativa, non solo mi parlo degli attentati precedenti (quelli di Roma, Firenze e Milano) ma mi raccontò anche che era stato proprio lui a telefonare, dopo gli attentati, rivendicando gli stessi a nome Falange Armata. Non ricordo a chi telefonò per fare le rivendicazioni. Mi disse, comunque, che così gli avevano ordinato di fare e lui così fece ed anche se lui non mi ha detto chi gli diede questo ordine, io penso che a darlo possano essere stati solo i Graviano o il Tagliavia perché Giuliano prendeva ordini da loro e comunque non poteva prendere una iniziativa così importante senza che i capi lo autorizzassero. Il Giuliano mi spiegò che, seppure le stragi erano state volute per affievolire il regime di carcere duro contro la criminalità organizzata e per avere, più in generale, dallo Stato, un migliore trattamento, tuttavia non si voleva – evidentemente da parte chi gli aveva dato l'ordine di fare le rivendicazioni in questione (e quindi da chi stava sopra a chi gli aveva dato tali ordini) - che fosse immediatamente ricollegata la strategia stragista a Cosa Nostra. Insomma queste rivendicazioni servivano a "depistare". Per la verità io dissi a Giuliano: ma tu pensi che facendo così lo Stato si arrende? Non ricordo la sua risposta ma certo non mi disse nulla di significativo se no lo ricorderei, almeno penso.

A.D.R: Giuliano, come ho detto era un chiacchierone. Dunque parlava spesso di questi argomenti. Non posso dirle dove esattamente mi disse queste cose. Direi sia in Sicilia che in Continente quando eravamo insieme.

A.D.R: Era Cosimo Lo Nigro, che aveva rapporti privilegiati con i calabresi. Ricordo che il Lo Nigro addirittura andava a dei matrimoni o battesimi o comunioni, non ricordo, di questa famiglia di 'ndrangheta che si celebravano in Calabria, non ricordo dove. La cosa me la disse lo stesso Lo Nigro. Inoltre come ho già ampiamente raccontato (su questi fatti sono stati celebrati dei processi) Lo Nigro faceva affari di ogni genere, sia nel settore della droga che delle armi, con i calabresi ed, in particolare, con la famiglia di questo Peppe presso cui era anche andato in occasione delle ricorrenze sopra indicate. Ho partecipato in prima persona e quindi rinvio alle dichiarazioni rese an suo tempo in quanto ovviamente ricordavo meglio i dettagli, a queste operazioni di traffico di droga e armi svolte insieme ai calabresi. Il fatto più eclatante che ricordo fra i tanti è che il Lo Nigro, sotto i miei occhi, mise 500 milioni in contanti all'interno dello sportella della sua vettura smontando un pannello. Tali soldi li portò in Calabria da Peppe o dai suoi amici per investirli in un ulteriore carico di droga. Erano i calabresi che avevano i contatti con i produttori e dunque a loro ci si rivolgeva. Tutto ciò avveniva subito dopo i fatti di Formello fra il 1994 ed il 1995. Ricordo anche di avere visto con i miei occhi il Peppe a Palermo vicino la casa di famiglia di Cosimo Lo Nigro, con una Renault Clio Williams blu. Era una vettura particolare dunque la ricordo. Portammo noi di Cosa Nostra, nel 94, dal Marocco, "fumo" dei calabresi fino a Palermo. In cambio avemmo una parte del carico ed il restante lo consegnammo alla famiglia di Peppe. Ricordo che tale carico lo portarono a Milano, con un camion, Piero Carra e Cosimo Lo Nigro. Nel traffico era implicato un altro calabrese, Giovanni detto "Virgilio", calabrese.

A.D.R: Non sono in grado di dire come il Lo Nigro avesse stretto in modo così significativo i rapporti con i calabresi. Mi chiedete se si trattava di amicizie dei Graviano ed io vi dico che non sono in grado di rispondere.

A.D.R: Non sono in grado di riferirle se la strategia delle stragi continentali ebbe un consenso anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso. Io non avevo rapporti con i capi di tali organizzazioni. Neppure il Giuliano era all'altezza di avere questi rapporti i vertici di altre entità criminali...omissis".

La sigla Falange Armata, che Cosa Nostra decise di adottare ad Enna e che, quasi contestualmente (leggermente prima) la 'Ndrangheta decise di adottare, richiamava coordinate e conoscenze storico/politiche piuttosto ricercate . Il precedente più vicino (anzi, l'unico, per la verità, nella storia contemporanea, moderna e medievale) ed anche più congruo, era quello dei cd falangisti, della destra franchista spagnola del secolo scorso. In particolare, come è noto agli storici, la "Falange Espanola de las J.O.N.S." fu una formazione di ispirazione fascista fondata nella Spagna della Seconda repubblica da Josè Antonio Primo de Rivera nel 1933. Nel 1937, in piena guerra civile spagnola, si fuse con il movimento nazionalista e diede vita al partito "Falange Espanola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista – FET y de las JONS", in cui confluirono le forze legate ai vecchi valori monarchici, clericali e conservatori. Il generale Francisco Franco ne assurse a leader indiscusso e, nel 1939, il "FET y de las JONS" diventa "Movimento Nacional", partito unico franchista. Se vogliamo andare più dietro nel tempo per trovare un altro riferimento alla Falange, è necessario affidarsi alle reminiscenze degli studi classici, evocando la cd Falange Macedone. Si tratta, come si vede, di riferimenti storici che, francamente, stridono con il livello culturale ed il grado di conoscenza della storia e della politica, antica e moderna, di Riina, Provenzano, Bagarella, Filippone, Papalia e compagni. E allora, forse, vi sono delle menti ancor più sopraffine dietro. Squarci di luce arrivano, ancora una volta, dalle dichiarazioni messe nero su bianco in fase di indagine. A cominciare da Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu". Egli, nel corso dell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava un dato fondamentale riguardante la genesi della strategia terroristica di cui Cosa Nostra fu massima artefice: la riunione, meglio, le riunioni "strategiche" di Enna della fine del 1991, in cui venne decisa la necessità di dare uno scossone allo Stato, innescando una spirale del terrore. Fatto di cui aveva riferito Leonardo Messina. E tuttavia, Malvagna, disvelava un particolare di non secondario rilievo relativo a tali riunioni: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace" (N.d.PM : si tratta esattamente della ricostruzione operata nelle sentenze fiorentine sulle stragi). Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"..."

Malvagna, quindi, veniva nuovamente escusso il 20.5.2015: "...A.D.R: Secondo il racconto di mio zio Malpassotu, furono i Corleonesi - ed in particolare Totò Riina - a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati "Falange Armata". Quando mio zio disse questa sigla in compresi che si trattava di un qualcosa che doveva rappresentare un riferimento ad una qualche organizzazione terroristica. Poi mio zio mi spiegò ancora meglio. Mi disse che bisognava confondere le acque. Non bisognava fare capire all'opinione pubblica e allo Stato che eravamo noi mafiosi a sviluppare questa strategia terroristica ma dovevamo gettare sconcerto e scompiglio fino ad indurre lo Stato a cercare una interlocuzione con noi. Mio zio mi disse per farmi comprendere a cosa alludesse che bisognava fare come in Colombia dove i trafficanti di cocaina quando erano stati duramente attaccati dallo stato colombiano che veniva supportato dalla DEA e dagli americani, iniziò a porre in essere, sotto mentite spoglie, una strategia di attentati terroristici che indussero lo Stato a scendere a compromessi con loro. Non so dire se questo esempio storico di mio zio sia corretto ma così mi disse. In ogni caso mio zio mi spiegò che bisognava da subito attivarsi anche con atti soltanto dimostrativi. Bisognava creare da subito un clima di paura. Fu così che immediatamente presi la palla al balzo e chiesi a mio zio se potevo fare giungere delle minacce all'allora sindaco di Misterbianco a nome Antonino Di Guardo che era un sindaco "antimafia" che ci dava fastidio denunciando pubblicamente il nostro sodalizio. Mio zio assentì e così io incaricai un giovane di mia fiducia tale Alfio Adornetto che faceva parte del gruppo che io dirigevo di telefonare a casa di questo sindaco e minacciarlo, rivendicando le minacce con la sigla Falange Armata. La cosa avvenne (siamo nella primavera del 1992) e se non sbaglio questo Sindaco è stato pure ascoltato come teste nel processo per la strage di Capaci nella quale pure io sono stato escusso. Ricordo anche che venne fatto un attentato dimostrativo davanti alla Caserma di Piazza Verga dei Carabinieri e anche in questo caso facemmo la rivendicazione Falange Armata. Di questo attentato si occuparono gli uomini di D'Agata. In quello stesso periodo erano in preparazione ma non ricordo se andarono ad effetto altre minacce o atti intimidatori con le stesse modalità ai danni del giornalista Claudio Fava, dell'avvocato Guarnera che difendeva i collaboratori di giustizia e il Sindaco Bianco (non ricordo se all'epoca fosse o meno in carica). Tutto ciò avveniva nello stesso periodo in cui il Santo Mazzei dava la disponibilità a fare attentati in continente. A proposito di ciò ricordo che mio zio il Malpassotu diceva che se il Mazzei fosse riuscito davvero ad eseguire gli attentati che si riprometteva di compiere avrebbe fatto una carriere fulminate superandoci nella gerarchia mafiosa. Ovviamente diceva ciò con preoccupazione in quanto temeva che noi perdessimo potere...omissis....

Le affermazioni di Malvagna, trovavano, poi, conferma nelle convergenti dichiarazioni di altro collaboratore di Giustizia catanese, Maurizio Avola, che aveva già parlato della riunione di Enna del 1991 nella quale i vertici di Cosa Nostra siciliana avevano deciso di attaccare lo Stato con atti terroristici in quanto i suoi rappresentanti non erano più affidabili con la conseguente necessità di creare una situazione di panico diffuso che avrebbe agevolato rivolgimenti politici favorevoli alle mafie. E tuttavia, anche Avola, peraltro in piena consonanza con sue pregresse dichiarazioni, nel corso dell'interrogatorio reso a questo Ufficio, in data 14.4.2015, dichiarava: "....ADR: Furono Aldo Ercolano e Marcello D'Agata che dissero a noi della famiglia Santapaola, quando già Santo Mazzei era divenuto un esponente di rilievo di Cosa Nostra catanese, in mia presenza, che laddove fossero stati eseguiti gli attentati contro lo Stato che avevano deciso i corleonesi, bisognava ricorrere a delle rivendicazione "di comodo" che non dovevano consentire di collegare gli attentati a Cosa Nostra, che, infatti, non rivendica mai le proprie azioni. Dissero che bisognava utilizzare la sigla Falange Armata. A vostra domanda vi dico che non sono in grado di dire come sia stata "inventata" questa sigla. Io pensavo che fosse una rielaborazione delle "Falangi" con cui si denominavano gli ultras del tifo calcistico. Ma si tratta di una mia ricostruzione e di una mia ipotesi. I miei capi non spiegarono l'origine della sigla. Faccio presente che allorquando nel 1992 venne collocato a Piazza Verga un ordigno di fronte ad una caserma dei CC da parte di Pippo Ercolano, venne fatta una rivendicazione Falange Armata. L'atto intimidatorio venne posto in essere dall'Ercolano perché all'epoca i CC indagavano su di una sua impresa. A vostra domanda preciso che non posso né escludere né affermare che fosse stato Santo Mazzei ad inventarsi questa sigla Falange Armata...".

Oscuri e inquietanti gli interrogativi su chi inventò la sigla Falange Armata, l'esatta individuazione e collocazione nel tempo delle modalità attraverso cui Cosa Nostra (e, soprattutto, la 'Ndrangheta) decisero di utilizzare la rivendicazione "Falange Armata" in occasione di eventi stragisti ovvero di delitti che, comunque, avevano come bersaglio figure istituzionali o politiche, e la individuazione del momento in cui le mafie, e non altri, iniziarono ad utilizzare concretamente la stessa. Oscuri e inquietanti gli interrogativi sui suggeritori esterni. L'idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato – il cui nucleo forte era costituito da una frangia del SISMI e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cd "Ossi" che, fino alla caduta del muro di Berlino (o, fino a pochi mesi dopo) si occupava di Stay Behind – che, evidentemente, volevano destabilizzare il paese creando un nuovo allarme terroristico; costoro – che non scordiamolo avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della 'Ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla "Falange Armata". Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatto proprio anche da Cosa Nostra, nel corso della riunione Enna. L'idea delle mafie di rivendicare le stragi con la sigla Falange Armata non era una trovata bislacca e cervellotica dei capi delle mafie, ma rispondeva perfettamente alle loro esigenze strategiche; era stata approvata da Cosa Nostra, nel lontano 1991, ad Enna, nello stesso periodo storico in cui Cosa Nostra e le altre mafie iniziarono a dare sostegno, con Gelli e l'estrema destra, alle cd liste autonomiste; il loro concreto atturarsi in occasione delle stragi continentali era noto e gradito al reggente di Cosa Nostra nel 1993 (Leoluca Bagarella) prima ancora che tali rivendicazioni fossero note. In tal senso, non è affatto secondario il rilievo di quanto, sempre sul conto di Bagarella, riferiva un collaboratore di giustizia siciliano, Emanuele Di Filippo, alla fine del 2013: "...A.D.R.: Ho fatto parte, originariamente, del gruppo di fuoco di Ciaculli nel corso dei primi anni 80'. Ero uomo d'onore ma non ritualmente "punto". Il mio capo, all'epoca, era mio cognato Marchese Antonino. Dopo il suo arresto avvenuto credo nel 1982, cominciai a prendere ordini da Giuseppe Lucchese detto "lucchiseddu" con il quale ho commesso numerosi omicidi per i quali sono già stato giudicato. Intorno alla metà degli anni 80', precisamente intorno al 1985, riuscii a "sganciarmi" dal ruolo "ingrato" di killer ed iniziai ad operare nel settore degli stupefacenti, delle estorsioni e del contrabbando di sigarette. Come ho già ampiamente spiegato, per svolgere tale mia ultima attività, nella quale sono stato impegnato fino al mio arresto nel 1994 ( ho iniziato a collaborare nel 1995, e grazie alle mie indicazioni e dichiarazioni venne catturato Leoluca Bagarella ) seppure rimanevo "inquadrato" nella famiglia di Ciaculli, operativamente mi sono "spostato" nella zona di Brancaccio/ Corso dei Mille, dunque, in tale contesto, facevo riferimento ai fratelli Graviano anche se costoro, ovviamente, non erano i miei capi.

ADR: Io avevo rapporti risalenti nel tempo e consolidati con Leoluca Bagarella dovuti a motivi di parentela. In particolare mia sorella si era sposata con Marchese Antonino che era il fratello della moglie di Leoluca Bagarella che si chiamava Vincenzina. A ciò si aggiunga che i rapporti fra i Graviano e Bagarella erano assai stretti e che io stesso facevo da tramite fra il mio predetto cognato, detenuto a Voghera, e Totò Riina – notoriamente vicinissimo a Bagarella di cui era cognato – facendogli pervenire dei pizzini di Riina stesso, pizzini che mi venivano consegnati, chiusi e sigillati, da Filippo Graviano...

ADR: Cesare Lupo era persona inserita in Cosa Nostra, molto vicina ai Graviano, anche se operava principalmente con la famiglia di Corso dei Mille (il cui territorio peraltro è limitrofo a quello di Brancaccio). Ho conosciuto il Lupo da libero nei primi anni 90', ma si è trattato di incontri occasionali. Mio fratello Pasquale, che pure collabora, ha avuto, invece, con il Lupo, rapporti più intensi e penso possa dirle su di lui qualcosa in più. Di seguito, in ogni caso, ebbi modo di rivedere ed incontrare il Lupo presso il Carcere dell'Ucciardone. Mi sembra alla sezione seconda. Eravamo nel 1994.

ADR: Mi si chiede se confermo quanto riferito alla DDA di Firenze nel già citato interrogatorio, sul fatto che il Lupo mi parlò di collegamenti fra il Leoluca Bagarella ed ambienti istituzionali deviati. Rispondo che lo confermo. In pratica il Lupo, proprio mentre ci trovavamo all'Ucciardone e parlavamo di pentiti, mi disse che Leoluca, prima o poi, li avrebbe individuati grazie ad informazioni che riceveva da qualcuno dei servizi segreti ....omissis".

Se, quindi, come risulta, vi erano rapporti o contatti fra il Bagarella ed esponenti dei servizi si ha una ulteriore traccia - coerente rispetto alle altre fonti di prova che consente di individuare in alcuni esponenti deviati dei Servizi di Sicurezza, suggerì a Cosa Nostra - in epoca antecedente e prossima alla riunione dell'estate 1991 ad Enna in cui la sigla venne adottata dal sodalizio mafioso - di utilizzare, per la rivendicazione delle stragi, la sigla Falange Armata. Specie se si considera che proprio il Bagarella era ben consapevole della funzione e delle finalità della strategia di rivendicazione delle stragi da parte di Falange Armata. Ed in questo ambito è ben possibile, oltre che coerente, che in più ampio quadro pattizio e, quindi, in un ambito in cui si erano individuati obbiettivi di comune interesse, si fosse proceduto ad una divisione di impegni e compiti fra i diversi partners, nel quale, le mafie, per la loro parte, si erano impegnate a "fare rumore". E, ovviamente, si badi bene, non deve affatto pensarsi che Cosa Nostra (e la 'Ndrangheta) avessero preso questi impegni controvoglia, sottomettendosi ad altri. Anzi. Le Mafie intendevano ricattare ed atterrire lo Stato con il terrorismo. Anche favorendo un ricambio della classe politica. In particolare, è noto che anche Licio Gelli – ed un suo vasto entourage - avevano preso parte, con ruolo di primario rilievo, al disegno di disgregazione del panorama politico istituzionale della Prima Repubblica. Ma tornando alle intelligenze fra Cosa Nostra e servizi deviati un importante elemento cognitivo, pienamente convergente rispetto a quelli fino ad ora evidenziati e che rafforza, quindi, la ricostruzione fino ad ora prospettata, proviene dalle affermazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri, legato alla mafia di Alcamo, che fin dall'inizio della sua collaborazione (nel 1998) aveva segnalato un episodio davvero inquietante. In particolare all'inizio del luglio 2016, Palmeri riferiva: "...ADR: Sono entrato in Cosa Nostra nel 1991. Nel 1995, avendo già preso le distanze da Cosa Nostra, con la quale era però rimasto in contatti, ho iniziato a collaborare informalmente con gli inquirenti, facendo in buona sostanza l'informatore e, poi, nel 1998 ho formalmente iniziato collaborare con la AG ottenendo il programma di protezione.

ADR: All'interno di Cosa Nostra non ero uomo d'onore ufficialmente, ma ero persona "riservata" di Milazzo Vincenzo, capo-mandamento di Alcamo. Mi spiego meglio: ero inizialmente e sono rimasto amico personale di Milazzo fino a quando non è stato ucciso nell'estate del 1992. Eravamo amici da alcuni anni, un paio circa. Io ero persona di fiducia del Milazzo, anche per gli affari di mafia del predetto. Spesso lo spostavo. Tenete conto che da quando io ebbi a conoscerlo era già latitante. Preciso che non ero stipendiato ma semplicemente molto legato al Milazzo. Ovviamente se e quando chiedevo dei soldi in relazione alle mie necessità, Milazzo me li dava. Ma in quel contesto più dei soldi contava la sincera amicizia. Io all'epoca ero istruttore di nuoto presso la piscina Camping El Baira di S.Vito lo Capo e alle Terme Segestane.

ADR: Con riferimento a contatti fra il Milazzo ed esponenti di apparati statali o sedicenti tali, posso dire che nel 1991 e, comunque, alcuni mesi prima dell'omicidio del Milazzo (non so dire se 1 anno, 6 mesi, 8 mesi prima o altro è passato troppo tempo) e comunque prima della strage di Capaci accompagnai il Milazzo ad un incontro che si tenne nelle campagne di Castellammare (svincolo che va a Scopello) in una villetta di pertinenza di tale Manlio Vesco. In effetti, precisamente, la villetta, era in contrada Consa. Costui, il Vesco, era un imprenditore amico del Milazzo, poi morto suicida, in circostanze molto particolari. Appresi, infatti, che stranamente il Vesco, prima di morire, aveva posteggiato la vettura lungo l'autostrada vicino lo svincolo di Alcamo per poi percorrere chilometri e chilometri a piedi, per poi, infine, lanciarsi nel vuoto. Ricordo che anche i mezzi d'informazione sottolinearono la stranezza del fatto.

ADR: Ricordo che Milazzo in occasione di questo primo incontro in contrada Consa, mi chiese di partecipare allo stesso. Io mi rifiutai, non volevo espormi e preferivo rimanere nell'ombra. Allora Milazzo mi disse di non entrare nella villetta ma di attenderlo fuori, rimanendo defilato ed invisibile, avendo cura di controllare i movimenti che potevano esserci intorno alla villa stessa. All'uopo mi diede anche un binocolo. Vidi arrivare due vetture dopo l'arrivo del Milazzo da cui uscirono, da una, due persone che non conoscevo (si trattava di persone ben vestite di circa 40 anni, che escluderei potessero essere dei "picciotti") accompagnate dal dott. Baldassarre Lauria, medico primario dell'Ospedale di Alcamo che io già conoscevo fisicamente e che li seguiva o precedeva con l'altra macchina. A seguito dell'incontro Milazzo mi apparve molto preoccupato e turbato. Lui aveva molta fiducia in me e senza che io chiedessi nulla (in Cosa Nostra non si chiede) mi raccontò che le due persone venute con il Lauria erano due dei servizi segreti i quali senza giri di parole avevano richiesto al Milazzo di fare una attività di tipo terroristico in continente per loro conto. Se non ricordo male gli chiesero di fare degli attentati in continente. Non sono sicuro se in questa occasione si parlò di Firenze, come uno dei luoghi in cui fare attentati o se invece con riguardo a questo stesso argomento la città di Firenze non venne in considerazione successivamente in quanto luogo ove si trovavano dei parenti della famiglia Ferro che avrebbero potuto fare da appoggio per la commissione dell'attentato. Su questo vi dirò in seguito procedendo con ordine. E' certo che, comunque, questi attentati andavano fatti in continente e in tale contesto in effetti, mi disse il Milazzo, che il dott. Lauria che partecipò alla discussione con quelli dei servizi, tirò fuori l'idea di procedere anziché con attentati dinamitardi con l'avvelenamento delle acque, a mezzo ii batteri. Insomma secondo il Lauria era più agevole avvelenare l'acquedotto (ubicato, forse, ma come ho detto non ricordo con certezza, a Firenze). Il Milazzo mi disse che l'idea del Lauria della guerra batteriologico venne tuttavia subito esclusa e rimase in campo solo l'idea degli attentati tradizionali con esplosivo.

ADR: Secondo quanto mi disse il Milazzo, negli intenti di costoro – e cioè di quelli dei servizi - vi era quello di destabilizzare lo Stato. Non so dirvi perché volessero destabilizzare lo Stato nel senso che Milazzo su questo aspetto nulla disse. Posso invece dirvi che il Milazzo, all'esito di questo primo incontro si riservò di dare una risposta. In ogni caso era davvero preoccupato e già mi disse che tendenzialmente non aveva intenzione di farsi coinvolgere anche se forse lo avrebbe anche fatto – se io non lo avessi dissuaso – perché, diceva di avere molta paura di questi soggetti dei servizi. Ricordo le sue parole testuali: sono loro la vera mafia.

Insomma pur trovando folle il progetto, Milazzo aveva timore di inimicarsi questi agenti dei servizi. Io, come ho detto, gli spiegai che doveva astenersi e non farsi coinvolgere perché rischiava di mettersi in guai ancora più grandi. Senza contare che afre attentati, uccidendo anche perone innocenti, fra cui donne e bambini, non è da vero uomo d'onore. Lui alla fine si convinse a non farsi coinvolgere ma nella consapevolezza che ciò gli sarebbe costato la vita. Disse: va bene cerchiamo di non farci coinvolgere ma moriremo. In effetti poi sia pure con cautela e con diplomazia riuscì a non farsi coinvolgere.

ADR: Mi chiedete se sono a conoscenza della vicenda del ritrovamento di un arsenale di armi nel 1993 nella villa di due carabinieri, nei pressi di Alcamo. Nulla ne so, anche se ricordo l'episodio che sicuramente non era ascrivibile a Cosa Nostra.

ADR: No so dirvi la ragione per la quale questi sedicenti esponenti dei servizi si rivolsero per questo "affare" proprio al Milazzo. Posso dirvi però che il Milazzo mi disse che questi due agenti sapevano di me, sapevano cioè che io ero legato al Milazzo e che, come dissero al Milazzo stesso, mi consideravano molto scaltro e capace verosimilmente in senso criminale.

ADR: A seguito vi furono altri due incontri fra il Milazzo con questi dei servizi (erano sempre le due stesse persone): uno si svolse sempre in contrada Consa ma mi sembra in una casa diversa dalla prima e l'ultimo, il terzo, nella casa di tale Senatore Corrao che si trova sulla cima di un monte che si chiama Bonifato, nei dintorni di Alcamo.In entrambi questi incontri si parlò ancora degli attentati in continente che quei due dei Servizi volevano fossero fatti. In entrambi gli incontri io rimasi fuori a vigilare e in un caso, addirittura, seguii e pedinai la vettura dei due agenti dei servizi fino a Palermo, senza però scoprire nulla in quanto li persi in una rotatoria di Via Belgio.

Fu quindi il Milazzo che mi raccontò lo svolgimento dei due incontri spiegandomi che si era destreggiato nel senso pur senza farsi direttamente coinvolgere come si era ripromesso, non rifiutò mai esplicitamente un suo apporto a tali attentati. Prendeva tempo dando una generica disponibilità. L'importante era non prendere impegni stringenti che potevano costringerlo a dare attuazione al progetto stragista. Milazzo, tuttavia, immaginava, per come mi disse, che quelli dei servizi potessero sospettare o addirittura ritenere che lui voleva "sgusciare via e fare il furbo". In proposito proprio l'incontro con Gioacchino Calabrò, che avvenne a seguito di questi tre incontri, in un baglio sito vicino Calatafimi, può trovare spiegazione proprio in questo atteggiamento attendista e ad un tempo apparentemente compiacente del Milazzo nei confronti di quelli dei servizi. In sostanza successe che io accompagnai il Milazzo a questo incontro e rimasi in disparte mentre Milazzo parlava con il predetto Calabrò che era uomo d'onore di Castellammare del Golfo. Tuttavia, io trovandomi a breve distanza dai due, riuscii, comunque, a sentire aspetti salienti dei loro discorsi. In particolare sentii che Milazzo ordinava a Calabrò di dire a Ferro Giuseppe (allora soldato del Milazzo, ma successivamente divenuto, dopo la morte di Milazzo, Capo-Mandamento) di ordinare ai suoi parenti che si trovavano a Firenze di "mettersi a disposizione" di Cosa Nostra. Sul momento non misi a fuoco esattamente il senso di quell'ordine. Quando, però, un anno e passa dopo vi fu l'attentato di Firenze di via dei Georgofili, pensai che l'attentato e l'ordine che aveva dato il Milazzo potessero avere un qualche oggettivo collegamento fra loro ( tenete conto nel frattempo il Milazzo era morto e Ferro era il nuovo capo-mandamento) e, quindi, in via logica, misi anche in collegamento gli incontri con quelli dei servizi, in cui si parlò di attentati in continente, con i due episodi in questione ( e cioè : ordine dato da Milazzo al Calabrò e l'attentato di Firenze).

ADR: I proprietari delle tre abitazioni in cui si svolsero gli incontri di cui ho parlato, non so se abbiano a meno partecipato agli incontri ed alle discussioni con questi agenti dei servizi. Viglio dire che io non li ho visti ma non posso escludere che nel momento in cui accompagnai presso tali abitazioni il Milazzo, gli stessi potessero essere già lì presenti per poi partecipare agli incontri. Preciso tuttavia che nella prime due occasioni il Milazzo aveva le chiavi di casa e preciso che ricordo che il Senatore Corrao di nome fa Ludovico. Ora che ricordo anche questo senatore è morto di morte violenta ucciso dal suo domestico straniero.

ADR: il pedinamento fino a Palermo non ricordo se fu mia iniziativa o se fu il Milazzo a dirmi di procedere in tale senso.

ADR: Ovviamente ho riferito di questa vicenda ai PPMM di Palermo non appena ho iniziato a collaborare. In effetti mi vennero anche sottoposti degli album fotografici ma fra le foto che mi sono state poste in visione non vi erano quelle dei due soggetti dei servizi di cui sopra. Certo è che almeno all'epoca avevo un ottimo ricordo delle fattezze dei due presunti agenti. Non so dire se oggi, dopo tanti anni, sarei in grado di riconoscerli...omissis".

Gli oscuri suggeritori sarebbero allora i Servizi Segreti. La 7 Divisione del SISMI (si trattava della Divisione dell'ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio), il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Le prime rivendicazioni "Falange Armata" fatte in Italia erano collegate all'omicidio dell'Educatore Carcerario Umberto Mormile, avvenuto a Lodi l'11.4.1990 proprio per mano della 'ndrangheta. In particolare varie telefonate venivano effettuate presso sedi Ansa e sedi di Istituti Penitenziari. In un primo momento, nell'immediatezza, il giorno dei fatti, con riferimenti alla riconducibilità ad azioni terroristiche dell'agguato al Mormile e, poi, con riferimenti specifici alla Falange Armata carceraria che diverrà, poi, ancora di seguito, semplicemente Falange Armata. Interessanti, allora, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. A cominciare da Vittorio Foschini, escusso a metà 2015: "...A.D.R: Sono entrato nella 'ndrangheta dopo avere lavorato, pur essendo calabrese, con Cosa Nostra ed i siciliani. Io avevo lavorato nella droga con Biagio Crisafulli, palermitano, e, quindi in collegamento con i Carollo e Luigi Bonanno, all'epoca contrapposti ai corleonesi. I Fidanzati erano invece alleati ai Corleonesi. Fu Antonio Papalia che decise di riunire tutti i calabresi, sia riggitani che catanzaresi, che stavano in Lombardia. Ciò determinò anche il riconoscimento – avvenuto a seguito di specifiche riunioni tenutesi in Calabria a Petilia Policastro fra componenti della 'ndrangheta reggina e "milanese" e catanzeresi – delle famiglie catanzaresi dalla "Madonna dell'Aspromonte" ciò significa l'ingresso ufficiale nella vera e propria 'ndrangheta. Dunque questa riunione dei calabresi lombardi sotto un'unica bandiera – eravamo tantissimi – determinò il sopravvento della 'ndrangheta in Lombardia. Fra i siciliani furono nostri alleati solo i Crisafulli e anche, ma in modo meno intenso, i Carollo/Bonanno.

A.D.R: Al vertice, in Lombardia, c'erano Antonio e Domenico Papalia, poi Coco Trovato. Con noi c'era anche il gruppo di Anacondia...omissis...

A.D.R: Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia. Anzi nel rifiutare ad Antonio Papalia il favore per Domenico Papalia (che se non sbaglio era detenuto per l'omicidio D'Agostino delitto nel quale secondo quanto appresi da Antonio Papalia erano coinvolti anche i servizi segreti), ancorchè ricompensato, disse ad alta voce, ad Antonio Papalia che lui "non era dei servizi", alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti. Infatti nel carcere di Parma, in precedenza, il Papalia Domenico aveva rapporti e colloqui con i servizi. Ciò mi venne detto da Antonio Papalia che pure aveva rapporti con i servizi come pure lui stesso mi confidò. Proprio questo rifiuto con l'allusione ai servizi fu fatale per il Mormile. Insomma, questa allusione sui rapporti Servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile. Preciso meglio la sequenza dei fatti come raccontatami da Papalia Antonio: prima Domenico in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò. Ciò avvenne in quanto Mormile aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia. Ci fu un diverbio. Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendo al fratello di convincere il Mormile. Antonio nei giorni successivi, subito fuori dal carcere, avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi. Dio seguito Antonio riferì al fratello Domenico, nel corso di un colloquio in carcere che il Mormile non cedeva e che anzi aveva fatto allusioni ai servizi. Domenico si preoccupò e deliberò l'omicidio. Antonio Papalia mi raccontò questo fatto subito dopo il colloquio in carcere di cui ho appena detto. Preciso che secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia, che disse che, secondo lui, Mormile andava ucciso, precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse (a me a Flachi, a Cuzzola, a Coco trovato ed altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all'omicidio Mormile si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione "falange armata" dell'omicidio Mormile. Fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò (persona che comunque potrei riconoscere) di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell'omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l'omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione...

A.D.R: La 'ndrangheta era contraria alla strategia stragista dei corleonesi, e lo erano anche i Papalia e Coco Trovato. O meglio divennero contrari quando si accorsero delle conseguenze che questa strategia comportava. Papalia Antonio si mostrava preoccupato. Per la verità Antonio Papalia brindò in occasione delle stragi, ma, lui e gli altri, poi, si sono preoccupati per le conseguenze. Si cominciò a vedere e a temere che lo Stato avrebbe svolto una azione repressiva assai dura......omissis".

Foschini svela che era stato lo stesso Antonio Papalia, mandante del delitto, a ordinare la rivendicazione di tipo terroristico "Falange Armata". Ma di più, Foschini chiariva che l'indicazione di utilizzare la sigla in questione veniva dai servizi di sicurezza, o meglio dagli appartenenti ai servizi che erano in contatto con i Papalia (Domenico ed Antonio). Dunque, i casi sono due: o Papalia ebbe ad inventarla, a crearla, o qualcuno lo imbeccò. La prima ipotesi è del tutto implausibile. Papalia era persona scarsamente scolarizzata (aveva frequentato le scuole dell'obbligo) e del tutto priva di strumenti culturali adatti a questo compito. Pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo. Salvatore Pace, escusso dalla Dda, afferma:

"... ADR:...Papalia Antonio era molto ignorante, rozzo, ma come ho detto un capo...."

E allora il suggeritore era in una posizione che, per qualsivoglia motivo, dobbiamo ritenere sovra-ordinata rispetto a Papalia, tale da poterlo determinare a seguire delle strategie che il suggeritore stesso riteneva necessarie in quel momento. Un contributo, ancora più significativo sia sulla causale del delitto che soprattutto, per ciò che rileva in questa sede, sulla sua rivendicazione, veniva da altro soggetto che aveva partecipato alla esecuzione del delitto agli ordini dei Papalia, Antonino Cuzzola: "...A.D.R: Sono stato detenuto dal febbraio 1992 al febbraio 1993. Sono stato nuovamente arrestato a Giugno 1993. Ho iniziato a collaborare nel 2004 da detenuto. Sono stato ininterrottamente detenuto dal 1993 al 2007. Quando sono uscito dal carcere nel 1993 (essendo stati arrestati Antonio Papalia e Franco Coco Trovato nel settembre 1992) il reggente della famiglia Papalia, in Lombardia, era Musitano di cui non ricordo il nome comunque era il nipote di Antonio Papalia, figlio della sorella, all'epoca aveva 25/30 anni. Durante la rilettura del verbale si dà atto che il collaboratore ricorda il nome di Musitano : Antonio. Più importante di lui era Domenico Paviglianiti che però era latitante e stava all'estero. Tenete presente però che Papalia Antonio era un "re" a San Vittore. Dava ordini da lì. E comandava dal carcere. Passava gli ordini a Musitano che andava a colloquio con lui. Le stesse guardie carcerarie avevano soggezione del Papalia Antonio. Gli facevano fare quello che voleva. Ad esempio teneva in carcere un congelatore tutto per lui. Cosa che non aveva nessuno.

A.D.R: In effetti come ho già detto in altri processi, Domenico Papalia, fratello di Antonio, aveva rapporti con i Servizi Segreti con i quali aveva colloqui nel carcere di Parma. Ciò appresi da Antonio Papalia in occasione della preparazione dell'omicidio dell'educatore carcerario Mormile. Mormile, a dire di Antonio Papalia, venne ucciso proprio perché si fece sfuggire con un detenuto di questi colloqui fra Domenico Papalia e i Servizi Segreti. Cuzzola ricostruisce nel dettaglio la dinamica dell'omicidio Mormile: "Mi fate il nome Falange Armata. Vi dico, ora che ci penso che è proprio il nome della formazione terroristica che avrebbe dovuto rivendicare l'omicidio Mormile. Penso di averlo detto anche sul processo Mormile. Ora mi sfuggiva il nome. Prendo atto che la prima telefonata fatta all'Ansa di Bologna in cui si parla di "terrorismo" risale allo stesso giorno dell'omicidio. Prendo atto che sono seguite altre telefonate di rivendicazione e che solo qualche mese dopo si fece per la prima volta il nome Falange Armata. Vi dico, allora, che escludo ancora che l'incontro al bar di Buccinasco si sia verificato il giorno stesso dell'omicidio. Sono certo. Ritengo, allora, le possibilità sono tre: o quando Papalia parlò della rivendicazione al bar di Buccinasco avrà detto che già aveva fatto la stessa ed io ho capito male, oppure disse che aveva fatto la rivendicazione ed io ricordavo male, oppure, ancora, disse, non so per quale ragione, che avrebbe fatto la rivendicazione ma in realtà già l'aveva fatta. Quanto alla sigla Falange Armata io ricordo di averla sentita fin dall'inizio. Può essere che sia stata ideata all'inizio e poi utilizzata in concreto, solo in un secondo momento, oppure può essere che io ricordi male sul momento esatto in cui si fece per la prima volta il nome di questa formazione. Sono certo, però che fu proprio Antonio Papalia a dirmi che le rivendicazioni sarebbero state fatte, per depistare, dalla Falange Armata. Ricordo che fra i Papalia e Cosa Nostra vi era un rapporto molto stretti. Posso dire, ad esempio, che con i Madonia ed i Fidanzati i rapporti erano molto stretti. Dopo l'omicidio di Corollo, eseguito su mandato di Riina o comunque di Cosa Nostra – Corollo era uno che gestiva per Cosa Nostra il traffico di stupefacenti in Lomabardi – tutto il traffico di stupefacenti che veniva gestito dal predetto Corollo venne affidato ai Sergi per richiesta di Cosa Nostra stessa. Ciò a dimostrazione della particolare vicinanza fra 'ndrangheta e Cosa Nostra. I Papalia diventarono i responsabili della 'ndrangheta per la Lombardia con l'avallo di tutta la 'ndrangheta calabrese. Si sapeva che i Papalia e, in particolare, Domenico papalia era in rapporti con i servizi segreti. Pino Piromalli me lo disse in carcere a Cuneo nel 2000. Mi spiegò che la sua cosca era entrata in possesso di documenti che comprovavano questo rapporto. Tuttavia nessuno contestò, all'epoca, questa circostanza al Papalia. Posso presumere che la cosa fosse gradita ai vertici della 'ndrangheta... Mi chiedete se il nome "Falange Armata", particolarmente inconsuete, fosse "farina del sacco" di Papalia Antonio. Rispondo che effettivamente Antonio Papalia non ha una grossa cultura. Io lo conoscevo bene. Parlava un italiano molto stentato. Aveva la licenza media inferiore. Il riferimento alla "Falange Armata" è troppo raffinato per lui. Sicuramente qualcuno deve avergli suggerito questo nome. Anzi le dirò di più: ricordo che Coco Trovato gli chiese, al Papalia, cosa fosse questa "Falange Armata". Papalia disse "Mi hanno detto di fare questo nome". Non specificò chi suggerì questa sigla....

ADR: In effetti Carmine e Peppe De Stefano dopo la morte del padre, a partire dal 1986/87, stavano più a Milano – con i Papalia e Coco Trovato – che a Reggio Calabria.

ADR: Ricordo che avevamo stretti rapporti anche con i pugliesi e in particolare con il gruppo Anacondia. Ricordo questa stretta frequentazione e alleanza a partire dalla fine degli anni 80'...

ADR: Ho assistito ad una visita fatta, intorno al 1989/90, dai Servizi Segreti a Domenico Paviglianiti a casa sua a Reggio Calabria San Lorenzo. Vidi arrivare queste persone distinte a bordo di una Uno. Non presenziai all'incontro. Quando se ne andarono chiesi a Paviglianiti chi fossero. Mi disse che erano gente dei Servizi mandata da Don Mico Libri. Gli avevano proposto di fare da confidenti in cambio di un aiuto che avrebbe avuto sui processi. Posso anche dire che Barbaro Francesco ha ammesso di avere contatti con i Servizi nel carcere dell'Aquila. Insomma era una cosa assai diffusa nella 'ndrangheta quella di avere rapporti con i Servizi Segreti...omissis".

Lo stesso Antonio Papalia, persona non istruita e non in grado di escogitare un nome come Falange Armata, aveva detto che gli avevano detto "di fare questo nome". Dal tenore delle dichiarazioni di Cuzzola e di Foschini, si evince che, seppure il Papalia avesse un proprio interesse a depistare le indagini e a confondere le acque, il suggerimento e, soprattutto, il modo con il quale il suggerimento era stato dato e supinamente accettato (...mi hanno detto di fare questo nome... ) davano conto di uno specifico e convergente interesse dei suggeritori a propalare e diffondere la sigla in questione come collegata ad una campagna terroristica che si andava avviando e di una sorta di subalternità dei Papalia ai suggeritori. Ancor più inquietante è collegare Falange ai servizi deviati e, in particolare, ad una frangia della 7 Divisione del Sismi, era quella che aveva rapporti operativi con Gladio e, quindi, con Stay Behind. Agli atti dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" c'è la deposizione resa dall'ex Ambasciatore Paolo Fulci che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario Generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d'informazione "operativi" dell'epoca (il Sisde ed il Sismi) - fra il Maggio 1991 e l'Aprile del 1993 e poi, dalla DNA. Poi veniva acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti alla AG dai servizi d'informazione e dal Cesis, che riguardano il medesimo oggetto. Fulci, come risulta dall'ampio carteggio in atti, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell'Arma dei carabinieri dell'epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Andreotti con l'avallo dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga) dopo che nell'Aprile 1993 lasciò l'incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltre-oceano. Vennero sentiti, il suo capo-gabinetto – Generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, da quelle escussioni, emerse che il Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al Comandante Generale dei CC, di dare impulso ad attività d'indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo OSSI, una sorta di gruppo di elite della 7^ Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange Armata (che pure aveva minacciato il Fulci ) sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di "intossicazione", disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il Generale Russo, in particolare – che in tutta evidenza non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci – in via generale, nel corso della escussione del 3.7.1993 alla Digos di Roma, ribadiva che il Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Fulci riferirà di avere svolto interamente la sua carriera – fino al momento della nomina al Cesis – in diplomazia, dove da ultimo, prima era stato ambasciatore in Canada e, poi, rappresentante italiano presso il Consiglio Atlantico (dove erano rappresentati tutti i paesi Nato ; che nel contesto di tale incarico, dopo che Andreotti nell'autunno 1990 aveva confermato l'esistenza di Gladio, aveva brillantemente ricucito lo strappo fra il nostro paese e i partners atlantici, causato proprio dalla pubblica ammissione dell'esistenza della struttura, riuscendo ad ottenere una non-smentita delle dichiarazioni di Andreotti da parte della Nato; he a seguito di ciò venne contattato dall'allora Presidente Cossiga, che gli rappresentava che lui era pienamente d'accordo con Andreotti che lo voleva nominare a capo del Cesis; che dopo qualche riluttanza accettò la nomina; che senza ancora che la sua nomina avesse avuto una qualche risonanza mediatica ( in realtà, anche in seguito ne ebbe poca) mentre occupava ancora il suo vecchio incarico diplomatico, ebbe a ricevere la prime minacce Falange Armata; che tale attività intimidatoria nei suoi confronti ebbe a proseguire. Inoltre nei primi mesi si accorse che all'interno dell'abitazione dei servizi che lo ospitava a Roma era intercettato da impianti e microspie di tipo ambientale che avevano lasciato gli stessi servizi (Sismi) nonostante avesse chiesto una bonifica; che la sua gestione si caratterizzò per particolare rigore in quanto per la prima volta utilizzò i poteri del segretario generale di Cesis che permettono di bloccare nomine e promozioni dei servizi e soprattutto di bloccare fondi, cosa che fece in modo puntuale e sollecito; che continuando le minacce nei suoi confronti e imperversando, comunque, le minacce, le rivendicazioni e l'inquinamento informativo da parte di Falange Armata, delegò un suo dirigente di massima fiducia, il De Luca (deceduto) a svolgere penetranti accertamenti sulla provenienza di tali rivendicazioni/minacce Falange Armata; che all'esito di tali indagini svolte sui tabulati che tracciavano la cella di provenienza delle telefonate Falangiste, De Luca gli presentò due lucidi che contenevano due mappe d'Italia. In una erano localizzate le celle di provenienza delle minacce falangiste e nell'altra i luoghi d'incontro e le sedi periferiche ove operava il Sismi; che effettivamente aveva segnalato al Comandante Generale dei CC la vicenda in questione evidenziando che sulla base degli accertamenti svolti dal suo staff i soggetti che, all'interno del Sismi, potevano avere maggiore collegamento con le attività falangiste erano quelli inseriti nel Nucleo OSSI della Settima divisione del Sismi. Un dato di evidente interesse e di significato indiziario univoco è dato dalla circostanza che Fulci ebbe a ricevere le prime minacce Falange Armate nel Maggio 1991 quando ancora non solo non aveva preso servizio al Cesis, ma neppure era nota al pubblico la nomina. Evidente che solo un soggetto che avesse un qualche interesse a fare la minaccia e, al contempo, avesse l'informazione della nomina di Fulci, poteva essere l'ignoto falangista. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all'interno della 7^ Divisione (sciolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprire nei primi anni 90. Non sappiamo chi, all'interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordavano – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta l'utilizzazione della sigla falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Negli anni successivi, ci sarebbero stati sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l'accordo in questione era parallelo a quello politico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cd liste autonomiste ed andava oltre. Con riferimento agli attentati ai Carabinieri sul suolo calabrese, uno degli esecutori materiali, Consolato Villani, avrebbe ricevuto dal complice Giuseppe Calabrò l'incarico di rivendicare gli atti contro i militari dell'Arma per darne una coloritura di tipo terroristico. Una traccia di rilievo che consentiva di chiudere il cerchio e collegare gli assalti ai carabinieri, non solo alla strategia delle stragi continentali eseguite dai Graviano, ma più complessivamente alla strategia delle rivendicazioni falangiste, iniziate, a livello nazionale, proprio con il delitto Mormile commesso, non a caso, dalla cosca dei Papalia-Coco Trovato che era anche quella che, più delle altre spingeva, per appoggiare la strategia stragista di Cosa proveniva da scrupolosi accertamenti svolti nell'ambito dell'inchiesta. Almeno tre rivendicazioni erano state effettuate in occasione degli attacchi ai carabinieri del periodo dicembre 1993 – febbraio 1994 a Reggio Calabria. In particolare: una rivendicazione telefonica pervenuta ai CC di Scilla in data 20.1.1994 (in cui il telefonista prometteva altri agguati); una ulteriore rivendicazione telefonica ai CC del Rione Modena di RC in cui si parlava di fare "una strage" ; infine quella più significativa, a firma Falange Armata, inviata con missiva scritta con normografo ai CC di Polistena. Particolarmente di rilievo in quanto non solo, per l'appunto, vi era la rivendicazione Falngista ma perché inviata presso una Stazione dei CC che si trovava nella giurisdizione della 'Ndrangheta tirrenica che tanta parte aveva avuto nelle oscure vicende oggetto dell'inchiesta. In particolare, con riferimento a quest'ultima, si trattava di una lettera inviata tramite servizio postale ai Carabinieri della Stazione CC di Polistena (spedita da Polistena il 2.2.1994 e pervenuta in data 4.2.1994) e firmata "Falange Armata", in cui si esprimeva compiacimento per la morte dei due carabinieri e si auspicava che la stessa fine potessero fare tutti i militari in servizio presso la citata Stazione. Si riporta il testo della missiva: "Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull'autostrada è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine cornuti e bastardi e figli di gran puttana".

Il terrore di “faccia da mostro” e del passato con le istituzioni deviate: luce sulla fuga e i falsi memoriali di Nino Lo Giudice, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017, su "Il Dispaccio". La fuga, la ritrattazione, i video, i memoriali in cui infanga magistrati e forze dell'ordine che hanno segnato una svolta a Reggio Calabria. L'inchiesta "Ndrangheta stragista" si propone di fare luce anche sulla fin qui inspiegabile vicenda di Antonino Lo Giudice, ex boss dell'omonima cosca di 'ndrangheta, poi divenuto pentito e protagonista di un voltafaccia che farà discutere per le gravi accuse (totalmente infondate) nei confronti dell'allora capo della Procura, Giuseppe Pignatone, e di altri magistrati e membri delle forze dell'ordine della sua squadra. Gli accertamenti fornivano significative spiegazioni in ordine alla genesi dei suoi comportamenti culminati nell'abbandono del domicilio protetto e nell'invio delle farneticanti missive in cui ritrattava tutte le accuse. Rendendo così comprensibili condotte, quali la fuga e la ritrattazione, che, altrimenti, si dovrebbero considerare insensati atti autolesionistici, posto che, per un verso, non provocavano (e non potevano provocare ) alcun vantaggio né al dichiarante stesso né ad altri, e, per altro verso, determinavano la certa conseguenza della revoca del programma di protezione e degli altri benefici connessi alla collaborazione (così come si è puntualmente verificato, essendo ad oggi Lo Giudice privo di programma e mero dichiarante) . E ciò in una situazione nella quale Lo Giudice, aveva ottenuto anche gli arresti domiciliari in località protetta, dove scontava la custodia cautelare (e in prospettiva avrebbe potuto scontare le pene definitive che gli sarebbero state irrogate). In particolare da tali successivi interrogatori venivano in rilievo spiegazioni che - sul solco di quanto già evidenziato nella sentenza che si è appena riportata, che riconduceva, come si è detto, ad una situazione di vero e proprio terrore che aveva determinato le condotte scellerate del Lo Giudice – illuminavano ulteriori ed importanti dettagli della vicenda. Segnatamente il Lo Giudice, nel corso dell'interrogatorio del 29.9.2014 reso alla Dda di Reggio Calabria e alla Procura di Catanzaro, riferiva: "...ADR: In data 14.12.2012 ero con appartenenti alla Sezione Anticrimine (tale Stefano Meo e tale Gabriele) in quanto ero collaboratore di giustizia e mi stavo recando a Reggio Calabria per partecipare ad una udienza di persona. Arrivati nei pressi di Termoli, Stefano ricevette una telefonata che preannunciava "dei problemi" a Reggio. Ci siamo fermati presso un distributore di benzina e Stefano ricevette un'altra telefonata ma mi disse di stare tranquillo. Siamo poi andati in albergo a Roma e venne tenuta una video conferenza al posto dell'udienza tradizionale di cui vi ho detto; dopo tutto ciò mi dissero che dovevo andare alla D.N.A. Abbiamo atteso sino alle 17.00 in quanto ero atteso dal Dott. Donadio; il dott. Donadio mi formulò delle domande; non comprendevo cosa volesse apprendere. Mi fece delle domande su tale Giovanni AIELLO; io confermai di conoscerlo ma venni "tirato" nel discorso senza conoscerne il motivo. Preciso che il Dott. Donadio non mi ha costretto a dire nulla; mi ha solo "accompagnato" nel discorso suggestionandomi...

ADR: Io mi sono spaventato di quanto riferito da Donadio su Aiello, non mi sono fidato, seppi da Donadio che Aiello era uno dei Servizi Segreti, era presente in via D'Amelio e mi sono spaventato.

Il verbale viene sospeso alle ore 15.40.

L'interrogatori viene ripreso alle ore 15.42.

ADR: quando parlava il Donando, io anticipavo le risposte essendo intuitivo e pur non conoscendo l'Aiello ci azzeccavo, come voi mi fate rilevare sulla vicenda del suo addestramento e del fatto che abitasse sulla Ionica calabrese. Io mi sono anche preoccupato dopo l'accadere di diverse situazioni strane che si verificarono dopo il predetto colloquio investigativo; ricordo che una mattina, nel mese di febbraio 2013 e nel luogo di protezione, si fermò una Fiat Punto. Un uomo in borghese che si qualificò come Carabiniere, chiamandomi per nome, mi disse di salire a bordo. Con lui c'era un'altra persona. Mi portarono fuori Macerata presso una Bravo marrone dove c'erano altri due carabinieri, verosimilmente dei servizi, per come io ho capito. In macchina vi erano due persone; quello lato passeggero mi disse di "stare attento" dato che avevo parlato di Aiello di cui non avrei, invece, dovuto parlare. Nel discorso io riferii di avere delle registrazioni che avevo fatto dopo il colloquio con Donadio che dimostravano che io non avevo detto nulla su Aiello; queste persone vennero a casa e presero queste registrazioni che io gli consegnai. Ripeto: in quel giorno, io ero per strada, si avvicinò una Fiat Punto di colore grigio e mi portarono fuori città dove vi era anche una Fiat Bravo di colore marrone. La persona che mi agganciò, si qualificò come Carabiniere; era alto, dall'età apparente di 35 anni. Sul sedile posteriore, ricordo, vi era il lampeggiante. Ho notato, una volta salito in macchina, le due persone che erano armate con pistole Beretta. Voglio rappresentare che 4 mesi fa, a giugno circa, nel luogo di protezione, si sono presentate delle persone dove lavora la mia compagna ed hanno chiesto informazioni sulla mia persona al datore di lavoro di Laila come ho appreso nel corso di un colloquio anche telefonico...omissis...

Per tornare all'incontro preciso che i due sulla Fiat Punto mi accompagnarono dove vi era una Bravo. Su detta macchina vi era una persona pelata, con accento laziale, che formulava le domande di circa 40 anni. Questi mi disse prima di stare tranquillo. Mi disse che sapeva che io aveva parlato di Aiello e mi disse che dovevo stare attento specie nel futuro a parlare di certi argomenti. Io dissi che a Donadio non avevo raccontato nulla di Aiello; a questa persona io consegnai le registrazioni.

ADR: in quel giorno non avevo registratore e telefonino al seguito. Dopo il colloquio investigativo ho iniziato a registrare perché ero spaventato. Le udienze le registravo per comprendere, nell'immediatezza, quello che avevo raccontato. Mi pare che l'incontro di cui vi ho detto è occorso nel mese di febbraio. Preciso che in seguito successero altri fatti strani. Vennero delle persone che volevano entrare nella mia casa nella località protetta. Io non li conoscevo e disse che prima avrei chiamato ai miei referenti di zona e loro preoccupati se ne andarono.

ADR: Ho diffidato di Donadio perché ho pensato che il tutto, tutte le sue domande su Aiello, fossero correlate, una specie di ritorsione, alle mie dichiarazioni rese sul conto del Dott. Cisterna pure lui della Dna. Mi voleva mettere in difficoltà.

ADR: Mi chiedete se comunque io avevo mai sentito parlare prima di allora, prima che Donadio mi facesse simili domande di Aiello. Vi dico la verità: Aiello lo sentii nominare all'Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995...omissis....

ADR: Nessuno mi ha detto di scrivere quanto ho scritto nei memoriali contro il Dott. PIGNATONE, PRESTIPINO e CORTESE. Mi sono spaventato dato che, dal mese di giugno 2011 in poi, ai miei figli hanno bruciato la macchina ed a mio fratello il furgone. Volevo ritrattare quanto già raccontato ma volevo, nel contempo, aiutarvi. Nei due memoriali che ho scritto ho cercato di fornirvi degli elementi che possano aiutarvi. Comunque le mie accuse ai predetti inquirenti erano del tutto capziose e dettate dal momento di sconforto.

ADR: I memoriali li ho scritti io. A conferma della falsità di quelle accuse non ho mai confermato a verbale quanto ho scritto su Pignatore e gli altri; ripeto li ho scritti perché avevo perso la fiducia...omissis...

ADR: La mia compagna Laila vive in località protetta; ho appreso da lei, al telefono, che pochi mesi fa a Giugno, si erano presentati dal datore di lavoro della stessa, due persone qualificatesi come Carabinieri. Questi hanno mostrato al datore di lavoro della mia compagna, delle foto che la ritraevano ed hanno chiesto il motivo per il quale lavorava in quel luogo. Per quanto mi è stato riferito, al datore di lavoro, che si intimorì, venne indicato che era la mia compagna e che io ero un appartenente alla 'ndrangheta...omissis....

ADR: non ho raccontato di Aiello, nella prima fase della mia collaborazione, perché avevo paura...mi è rimasta impressa la sua freddezza. Sembrava non avesse mai emozioni. Spontaneamente: io temevo Aiello ed ho paura anche ora, potrei morire anche in carcere, che ne so.

ADR: io chiesi ad Aiello della bruciatura che aveva in volto e lui mi disse che era stata provocata durante una operazione, dallo scoppio di un'arma, fucile o di una pistola, non ricordo...

ADR: nel terzo memoriale che io stavo scrivendo prima del mio arresto, parlavo di Rocco FILIPPONE; questi è il responsabile, il mandante, dell'omicidio dei Carabinieri eseguito da Villani e Calabrò. Ciò mi venne detto da Villani. Ad Oppido Mamertina, intorno al 1991, così come Villani mi raccontò nell'anno 2000 o 2001, si incontrarono Filippone, Giuseppe de Stefano, Giuseppe GRAVIANO ed altri, per definire che si dovevano uccidere nell'ambito di una strategia stragista, fra gli appartenenti alle FFOO, solo appartenenti all'Arma dei Carabinieri.

ADR: sapevo che Filippone, di Melicucco, era uno dei capi della Tirrenica.

ADR: preciso, a richiesta, che ho timore sia di Aiello che della famiglia dei Condello. Ho più paura di Aiello perché è esponente di un mondo che non conosco. Non so chi ci sia dietro...omissis..."

Nino Lo Giudice, il "Nano", è un boss della 'ndrangheta pentito. Che, però, scappa. E non lo fa nell'ambito della sua carriera criminale e nemmeno quando, da collaboratore, accusa parenti stretti, ma anche pezzi delle Istituzioni. Scappa quando la Direzione Nazionale Antimafia gli chiede di Giovanni Aiello, il poliziotto dei servizi segreti noto come "faccia da mostro". A quel punto, il "Nano" si terrorizza. Lo Giudice si terrorizza e inizia a svalvolare, quando si parla di Aiello e quando inizia a ricevere una serie di incursioni da soggetti ritenuti nell'orbita dei servizi segreti. Ora, però, è possibile fare degli ulteriori passi in avanti verso una più completa (anche se non ancora esaustiva) ricostruzione dei fatti che indussero il Lo Giudice a fuggire. Quelle accuse alla squadra di Pignatone erano false e attraverso le indagini sarà possibile comprendere quali ragioni, quali forze, quali intimidazioni condizionarono il Lo Giudice, ma non sarà, invece, possibile individuare e dare un nome ed un cognome a chi materialmente fece sentire il Lo Giudice in una condizione di pericolo imminente. Il colloquio investigativo svolto nel Dicembre del 2012 alla Dna, fu l'elemento, il fattore, che innescò la spirale che condusse Lo Giudice alla fuga, ma non fu il colloquio investigativo in sé, o meglio, le modalità di conduzione dello stesso da parte della Dna, a spaventare il Lo Giudice - uomo che, deve ragionevolmente ritenersi, per il suo passato e per la sua personalità, per terrorizzarsi, deve essere sottoposto a ben altro che ad un, sia pure serrato, colloquio investigativo. E invece si terrorizza.

Come si evince dallo stesso tenore delle dichiarazioni di Lo Giudice, lo stesso ruotava intorno a due questioni: la figura di Giovanni Pantaleone Aiello - ex poliziotto in servizio alla Squadra Mobile di Palermo legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati; le vicende degli assalti ai Carabinieri oggetto dell'inchiesta. Evidente che fossero questi i nervi scoperti di quella che, fino ad allora, era stata, invece, la regolare e apparentemente completa collaborazione di Nino Lo Giudice. Nervi scoperti che venivano colpiti non certo dalle modalità del colloquio investigativo in Dna, visto che Lo Giudice, come si è detto, non solo è stato un incallito criminale, ma aveva vasta esperienza di contro-esami particolarmente incalzanti nel corso della sua non breve carriera di collaboratore, ma, evidentemente, dagli argomenti, del tutto nuovi, che in quella sede venivano affrontati. Invero, il "Nano", fino a quel momento, aveva affrontato interrogatori e contro-esami assai spinosi, non solo su questioni e delitti legati alla sua appartenenza alla 'ndrangheta, ma anche sulla responsabilità ed il coinvolgimento di suoi congiunti in tali fatti, primo fra tutti quello di suo fratello Luciano. Ma non solo. In tale contesto aveva anche riferito dei contatti che lui e suo fratello Luciano avevano con appartenenti alla magistratura ed alle Forze dell'Ordine. Eppure mai aveva ritrattato. Mai aveva smesso di collaborare. E men che meno si era terrorizzato, aveva messo in guardia i congiunti ed aveva tentato di fuggire. Né, mai, aveva manifestato agli inquirenti, non solo espressamente, ma neppure per fatti concludenti, preoccupazione per la sua incolumità e per quella dei suoi cari. Tanto meno, lo aveva fatto in termini così drammatici. Evidente, allora, che Lo Giudice, fra i diversi argomenti "scottanti" da lui affrontati, riteneva davvero pericolosi (sia per lui che per i suoi cari) proprio quelli affrontati nel colloquio investigativo del Dicembre 2012 alla Dna. E cioè quelli che lo portavano sul terreno delle stragi e dei suoi possibili ulteriori protagonisti e quello dei suoi rapporti (confermati peraltro, non solo dal Villani, ma, anche, da altri elementi indiziari) con un soggetto quale Aiello, che sulla stessa base delle dichiarazioni del Lo Giudice, risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate.

E ciò, tuttavia, seppure poteva preoccupare il Lo Giudice in misura fuori dall'ordinario (per usare un eufemismo) di fatto, non era, ancora, sufficiente a terrorizzarlo e a fargli prendere le decisioni più drammatiche e definitive, cioè la fuga dal luogo di protezioni e l'invio delle missive di ritrattazione. Il turbamento del Lo Giudice, a seguito dello svolgimento del colloquio investigativo, peraltro, lo si comprende appieno, anche alla luce di un ulteriore fattore: la miscela fra gli argomenti trattati nel corso del colloquio investigativo e l'appartenenza del Magistrato che conduceva il colloquio – il dott. Gianfranco Donadio - alla Direzione Nazionale Antimafia. Invero si trattava dello stesso Ufficio del quale, fino a pochi mesi prima, aveva fatto parte il dott. Alberto Cisterna (che, come il dott. Donadio, era Procuratore Aggiunto della Dna). Ed il dott. Cisterna, proprio a seguito delle indagini seguite alle reiterate accuse dello stesso Lo Giudice - che attribuiva al Cisterna comportamenti ambigui e collusivi con suo fratello Luciano, indagato per gravissimi reati di criminalità organizzata – era stato trasferito dal CSM, dalla Dna ad altra sede. A ciò si aggiunga che dalle narrazioni di Lo Giudice, Cisterna e Aiello erano, sia pure indirettamente, legati fra loro dal fatto che entrambi erano in rapporti con il Capitano Spadaro Tracuzzi, Ufficiale di pg, condannato per avere concorso, da esterno, nell'associazione mafiosa denominata cosca Lo Giudice. Si comprende, allora la ragione per la quale Lo potesse essere impressionato e suggestionato dal colloquio in questione anche in ragione del timore che Donadio, per motivi di colleganza con il Cisterna e per una sorta di ritorsione contro lo stesso collaboratore, volesse, attraverso il colloquio, esporlo a due pericoli particolarmente gravi: quello derivante dall'evidenziare, dal rendere notori, per la prima volta, in un atto d'indagine, le connessioni del Lo Giudice con entità deviate dello Stato di eccezionale pericolosità, connessioni di cui, però, fino a quel momento, Lo Giudice stesso (pur dovendolo fare) non aveva mai riferito; metterlo nel mirino delle ritorsioni di Aiello e delle entità deviate cui lo stesso Aiello era collegato, avendo disvelato, Lo Giudice, circostanze di fatto pericolose proprio per i circuiti deviati in cui, l'Aiello, sarebbe inserito. Lo Giudice spiegava che, non solo, aveva notato presenze inquietanti nelle adiacenze della sua abitazione in località protetta e che vi erano stati dei tentativi di contattarlo da parte di soggetti non meglio identificati, ma che il contatto, infine, vi era stato e che, avvicinato e portato, manu militari, in una macchina da sedicenti carabinieri, verosimilmente in servizio presso qualche apparato di sicurezza, era stato ammonito a non parlare più di Aiello. Lo Giudice, all'esito del colloquio investigativo con il dott. Donadio, si era impegnato a fornire, non appena rientrato in località protetta, per il tramite di Ufficiali di pg delegati, al Procuratore Nazionale Antimafia, una copia cartacea di alcune foto di Aiello "faccia da mostro". Foto che aveva custodito nel suo pc, di cui, a suo dire, disponeva, in quanto consegnategli dal suo affiliato Antonio Cortese sottoposto a colloquio investigativo dal Pna). Cortese, sempre secondo il racconto di Lo Giudice, aveva avuto, a sua volta, la disponibilità di queste foto, in quanto, lo stesso Lo Giudice gli aveva ordinato di scattarle (all'insaputa di Aiello) durante un pedinamento dello stesso Aiello ordinato, sempre, dal Lo Giudice (che evidentemente non si fidava di Aiello, di cui aveva, già allora, un chiaro timore) per avere una traccia dei luoghi e delle persone frequentate da Aiello.

Così, dunque, nascono memoriali e video per screditare il corso palermitano a Reggio Calabria. E tale filmato, girato la sera del colloquio investigativo e cioè la notte fra il 14 ed 15 Dicembre 2012, veniva, poi, inviato, su opportuno supporto informatico, a chi di dovere, alcuni mesi dopo, in uno con i memoriali di ritrattazione. Che, peraltro, se, davvero, nulla avesse avuto a che fare con Aiello, non si capisce perché si sarebbe dovuto preoccupare tanto. Mentre, quella paura, quel terrore, quella concitazione, potevano spiegarsi ed avere una loro logica solo se fossero ricorse due condizioni: l'effettiva esistenza di tali rapporti e, al contempo, la loro straordinaria pericolosità che consigliava di occultarli per quanto possibile.

Nicola Calipari era nel mirino dei clan, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". In una intercettazione ambientale del 12 febbraio 2016, i colloquianti compiono espliciti riferimenti a soggetti di 'Ndrangheta di origine cosentina ed ai propositi omicidiari di questi nei confronti del dott. Nicola Calipari, all'epoca dirigente della Squadra Mobile di Cosenza. Da agente dei servizi segreti, Calipari, reggino, morirà nel marzo del 2005 a Baghdad, in Iraq, nell'operazione per liberare la giornalista Giuliana Sgrena. In sintesi Giuseppe Graviano spiegava ad Adinolfi che i calabresi avevano richiesto a Cosa Nostra, forti del legame ormai instaurato, di uccidere il funzionario della Mobile di Cosenza Nicola Calipari approfittando della circostanza che lo stesso si recava nella città di Palermo per ragioni di carattere sanitario (problemi di fertilità) riguardanti sua moglie; in tale contesto dopo un iniziale assenso ed una iniziale collaborazione fornita da Cosa Nostra, Graviano si vanta di aver bloccato la esecuzione del delitto salvando la vita al Calipari; di rilievo risulta anche la esatta indicazione della clinica presso la quale avvenivano le visite della moglie di Calipari. Particolari inquietanti che arrivano dalle affermazioni dei collaboratori di giustizia Nicola Notargiacomo e Dario Notargiacomo. Il primo, esponente della 'Ndrangheta cosentina, aveva beneficiato dell'ospitalità dei Graviano presso il Villaggio Euromare formalmente di Tullio Cannella, ma di fatto nella disponibilità dei Graviano di Brancaccio. Premesso che i rapporti dei Notargiacomo con esponenti di Cosa Nostra si estendevano anche a Leoluca Bagarella e Nino Marchese, per rimanere ai personaggi di maggiore spessore, risultava che Bagarella avesse stretto, durante le sue carcerazioni, strettissimi rapporti con esponenti della destra eversiva, fra i quali il Mario Di Curzio. Accertata la piena attendibilità del narrato dei Notargiacomo e cioè, in primo luogo, i comuni periodi di detenzione fra gli interssati, si rileva che il Di Curzio, pur non avendo precedenti per reati "politici" effettivamente, in corso di detenzione si era avvicinato agli ambienti della destra eversiva tanto che unitamente a Concutelli ea d altri, partecipava, in ambiente carcerario a manifestazioni contro l'Amministrazione. Alla luce del ruolo dei fratelli Notargiacomo, i riferimenti operati da Graviano alla vicenda Calipari sono divenuti meritevoli di riscontro. Si è reso necessario, in particolare, verificare i singoli passaggi del colloquio intercettato partendo dalla escussione del collaboratore di giustizia Giovanni Drago, per il ruolo di estremo rilievo dal predetto rivestito nel mandamento di Ciaculli/Brancaccio, il quale il 4 maggio 2017 ha dichiarato quanto segue: "Ricevo lettura del mio precedente interrogatorio del 22.11.2013:

"ADR: Per il tramite di Marchese Antonino e quindi mio, i Graviano e in particolare Giuseppe strinsero i rapporti con alcuni gruppi di 'ndrangheta. In particolare ricordo i fratelli Notargiacomo, certo Pino (non ricordo se era un nome o cognome) e due che sono morti per lupara bianca. Con loro trafficavamo in armi e droga. Ho riferito già a suo tempo di questi rapporti. Posso dire che nel 1988/90 li abbiamo ospitati presso l'Eurovillage di Buonfornello di Cannella. Erano scampati ad un agguato e, verosimilmente, o si stavano nascondendo dai nemici o erano (anche) latitanti..."

Confermo pienamente quanto dissi a suo tempo nel verbale sopra riportato. A vostra richiesta e domanda preciso che fu proprio Marchese Antonino, forse, ma non sono sicuro, unitamente a suo fratello Giuseppe, a conoscere per primo, fra noi di Cosa Nostra palermitana, i suddetti Notargiacono. Ricordo che tale conoscenza avvenne nel carcere di Trani dove Marchese Antonino, e forse Giuseppe, erano detenuti unitamente ai Notargiacomo. In seguito a questo periodo di co-detenzione con il (o i) Marchese, i Notargiacomo vennero scrarcerati prima del (o dei) Marchese suddetti (Marchese che, infatti, per quanto mi risulta, negli anni successivi sono rimasti detenuti). Fu quindi Gregorio Marchese, che invece era libero e non era stato detenuto a Trani (ma se non erro in quel periodo non è mai stato detenuto) fratello di Giuseppe e Antonino, nonché mio cugino, a presentarmi i Nortargiacomo che io stesso ho poi presentato a Giuseppe Graviano. In tutta evidenza, quindi, i Marchese detenuti (Antonino e, forse Giuseppe) avevano fatto da tramite con il fratello Gregorio per metterlo in contatto con i Notargiacomo e ritengo che ciò possa essere avvenuto nel corso di colloqui con i familiari nel suddetto carcere di Trani. Preciso che Gregorio Marchese era uomo a nostra disposizione, pur non essendo uomo d'onore. Egli faceva continuamente da tramite fra noi del Mandamento di Ciaculli, i suoi fratelli detenuti - che invece, a sua differenza, erano uomini d'onore - e altri esponenti anche di rilievo di Cosa Nostra. In tale contesto il Gregorio Marchese ci presentò i Notargiacomo. Si tenga presente che all'epoca ( siamo nella seconda metà degli anni 80') il Mandamento di Ciaculli comprendeva anche la famiglia di Brancaccio, oltre che quelle di Corso dei Mille e di Roccella, dunque per tale ragione è evidente che la conoscenza con i Notargiacomo venne immediatamente fatta anche dal Graviano Giuseppe che reggevano la famiglia di Brancaccio posto che io, come uomo d'onore, facevo parte della famiglia di Brancaccio ed avevo un rapporto quotidiano e fraterno con i Graviano stessi. Peraltro Giuseppe Graviano, dopo l'arresto di Lucchese Giuseppe, che era il capo Mandamento di Ciaculli, divenne colui che di fatto dirigeva il predetto Mandamento. Preciso che ero io stesso, in prima persona, che, unitamente a Giuseppe Graviano, anche quando Lucchese era libero, avevo rapporti con i Notargiacomo, dunque parlo di rapporti che ho vissuto direttamente. In tale contesto si colloca la vicenda di Buonfornello di cui ho detto e tutte quelle relative ai comuni traffici di armi e droga che avevamo noi di Brancaccio con i tre fratelli Notargiacomo. Rapporti di cui ho riferito ampiamente in precedenti verbali. A vostra richiesta, premesso che i fratelli Notargiacomo erano tre, preciso che i rapporti li avevo solo con Nicola e Dario Notargiacomo. Fra i loro sodali ho conosciuto anche i fratelli Bartolomeo e un tale Pino, tutti calabresi (di Cosenza) come i Notargiacomo. A vostra domanda vi dico che non ricordo con esattezza il nome del terzo fratello Notargiacomo, che non ho mia conosciuto, forse si chiamava Roberto, ma non sono sicuro. Colloco questi rapporti con i Notargiacomo ed i loro sodali in un periodo che si è sviluppato fra il 1985/86 (comunque dopo la scarcerazione dei Notargiacomo) fino all'inizio degli anni '90. Mi chiedete se i Notargiacomo si siano mai lamentati dell'azione investigativa o comunque del comportamento di qualche uomo dello Stato. Si ricordo bene questa circostanza. Mi pare di averne già parlato in qualche verbale. In ogni caso ricordo che i Notargiacomo si lamentavano, anche con me personalmente, sia del Direttore di un Carcere, che operava dalle loro parti (direttore che, se non ricordo male, poi, è stato ucciso) in quanto a loro dire pare fosse stato molto duro nei loro confronti ed aveva fatto, sempre a loro dire, degli abusi contro di loro, che di un funzionario di polizia, sempre operante delle loro parti, quindi a Cosenza, che indagava con molta capacità e decisione su di loro. Con riferimento a questo funzionario, ricordo che i Notargiacomo ci dissero che lo stesso veniva a Palermo, mi pare con cadenza mensile, in quanto aveva la moglie in stato di gravidanza che si faceva seguire da un noto ginecologo palermitano, mi pare, ma non sono sicuro, tale dott. Cittadini. Ricordo che questo nome, quello del ginecologo, è stato da me fatto ai PPMM, molti anni fa, a verbale, quando la mia memoria era più fresca. In ogni caso i Notargiacomo ci dissero e lo dissero in particolare a Graviano Giuseppe, essendo anche io presente, questo particolare delle visite ginecologiche della moglie di questo funzionario, in quanto volevano essere autorizzati dal Graviano Giuseppe ad uccidere detto funzionario quando, accompagnando la moglie, veniva a Palermo. Se non ricordo male ci dissero anche il tipo di macchina che utilizzava il funzionario per accompagnare la moglie dal ginecologo. Questo ginecologo aveva lo studio a Palermo in zona centrale, ma in territorio di competenza di mandamento diverso dal nostro. Mi pare di avere specificato bene il luogo dove il funzionario si recava con la moglie e quindi il luogo dove il predetto ginecologo faceva le visite alla moglie del funzionario di polizia. Se non ricordo male, tale luogo è dalle parti del Teatro Massimo e del Politeama. Questa richiesta o meglio questa richiesta di essere autorizzati a commettere il delitto, venne fatta dai Notargiacomo quando Lucchese Giuseppe era ancora libero. Ricordo che ricevuta la richiesta, il Graviano ne parlò con Lucchese e ricordo che io presi parte alla conversazione. Lucchese prese atto della richiesta e disse che ne doveva parlare a Riina e, quindi, in Commissione. In seguito Graviano Giuseppe mi disse che di quell'attentato al funzionario di polizia cosentino da farsi a Palermo non se ne faceva nulla perché non era il momento di fare "chiasso" con un atto così eclatante. Di seguito tale diniego venne comunicato dal Graviano ai Notargiacomo. Quindi in effetti l'attentato non venne fatto.

ADR: Non ricordo assolutamente il nome del funzionario di polizia che doveva essere ucciso dai Notargiacomo.

ADR: Non sono in grado di dire come i Notargiacomo sapessero di queste visite a Palermo del funzionario di polizia e della moglie. Forse avevano una talpa o forse qualcuno ne aveva seguito gli spostamenti.

ADR: questo episodio della richiesta di potere uccidere a Palermo il funzionario di polizia è sicuramente precedente al soggiorno dei Notargiacomo presso il villaggio Euromare di Buonfornello".

Le successive acquisizioni, provenienti dall'apporto dichiarativo dei fratelli Notargiacomo, confermavano in pieno il narrato di Drago. Il 4 maggio 2017, invero, Nicola Notargiacomo precisava: "Ricevo lettura di stralcio del verbale da me reso in data 28.6.2016:

ADR: Ho conosciuto Giuseppe Graviano nel 1988 quando mi recai a Palermo insieme a Bortolomeo Stefano e mio fratello Dario. Avevo rapporti con i siciliani in quanto in carcere a Trani, nel 1985 io e Bartolomeo Stefano avevamo conosciuto Nino Marchese. Io all'epoca ero inserito nel gruppo Perna operante nella zona del cosentino. La cosca Perna era contrapposta a quella Pino/Sena. Non eravamo riconosciuti, come cosca, dal crimine di Polsi, anche se eravamo operativi come locale di Cosenza ed avevamo rapporti molto intensi, anche grazie a me, con i Nirta, gli Aricò (Destefaniani di Reggio Calabria) e i Pelle.

ADR: Più precisamente fu Drago Giovanni che a sua volta ci era stato presentato da un fratello di Nino Marchese, a presentarci Giuseppe Graviano. Si instaurò un rapporto privilegiato proprio con Giuseppe Graviano. Iniziammo a scambiarci, armi, esplosivi, droga. Più precisamente noi vendevamo a Giuseppe Graviano e a tutta la famiglia di Brancaccio, armi automatiche (UZI, kalashnikov, ecc), acidi, loro vendevano a noi stupefacenti del tipo cocaina ed eroina, inoltre ebbero a regalarci del tritolo per un quantitativo di circa 25 kg. Tutto ciò avvenne fra il 1988 ed il 1989, anno nel quale, a seguito di un conflitto a fuoco nel quale Bartolomeo Stefano ebbe a subire gravissime ferite, ci rifugiammo nel villaggio Euromare di Buonfornello. Preciso che andammo presso questo villaggio in quanto Giuseppe Graviano ci aveva detto che aveva dei medici che potevano curare il Bartolomeo Stefano. Ed in effetti così fu. Al Villaggio Euromare abbiamo avuto rapporti diretti e frequenti con Giuseppe Graviano (che io sapevo essere il vero titolare del villaggio), Cristofaro Cannella, Tullio Cannella, Marcello e Vittorio Tutino, Cesare Lupo, vero factotum dei Graviano, ed altri ancora. Ricordo anche uno che faceva da supporto continuo a Bagarella Leoluca. Mi chiedete se questa persona fosse tale Calvaruso. Si, lui, Toni Calvaruso. Andai con lui in barca all'isola delle femmine.

ADR: In tale Villaggio rimanemmo fino ad Ottobre 1989 (eravamo arrivati nel Giugno dello stesso anno). Ricordo, circostanza che mi indisse ad andare via, che Graviano Giuseppe mi disse che secondo un "professore" che aveva visitato Stefano Bartolomeo, il predetto aveva oramai riportato a seguito delle ferite, sotto un profilo psicologico, gravi e permanenti conseguenze che lo avrebbero reso inaffidabile. Si erano, poi, determinate ulteriori situazioni incresciose che incrinarono i nostri rapporti con il Graviano. In particolare, a mia insaputa avevo intrecciato una relazione con una ragazza che solo in un secondo momento venni a sapere trattarsi di una cugina di Lupo Cesare. Poi Graviano reclamava (come mi disse Marcello Tutino nel ristorante Happy Days di Giovanni Lombardo) una parte di pagamento non ancora soddisfatto di un fornitura di cocaina.

ADR: Giuseppe Graviano è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino, nell'estate 1988. Andammo insieme a Camigliatello Silano per fare una gita. Pernottarono presso l'abitazione di Bartolomeo Stefano sita in Contrada Andreotta.

ADR: i nostri rapporti con Giuseppe Graviano, sia pure in modo non traumatico, in concreto, si interruppero, quindi, nel 1989 a seguito delle incomprensioni di cui ho detto.

ADR: Tutte le vicende relative ai rapporti illeciti fra noi e i Graviano hanno avuto uno sviluppo processuale, con condanne, a Palermo. Sono i processi cd "Ferryboat" che si sono chiusi più o meno nel 1997/98.

ADR: Non ho mai parlato con Giuseppe Graviano dei suoi rapporti con componenti della 'Ndrangheta diversi da noi. Certamente ne aveva. Non gli mancavano. Ma non ne parlammo mai espressamente. Ora che ricordo, per fare un esempio di quanto il Graviano potesse essere inserito in rapporti con esponenti della 'Ndrangheta, una volta, lo stesso mi chiese se, per le nostre esigenze a Cosenza, avessimo avuto bisogno di killer. In caso positivo, aggiunse, poteva farmi entrare in contatto con i Facchineri di Cittanova che, disse, erano suoi amici. Posso dire che Graviano aveva agganci ovunque...omissis". Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. Si tratta di episodio che non ho vissuto direttamente ma che mi è stato raccontato da mio fratello Dario. In effetti mio fratello Dario mi disse che era stato a Palermo con Bartolomeo Stefano ed aveva richiesto a Graviano Giuseppe di essere autorizzato ad uccidere un Ispettore di Polizia a nome Toni Provenzano, che faceva servizio alla Questura di Cosenza. Il Provenzano aveva sposato la sorella di una ex moglie di mio fratello Dario. Questa donna, cioè l'ex moglie, si chiamava Caloiero Stefania. Il Provenzano ci dava fastidio. Spesso fermava mio fratello, lo controllava. Abusava della sua divisa per motivi penso personali. Insomma dava noia. Eccedeva. Era troppo zelante. Mio fratello mi disse che il Provenzano per suoi motivi spesso andava a Palermo. Se non ricordo male il Provenzano aveva in cura a Palermo qualche suo parente. Non ricordo che parente fosse né di che tipo di cure avesse bisogno. A vostra domanda, che mi chiedete perché scomodare Cosa Nostra per uccidere un Ispettore di Polizia a Palermo, che facilmente avremmo potuto uccidere in Calabria, rispondo che comunque a noi sembrava che ucciderlo a Palermo fosse la cosa migliore perché in questo modo nessuno poteva sospettare di noi e soprattutto ci fidavamo dei palermitani e dell'appoggio che avrebbero potuto darci. Ricordo che mio fratello Dario mi disse che aveva chiesto l'autorizzazione a Giuseppe Graviano, che all'epoca era capo-mandamento per commettere l'omicidio in questione e che il Graviano, dopo essersi consultato con Riina, gli disse che non era il caso di commettere questo delitto a Palermo perché in quel momento un delitto eclatante avrebbe determinato conseguenze pregiudizievoli per cosa nostra. Questi fatti sono avvenuti nel 1998 (in realtà è il 1988, come ricavabile dal certificato storico di detenzione e dal fatto che lo stesso iniziò a collaborare con la giustizia nel 1993 – n.d. PM), subito dopo la nostra scarcerazione.

ADR: Io non ho mai conosciuto Giuseppe Lucchese. Conosco il nome, ma non l'ho mai visto. A vostra domanda chiarisco che, per quanto mi risulta, quello del Provenzano è l'unico omicidio in relazione alla cui esecuzione abbiamo richiesto l'autorizzazione a Graviano, ovvero la sua collaborazione. A vostra domanda preciso che non ricordo proprio che noi abbiamo richiesto la collaborazione di Cosa Nostra per uccidere un qualche Direttore di Carcere.

ADR: Non ho un fratello a nome Roberto siamo solo due fratelli io e Dario. Esiste un Roberto che è il fratello di Stefano Bartolomeo".

Analogo apporto proviene dalle dichiarazioni di Dario Notargiacomo, il quale sempre in data 4 maggio 2017 dichiarava: "Ricevo lettura del mio verbale del 6.7.2016. "A sua domanda preciso di aver iniziato a collaborare con la giustizia nel dicembre 1993, in un periodo in cui ero sottoposto alla misura della semilibertà che ho in seguito violato a seguito di alcuni episodi che mi hanno messo in allarme. Ho poi deciso di collaborare con la giustizia in quanto ha avuto paura per la mia incolumità: per tali ragioni mi sono trasferito a Roma, dove ho beneficiato dell'aiuto dei fratelli CARDELLI attraverso i quali ho mantenuto rapporti con persone vicine al clan SENESE. Ho conosciuto i fratelli GRAVIANO tramite Nino MARCHESE quando ci trovavamo tutti insieme nel carcere di Trani. In quel periodo ho conosciuto anche Leoluca BAGARELLA. I contatti con la famiglia MARCHESE erano tenuti anche da Stefano BARTOLOMEO che aveva rapporti molto stretti anche con Giovanni DRAGO. I rapporti con i GRAVIANO si instaurarono attraverso questo circuito e divennero particolarmente stretti nel tempo tanto che Giuseppe GRAVIANO venne a trovarci a Cosenza. A seguito di tali primi contatti, ai fratelli GRAVIANO abbiamo fornito numerose armi, corte e lunghe, che venivano acquistate dai PARADISO di Lamezia Terme. Le armi venivano vendute ai GRAVIANO ed ai MARCHESE: ricordo che i nostri rapporti si sono estesi anche a Fifetto CANNELLA. Le armi che vendevamo ai GRAVIANO, anche attraverso Stefano BARTOLOMEO ed il fratello Roberto, ci venivano regolarmente pagate. Dai GRAVIANO invece noi acquistavamo sostanza stupefacente del tipo eroina. Tutto questo si svolge nel periodo che va dal 1988 al 1990. A sua domanda confermo di essere stato ospite dei GRAVIANO in Sicilia nel 1989 presso un villaggio turistico nei pressi di Termini Imerese, che mi pare si chiamasse Euromare: tale villaggio era nella disponibilità di GRAVIANO Giuseppe. In tale località ho incontrato oltre ai fratelli GRAVIANO anche Giovanni DRAGO, Fifetto CANNELLA e Tullio CANNELLA. Il nostro soggiorno in Sicilia avviene dopo il ferimento di Stefano BARTOLOMEO, in quanto avevamo bisogno di un luogo tranquillo. Se non ricordo male lo spostamento in Sicilia venne programmato dal BARTOLOMEO che aveva rapporti diretti con i GRAVIANO. Intendo precisare che nel corso del soggiorno abbiamo avuto rapporti anche con Vittorio TUTINO e Cesare LUPO. Il rapporto tra me ed i fratelli GRAVIANO è sostanzialmente parificabile, anche se non sovrapponibile totalmente, a quello che aveva anche mio fratello con i predetti. Oltre a noi i GRAVIANO avevano rapporti con appartenenti alla 'Ndrangheta della zona di Polistena, di cui non ricordo il nome. Questo riferimento venne fatto in relazione alla situazione di Pino MARCHESE a cui non era stata riconosciuta la semi infermità mentale. Se non sbaglio fecero riferimento ad una avvocato o magistrato operante in Calabria che doveva interessarsi in Cassazione a favore del MARCHESE...omissis. Ricordo anche che Giuseppe GRAVIANO ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò RIINA: questo episodio è precedente al nostro soggiorno presso il villaggio Euromare. Intendo precisare che noi facevano parte del gruppo PERNA-PRANNO-VITELLI, in cui sono entrato nel 1981. Noi avevano una certa indipendenza che ci aveva affidato Franco PERNA: ciò valeva per il traffico di armi e di stupefacenti di cui parlavo prima. Questa indipendenza era stata guadagnata da noi per la capacità di gestire un gruppo di fuoco importante. È doveroso precisare, visto che me lo chiede, che Franco PERNA era a conoscenza dei nostri rapporti con i GRAVIANO: ricordo di aver informato il PERNA di tali rapporti nel corso della comune carcerazione in Pianosa nel 1986. Sono a conoscenza che i PINO/SENA avevano rapporti con la cosca BONURA di Palermo, come appresi da un certo Franco nel carcere di Cosenza nel 1990. Non ricordo se mi vennero riferiti altri particolari in merito a tale rapporto...omissis. I nostri rapporti con i GRAVIANO si interruppero nel 1990 con il nostro arresto. Nell'ultimo periodo i nostri rapporti si erano comunque rovinati. Ho saputo da Stefano BARTOLOMEO che tutto quello che i GRAVIANO facevano era conosciuto da Toto RIINA: mi disse in particolare che i GRAVIANO erano particolarmente rispettosi della linea di comando...omissis. Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. In effetti successe che io personalmente, accompagnato da Bartolomeo Stefano, parlai con Drago Giovanni - non ricordo con certezza, nell'occasione, la presenza di Graviano Giuseppe che non posso escludere, ma per noi era come se fosse presente perché era pacifico che quello che dicevamo a Drago, questi lo doveva riportare a Graviano - di un omicidio di un funzionario di Polizia, più esattamente di un Ispettore, tale Toni Provenzano. Toni Provenzano era il marito della sorella della mia ex moglie. La mia ex moglie si chiama Stefania Caloiero. Non ricordo il nome di sua sorella, moglie del Provenzano. In effetti il Provenzano non voleva imparentarsi, sia pure indirettamente, con un pregiudicato come me. Per questo mi aveva preso di mira e mi controllava di continuo abusando della sua funzione. Ciò sia prima della mia carcerazione a Trani (all'epoca ero già fidanzato con la mia ex moglie) che dopo ( io mi sono sposato con la mia ex moglie nel febbraio/marzo 1989 e mi sono separato di fatto da lei nel 1992) . Ricordo che era ossessivo, mi fermava per strada, mi perquisiva la vettura e così via con frequenza quasi quotidiana. Mi aspettava sotto casa. Insomma non ne potevo più. Senza contare che questo atteggiamento a mio avviso generato da motivi personali, arrecava danno alle attività criminali mie e del mio gruppo. Per questo, avendo saputo che il Provenzano si recava a Palermo per accompagnare la moglie da un noto ginecologo, chiesi (direttamente o indirettamente, non ricordo come ho detto) unitamente al Bartolomeo, l'autorizzazione al Graviano di commettere il delitto in questione. Ricordo che precisai ai siciliani che questo Provenzano era un poliziotto della Questura di Cosenza, presso la quale come capo della mobile operava dott. Calipari, buonanima. Ricordo che in un primo momento il Graviano ci diede l'assenso nel senso che disse o ci fece dire che se ne sarebbero "occupati loro". Una volta mi dissero, più esattamente fu il Drago a dirmelo, che avevano pedinato il Provenzano e che questo era entrato in una caserma per cui avevano interrotto il pedinamento. In un secondo momento Graviano, direttamente o indirettamente per il tramite del Drago ora non ricordo a distanza di tempo, mi disse o mi fece sapere che bisognava soprassedere alla esecuzione del delitto in quanto lo stesso Riina riteneva che il momento storico non era adatto, in quanto loro, dopo il delitto, avrebbero avuto la polizia addosso. In realtà io penso che Riina non voleva fare eseguire il delitto in questione in quanto rischiava di mettere in pericolo e quindi di bruciare il canale che aveva con noi e quindi la nostra preziosa collaborazione. Senza contare che vedeva a rischio anche la possibilità di avere rifugio nel cosentino nella casa sulla Sila che noi volevamo mettergli a disposizione. Ovvio che l'esecuzione dell'omicidio di un poliziotto cosentino a Palermo avrebbe potuto fare pensare ad una alleanza fra noi (si tenga conto che peraltro il Provenzano era quasi un mio parente) e Cosa Nostra e quindi il Riina.

ADR: Il dott, Calipari era un obbiettivo del gruppo Perna e in particolare di Franco Perna che lo voleva morto. Ciò fin da prima del nostro arresto e della nostra detenzione a Trani per l'omicidio Cosmai. Il Calipari era un poliziotto che dava "fastidio", molto tenace e, in particolare, aveva redatto dei rapporti indirizzati al Carcere di Cosenza e quindi al Cosmai, nei quali evidenziava la pericolosità di Franco Perna al fine di fargli revocare la semilibertà. Ciò in epoca antecedente e prossima al 1985. Insomma Calipari era in pericolo. A vostra domanda non escludo affatto che noi abbiamo parlato di queste intenzioni del Perna ai danni del Calipari anche con i siciliani. Tenete conto che questo tipo di delitti in danno di rappresentanti dello Stato, come il caso del Cosmai, agli occhi di Cosa Nostra era come se fossero delle "stellette" dei veri e propri segni distintivi della nostra capacità criminale e della nostra affidabilità. Dunque niente di più facile che parlando con i siciliani sia a Trani che a Palermo del delitto Cosmai, si sia fatto riferimento anche ai propositi del Perna (del cui gruppo abbiamo fatto parte fino al 1989) di uccidere il Calipari. Si tenga anche presente che, nel febbraio 1988, quando fummo scarcerati da Trani, il proposito del Perna di uccidere il Calipari era ancora attuale e noi eravamo ovviamente coinvolti in tale progetto posto che eravamo appartenenti alla cosca del Perna". La intervenuta conferma dei propositi omicidiari da parte dei collaboratori di giustizia ha imposto ulteriori approfondimenti di indagine attraverso la diretta escussione del V.Q.A. Antonio Provenzano, certamente individuato dai fratelli Notargiacomo come soggetto da uccidere in Palermo, e dell'On. Rosa Maria Villecco, vedova di Nicola Calipari.

Provenzano, escusso in data 17 maggio 2017, dichiarava: "ADR: Sono entrato in Polizia nel 1981. Ho preso servizio, nel 1985, presso la questura di Cosenza quale Vice Ispettore in servizio presso il dipendente Commissariato di Rossano Calabro. Nel 1985 ho preso servizio alla S. Volante di Cosenza che dipendeva dalla S. Mobile (all'epoca diretta dal dott. Nicola CALIPARI – n.d.P.M.). Sono stato due anni alle volanti (con intermezzi alla Digos) e nel 1988 sono stato spostato stabilmente alla Digos dove dirigevo una sezione. Sono rimasto alla Digos fino alla fine degli anni 90.

ADR: Mi sono sposato il 24.4.1983 con Caloiero Giuliana. La stessa tuttora è mia moglie. Abbiamo cercato di avere figli nostri nel 1983 e nel 1984. Mia moglie ha avuto due gravidanze ma – per interruzioni involontarie delle stesse - abbiamo perso i figli, per problemi riguardanti la salute di mia moglie. Infine abbiamo adottato.

ADR: Ovviamente abbiamo tentato di superare questo problema di salute di mia moglie che non riusciva a portare a termine le gravidanze facendoci assistere da specialisti. Ricordo in particolare che andammo a Palermo dal dott. Cittadini che ha una clinica, a nome Candela, alle spalle di piazza Politeama. Non ricordo esattamente le date delle visite. Certo iniziarono dopo le gravidanze interrotte e per alcuni anni continuarono fino alla fine anni 80', inizi 90'. Mi chiedete di essere più preciso sulle date ed io vi dico che consultando la documentazione a casa potrei risalire alle date esatte. Mi rappresentate che nel corso di questi miei viaggi a Palermo sono stato pedinato e ho rischiato un agguato. Mi chiedete di conseguenza di riferire chi fosse a conoscenza di questi miei viaggi a Palermo con mia moglie. Vi rispondo, in primo luogo, che non avevo mai sospettato di potere essere oggetto di tali attenzioni e poi che io non ho mai detto a nessuno, per ovvie ragioni di riservatezza, di questi miei viaggi a Palermo. A vostra domanda vi dico che non posso escludere che mia moglie abbia potuto riferire degli stessi a suoi congiunti, con particolare riferimento alla madre. Escludo che possa essersi confidata con le sorelle perché non si parlavano, se non con Anna Franca, con la quale aveva rapporti, invece.

ADR: In effetti la sorella di mia moglie, a nome Caloiero Stafania è stata sposata, per un breve periodo, con Dario Notargiacomo noto criminale della zona di Cosenza. Poi si sono separati.

ADR: E' vero che quando operavo alle volanti ho sottoposto in più circostanze i fratelli Notargiacomo a controlli anche molto puntuali e serrati. Preciso che questo era il mio modus operandi che attuavo in modo costante con tutti i pregiudicati. Faccio presente che avevo una mia tecnica particolare nel fare questi controlli. Ad esempio: notavo il pregiudicato x in una certa via e lo controllavo. Se lo vedevo tre ore dopo in altro luogo lo controllavo di nuovo. Era una cosa che faceva molto irritare i pregiudicati, non solo per il fastidio che procuravano, ma anche perché se il controllo evidenziava che più pregiudicati si accompagnavano fra loro, poteva scattare la diffida del Questore che poi poteva determinare il ritiro della patente. Per loro è una grave deminutio.

ADR: Mi chiedete se durante i miei viaggi a Palermo sia mai entrato in strutture militari o di polizia. Rispondo di sì. In una circostanza, non ricordo quando, per risparmiare, dormii in alcuni alloggi di servizio della Polizia di Stato (mia moglie era rimasta a dormire in Clinica) che si trovava dalle parti di una struttura sportiva. Il complesso era chiamato Le Tre Torri ed ospitava, mi sembra, più forze di polizia. Vi era sicuramente un posto di Polizia all'ingresso. Ricordo, inoltre, che in altre circostanze ho mangiato alla mensa utilizzata dalla PdS di Palermo. Non ricordo dove si trovava.

ADR: A Palermo io e mia moglie andavamo in automobile, la mia Fiat Uno. Partivamo la mattina presto da Cosenza in modo da arrivare lo stesso giorno in tempo per la visita del dott. Cittadini. In alcuni casi ritornavamo a Cosenza in giornata, ciò quando la visita era veloce e non richiedeva una presenza continuativa per un tempo apprezzabile di mia moglie. Quando invece era necessario che mia moglie si trattenesse per un tempo più lungo presso la Clinica del Cittadini, allora io pernottavo a Palermo. Come ho detto una volta presso un alloggio di servizio, altre volte in una pensione che stava a 50 metri dalla clinica, sullo stesso marciapiede.

ADR: Apprendo, più nel dettaglio, che la 'ndrangheta cosentina aveva richiesto, per il tramite dei Notargiacomo, a Cosa Nostra di procedere alla mia eliminazione quando soggiornavo a Palermo e che poi per ragioni indipendenti dalla volontà dei Notargiacomo l'attentato non ebbe luogo. Mi chiedete se sono in grado di spiegare questa volontà di eliminarmi da parte dei Notargiacomo e della 'ndrangheta cosentina. Mi chiedete se posso ricordare qualche specifico episodio che possa avere determinato tanto odio nei miei confronti. Rispondo che proprio il mio modo di fare ha determinato questo odio. Io ero "energico" con tutti nello stesso modo. Con i mafiosi, con i pezzi da 90 e con i ladruncoli da strada. Questo umiliava gli 'ndranghetisti che pretendono un rispetto anche formale dalla polizia anche per fare vedere alla popolazione che sono "importanti". Ritengo, per quella che è stata la mia esperienza, che, non molti, in Polizia a Cosenza, all'epoca, avevano il "fegato" per essere così inflessibili. Pochi si sottraevano alla debolezza di essere forti con i deboli e deboli con i forti. Io ero "forte" con tutti. Compreso con quelli della 'ndrangheta. Compreso con i Notargiacomo con cui evitavo accuratamente di avere rapporti e a cui riservavo un trattamento inflessibile come a tutti gli altri della 'ndrangheta.

ADR: Ero molto legato da un punto di vista professionale al dott. Calipari che è stato dirigente della Mobile a Cosenza anche quando le Volanti erano una sezione della S.Mobile. Ricordo che Calipari mi stimava molto. Non sono a conoscenza di progetti omicidiari in danno di Caliapari da parte della 'ndrangheta.

ADR: Tra i soggetti che ho controllato in modo inflessibile vi è stato anche BAROLOMEO Stefano. Non ricordo episodi particolari in relazione a tale soggetto". La definitiva conferma della reale situazione di pericolo vissuta da Nicola Calipari, la si otteneva in data 16 giugno 2017 da Rosa Maria Villecco, la quale a distanza di molti anni era in grado di fornire particolari certamente utili a riscontrare il contenuto dei colloqui di Graviano Giuseppe oggetto di intercettazione ambientale:

"ADR: Mio marito Nicola Calipari, è stato capo della Squadra Mobile di Cosenza fino al Maggio 1989. Aveva avuto l'incarico di funzionario della Mobile di Cosenza nel Luglio del 1982, ufficio che iniziò a dirigere nel 1984, dopo che il suo superiore aveva avuto un trasferimento.

ADR: In effetti mio marito a partire dall'estate del 1987 (ma potrei sbagliare di qualche mese) ebbe la scorta. Avevamo la volante fissa sotto casa (a Rende) e due uomini seguivano Nicola ovunque. Ebbe anche una vecchia blindata. Mio marito mi nascose inizialmente la situazione di pericolo. Mi disse, infatti, che tutti i capi delle Squadre Mobili calabresi avevano avuto precauzionalmente la scorta. Poi mi disse la verità. Aveva avuto minacce dalla 'Ndrangheta. Era una cosa che mi disse perché io venni avvicinata da una vicina di casa che mi disse che tutti sapevano che la scorta mio marito l'aveva avuta in quanto minacciato (peraltro la vicina mi fece intendere che sarebbe stato gradito un nostro trasferimento in altro condominio perché tutti, nel palazzo, erano preoccupati, specie per la sicurezza dei bimbi). A questo punto, come ho detto, chiesi conto a mio marito della effettiva situazione che riguardava la sua e la nostra sicurezza. Allora Nicola mi disse che era la 'Ndrangheta ad avercela con lui. Erano state spedite lettere di minaccia contro mio marito C'era stata una perquisizione fatta da mio marito al Perna Franco stesso o a qualche suo accolito nel corso della quale doveva essere successo qualcosa che aveva ulteriormente determinato o rafforzato il risentimento dei Perna contro Nicola. La situazione era diventata particolarmente pericolosa e così nel febbraio del 1988 mio marito, proprio per farlo allontanare da Cosenza, venne mandato in missione in Australia. Così per qualche mese andammo in Australia, dove c'era sto un caso di lupara bianca in danno un italiano. Era un fatto legato alla 'Ndrangheta. Lui doveva partecipare e partecipò ad una struttura interforze (tipo Dia, mi pare si chiamasse NCA) in cui erano presenti lui e alcuni funzionari di polizia australiani e un magistrato australiano. Ci trasferimmo in Australia, io, Nicola e nostra figlia, per alcuni mesi. Poi tornammo in Italia, ancora Cosenza (cosa inspiegabile da un punto di vista della sicurezza di mio marito) e poi, nel Maggio 1989, ottenemmo il trasferimento a Roma (dopo che a mio marito era stato anche proposto di andare a dirigere la Mobile di Reggio Calabria, ma in questo caso io mi opposi decisamente dicendogli che era non lo avrei seguito).

ADR: Mio marito era molto legato al povero dott. Cosmai, Rimase molto scosso per la sua morte. Nicola diceva che il Cosmai aveva cercato di innovare nella gestione del carcere di Cosenza eliminando privilegi che alcuni detenuti in precedenza avevano e facendo anche, all'uopo, del "repulisti" interno. Mi disse che Cosmai venne ucciso perché alcuni agenti della penitenziaria, infedeli, avevano sparso la voce che Cosmai nel carcere era molto duro con gli appartenenti alla cosca dei Perna (ovvero di altra cosca) mentre agevolava la cosca avversa. Insomma fecero ingiustamente credere che il Cosmai si era schierato con una delle cosche in quel momento in guerra.

ADR: Nicola non mi parlò mai di sue indagini su Cosa nostra, né dei rapporti fra Cosa Nostra e la Ndrangheta. Né mi risulta che Cosa Nostra ebbe a rivolgergli delle minacce.

ADR: Fatti salvi alcuni giorni a Taormina, non siamo mai stati in Sicilia altre volte, in quegli anni (gli anni 1982/89) né, tanto meno, a Palermo.

ADR: Ricordo il nome di Provenzano come collaboratore di mio marito, ma nulla più. Il funzionario e collega di cui più si fidava mio marito era l'Ispettore Pirozzidella sezione omicidi. Aveva un ottimo rapporto anche con l'Ispettore Pugliese. Inoltre era molto legato al dott. D'Alfonso Alfonso, che dirigeva la Criminalpol della Calabria ed il dott. Blasco che dirigeva la Squadra Mobile di Reggio Calabria".

“Bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato, i calabresi già si erano mossi”, scrive Claudio Cordova mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". La prima traccia pubblica delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia palermitano, Gaspare Spatuzza, sul coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista dei primi anni '90, si ha davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, il 18 giugno 2009. Sono proprio le dichiarazioni di Spatuzza il punto di partenza da cui muove la Dda di Reggio Calabria nell'inchiesta "Ndrangheta stragista", che ha portato all'arresto del boss siciliano Giuseppe Graviano e di Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Ecco la deposizione di Spatuzza, del giugno 2009: ...omissis...Avv. Gatto - senta signor Spatuzza lei ha mai sentito parlare dell'omicidio dei Carabinieri avvenuto nel 1994 sull'autostrada di Reggio Calabria e precisamente in località Scilla? Spatuzza Gaspare – e dottore guardi io purtroppo non posso rispondere perché su queste…su questi fatti in cui già ho reso abbondantemente dichiarazione, ci sono delle fasi uhm…delle indagini in corso per cui io intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, quindi però in queste condizioni non posso farlo però ehm...mettetevi nelle mie condizioni..

Avv. Gatto - si, le chiedo scusa...

Spatuzza Gaspare – non posso rispondere...

Avv. Gatto - le chiedo scusa signor Spatuzza, tanto lo chiederà anche il Procuratore e il Presidente...ma lei è stato sentito da parte della Procura di Reggio Calabria in ordine a questo episodio?

Spatuzza Gaspare – in ordine a questo episodio direttamente diciamo che la Procura di Caltanissetta, Firenze e di Palermo e sono stato anche ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria...

Avv. Gatto – signor Spatuzza le chiedo scusa, lei ha avuto mai contatti con i fratelli Graviano?

Spatuzza Gaspare – i fratelli Graviano diciamo che sono i capi famiglia della famiglia di Brancaccio a cui io appartenevo...

Avv. Gatto - ed è il mandamento di cui faceva parte lei?

Spatuzza Gaspare – del mandamento io ho fatto parte e poi ho gestito il mandamento come reggente dal '96 al '97...

Avv. Gatto - senta le notizie che lei ha avuto dai fratelli Graviano, sono notizie che ho avuto in maniera diciamo da tutte e tre i fratelli oppure da uno specifico dei fratelli?

Spatuzza Gaspare – no da Giuseppe Graviano...

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia?

Spatuzza Gaspare – come?

Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia dei Carabinieri, dell'omicidio dei Carabinieri?

Spatuzza Gaspare – la notizia entra in un contesto di cui io ho diciamo che...comunque in un contesto in cui mi è stata fatta questa confidenza che erano stati uccisi questi due Carabinieri...

Avv. Gatto - senta, le faccio la domanda secca...rientra questo omicidio nella strategia della tensione?

Spatuzza Gaspare – ehh...credo di si, in base alle mie... (pausa)

Avv. Gatto - Presidente io avrei altre domande da fare sull'attendibilità del teste però...

Dott. Finocchiaro – sì ma noi ancora…non sappiamo ancora con precisione che cosa gli ha detto Graviano, quando glielo ha detto, dove glielo ho detto...

Avv. Gatto - eh...

Dott. Finocchiaro – a noi queste cose qua interessano...

Avv. Gatto - eh, io potrei continuare però mi dovrei...

Dott. Finocchiaro – signor Spatuzza mi scusi...

Avv. Maffei – però Presidente io insi...

Dott. Finocchiaro – qua c'è qua...appunto dobbiamo stabilire un poco i termini...

Avv. Maffei – Presidente, il signor Spatuzza...nel mio modestissimo...

Dott. Finocchiaro – ...del...di questo esame...a noi interessa sapere soltanto le confidenze, il contenuto delle confidenze che il signor Spatuzza avrebbe ricevuto, questo a noi è noto diciamo soltanto sulla base delle notizie giornalistiche, avrebbe ricevuto in ordine a questo omicidio per cui lui non è imputato, non è nulla...per cui dovrebbe soltanto riferire quello che ha saputo da altre persone; non vedo quindi su queste circostanze perché si dovrebbe avvalere della facoltà di non rispondere..a noi soltanto questo ci interessa perché noi stiamo procedendo nei confronti di due minori che sono imputati per l'omicidio di questi Carabinieri; se lui ha saputo qualche cosa in ordine a questo omicidio, è tenuto a rispondere..ha capito avvocato?

Spatuzza Gaspare – e allora mi scusi...

Dott. Finocchiaro – avvocato...

Avv. Maffei – però parla con me Presidente immagino?

Dott. Finocchiaro – si, si parlo...parlavo con lei, si...visto che è intervenuta...

Avv. Maffei – Presidente...

Dott. Finocchiaro – ha capito quali sono i termini della questione?

Avv. Maffei – si ho capito, però se non è neanche assistito...

Dott. Finocchiaro – come?

Avv. Maffei – si, si io sono d'accordo, ho capito perfettamente ma se non è neanche assistito da un difensore, cioè voglio dire...e questa è anche una situazione un po'...un po' particolare...

Dott. Finocchiaro – guardi...

Avv. Maffei – o no?

Dott. Finocchiaro – lui oggi poteva anche essere sentito senza...senza difensore...se è stato dato avviso, è stato dato avviso soltanto per un massimo di garanzia proprio per evitare che possa andare incontro ad altre, però lei ben capisce che in questa situazione, lui ricopre la veste di teste puro e semplice...siamo d'accordo?

Dott. Di Landro – dovremmo esserlo...

Avv. Maffei – Presidente io mi rimetto alla sua decisione, non sono d'accordo però mi rimetto alla sua decisione, non...mi sembra che non posso fare diversamente; essere d'accordo no perché comunque è una persona che ha fatto...è stato capo di un mandamento cioè non è che ha saputo queste notizie diciamo fuori da un contesto mafioso, ha conosciuto…ha saputo questa notizia all'interno di un contesto mafioso, quindi...

Dott. Finocchiaro – ma guardi io non lo so come le ha avute le notizie, quindi...

Avv. Gatto - sinceramente a me non è mai successo però...

Dott. Finocchiaro – noi non sappiamo proprio nulla, abbiamo letto un articolo di giornale che ci è stato prodotto dalla difesa in cui si dice che il signor Spatuzza avrebbe anche...

Avv. Maffei – sì! sì, sì...

Dott. Finocchiaro – ...ricevuto delle confidenze in ordine a questo omicidio, stop…poi non sappiamo nulla...

Avv. Maffei – si...

Dott. Finocchiaro – se il signor Spatuzza ci chiarisce le idee, poi potremo essere in condizioni di dire se è un teste pure e semplice, un testimone assistito, se non...se si può avvalere della facoltà di non rispondere, tutte queste cose sono da...da verificare, non lo possiamo stabilire a priori. Procuratore Generale come...

Dott. Di Landro – niente, a me pare...a me pare che tutto quello che lei ha detto sia condivisibile al cento percento, volevo soltanto aggiungere una nota di chiarezza, qua si tratta soltanto di sapere se il signor Spatuzza sa e che cosa sa di questo omicidio, punto e basta; è inutile che facciamo tutta questa confusione...mandamento, non mandamento, chi era il capo, chi era il sottocapo, o…e tutti i contorni della vicenda...questi non ci interessano, è un teste e noi abbiamo bisogno di avere il suo contributo se ce lo può dare con riferimento a questo omicidio...se ce lo può dare, nessuno è qui né a tormentarlo, né a volere per forza una risposta perché non possiamo stare nemmeno appresso alle dicerie, a que...al sentito dire, noi abbiamo bisogno di fatti concreti con riferimento ad una situazione grave qual è quella di cui ci stiamo occupando, quindi se ha dati precisi, concreti, fattuali che possono essere utili ai fini della verità, li dica sennò tanti saluti, lo ringraziamo e...e via, andiamo avanti...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Priolo - Presidente se mi concede una parola solo un momento, perché mi pare che si sia tutti d'accordo, perché cosa principalmente il difensore del signor Spatuzza la interpretazione che lei ha fatto del tutto, quindi mi pare che allo stato si possa andare a fare...mi pare siamo tutti d'accordo compreso l'avvocato di Spatuzza, quindi...

Dott. Finocchiaro – va beh, allora avvocato...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi...

Dott. Finocchiaro – dico se lei fa le domande specifiche...

Avv. Gatto - si io le faccio specifiche...

Dott. Finocchiaro – ecco...

Avv. Gatto - per me non ci sono problemi, per questo...

Dott. Finocchiaro – sennò appunto...

Avv. Gatto - no, no per me non ci sono problemi, io...le domande sono specifiche, proprio...

Dott. Finocchiaro – perfetto...

Avv. Gatto - ...però voglio dire...signor Spatuzza senta, le fu...le ripeto la domanda in modo da riannodare i fili, lei ebbe notizia sull'attentato ai Carabinieri avvenuto nel gennaio '94 in Reggio Calabria, sulla...l'autostrada allo svincolo di Scilla?

Spatuzza Gaspare – a gennaio del '94 io ho..sono stato incaricato di portare un...di compiere un attentato su Roma contro a dei Carabinieri, quindi siccome io sto cercando di..di sospendere questo attentato contro i Carabinieri perché ho intenzione di colpire un altro obiettivo...

Dott. Finocchiaro – non ho capito...

Spatuzza Gaspare – ...di cui il Giuseppe Graviano capo del mandamento di Brancaccio mi dice che non può essere che…fare l'attentato che io ho in mente ma si devono colpire i Carabinieri anche perché in Calabria altre persone si erano mossi..difatti in quei giorni in Calabria erano stati uccisi due Carabinieri, ora non so se questo contesto dei Carabinieri di Calabria entra nel contesto della strage che dovevo compiere io su Roma...

Avv. Gatto – questa è stata sola ed unica notizia che lei ha avuto da Graviano?

Spatuzza Gaspare – si, si precisamente...

Avv. Gatto – dopo di questa vicenda non ne parlò più?

Spatuzza Gaspare – no perché tra l'altro poi lui è stato arrestato quindi...

Dott. Finocchiaro – è stato arrestato...

Spatuzza Gaspare – ...poi la nostra missione, un po' si...si conclude...

Avv. Gatto – è a conoscenza se Graviano avesse contatti in Calabria?

Spatuzza Gaspare – ma in Calabria nella nostra storia, noi abbiamo avuto diversi contatti con i calabresi...

Avv. Gatto - che ha detto?

Dott. Finocchiaro – non abbiamo sentito mi scusi, se può ripetere...

Spatuzza Gaspare – per la nostra storia, abbiamo avuto sempre diversi contatti con le famiglie calabresi...

Avv. Gatto - non ho altre domande, grazie Presidente...

Dott. Di Landro – nessun'altra domanda, la ringrazio (incomprensibile).

Dott. Finocchiaro – va beh signor Spatuzza lei è stato abbastanza ora...ora chiaro, quindi non abbiamo altre domande da porgerle perché lei in effetti ora si è limitato a dire soltanto che ha avuto questo...c'è stato questo richiamo, questo riferimento fatto da...dal Graviano e basta, non sa nient'altro su questo omicidio per cui la disturbiamo più e possiamo anche e...oncludere l'esame, la ringraziamo...avvocato arrivederci....omissis".

Agli inquirenti fiorentini, nisseni e milanesi, Spatuzza parla di vicende che non avevano mai incrociato sotto il profilo professionale essendo vicende che appartenevano alla competenza della AG reggina. Erano, episodi che, all'epoca delle appena riportate dichiarazioni, risalivano ad oltre 14 anni prima, a cui, peraltro, non solo, non era stato attribuito, in senso assoluto, il rilievo che meritavano, ma che, neppure, erano mai stati collegati al contesto delle attività stragiste di quegli anni e, quindi, ricollegate a quel programma criminale che Cosa Nostra siciliana aveva ispirato. Dunque, Spatuzza introduce, del tutto spontaneamente, una vicenda di cui, assolutamente, nessun collaboratore di giustizia siciliano aveva mai riferito prima, e, soprattutto, l'aveva riferita in una prospettiva del tutto nuova, per chiunque. E ciò senza essere, in alcun modo, sospettabile, per le ragioni sopra spiegate, di essersi determinato a riferirla per venire incontro ad aspettative degli inquirenti. Soprattutto, la fonte di Spatuzza era quella più qualificata fra tutte quelle ipotizzabili per deporre su queste vicende: invero, se esisteva – all'epoca – qualcuno, in Cosa Nostra, che poteva riferire dei fatti in esame ebbene questi era proprio Gaspare Spatuzza, per anni mafioso del quartiere Brancaccio. E ciò per un duplice ordine di ragioni: egli, in primo luogo, era stato, proprio nel periodo stragista, il vero e proprio punto di contatto e collegamento fra i vertici della famiglia di Brancaccio - e, dunque, i Graviano ed il loro "vice" Nino Mangano (che prenderà il posto dei Graviano dopo il loro arresto) e i gruppo degli esecutori delle stragi continentali – composto da persone di fiducia di Riina-Bagarella-Graviano, anche non formalmente "combinate". Ciò risulta pacificamente dalle sentenze emesse in primo e secondo grado dalle Corti fiorentine sule stragi di Via dei Georgofili, Velabro, San Giovanni in Laterano, Via Palestro, Stadio Olimpico, Formello tutte in atti allegate; ha dimostrato, come si è visto, specie in materia stragista, una prodigiosa memoria ed una particolare serietà ed attendibilità. L'uomo del quartiere Brancaccio, quindi, delinea uno scenario stragista intimamente connesso con gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra sul continente, che, come oramai pacificamente accertato dalle Corti fiorentine, tendevano – in un periodo storico caratterizzato da cambiamenti politici epocali, non solo in Italia, ma sull'intero scacchiere internazionale – a mettere alle corde lo Stato per indurlo a concessioni su particolari temi della giustizia quali il 41 bis OP, le leggi sui collaboratori di Giustizia, ed altro ancora. Concessioni, peraltro, che, a ben vedere, solo per uno strabismo valutativo, solo per un inspiegabile errore di prospettiva (che si è perpetuato nel tempo) sono state ritenute concessioni in favore di Cosa Nostra siciliana, laddove, invece, si trattava di concessioni, di aperture, che, ove accolte, avrebbero portato beneficio all'intero sistema criminale, e, dunque, fra le altre mafie, anche alla 'ndrangheta. Su questo specifico aspetto, ovviamente, torneremo in modo più ampio ed approfondito in seguito. In questa sede basterà anticipare che plurimi, eterogenei e convergenti elementi di prova, dimostrano, invece, che tutte le mafie nazionali, d'intesa, in quegli anni, perseguivano quell'obbiettivo. In tale scenario – alla stregua delle propalazioni di Spatuzza – la 'ndrangheta si era incaricata, attraverso un'intesa con Cosa Nostra, di mandare, anche lei, seppure in modo meno eclatante, come era più congeniale al suo modo di agire (e come, strategicamente, risulterà ben più remunerativo) un messaggio allo Stato, attaccando reiteratamente uno dei suoi simboli: l'Arma dei Carabinieri. Simbolo che, del resto, non era per nulla eccentrico rispetto alla complessiva strategia stragista posto che, proprio nel periodo in cui venivano eseguiti a Reggio Calabria i tre attacchi ai Carabinieri, Cosa Nostra stava organizzando quello che poteva essere il più grave degli attentati di quella tragica stagione: l'attentato, con auto-bomba, ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, attentato che avrebbe determinato decine e decine di morti. Circa un anno prima rispetto all'escussione a Reggio Calabria, nel luglio 2008, l'ex uomo dei Graviano rendeva dichiarazioni davanti alla Dda di Firenze:

P.M. DOTT. CRINI: Quindi siamo nel mese di gennaio.

P.M. DOTT. NICOLOSI: Ma quanto tempo, come eravate rimasti d'accordo con Graviano... cioè, Graviano sapeva il giorno in cui avreste fatto l'attentato?

SPATUZZA GASPARE: No, lui sa che ci stiamo spostando su Roma, quindi là poi teniamo un appuntamento su Roma. Quindi noi andiamo là per trovare l'obiettivo Carabinieri. Quindi quando lui viene già noi abbiamo detto: "Senti, l'abbiamo trovato, c'è il problema dell'Olimpico e siamo..." poi noi abbiamo scelto la data. Quindi lui siccome doveva transitare... e non lo so se sta venendo dalle Calabrie. Che là (incompr.) il discorso che già altri si erano mossi, che in Calabria erano stati uccisi due carabinieri. Quindi questi due carabinieri sono stati uccisi o in quel giorno o il giorno prima. Questo è anche...

P.M. DOTT. CRINI: Un ulteriore elemento.

SPATUZZA GASPARE: Un ulteriore elemento.

P.M. DOTT. CRINI: Perché parlate del fatto che c'è stato un altro...

SPATUZZA GASPARE: Perché io sto facendo leva...

P.M. DOTT. CRINI: ...uccisione di Carabinieri...

SPATUZZA GASPARE: Sto facendo leva io per Contorno.

P.M. DOTT. CRINI: Certo, sì, sì.

SPATUZZA GASPARE: E lui mi dice: "No."

P.M. DOTT. CRINI: "Ci sono altri impegni."

SPATUZZA GASPARE: Il problema dell'esplosivo. "Ci sono altri impegni e poi c'è il problema dell'esplosivo...omissis"

Pochi mesi dopo, siamo a dicembre, Spatuzza viene sentito anche dai magistrati di Caltanissetta: "...Attentato all'Olimpico. Per tale episodio delittuoso vi fu un incontro con Giuseppe Graviano in cui manifestammo il nostro disagio per aver ucciso una bambina nell'attentato a Firenze. In quell'occasione ci fin detto che dovevamo proseguire con la nostra strategia perché sollecitare "chi si doveva muovere". Nacque in quella riunione l'idea di colpire un pullman di carabinieri sicché pensammo di agire nuovamente a Roma che è luogo pieno di caserme. A Roma andammo io Lo Nigro, Giuliano Francesco, Giacalone Luigi, Salvatore Grigoli, Salvatore Benigno. Il supporto logistico ce lo diede ancora una volta Scarano ed un amico di quest'ultimo di nome Bizzoni. Ricordo che approntammo l'ordigno anche con dei tondini di ferro affinché si potesse fare più danno possibile e scegliemmo come obiettivo lo stadio Olimpico. Nel frattempo era salito a Roma anche Giuseppe Graviano, per discutere della possibilità di uccidere Contorno che avevo individuato a Roma. Il Graviano mi disse che non era possibile dovendosi utilizzare per Contorno un altro esplosivo e poi perché quello stesso giorno o il giorno prima erano stati uccisi due carabinieri in Calabria e, dunque, mi disse che già "gli altri si erano mossi". A Roma operammo io, Benigno, Lo Nigro e Giacalone, mentre gli altri erano riscesi a Palermo. L'attentato non andò a buon fine poiché non funzionò il telecomando...omissis".

Poi, proprio nel periodo in cui viene ascoltato in contraddittorio a Reggio Calabria, il collaboratore rende dichiarazioni anche davanti alla Dda di Milano: "...omissis... SPATUZZA – Noi abbiamo in cantiere, non dimentichiamo le torri(?) di via del Fante, Commissariato Brancaccio, l'autocivetta della Polizia; quindi siamo ben proiettati per fare veramente del male, però c'è questo cambiamento di rotta quindi andiamo su Roma, Milano, quello che sia. Abbiamo noi Napoli, c'è la questione dei Carabinieri in Calabria, che entra nel contesto dell'Olimpico. Quindi a questo punto... non so questa la ricollego io a questa situazione di quello che mi dice Giuseppe Graviano in quell'incontro che avviene a Campofelice.

P.M. – Cioè... Vada avanti e poi le farò delle domande.

SPATUZZA – Quindi il momento che io gli dico che siamo lì noi per mettere in cantiere l'attentato contro i Carabinieri, non contro l'Olimpico, quindi io lo colloco nel novembre/dicembre del '93, perché poi a gennaio sono stati arrestati i fratelli Graviano; quindi lo colloco a fine del '93. Quindi quando si mette in cantiere questo attentato contro i Carabinieri più ne possiamo prendere e meglio è, siccome il mio pensiero andava sempre a quella bambina, la piccola Nadia...

P.M. – Di via dei Gergofili.

SPATUZZA – Di via dei Gergofili, (inc.) si chiama... Quindi lì dico a Giuseppe Graviano che ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente, perché per la nostra mentalità è...possiamo sposare noi Capaci, per noi quella schifezza andava bene, via d'Amelio, per quella schifezza... secondo quella mentalità eravamo a posto, non siamo più a posto quando entriamo noi sul tessuto sociale, quando diventiamo dei terroristi. Quindi là c'è questa esternazione, esternazione parliamo, che io non potevo fare ma siccome mi potevo permettere di dire questa cosa a Giuseppe Graviano, anche perché tra i ragazzi c'era qualche tentennamento, che ci stiamo spingendo oltre. Quindi gli dissi che il mio pensiero andava pensando a questa cosa e gli dissi "Ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente".

Lui ha capito un po' questa mia debolezza, se così possiamo chiamare, quindi ci disse che è bene che ci portiamo dietro alcuni morti così si danno una smossa, una spinta. A quel punto ci chiede a me e a Lo Nigro se capivamo qualche cosa di politica. Io non ne ho capito mai niente, neanche ho avuto mai modo di avvicinarmi a questa cosa, la stessa cosa il Lo Nigro, e lui ci spiega che lui è abbastanza preparato di questa materia. Quindi ci spiega che c'è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati. Quindi lì si chiude la situazione e ci spingiamo per l'attentato all'Olimpico, che poi grazie a Dio è fallito.

P.M. – Attentato all'Olimpico che significava allo stadio?

SPATUZZA – Lo Stato...

P.M. – Lo stadio.

SPATUZZA – Lo stadio... No, le persone comuni.

P.M. – Le persone comuni?

SPATUZZA – I Carabinieri, però parliamo (inc.) dei Carabinieri.

P.M. – Cioè di fare molto danno, un'espressione... detto nella vostra...

SPATUZZA – Sì. E se noi pensiamo che il Totuccio Contorno è un nostro nemico, a me mi lega per una questione familiare quindi ho dedicato tutta la mia vita, disgraziatamente, per seguire a 'sti soggetti. Se noi accantoniamo il Totuccio Contorno, che quando c'è l'appuntamento su Roma con Giuseppe Graviano che vado a prendere (inc.) nella Capitale, io faccio pressione per dirci "Colpiamo Contorno e…una volta che siamo tutti". Lui disse che innanzitutto non si deve fare Contorno per due motivi: uno per l'esplosivo, che si deve fare con l'esplosivo diverso di quello che già si è adoperato, e poi perché si erano mossi i calabresi; infatti quel giorno e il giorno prima era stato commesso un attentato contro due Carabinieri a Reggio Calabria. Quindi se noi pensiamo Giuseppe Graviano c'ha un conto aperto, in sospeso con Totuccio Contorno, perché Totuccio Contorno ha ucciso il padre di Giuseppe Graviano. Quindi com'eravamo noi accaniti... ora se noi pensiamo che Giuseppe Graviano accantonare una questione perché persona... vai a vedere quello che c'è dietro.

P.M. – Quindi, per ricapitolare, lei dice "Oggi che leggo, che mi si dice per la prima volta qual è il contenuto di questa missiva", e cioè saranno collocate altre bombe, ci saranno centinaia di morti, lei dice "Non è che ora capisco, cioè questa è la riprova di quello che noi stavamo facendo"...omissis".

Spatuzza, dunque, del tutto spontaneamente, introduce riferimenti agli attentati in Calabria ai danni dei carabinieri. E lo fa in quel contesto in cui riferisce della programmazione (la cui esecuzione era prevista per il mese di gennaio 1994) dell'attentato (poi fallito per il mancato funzionamento del telecomando ovvero dell'innesco dell'ordigno, che impedì l'esplosione di 120 kilogrammi di esplosivo collocati all'interno di una vettura opportunamente posizionata) ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, che avrebbe comportato decine e decine di morti, fornendo, in tal modo, una causale comune di tale episodio con quelli avvenuti in Calabria. Tale matrice comune consiste proprio nella comunanza delle vittime, in qualità di rappresentanti dello Stato, ma anche nella comunanza temporale degli episodi, in quanto, nell'arco temporale in cui furono commessi i delitti in Calabria, era in fase di programmazione l'attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Atteso il tenore dell'atto d'impulso, le indagini – che, per una parte, erano svolte in stretto collegamento investigativo con le DDA di Catania e Caltanissetta (e, per diversi motivi, con quella di Palermo) che, in quel periodo, pure svolgevano indagini su connessi episodi stragisti di matrice mafiosa – non potevano che partire da un nuovo ed approfondito esame di Gaspare Spatuzza (il rilievo della cui collaborazione è stato esaminato in precedenza). E così, in data 8.10.2013, si procedeva all'esame del collaboratore: "...Mi richiedete di ricostruire in sintesi il mio percorso criminale e collaborativo e rispondo che pur senza essere "combinato" negli anni '80 sono entrato in Cosa Nostra e, segnatamente, nella famiglia Graviano operante in Brancaccio agli ordini di Giuseppe GRAVIANO. Per tutti gli anni '80 ho operato nel descritto contesto criminale effettuando anche per conto della famiglia svariati omicidi. Solo agli inizi degli anni '90, fatto insolito fino a quel momento, sono stato incaricato di reperire materiale esplosivo senza che mi fosse spiegato il perché dal predetto GRAVIANO Giuseppe. Ovviamente in seguito compresi la ragione di tale attività in quanto, con un ruolo più defilato a Capaci e con un ruolo più incisivo a via D'Amelio partecipai alla stagione stragista avendo un ruolo anche nei successivi attentati nel Continente. A vostra domanda preciso che non sono in grado di stabilire con esattezza la ragione per la quale non ero stato ancora "combinato". Diciamo che siccome operavo sempre all'interno del Mandamento di Brancaccio non se ne sentiva la necessità. Indubbiamente, peraltro, questa circostanza mi consentiva di operare in maniera più efficace, cioè in modo coperto e discreto. Tornando alla concatenazione dei fatti che riguardano la mia biografia criminale preciso che il 27 gennaio 1994 furono arrestati Giuseppe e Filippo GRAVIANO nella città di Milano, essendo i predetti latitanti. Mi fu detto che da quel momento avrei dovuto prendere gli ordini da Nino MANGANO che diventava il reggente del Mandamento; nel 1995, precisamente a giugno, venne arrestato anche Nino MANGANO. Due mesi o tre mesi dopo ebbi un incontro nel trapanese con Matteo MESSINA DENARO, BRUSCA ed altri esponenti di Cosa Nostra. All'esito di questo incontro essendo stato deciso che toccava a me reggere il Mandamento di Brancaccio venni anche formalmente "combinato". Nel 1997 sono stato arrestato e il mio pensiero fu quello di collaborare con la giustizia. Resistenze e problemi familiari mi impedirono di concretizzare questa scelta. Nel 2000 incontrai in carcere Giuseppe GRAVIANO nella casa circondariale di Tolmezzo. Avendo maturato una forte ripensamento sul mio passato gli comunicai che da quel momento mi doveva considerare dissociato da Cosa Nostra. Nel 2008 mi sono finalmente deciso ed ho iniziato a collaborare con la giustizia essendo in seguito riconosciutomi il programma speciale di protezione. Mi chiedete se ho conosciuto Gioacchino PENNINO e vi rispondo che l'ho conosciuto egli era vicinissimo ai fratelli Graviano così come lo era Sebastiano LOMBARDO che era l'anello di congiunzione tra i Graviano ed il dott. PENNINO. Io stesso quando ebbi un problema di famiglia, dovevo far riassumere mia nipote che era stata licenziata dal dott. PENNINO, entrai in contatto con quest'ultimo tramite Iano LOMBARDO. Mi viene chiesto di riferire tutto quanto è a mia conoscenza, sia diretta che de relato, sui rapporti fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta calabrese. Rispondo che ebbi conoscenza dell'esistenza di tali rapporti a metà degli anni '80 in particolare venni a sapere dai fratelli Graviano che i "calabresi" ed in particolare sentii il nome di due fratelli mi sembra che di nome facciano Notargiacomo rifornivano di armi la nostra famiglia. Parliamo di un traffico di "armi pesanti" cioè mitragliatori ed altre armi da guerra. In questo contesto venni a sapere da Vittorio TUTINO che era ed è un componente della famiglia GRAVIANO, che peraltro partecipava in prima persona a questo traffico di armi, che i fratelli NOTARGIACOMO erano coinvolti in una faida in Calabria durante la quale uno dei fratelli era stato ferito. Il TUTINO mi disse che i due fratelli si erano rifugiati presso il villaggio "eurovillage" ubicato a Campo Felice di Roccella villaggio gestito da Tullio CANNELLA che alla fine di una complessa vicenda di cui ho già parlato divenne anche proprietario del villaggio che, comunque, era un bene della famiglia Graviano. Su questo traffico di armi potrà probabilmente riferirvi sia Emanuele DE FILIPPO che DRAGO Giovanni entrambi collaboratori di giustizia della famiglia di Brancaccio. Altro episodio che collega Cosa Nostra alla 'Ndrangheta, da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell'anno 1998. Successe che nell'ambito del noto procedimento Golden Market da cui sono derivati numerosi stralci dei diversi processi si era arrivati almeno per quello che riguarda il filone in cui ero imputato al grado di appello. All'epoca ero detenuto a Tolmezzo insieme a Giuseppe e Filippo GRAVIANO. In tale contesto i Graviano, da una parte, mi dissero che dovevo ricusare il presidente della Corte di Assise di Palermo proprio all'ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per associazione e qualche reato satellite con l'assoluzione per gli omicidi, dall'altra mi dissero che due tranche di 500 milioni di lire l'una per il tramite di AGATE Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che "avrebbero" aggiustato un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe GRAVIANO mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano AGATE. Mariano AGATE esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano e così come ho compreso stando in Cosa Nostra, l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta. Questa informazione che ho avuto a suo tempo mi è stata confermata nel corso degli anni durante i quali sono stato sottoposto al 41 bis. In particolare ho potuto rilevare come tutti indistintamente i capi 'Ndrangheta a partire da Mommo MOLE'avessero una venerazione per Mariano AGATE. Voglio anche ricordare come Pasquale TEGANO con me detenuto ad Ascoli Piceno unitamente a Mariano AGATE così come lo stesso Franco COCO TROVATO quando si rivolgevano a Mariano AGATE mostravano un rispetto che si riserva ai capi. Lo chiamavano "zu Mariano. Lo stesso ARENA detenuto ad Ascoli quando si rivolgeva a Mariano AGATE lo chiamava vossia. Mi chiedete se AGATE fosse massone vi rispondo che ho informazioni in questo senso. Segnatamente tra il 1995 ed il 1996 ebbi ad incontrarmi con Mariano ASARO. Eravamo entrambi latitanti e questa latitanza la trascorrevamo insieme dormendo negli stessi rifugi in località Marausa. Entrammo in grande confidenza e l'ASARO nel riferirmi delle grandi opportunità che derivavano da Cosa Nostra dai rapporti con la massoneria mi disse che Mariano AGATE massone ne era un esempio. Prima di riferirvi della vicenda degli attentati dei carabinieri in Calabria posso riferirvi di un altro episodio che evidenzia i collegamenti tra Cosa Nostra e la Ndrangheta. In particolare mi riferisco ad un traffico di armi e droga che nel corso del '93 la famiglia Graviano sviluppò in sinergia con i calabresi appartenenti della famiglia Nirta. Preciso che il contatto con NIRTA (ho conosciuto due fratelli NIRTA di circa trent'anni all'epoca di cui uno chiamato Pino) fu ottenuto grazie ai buoni uffici di SCARANO Antonio colui che si occupò di approntare le basi logistiche per gli attentati a Roma, persona di origine calabrese. Il traffico avviato dai GRAVIANO si concluse quando divenne reggente Nino MANGANO. Il trasporto dell'hashish che arrivava dalla Spagna giungeva via mare a Palermo grazie all'imbarcazione messa a disposizione da Cosimo LO NIGRO. A Palermo lo stupefacente veniva suddiviso tra noi ed i calabresi. Parliamo di quintali di hashish. Quanto alle armi era tale Pietro CARRA che mi risulta essere attualmente collaboratore di giustizia che ne curava il trasporto con un camion. Le armi erano da guerra mini uzi ed altro. Preciso che Giuseppe GRAVIANO mi disse di andarci piano con i Nirta in quanto noi avevamo un rapporto privilegiato con un'altra famiglia calabrese contrapposta ai Nirta che operava nel medesimo territorio. Venendo ora alla vicenda degli attentati, successe che verso la fine del '93 io e Cosimo LO NIGRO che era il "bombarolo" utilizzato da Cosa Nostra anche per precedenti fatti stragisti, fummo incaricati da Giuseppe GRAVIANO di individuare nella città di Roma un obiettivo che ci consentisse di uccidere molti carabinieri. Io e LO NIGRO iniziammo subito a preparare l'esplosivo. Ricorremmo al materiale esplodente che ci rifornirono i pescatori che reperivano con la pesca a strascico pescando vecchi ordigni bellici mentre come detonatori ci rifornimmo di un salsicciotto di gelatina e di un altro detonatore confezionato con un involucro di strisce rosse. Di seguito trasportammo il materiale esplodente in Roma ed iniziammo i sopralluoghi per individuare il luogo dove piazzare l'ordigno. Tenga presente che Giuseppe GRAVIANO ci aveva detto che dovevamo fare alla svelta ma che prima di muoverci dovevamo parlare con lui direttamente. La cosa era insolita perché normalmente quando partivamo per fare gli attentati il GRAVIANO ci indicava direttamente giorno, luogo ed ora in cui effettuare l'attentato. Dopo che individuammo lo stadio olimpico quale luogo ideale per fare la strage vi fu l'incontro nel Donay bar in via Veneto a Roma tra me e Giuseppe GRAVIANO. Da lì ci muovemmo per andare in un villino a Torvaianica dove c'era il gruppo di fuoco. Nel corso di questo incontro GRAVIANO Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all'accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in DELL'UTRI e BERLUSCONI, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato. Io cercai di convincere GRAVIANO, visto che avevamo ottenuto quello che volevamo, di lasciar perdere con l'attentato ai carabinieri e di procedere invece all'eliminazione di Totuccio CONTORNO che casualmente io e Cosimo LO NIGRO avevamo individuato in Roma località Formello riuscendo anche a capire quale era la sua abitazione. Feci leva sul fatto che il CONTORNO era un nemico mortale sia mio che di Giuseppe GRAVIANO in quanto ritenuto responsabile sia della morte di mio fratello che della morte del padre di GRAVIANO Giuseppe. Giuseppe GRAVIANO fu irremovibile. Mi obiettò in primo luogo che per ammazzare CONTORNO non si sarebbe potuto utilizzare l'esplosivo che avevamo preparato per i Carabinieri in quanto del tutto analogo a quello usato nei precedenti attentati sul continente sicchè si sarebbero immediatamente individuati nei nemici di CONTORNO gli autori delle stragi sul continente, poi mi disse, in secondo luogo, che bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell'attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria. Preciso che l'incontro con GRAVIANO Giuseppe di cui ho detto sopra si è svolto con certezza nella settimana precedente il giorno 22 gennaio del 1994. Ciò è certo in quanto il giorno dell'attentato programmato all'olimpico era proprio il 22 gennaio data che è stata anche individuata sulla base della circostanza che la targa da collocare sull'auto bomba venne rubata, come di consueto (vedi strage di Via d'Amelio) il giorno prima del programmato attentato e il giorno in cui venne rubata la targa è stato individuato proprio nel giorno 21 gennaio 1994. A vostra domanda preciso che non mi fu specificato dal GRAVIANO quale gruppo calabrese si fosse mosso, nè con chi lui avesse preso accordi. Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla 'Ndrangheta d'intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il GRAVIANO con quella frase che ho detto sopra - in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri. La conferma di un complessivo accordo tra Cosa Nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo Filippo GRAVIANO ebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla 'Ndrangheta ed alla Camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa Nostra. Filippo GRAVIANO mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro "padri"...omissis. Dei rapporti con i calabresi potrebbe forse riferire notizie utili Giovanni GAROFALO, mio uomo di fiducia, ed ora collaboratore di giustizia; era lui che curava i rapporti con i NIRTA.

Si dà atto che viene consegnato, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio ) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: riconosco la foto nr. 25 che rappresenta TEGANO Pasquale che ho conosciuto ad Ascoli Piceno nel 2007-2008 prima della mia collaborazione. L'Ufficio da atto che così è.

Adr: Il TEGANO, come mi sembra di aver già detto, aveva un totale rispetto verso Mariano AGATE. Entrambi facevano insieme i colloqui familiari circostanza significativa perché potevano così scambiarsi notizie ed informazioni...omissis..."

La pur Spatuzza raccolta da questo Ufficio sul punto specifico del tema degli attacchi in Calabria ai Carabinieri (...bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi...") secondo elementari principi di logica, che tengano conto sia del tenore letterale della frase che del contesto e del momento in cui la stessa venne pronunciata da Graviano, postula l'esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai Carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. Nel momento in cui Graviano pronunciava la frase in questione, per un verso, il suo gruppo aveva commesso in "continente", nei mesi precedenti, una serie di atti criminali di cui era evidente la finalità terroristica tesa a fiaccare la resistenza dello Stato e, per altro verso, il medesimo gruppo, stava per commettere un ulteriore atto terroristico a Roma, dove ci sarebbe stato un massacro di decine e decine di militari italiani appartenenti all'Arma, che non avrebbe avuto pari nella storia repubblicana, tanto che, per trovare precedenti analoghi, bisognava risalire all'ultimo conflitto mondiale. Dunque Graviano e i suoi uomini – su mandato dei vertici di Cosa Nostra – in quel periodo non solo si stavano muovendo, inequivocabilmente, in una direzione chiara, quella dell'attacco frontale allo Stato, ma agivano nell'ambito di una strategia (esclusivamente) terroristica, ancorchè di matrice mafiosa. In questo contesto Graviano, per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere, celermente, alla esecuzione dell'attentato allo Stadio Olimpico, faceva il (noto) riferimento alla consumazione (appena avvenuta) degli omicidi dei Carabinieri commessi in Calabria, atto che imponeva, per l'appunto, una rapida esecuzione dell'attentato romano. Dunque, alla stregua del riferimento fatto da Graviano, gli omicidi dei Carabinieri in Calabria erano un antecedente logico che fungeva da fattore di accelerazione di un altro e più eclatante delitto (l'attentato contro decine di carabinieri allo stadio olimpico) sicchè i due episodi (quello calabrese e quello romano) risultavano, alla stregua di una lettura logica e "contestualizzata" della frase del Graviano, programmati all'interno di una strategia omogenea ed unitaria ( e, del resto, a contrario, se gli episodi calabresi si fossero collocati in un contesto non omogeneo rispetto all'attentato dell'Olimpico e rispetto a questo fossero stati eccentrici e, quindi, estranei alla strategia terroristica in atto, il riferimento fatto dal Graviano a Spatuzza sarebbe stato privo di senso). Ne segue, già in via logica, che non appare neppure astrattamente ipotizzabile che tasselli di rilievo di tale strategia, quali (alla stregua della esposta ricostruzione) furono gli attentati calabresi - che, non a caso, erano sia perfettamente calibrati cronologicamente con l'eclatante attentato programmato a Roma che omogenei a questo quanto all'obbiettivo attinto o da attingere ( i Carabinieri) - fossero stati concepiti senza un previo concerto con chi aveva organizzato il predetto attentato romano e, cioè, con Giuseppe Graviano. Nel momento in cui Graviano parlava a Spatuzza degli omicidi dei carabinieri in Calabria (notizia, peraltro, che, di norma, sarebbe passata inosservata agli occhi di un mafioso di Brancaccio) e cioè il giorno dopo la consumazione del duplice omicdio Fava-Garofalo, nulla, concretamente, ancora si sapeva, da un punto di vista investigativo in ordine alla loro effettiva natura, alle loro esatte modalità, alla loro scaturigine, ai loro autori, ed in cui, addirittura, non solo, non era stato ancora fatto dagli inquirenti il collegamento fra quel duplice omicidio (di cui parlava il Graviano) ed il duplice tentato omicidio del 2.12.1993. Graviano, invece, nonostante questa assenza d'informazioni anche in capo agli inquirenti, mostrava di conoscere benissimo il contesto in cui era avvenuto il duplice omicidio, chi fossero gli autori (gli amici calabresi) e soprattutto che si trattava non di un "normale" anche se tragico, conflitto a fuoco fra forze dell'ordine e malviventi ma di una azione eversiva/terroristica contro i Carabinieri, omogenea a quella in programmazione a Roma. E solo chi (come evidentemente il Graviano) era stato in diretto contatto con gli organizzatori di quell'agguato, poteva immediatamente, il giorno dopo i fatti, e senza indugi, collocare tale vicenda in un contesto terroristico/eversivo, che, peraltro, solo oggi appare palese. Del resto, anche esaminando gli episodi calabresi e quello dello Stadio Olimpico, in modo asettico, senza tenere conto cioè delle propalazione di Spatuzza, non può non essere rilevata una loro perfetta e non casuale coerenza all'interno di un disegno criminale che, nella sua ferocia, era chiaro e lineare. E ciò si rileva già sul piano dell'uso della violenza. Che, simmetricamente ma in modo progressivamente più incisivo e grave, doveva colpire l'Arma dei Carabinieri. Prima in Calabria e, poi, al cuore, a Roma, dove ci sarebbe stato un vero e proprio massacro di militari italiani.

C'era una volta a Enna: così nacque la strategia stragista di Cosa nostra e 'ndrangheta, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017, su "Il Dispaccio".  Elemento di conferma sul diverso ma rilevantissimo versante della genesi della stagione stragista, proveniva dalle convergenti propalazioni di collaboratori catanesi che pure avevano riferito delle riunioni di Enna come quelle in cui, Cosa Nostra, deliberò la stagione stragista del '92-'93 nel contesto di una strategia "politico-eversiva". Come indicato da Leonardo Messina, Riina ed i suoi uomini soggiornarono per un periodo piuttosto lungo ad Enna, a cavallo fra la metà del 1991 e gli inizi del 1992.

Importanti le dichiarazioni di Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu" che nell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava la riunione "strategica" di Enna della fine del 1991, di cui aveva riferito Leonardo Messina: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...

A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...

A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia...omissis...

Tali dichiarazioni venivano confermate e dettagliate nel corso di un successivo interrogatorio svolto nel 2015.

"A.D.R: Sono in protezione dal marzo del 1994. Ho iniziato a collaborare più esattamente in data 11.3.94. Quando ho iniziato a collaborare ero detenuto presso il carcere Bicocca di Catania. Ero stato arrestato il 25.3.1993. In particolare da quel giorno sono stato detenuto prima a Rebibbia, poi a Catanzaro e infine a Catania. Fino al momento della mia collaborazione ho fatto parte di Cosa Nostra catanese ed in particolare della famiglia Santapaola/Pulvirenti. Io ero il nipote del noto Pulvirenti Giuseppe detto il malpassotu.

A.D.R: Girolamo Rannesi, era un uomo d'onore di Cosa Nostra catanese gruppo Pulvirenti, ed era stato "combinato" insieme a Santo Mazzei detto "O'Caccagnusu". La cerimonia in questione si svolse a Catania alla presenza dei corleonesi ed in particolare alla presenza di Nino Gioè di Altofonte e di Leoluca Bagarella. Ovviamente erano presenti anche gli uomini d'onore di Catania e fra questi in primo luogo Nitto Santapaola. Era presente anche un uomo d'onore di Trapani tale Giovanni Bastone, quest'ultimo molto amico di Mazzei. Tutto ciò mi venne raccontato dal Rannesi, che è colui che nella primavera del 1992 mi raccontò dei propositi stragisti di Santo Mazzei da attuarsi in Toscana e a Torino attraverso una serie di attentati. Mazzei vantava una serie di appoggi in Toscana e a Torino e per questo si era offerto ai corleonesi per compiere tali attentati.

A.D.R: La confidenza sulla disponibilità di Mazzei a fare attentati in Toscana e a Torino il Rannesi me la fece quando era già uomo d'onore.

A.D.R: Quando si tenne la riunione di Enna nella seconda metà del 1991/ fine 1991, di cui ho ampiamente riferito in altri verbali, la sentenza della Cassazione sul maxi-processo non era stata ancora emessa. Ricordo tuttavia che già si sapeva che il Maxi sarebbe andato male.

Infatti ricordo che proprio Nitto e Salvatore Santapaola ed Aldo Ercolano, non so sulla base di quali informazioni, dicevano in mia presenza che quel processo sarebbe andato male per Cosa Nostra. Più esattamente dicevano che non erano riusciti ad "aggiustarlo".

A.D.R: Nulla posso dire delle cd liste autonomiste ovvero delle Leghe Meridionali che all'inizio degli anni 90' si presentavano alle elezioni. Neppure ovviamente sono in grado di riferire sui rapporti eventualmente esistenti fra tali formazioni politiche e Cosa Nostra. Posso dire che poche settimane prima che io iniziassi a collaborare e comunque prima che a livello mediatico si sapesse con certezza della cd "discesa in campo" di Berlusconi – in ogni caso fra il Gennaio ed il Febbraio del 1994 – quando ero detenuto alla Bicocca, tale Marcello D'Agata che era "consigliere familiare" dei Santapaola, mi disse, allorchè io gli rappresentai che nonostante tutto quello che avevamo fatto ( mi riferivo implicitamente alla strategia stragista di Cosa Nostra) eravamo nei "guai" a livello giudiziario, lui mi rispose di stare tranquillo perché gli amici palermitani ci avevano fatto sapere che tutto si sarebbe risolto con l'avvento di una nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi. Mi invitò a fare sapere a tutti quelli che potevo raggiungere di votare per Berlusconi poiché il suo partito avrebbe risolto i nostri guai. Sempre in quel periodo alla Bicocca le parole del D'Agata mi furono confermate da Gaetano Asaro - che pur non essendo uomo d'onore era molto addentro al nostro gruppo tanto che era colui che si era occupato di garantire la latitanza di mio zio Malpassotu. Il Gaetano Asaro che veniva dalla libertà ed aveva notizie "fresche" mi confermò che bisognava appoggiare il nuovo partito che Berlusconi stava creando. Disse. "Berlusconi è la nostra salvezza". Avrebbe abolito il carcere duro e la legge sui pentiti.

A.D.R: Confermo integralmente quanto ebbi a dire nel verbale del 9.5.1994 di cui ricevo lettura...omissis.

A.D.R: Preciso che il vero episodio che aveva indotto i corleonesi e quindi il Riina a ritenere che erano venuti a mancare i nostri referenti politici e bisognava fare la guerra alla stato così come ho sopra detto, era il fatto che non eravamo riusciti o meglio che non riuscivamo ad aggiustare il Maxi-processo in Cassazione. Faccio presente che fino all'estate del 1991 Pulvirenti Malpassotu stesso mi diceva che il Maxi sarebbe andato bene. Nell'autunno si acquisì la consapevolezza contraria. Come sempre mi diceva mio zio il Malpassotu. Questo fu determinante...omissis.

A.D.R: Con riferimento ai rapporti che all'epoca, esistevano fra organizzazioni criminali e massoneria, posso dirvi solo un fatto preciso e netto: nella primavera del 1992, prima delle stragi, Aldo Ercolano in persona, mi convocò per darmi un incarico. Mi disse che bisognava convincere i proprieta000ri di una certa villa dalle parti di Taormina – villa che mi sembra di avere anche indicato quando feci i primi sopralluoghi investigativi - a cederla o in affitto o in vendita. Mi spiegò che questi proprietari erano riottosi e bisognava convincerli. Sempre l'Ercolano mi spiegò che questa villa doveva diventare la sede di una sorta di associazione – una specie di Rotary o di Massoneria – che doveva comprendere sia uomini insospettabili che uomini di Cosa Nostra. Lo scopo di questa associazione era quello di fare affari insieme e soprattutto di procurare sempre nuovi affari a Cosa Nostra. Mi disse che l'elemento di spicco di questa associazione era il Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto. A detta dell'Ercolano questo Cattafi era un uomo d'onore molto vicino a Bagarella. Io accettai l'incarico ed individuai anche la villa. Non avevo ancora avvicinato i proprietari che, in seguito, l'Ercolano Aldo quando io gli dissi che ero in difficoltà a muovermi poiché avevano arrestato il mio inseparabile amico Salvatore Grazioso mi disse che non serviva più quella villa perchè disse "avevano risolto il problema" Ciò avvenne sempre in epoca precedente alle stragi siciliane del 92. In seguito seppi da Aldo Ercolano che, sempre in zona di Taormina, e poi altrove, dalle parti di Barcellona Pozzo di Gotto, si erano svolti degli incontri di questa associazione del Cattafi. Non mi disse cosa si era detto o concluso in queste riunioni. Certo è che a dire dell'Ercolano queste riunioni riservate oltre a uomini di Cosa Nostra vedevano protagonisti imprenditori, politici e uomini delle istituzioni..."

Malvagna precisava anche che Cosa Nostra catanese aveva posto in essere, nel quadro della stessa strategia, atti intimidatori nei confronti del sindaco pro-tempore di Misterbianco Antonio Di Guardo, del giornalista Claudio Fava, e perfino un attentato avente come obiettivo il Palazzo di Giustizia di Catania. Né può essere sottovalutato un ulteriore rilevante profilo delle dichiarazioni rese dal Malvagna a questo Ufficio : il riferimento ai rapporti fra Cosa Nostra e Massoneria – ampiamente evidenziati in modo convergente dal Pennino e dal Gran Maestro Di Bernardo – e soprattutto il riferimento al ruolo chiave che in tale contesto aveva Rosario Cattafi, legato ad Ordine Nuovo, che – come pure risulta dagli atti dell'indagine "sistemi criminali" – anche il collaboratore di Giustizia Maurizio Avola indicava come soggetto "esterno", suggeritore delle strategie di Cosa Nostra. Anche nel caso di Maurizio Avola, la Dda di Reggio Calabria, il 14.5.2015, provvedeva ad una nuova escussione del collaboratore, nella corso della quale, il predetto, oltre a confermare pienamente quanto aveva a suo tempo riferito, e si è sopra riportato, evidenziava due circostanze di rilievo: come, da un punto di vista criminale, i rapporti fra 'Ndrangheta – e in particolare le famiglie De Stefano-Piromalli – fossero intensi, continui ed abituali; il ruolo di Sante Mazzei, uomo di Bagarella inserito nella famiglia di Catania di Cosa Nostra per agevolare le strategie corleonesi sulle stragi. Mazzei fu protagonista del fallito attentato del 1992 a Firenze nei giardini di Boboli:

"ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal giorno 8.3.1994 venni arrestato nel marzo 1993. Nel 1997 mi è stato revocato il programma per delle infrazioni comportamentali ma ho continuato a rendere dichiarazioni alla AG.

ADR: Facevo parte di cosa nostra catanese ed in particolare facevo capo a Nitto Santapaola.

ADR: Ho già reso dichiarazioni sui rapporti fra il gruppo Santapaola e la 'ndrangheta sia alla AG catanese che a quella reggina. In particolare ho riferito dei comuni traffici di stupefacenti che vennero organizzati da Paolo De Stefano ed Ercolano Salvatore. In particolare io stesso accompagnai Ercolano Salvatore a Reggio Calabria ad incontri con il predetto De Stefano. Ciò avvenne fra il 1983 ed il 1984. Poi Nitto Santapaola mi disse che non dovevo più occuparmi di queste faccende per cui mi sono astenuto. Il problema era fra Nitto Santapaola e Salvatore Ercolano. In sostanza i rapporti fra i Santapaola e i De Stefano continuavano, ma Nitto non voleva che tali rapporti fossero portati vanti da Salvatore Ercolano. Rappresento che in quel periodo il processo per la sparatoria avvenuta a Catania a via delle Olimpiadi era stato trasferito a Reggio Calabria, non ricordo per quale ragione. Poiché erano imputati Antonino Santapaola, Salvatore Pappalardo e Natale Di Raimondo (oggi collaboratore, Nd.PM: le cui dichiarazioni saranno viste a breve), Aldo Ercolano (rappresentante all'epoca della famiglia Santapaola) ebbe contatti con Paolo De Stefano affinchè quest'ultimo cercasse di fare "aggiustare" il processo. So di questa vicenda in quanto, di questo interessamento, me ne parlò lo stesso Aldo Ercolano. Non so dire come sia andato a finire questo interessamento. Certo è che nel 1986 i tre imputati vennero scarcerati. Posso dire, inoltre, che alcuni calabresi, non so chi, chiesero, nel 1990, a Nitto Santapaola il permesso di rapire Pippo Baudo. Nitto Santapaola negò il permesso. Questo fatto mi venne riferito da Samperi Claudio oggi collaboratore.

ADR: Non sono in grado di riferire della esistenza di eventuali rapporti fra Cosa Nostra e 'ndrangheta riguardanti la cd strategia stragista.

ADR: Conosco per averne letto in un secondo momento sui giornali (all'epoca io ero già detenuto) del fallito attentato alla stadio olimpico organizzato dai palermitani, attentato che doveva colpire i carabinieri. Nulla so, però, della contestuale serie di attacchi ai CC avvenuta in Calabria nel dicembre 93 e Gennaio –febbraio del 1994. Come ho detto ero detenuto.

ADR: Come ho spiegato nel corso di più verbali la strategia della tensione che Cosa Nostra aveva pianificato contro lo Stato risaliva al 1991 più esattamente al Settembre- Ottobre 1991. Ricordo che il vice-rappresentante provinciale di Catania di Cosa Nostra, Eugenio Galea, dopo un incontro con i corleonesi, venne a comunicarci a noi di Catania che era stata stabilita, con i corleonesi, questa strategia di attacco generalizzato allo Stato. Bisognava fare attentati a tralicci, traghetti, forze dell'ordine e tutto ciò che era ricollegabile allo Stato. Prima di iniziare, però, ci disse che bisognava aspettare il via. Insomma in quel momento bisognava solo prepararsi.

ADR: Dopo la morte di Paolo De Stefano, i referenti calabresi di Cosa Nostra catanese divennero le famiglie De Stefano-Piromalli. Preciso meglio: per un periodo successivo alla morte di Paolo De Stefano i rapporti si raffreddarono. Evidentemente attesa la guerra in corso non si sapeva con chi parlare, poi dai discorsi che facevano i miei capi, mi riferisco agli Ercolano ed ai Santapaola, capivo che se c'era un problema da risolvere in Calabria i referenti erano sia i De Stefano che i Piromalli. Non so specificare chi dei De Stefano e chi dei Piromalli. Si faceva riferimento a queste due famiglie. Ritengo che Natale Di Raimondo, collaboratore di giustizia, possa conoscere meglio queste dinamiche in quanto conosceva bene la Calabria ove era stato in soggiorno obbligato.

ADR: Santo Mazzei era molto vicino ai corleonesi più esattamente era un uomo di fiducia di Bagarella. Al contempo era uno storico rivale di Nitto Santapaola. Santo Mazzei era uno dei principali fautori della strategia stragista ed era soggetto dalle forti simpatie di destra, meglio di estrema destra. Santapaola era contrario alla strategia stragista. Per questo i corleonesi volevano che Santapaola fosse sostituito da Mazzei al vertice di Cosa Nostra catanese. Questa indicazione i corleonesi – e cioè che Nitto Santapaola fosse "posato" – i corleonesi non la diedero espressamente ma la fecero capire allorquando il Mazzei, nel 1991 venne "combinato" uomo d'onore direttamente da Bagarella a Palermo (i due si erano conosciuti a Porto Azzurro), nonostante il Mazzei fino a quel momento fosse stato uno dei "cursoti" dunque soggetto estraneo a Cosa Nostra. Era una vera e propria investitura che poi, in seguito, qualche tempo dopo, venne formalizzata allorquando il Mazzei venne presentato a Catania dai corleonesi e precisamente da Bagarella in persona allo stesso Nitto Santapaola e agli Ercolano. Ciò avvenne sempre fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, in epoca successiva alla elaborazione della cd strategia stragista ma prima di una rapina miliardaria che feci alla sede centrale della Banca di Ragusa che feci ad Aprile/Maggio 1992 proprio con uomini di Mazzei. Rappresento, poi, che nel 1992 su ordine di Bagarella collocò un ordigno a Firenze nei giardini di Boboli dopo gli attentati di Palermo. Poi alla fine del 1992 il Mazzei venne arrestato..."

Già nella seconda metà del 1991, i vertici di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni di Enna, avevano deliberato di attaccare lo Stato per ragioni di strategia politica. I Corleonesi, si spesero presso le famiglie e le organizzazioni alleate per concertare, avere il consenso ed ottenere, da ciascuna, un apporto autonomo nella creazione di un clima di paura e terrore nel paese. Tutto ciò rappresenta una importante premessa per comprendere la coerenza, con tale modus operandi, dell'interazione fra Cosa Nostra e Ndrangheta nella complessiva strategia terroristica e nella esecuzione degli attacchi ai CC. La vicenda criminale veniva chiarita nella sua effettiva causale dal collaboratore di Giustizia Natale Di Raimondo, sulle cui dichiarazioni si sono fondate le condanne per il delitto in esame comminate dal Gup di Catania e poi confermate. Escusso il 20.4.2015, il Di Raimondo, riferiva:

"...ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal 28.10.1998. All'epoca ero detenuto al Carcere di Cosenza. Ero detenuto in questo carcere dal Luglio 1993 (fatti salvi gli spostamenti per i processi che avevo a Catania) in precedenza ero stato detenuto, da Marzo 1993 ad Augusta -Catania. Prima di marzo 93 ero libero e lo ero dal 1988. Io ero appartenente ai Santapaola dal 1980 ma non ero "combinato". Nel 1987, invece, venni fatto uomo d'onore insieme al mio carissimo amico Pappalardo Salvatore (ucciso in un agguato nel 1999 a Catania).

ADR: Non è esatto che io sia stato in soggiorno obbligato in Calabria. Lo è stato invece il mio amico Salavatore se non ricordo male in un periodo che ruota intorno al 1988. Stava a Melito Porto Salvo. Entrò in ottimi rapporti con gli Iamonte, che, peraltro, io stesso avevo conosciuto nel carcere di Reggio Calabria nel 1985. In particolare conobbi Iamonte Natale il vecchio, Vincenzo Iamonte, il genero di Natale Iamonte di cui non ricordo il cognome ma solo il nome, Pietro. Conobbi anche in quel contesto Pasquale Condello, Totò Polimeni, Pasquale Tegano, Orazio De Stefano il Libri uccisi in carcere, mi pare a nome Pasquale, tale Labbate mi sembra Pietro, come voi mi chiedete, Paolo e Mico Serraino. Io godevo di una buona reputazione criminale, in quanto ero imputato di una grave fatto di sangue, vale a dire la strage di via delle Olimpiadi. Per questa ragione i suddetti esponenti della 'ndrangheta mi diedero subito fiducia e credito, anche perché sapevano che io appartenevo ai Santapaola che mi dissero erano loro alleati ed amici, tanto da fare insieme il traffico di stupefacenti. Protagonisti di questi accordi in materia di stupefacenti erano i Ferrera – cugini dei Santapaola – da un lato e gli Iamonte ed i De Stefano dall'altra. Fu Natale Iamonte che, in carcere, mi raccontò questi affari di droga, dicendo che era grato ai catanesi che in questo ambito gli avevano fatto fare parecchi soldi. Preciso che durante la guerra di mafia seguita all'omicidio di paolo De Stefano, ovviamente non si potevano fare affari come prima e comunque mantenemmo una posizione neutrale. Tuttavia i rapporti cordiali continuammo a tenerli con i De Stefano/Tegano. Io stesso nel 1990, quando la guerra stava per finire, andai a Reggio Calabria per parlare con Tegano Domenico "Mimmo" e Pasquale Tegano di una impresa catanese a nome Palmeri che stava ristrutturando un palazzo pubblico a Reggio Calabria. Bisognava accordarsi per la tangente da pagare. Ricordo che i due Tegano avevano dei documenti da cui potevano ricostruire il margine di guadagno della ditta catanese. Non venne fatto un rapporto di particolare favore a questa nostra ditta. Spontaneamente: nel 1990/91 io Umberto Di Fazio e Salvatore Pappalardo andammo ad eseguire un omicidio nell'ospedale di Melito Porto Salvo su richiesta di Natale Iamonte. Fu Il Pappalardo che portò la richiesta dello Iamonte a Turi Santapaola. Questi autorizzò il nostro intervento. Io e Pappalardo rimanemmo in macchina sotto l'ospedale e Di Fazio, guidato da uno degli Iamonte, tale Remingo, salì in Ospedale ed uccise con colpi di pistola silenziata, la vittima che ricoverato in questo ospedale. Non sapevamo neanche all'epoca la casuale dell'omicidio. Per noi era un favore agli Iamonte e basta.

ADR: Nulla so dell'omicidio del Giudice Scopelliti.

ADR: Santo Mazzei era uomo di Bagarella. Lui venne introdotto nel gruppo Santapaola da Bagarella. Io ero presente quando, dopo Capaci, Brusca Giovanni, Gioè e Bagarella vennero a Catania e io Enzo Aiello ed Eugenio galea li portammo da Nitto Santapaola in una tenuta di Aiello. Lì venne chiesto da Bagarella a Nitto di fare il Mazzei uomo d'onore come da richiesta di Totò Riina. Disse che il Mazzei a Rimini aveva già fatto due omicidi per "loro". Questa conoscenza Mazzei-Bagarella era nata in carcere negli anni precedenti. Il Mazzei prima non era di Cosa Nostra. In effetti Mazzei venne poi fatto uomo d'onore. Abbiamo poi capito che i corleonesi volevano in seguito accantonare il Santapaola e mettere al vertice della famiglia di Catania il Mazzei. Mazzei era davvero agli ordini di Bagarella. Lo so perché ero io incaricato da Nitto Santapaola di dargli assistenza e di controllarlo. Mazzei aveva fiducia in me e per questo si confidava. Si vantò, infatti, con me di avere messo l'ordigno nel giardino di Boboli a Firenze su richiesta dei Corleonesi. La cosa la fece all'insaputa di Nitto Santapaola come lo stesso Santapaola mi disse quando io gli raccontai il fatto. Nell'occasione del loro arrivo a Catania (dopo Capaci ma prima dell'attentato di via D'Amelio) Bagarella e gli altri due chiesero a noi catanesi ed, in particolare, a Nitto di aderire alla strategia che in seguito sarebbe stata ulteriormente portata avanti da loro, contro lo Stato. Ci chiesero di uccidere magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, di fare attentati e "fare rumore". Ciò dovevamo fare in provincia di Catania. Ricordo che Nitto e Turi Santapaola, in loro presenza, dissero che avrebbero aderito a questa strategia, poi quando i corleonesi se ne andarono, manifestarono ai noi affiliati le loro perplessità. Tuttavia bisognava fare credere ai Corleonesi che seguivamo quelle indicazioni e, per questo, nel Luglio 1992, venne ucciso, subito dopo via D'Amelio, l'Ispettore di PS Lizio. Questo Ispettore venne prescelto da noi e dai Santapaola, come vittima designata, essendo un funzionario molto chiacchierato, rispetto al cui omicidio, ritenevamo che non vi sarebbe stato il clamore che, invece, ci sarebbe stato se fosse stato ucciso un poliziotto integerrimo ed impegnato sul fronte antimafia. Insomma, con questo omicidio, volevamo, da una parte, fare credere ai Corleonesi che li seguivamo nell'azione contro lo Stato, ma, nel contempo, non volevamo fare una azione troppo eclatante che richiamasse l'attenzione dell'opinione pubblica e delle forze dell'ordine su noi catanesi. Nitto Santapaola era rimasto "scottato" per la vicenda dell'omicidio Dalla Chiesa e per l'omicidio Ferlito che determinò la strage di tuta la scorta che portava il Ferlito dal carcere di Enna a quello di Trapani o Favignana. In pratica il Santapoala era convinto che in entrambi i casi – materialmente eseguiti dai corleonesi - ci fosse lo zampino dei servizi deviati in quanto nel caso di Ferlito era evidente che vi era stata una soffiata da qualcuno interno alle istituzioni che aveva avvisato del momento della traduzione del Ferlito e nel caso di Dalla Chiesa era lo stesso in quanto risultò in seguito che era stato utilizzato lo stesso mitragliatore usato per la strage della circonvallazione in cui perì Ferlito e la sua scorta. Ripeto che questa era la convinzione di Nitto Santapaola per queste due vicende che mi esternò a suo tempo e che io mi limito a riportare alle SSVV come ho già fatto rendendo dichiarazioni alla AG di Catania, Palermo, Firenze. Dunque per questi precedenti che, ad avviso di Nitto Santapaola, deponevano per l'esistenza di collegamenti fra corleonesi ed apparati o elementi deviati dello Stato, lo stesso Nitto Santapaola diffidava dei Corleonesi. Ciò anche perché nei due precedenti casi che ho indicato (Ferlito e Dalla Chiesa) gli attentati li avevano fatti i Corleonesi e poi era stato implicato lui stesso che ne era estraneo. Nitto, quindi, temeva che così, anche per le stragi che i Corleonesi stavano eseguendo in Sicilia, poteva succedere e che cioè, noi, nostro malgrado, fossimo implicati nelle stesse a livello giudiziario..."

Il pentito Scriva: “Il procuratore Tuccio mi disse che Filippone era amico di un suo amico…”. E il nome del boss della Piana scompare dal verbale…, scrive Claudio Cordova mercoledì 26 luglio 2017 su "Il Dispaccio". Sarebbe un uomo molto influente della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, l'elemento di raccordo tra la cosca Piromalli e Cosa Nostra nella strategia stragista. Eppure per anni, Rocco Santo Filippone (arrestato oggi nell'ambito dell'inchiesta "Ndrangheta stragista") sarebbe rimasto immune alle indagini. Sono tanti i collaboratori di giustizia che parlano, ma le dichiarazioni più pregnanti arrivano dal collaboratore di giustizia Pino Scriva. Elementi utilissimi, peraltro, per comprendere che i rapporti sono diretti e di particolare rilievo fiduciario, vista la gestione di parte della latitanza del collaboratore di giustizia da parte della persona sottoposta ad indagini:

"A.D.R: Ho iniziato a collaborare con la giustizia nel 1983. Ho fatto parte di una famiglia di 'ndrangheta che porta il mio stesso nome. Anzi, posso dire che sono stato il primo a spiegare all'A.G. cosa è la 'Ndrangheta. Preciso che dal 1968 al 1983 sono stato quasi sempre detenuto salvo alcuni periodi in cui ero latitante in quanto ero riuscito ad evadere. Nel periodo in cui ero detenuto e quindi tra il 1969 e il 1983 i rapporti tra noi della 'Ndrangheta e quelli di Cosa Nostra erano cordiali, ma noi eravamo una cosa e loro un'altra. Non posso dire cosa è successo dopo il 1983 poiché ho interrotto qualsiasi rapporto con gli ambienti criminali di provenienza. Ho conosciuto tutti i principali esponenti della 'Ndrangheta della zona Tirrenica e anche Ionica. Ricordo BELLOCCO Umberto detto "asso di mazzo" cl.1937, Nino PESCE "testuni", Mommo PIROMALLI, il vecchio, morto nel 1979 che era il Capo dei Capi e la sua parola valeva in Calabria in Sicilia e altrove, Peppe PIROMALLI cl.1921, Pino PIROMALLI "facciazza". Quelli della famiglia PESCE li conoscevo praticamente tutti compreso Peppe il vecchio ed anche i MOLE'. Mi chiedete se ho conosciuto persone di 'ndrangheta a Melicucco ed io vi faccio i nomi di tali PRONESTI' e Rocco FILIPPONE. Mi chiedete di soffermarmi principalmente su quest'ultimo ed io vi dico che per la prima volta entrai in contatto con Rocco FILIPPONE quando mio cugino Rocco SCRIVA – 'ndranghetista responsabile dell'omicidio di Domenico CUNZOLO – doveva appoggiarsi in un posto sicuro per trascorrere la latitanza. Per tale ragione mio padre SCRIVA Francesco, mi disse di portare mio cugino Rocco presso il FILIPPONE. Il FILIPPONE aveva la disponibilità di una abitazione (non so se fosse sua o meno) nel Comune di Anoia vicino a Melicucco. In questa casa trascorsero la latitanza non solo mio cugino Rocco ma anche MAESANO Domenico "Mico" e Giuseppe ROTOLO di Rizziconi, compaesano del primo. Costatai la presenza di questi ultimi proprio accompagnando mio cugino in questa abitazione di FILIPPONE che a sua volta abitava dalle parti di Melicucco in un'altra casa. Ciò avvenne nel 1965. Circa dieci anni dopo, nel 1975, essendo io latitante a seguito di una evasione, costatata la disponibilità del FILIPPONE in precedenza, trascorsi circa nove mesi della mia latitanza appoggiandomi a Rocco FILIPPONE che mi "teneva" in una Masseria di campagna poco prima di Melicucco. Passavamo molto tempo insieme nel senso che lui mi accompagnava nei miei spostamenti. Tenga presente che all'epoca vi era una guerra tra le famiglie FACCHINERI e RASO-ALBANESE, tutte di Cittanova. Luigi FACCHINERI uccise il 19 marzo uno degli ALBANESE e scoppiò la faida.

Le parole di Pino Scriva sono gravissime, non solo circa l'appartenenza di Filippone alla 'ndrangheta, ma anche circa le presunte coperture di cui avrebbe goduto e, in particolare, quelle dell'allora procuratore di Palmi, Giuseppe Tuccio, oggi alla sbarra nel processo "Gotha", celebrato contro la masso-ndrangheta: "Voglio precisare un particolare su Rocco FILIPPONE: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come 'ndranghetista all'allora Procuratore di Palmi, dott. Giuseppe TUCCIO. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse: "Rocco FILIPPONE è amico di un mio amico di Reggio Calabria". Capii al volo che Rocco FILIPPONE poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla 'ndrangheta ma, non fu scritto neanche il suo nome nel Verbale redatto dal dott. TUCCIO in occasione dell'interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei Carabinieri di Tropea. Mi chiedete se dopo aver fatto il suo nome rileggendo il verbale ho notato che lo stesso non era riportato, e vi dico che così ricordo. Certo è che Rocco FILIPPONE non venne processato e il Procuratore TUCCIO mi disse chiaramente che era un amico di un amico.

A.D.R: Nel corso della mia latitanza presso il FILIPPONE ho visto con i miei occhi che lo stesso disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte.

A.D.R: Il Procuratore TUCCIO non mi disse chi era l'amico del FILIPPONE.

Stragi, l’attacco ai carabinieri e le parole su Berlusconi: così Graviano divenne l’uomo cerniera tra ‘ndrangheta e mafia. La procura di Reggio Calabria accusa il boss di Brancaccio di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. . Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Cosa nostra proprio in quei primi giorni del 1994, scrive Giuseppe Pipitone il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".  Non solo il capomafia di Brancaccio, non soltanto il “coordinatore” delle “stragi continentali” e il boss che si era “messo il Paese nelle mani” grazie ad accordi mai dimostrati con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Quello che emerge dall’ultima inchiesta della procura di Reggio Calabria è un nuovo profilo di Giuseppe Graviano. Una ruolo interpretato dal padrino di Brancaccio fino ad oggi mai approfondito dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti: quello di “uomo cerniera” tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta. È Graviano, infatti, l’uomo che coinvolge i calabresi nella strategia stragista progettata da Cosa nostra già nell’inverno del 1991 nel caso in cui la Cassazione avesse fatto diventare definitive le condanne del Maxi processo. Cosa che avvenne effettivamente in quella che è probabilmente la data che cambia la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992 è un giovedì e a Roma la Suprema cortestabilisce per la prima volta il carcere a vita per i boss mafiosi. Da quel momento l’Italia viene stravolta da un’escalation a colpi di bombe e tritolo che prima elimina i nemici storici di Cosa nostra, e poi si concentra su obiettivi più simili ad un attacco terroristico: è quello che è stato ribattezzato come l’attacco allo Stato di Cosa nostra. Al quale, però, hanno partecipato anche i calabresi. Graviano, uomo cerniera tra due mafie – “La presente indagine ha dimostrato come, non solo la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della ‘ndrangheta tirrenica — d’intesa con esponenti reggini — diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra, che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti `ndraghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere alla organizzazione degli attacchi ai carabinieri in terra calabrese”, scrivono gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La procura di Reggio Calabria, infatti, accusa Graviano (e il calabrese Rocco Santo Filippone) di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dell’uscita di Scilla. Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Graviano proprio in quei primi giorni del 1994.

Spatuzza e l’accordo coi calabresi – L’indagine degli investigatori calabresi, infatti, ha il merito di rileggere e mettere ordine tra un numero indefinito di episodi, racconti di collaboratori di giustizia, rivelazioni. Il risultato è un’unica ricostruzione dei fatti che – in un modo o nell’altro – portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Un racconto ben sintetizzato dalle dichiarazioni che Gaspare Spatuzza ha messo a verbale davanti agli inquirenti, confermando l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta. “La conferma di un complessivo accordo tra Cosa nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi – dice – ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo, Filippo Gravianoebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla ‘ndrangheta e della camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa nostra. Filippo Graviano mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro padri”. Come dire: se il regime di carcere duro per detenuti mafiosi è stato inasprito dopo le stragi la colpa è anche dei calabresi che a quelle stragi hanno partecipato.

Il processo aggiustato e l’anello di congiunzione – Ma non solo. Perché Spatuzza è anche testimone diretto dei buoni rapporti tra piovre calabresi e siciliane. E in un caso probabilmente beneficiario. “Altro episodio che collega Cosa Nostra alla ‘ndrangheta – mette a verbale il pentito – posso riferirlo da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell’anno 1998. Successe che nell’ambito del noto procedimento Golden Market i Graviano (detenuti con lui a Tolmezzo all’epoca ndr) mi dissero che dovevo ricusare il presidente della corte d’Assise di Palermo proprio all’ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione, cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per l’associazione e qualche reato satellite con l’assoluzione per gli omicidi, dall’altra mi dissero che due franche di 500 milioni di lire l’una per il tramite di Agate Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che avrebbero ‘aggiustato‘ un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, l’anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta”.

Il colpo di grazia e l’attacco ai carabinieri – Al netto dei rapporti tra calabresi e siciliani, però, i racconti del pentito di Brancaccio sono importanti soprattutto per un motivo: collegano tra loro i vari attentati compiuti contro i carabinieri. “Nel corso di questo incontro Graviano Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all’accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in Dell’Utri e Berlusconi, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato e i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell’attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria”, ha raccontato il killer di Brancaccio riferendosi al famoso colloquio del bar Doney, in via Veneto a Roma, il 21 gennaio del 1994. Quello in cui Graviano “era molto felice” e “fa il nome di Berlusconi” del “nostro compaesano Dell’Utri” sottolineando che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”. Prima, però, c’è da dare il colpo di grazia, visto che “i calabresi si erano già mossi”.  “Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla ‘ndrangheta d’intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il Graviano con quella frase che ho detto sopra – in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri“, dice l’uomo al quale era stato affidato “il colpo di grazia”: un’autobomba piena di tondini di ferro piazzata vicino all’autobus dei carabinieri che curavano l’ordine pubblico davanti allo Stadio Olimpico di Roma. Un attentato terroristico mafioso” (copyright dello stesso Spatuzza) che non verrà mai eseguito a causa del forfait del telecomando del detonatore. Il colpo di grazia salta anche per un altro motivo: il 27 gennaio vengono arrestati a sorpresa sia Giuseppe che Filippo Graviano. Il giorno prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con il famoso messaggio agli italiani. Da quel momento in poi, le stragi finiscono. L’egemonia politica e Forza Italia – A questo proposito, i pm annotano: “Ulteriore elemento di rilievo va considerato il riferimento, anche in questo caso confermativo dei passaggi dichiarativi del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, alla circostanza che, poco prima dell’arresto del Graviano, le entità superiori che avevano inteso spingere mafie sul crinale della strategia stragista, avessero, poi deciso di interromperla. Ciò si spiega ove ci si ponga nella prospettiva dell’avvenuto raggiungimento dell’egemonia politica che doveva essere acquista attraverso il sostegno al nuovo partito Forza Italia”. Insomma: l’ipotesi è che gli attentati ai carabinieri siano stati una sorta di ultimo atto di una strategia della tensione da perseguire finché un nuovo ordine non fosse stato raggiunto. E proprio sul ruolo di Forza Italia e dei rapporti tra i Graviano, Dell’Utri e Berlusconi, la procura di Reggio Calabria ha utilizzato per la sua inchiesta anche le varie intercettazioni ambientali captate dai colleghi di Palermo durante l’ora d’aria che il padrino di Brancaccio ha trascorso con il codetenuto Umberto Adinolfi.

Le intercettazioni di Graviano – Gli investigatori reggini accreditano la genuinità delle dichiarazioni di Graviano, le considerano di “assoluto interesse gravemente indiziario” e le inseriscono nella loro ricostruzione, commentandole passo passo. “Berlusconi pigliò le distanze, fece il traditore”, dice Graviano intercettato il 19 gennaio 2016. “Dato questo – si legge nell’ordinanza – che conferma la convergenza, che si determinò nel 1994, fra le mafie e Forza Italia e, quindi, il passaggio che queste fecero dal progetto separatista a quello forzista; di rilievo vanno considerati anche i passaggi della conversazione aventi ad oggetto il mancato rispetto degli accordi fra Berlusconi e le mafie”. Tre giorni dopo, invece, il boss di Brancaccio dice: “Nel 1993 ci furono le stragi e le cose migliorarono tutte di un colpo. Io poi andai a Pianosa e non ti toccavano (si riferisce al fatto che prima — nel 1992/93 – venivano malmenati nelle carceri ndr).  Nel 1994 lo stavano proprio togliendo il 41 bis c’era la Maiolo...poi arrivò Bossi”. Conversazioni che per gli inquirenti confermano “come l’accordo mafie/Forza Italia ruotasse intorno alla eliminazione del 41 bis”. Il passaggio forse più interessante delle intercettazioni di Graviano è, però, un altro. “Nel 1992 Berlusconi voleva già scendere”, dice il boss. Per gli inquirenti “si tratta di passaggio di rilievo in quanto dimostrativo dei rapporti consolidati fra Berlusconi e Graviano (evidentemente tramite Dell’Utri); rilevante anche il fatto che verosimilmente nel periodo immediatamente successivo e, comunque, in collegamento con la volontà di Berlusconi di scendere in campo, questi chiese a Graviano una cortesia; Berlusconi che aveva tutta la popolazione con lui, disse al Graviano ci vorrebbe una bella cosa e questo avveniva quando mi incontravo con lui. Il boss di Brancaccio, poi, dice anche altro. Dice, per esempio che poi loro “non volevano più le stragi”. “L’apporto dichiarativo – annotano i pm reggini – non consente di comprendere appieno se chi non voleva più le stragi (e che, quindi, prima le voleva) fosse Berlusconi”. Un interrogativo non da poco.

Il fantasma dello "stalliere" di Arcore, scrive il 27 luglio 2017 Enrico Bellavia su "La Repubblica". Per anni ci siamo concentrati tutti sul fatto dimenticandone gli sviluppi. A cosa avrebbe portato tutto il lavoro di Paolo Borsellino? Un suo fidato collaboratore che avrebbe conosciuto l’infamia di un’accusa di mafia, il maresciallo, poi tenente Carmelo Canale, ha rivelato che Borsellino avrebbe arrestato il procuratore Pietro Giammanco se solo gliene avessero lasciato il tempo. Rivelò anche che furono alcuni colleghi dell’ufficio a sconsigliare al procuratore capo di presenziare alle esequie di Salvo Lima. Stando a Canale, Paolo Borsellino avrebbe voluto farsi raccontare da Giammanco cosa sapeva dell’omicidio dell’europarlamentare. Ora fermiamoci un attimo e riannodiamo i fili. Borsellino indaga sugli appalti, a due cronisti francesi andati a intervistarlo, due giorni prima della strage di Capaci, parla a sorpresa di Vittorio Mangano, lo sconosciuto stalliere di Arcore. Il suo capo lo osteggia in ogni modo e, dopo la morte di Lima, il procuratore aggiunto confida a un suo uomo di fiducia che vuole arrestare il suo capo. Cosa aveva intravisto Borsellino tracciando un ideale filo che collegava il mandamento mafioso di Porta Nuova, a Palermo nientemeno che ad Arcore? Perché aveva chiesto a Canale di rintracciargli un vecchio rapporto sulla Duomo Connection? Perché nel suo ragionamento con i giornalisti francesi sente la necessità di far riferimento a una vicenda che riguarda molto da vicino due fratelli palermitani che hanno fatto fortuna al Nord, Marcello e Alberto Dell’Utri? L’ultima intervista di Borsellino, sepolta negli archivi della Rai, che ebbe copia di una sintesi trasmessa con ritardo per il pubblico italiano, nasconde proprio quelle domande. E se ne aggiungono altre di domande. Cosa era Palermo nel 1992? Dove erano arrivati i “contadini” di Corleone? Di quali appoggi godevano a Palazzo? Ecco se il tritolo di via D’Amelio non avesse fermato Borsellino, dove sarebbe arrivato il magistrato? Davvero avrebbe arrestato il procuratore capo Pietro Giammanco? Davvero le indagini su mafia e appalti lo avrebbero portato fino ad Arcore? Che significato dare alla inusuale telefonata a casa Borsellino fatta da Giammanco la mattina del 19 luglio del 1992? Che peso dare alle sue parole: Paolo hai la delega per Palermo, spero che questo chiuda la partita? E che peso dare alla risposta di Borsellino: “Questo riapre la partita, anziché chiuderla”. A cosa alludeva Borsellino, a quali conclusioni era giunto? Perché era così impellente fermarlo quel giornoe e a quell’ora e con quei mezzi a 57 giorni dalla strage di Capaci?

'Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e massoneria: dalle spinte autonomiste alla scommessa su Forza Italia, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". L'indagine "Ndrangheta stragista", oltre a ricostruire gli attentati ai carabinieri sul suolo calabrese, ricostruisce le premesse criminali e politiche della stagione stragista, ma anche idee e liste autonomiste e leghiste. Apporto rilevante al costrutto accusatorio, proviene dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. A suo tempo particolarmente legato a uno dei grandi capi di Cosa Nostra, il corleonese Leoluca Bagarella, cognato e massimo uomo di fiducia di Salvatore Riina, di cui, Cannella, proprio durante il periodo stragista, per un lungo periodo, garantì la latitanza. In primo luogo Cannella sapeva, per averle vissute in prima persona, delle sinergie puramente criminali fra i Graviano e la 'Ndrangheta. In secondo luogo Cannella (all'epoca insospettabile imprenditore) fu uno degli animatori e presentatori, nel 1993/94, di una movimento leghista meridionale (poi divenuto anche lista elettorale) denominata "Sicilia Libera" che era la continuatrice di analogo movimento, che, in Sicilia – fra il 1990 ed 1992 - e nel resto del paese era rappresentato dalla "Lega Meridionale" ispirata, da Licio Gelli, movimento cui, pure, Cosa Nostra aveva aderito in uno con le altre mafie. Del resto la presenza e l'influenza, anche indiretta, sulle dinamiche criminali calabresi del Maestro Venerabile Licio Gelli, veniva evocata da diverse fonti di prova: «la stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare, è quella di cui facevano parte l'Avv. DE STEFANO, Paolo ROMEO e l'on. LIGATO, ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l'Avv. Paolo ROMEO che l'Avv. Giorgio DE STEFANO[1] facevano parte della P2 di Licio GELLI che spesso si recava a Reggio Calabria: ciò mi è stato detto da Nino Lo GIUDICE e Peppe RELIQUATO». Quanto sopra veniva dichiarato dal collaboratore Consolato Villani, nel contesto delle sue propalazioni su Lodovico, che sarebbe stato «ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO» e che faceva parte della «stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare» insieme «all'Avv. DE STEFANO» e «Paolo ROMEO. Elementi di conferma all'appartenenza dei due legali (Romeo e De Stefano) alla «P2 di Licio GELLI» o, comunque della loro contiguità alla stessa, si traevano dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che, nel verbale d'interrogatorio del 24.01.1995, riferiva sull'esistenza, sin dai «primi mesi dell'anno'79», di «una loggia segreta a Reggio Calabria... a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, 'ndranghetisti». Sempre il collaboratore Barreca, dichiarava che, «loggia segreta» di «Reggio Calabria» era stata costituita inizialmente da «Franco FREDA...nel contesto di quel più ampio progetto nazionale» al quale avevano aderito «le più importanti personalita' cittadine» tra cui anche «Lodovigo Ligato, l'onorevole Paolo ROMEO, l'avvocato Giorgio DE STEFANO... e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P/2...la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale». Continuando il collaboratore chiariva che: «Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle Istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura. Tornando, ora, alle dinamiche politiche dell'epoca, risultava che Sicilia Libera, operava in modo coordinato con analoghi movimenti leghisti meridionali (Calabria Libera, ecc) che, come il movimento siciliano, erano sostenuti dalle organizzazioni mafiose radicate nei rispettivi territori. Ed il momento più alto di questa collaborazione interleghista benignamente accompagnata da Cosa Nostra e 'Ndrangheta fu la riunione di Lamezia Terme. Tale progetto, peraltro, proprio nei primi mesi del 1994, poco prima delle elezioni politiche che si svolsero quell'anno, venne accantonato dalle mafie, che, oramai (come evidenziato non solo da Gaspare Spatuzza ma da molti altri collaboratori quali lo stesso Tullio Cannella, Angelo Siino, Giovanni Brusca, Maurizio Avola, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Ferro) ritenevano di avere trovato altri e più solidi accordi con la nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi (che in Sicilia, per aspetti significativi, da un punto di vista organizzativo e personale aveva elementi comuni con la vecchia "Sicilia Libera"). Dunque, sotto questo aspetto, Cannella si rivelerà, non solo, fonte qualificatissima, ma, anche, depositario di specifiche informazioni dimostrative degli stretti legami che pure esistevano fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta, sul versante del comune sostegno ai medesimi soggetti politici. La strategia stragista postulava, una analisi, una convinzione da parte di chi le aveva promosse ed organizzate. Che cioè le forze politiche che governavano lo Stato non erano più affidabili. E se questa era l'analisi, meglio, il presupposto delle azioni stragiste, sempre partendo dalla ragionevole idea che chi le aveva progettate non si impegnasse, poi, su diverso fronte per raggiungere scopi opposti, deve ritenersi che, sul versante politico, gli stragisti ( o i futuri stragisti) non potessero appoggiare - facendogli conseguire una vittoria elettorale - quegli stessi politici che, in definitiva, stimavano inaffidabili, volevano mettere alle corde ed erano i destinatari ultimi del messaggio stragista. Spatuzza ed altri collaboratori di giustizia spiegheranno che, pochi mesi prima delle elezioni del 1994, i vertici di Cosa Nostra cambiarono, quasi in corsa, cavallo, abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che, in effetti, poi, avrebbe vinto le elezioni politiche) sicchè è a questo nuovo movimento, Forza Italia, che andò il loro appoggio. Ma questo dato non sposta, ma, anzi, conferma, i termini della questione che qui rileva, che cioè la strategia politico/elettorale di Cosa Nostra fu complementare e pienamente coerente a quella stragista che tendeva a mettere con le spalle al muro la vecchia classe politica. Ed è di straordinario interesse ai fini della presente indagine, rilevare che, nello stesso periodo, sul fronte calabrese e, quindi, della 'Ndrangheta (ma non solo) – rompendosi una tradizione ultra quarantennale - vennero adottate scelte politico/elettorali – a partire dall'appoggio alle leghe meridionali – in piena sintonia con quelle di Cosa Nostra e, dunque, complementari e di sostegno alla strategia stragista, che aveva la sua ragion d'essere nell'attacco alla vecchia classe politica. Insomma, se risulta dimostrato che, dopo quarant'anni di sostegno ai vecchi partiti, Cosa Nostra e 'Ndrangheta, compirono, d'improvviso, contemporaneamente ed all'unisono, non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti ma, anche, quella di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti, esclusa una involontaria e potente telepatia fra i capi dei due sodalizi, risulta evidente l'esistenza di una comune strategia di attacco e ribellione alla vecchia classe politica da parte di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, che, sul fronte più strettamente criminale, aveva come sua logica prosecuzione l'attuazione della strategia terroristica. Strategia che, in questo quadro di complessiva concertazione ed allineamento fra le due organizzazioni criminali sulla posizione da prendere nei confronti dello Stato e della vecchia classe politica, ben difficilmente, poteva essere portata avanti in assoluta solitudine da Cosa Nostra. Queste le dichiarazioni rese da Cannella il 17.10.2013: "...omissis.... ADR: circa i miei trascorsi criminali posso dire che non ho mai fatto parte come uomo d'onore di Cosa Nostra. Ero molto legato a Leoluca Bagarella sia per motivi di amicizia che per motivi di interesse nel senso che lui per me, che ero un imprenditore, era un "salvacondotto". Ho ospitato e dato appoggio a Leoluca Bagarella durante la sua latitanza durata fino al luglio del 1995. Io venni arrestato un paio di settimane dopo Bagarella. Iniziai a collaborare quasi subito, poche settimane dopo il mio arresto. La mia attività era quella di imprenditore edile e sviluppavo anche delle importanti iniziative in questo settore, fra le altre ricordo la costruzione di circa trecento villette in zona Buonfornello vicino Cefalù. Proprio nel corso di tale attività costruttiva, che ebbe inizio nel 1985, ebbi modo di entrare in contatto con Filippo, Giuseppe e Benedetto GRAVIANO, anche loro di Brancaccio come me. Avevo fino a quel momento una conoscenza superficiale dei Graviano anche se, devo dire, che furono loro a fare da tramite fra me e Leoluca Bagarella, facendomelo così conoscere nel 1993. Con riferimento alla vicenda dei villini a Cefalù, in sostanza i Graviano mi estorsero circa due miliardi e mezzo delle vecchie lire. I rapporti tra me e i Graviano potevano apparire all'esterno come di reciproca amicizia, in realtà io ero una loro vittima. A sua domanda chiarisco che sono già stato condannato per 416 bis o per concorso esterno, non ricordo, nel processo a Palermo.

ADR: con riferimento alle mie attività in ambito politico riferisco che negli anni 70 militavo nella Democrazia Cristiana ed in tale contesto ebbi a conoscere il defunto Vito Ciancimino. In seguito, tra la fine del 93 e l'inizio del 94, in ogni caso pochi mesi prima delle elezioni politiche del 94 in cui si impose Forza Italia ed anche prima delle comunali che a Palermo si tennero poco tempo prima delle Politiche di cui ho detto sopra, su richiesta di Leoluca Bagarella, fui l'organizzatore del movimento politico Sicilia Libera. Sottolineo che a Palermo fui io ad organizzare questo movimento insieme a Bagarella. Nel periodo precedente alle elezioni di cui sopra, proprio nella qualità di esponente di vertice di Sicilia Libera, partecipai alla riunione di tutte le leghe autonomistiche italiane che si tenne a Lametia Terme. Prima ancora di partecipare a tale riunione, o forse subito dopo, conobbi un esponente di rilievo della Lega Nord che era parlamentare europeo o comunque così mi fù presentato, si tratta di circostanza da verificare. Si trattava di una signora di circa 40/50 anni che conobbi in una sala di un albergo di Palermo in cui parlammo di questioni politiche e di possibili alleanze elettorali...Si dà atto che alle ore 17.15 si allontana il dr. GIANNINI.... A sua domanda preciso che questa leghista non sapeva che ero referente politico di Bagarella e di Cosa Nostra. Chi invece alla fine scoprì che io rappresentavo gli interessi di Cosa Nostra in ambito politico, fù il principe Orsini. Costui in un primo momento, fu da me avvicinato per coinvolgerlo nel nostro movimento politico. Non gli dissi nulla, naturalmente, dei miei collegamento con Cosa Nostra. Senonchè, quando si approssimarono le elezioni politiche del 94, gli proposi di candidarsi per noi nel collegio di Brancaccio-Ciaculli e zone limitrofe. A questo punto gli dovetti spiegare che lì l'elezione poteva essere assicurata con l'appoggio degli "amici" facendo chiaro riferimento Cosa Nostra. Il principe Orsini si impressionò e si fece da parte dicendomi che non era più interessato.

ADR: venendo alla riunione di Lametia Terme cui io stesso partecipai, preciso che la stessa si tenne in un luogo che adesso non ricordo esattamente, forse era una grande sala di un albergo o un centro congressi, non so essere più preciso. Alla stessa riunione parteciparono un po' tutti gli esponenti delle leghe autonomiste. Ricordo ad esempio rappresentanti di "Basilicata Libera", "Calabria Libera", della Lega Nord e di altri movimento analoghi. Della Lega Nord era presente un certo Marchioni che all'epoca si presentò come un componente della segreteria della Lega. All'esito della riunione si decise che bisognava costituire a sud una confederazione di tutte queste leghe meridionali, il cui nome non ricordo, mi si chiede se fosse "Lega Mediterranea" ed io ricordo che era proprio questo il nome. Faccio presente, anche, che a Lametia Terme erano presenti pure esponenti di "Sicilia Libera" catanesi. In particolare per Sicilia Libera catanese era presente tale dr. Platania che come ho già riferito in altri interrogatori era vicino a Cosa Nostra catanese. In particolare Leoluca Bagarella, prima della riunione di Lametia Terme, mi mise in contatto con un emissario catanese di Sicilia Libera, di cui non ricordo il nome. Costui mi disse che a Catania il punto di riferimento del movimento era certo dr. Platania, persona vicina ad un mafioso di nome Ferlito.

ADR: mi viene chiesto se a seguito di questi fatti o contestualmente agli stessi, ebbi rapporti con il defunto Vito Ciancimino. Rispondo che effettivamente ebbi ad incontrare, ma in seguito, il Ciancimino. Ciò avvenne nel corso della mia detenzione presso il carcere di Rebibbia tra luglio e Agosto del 95. Io già collaboravo con la giustizia. Ricordo che un giorno, quando le porte di legno delle celle erano aperte, rimanendo chiuse quelle di ferro, nella cella proprio di fronte alla mia vidi Vito Ciancimino. Ricordo che esclamai:" zu Vito!". Lui mi pregò di non chiamarlo così dicendomi di chiamarlo sig. Ciancimino. Mi chiedete se, come risulta da miei pregressi interrogatori ho parlato della questione delle leghe meridionali con il Ciancimino e vi dico che adesso lo ricordo. Confermo che Ciancimino allorquando io gli parlai di Sicilia Libera si mostrò al corrente di questo progetto politico. Il Ciancimino mi disse che questa Sicilia Libera gli appariva una cosa di poco conto, mentre il progetto autonomista più serio era quello ispirato da Bernardo Provenzano, quello della Lega Meridionale nella quale dovevano partecipare tutti i "nostri amici" meridionali tra cui gli amici della 'ndrangheta calabrese che erano molto influenti. Mi si rappresenta che in precedenti interrogatori ho specificato cha a detta di Ciancimino la 'ndrangheta calabrese era forte anche in virtù dei suoi rapporti con la massoneria ed i servizi segreti ed io confermo pienamente questa circostanza che ora ricordo e che all'epoca riferii immediatamente alla AG procedente avendo la memoria più fresca. Devo precisare, peraltro, che il fatto che pure dietro Sicilia Libera e comunque dietro questi progetti autonomisti ci fosse Bernardo Provenzano, io già lo avevo intuito quando con Bagarella parlavamo di organizzare sul territorio, a Palermo, Sicilia Libera. Bagarella, infatti, capitava che mi dicesse, quando sorgeva un problema relativo alla organizzazione del movimento, che doveva, prima, "parlare con un amico" e poi poteva decidere. Presumo che questo amico dovesse essere proprio Provenzano anche perché all'epoca già era stato arrestato Totò Riina e l'unico elemento di Cosa Nostra che potesse dare consigli o disposizioni a Bagarella era Provenzano.

ADR: circa i rappresentanti della "Lega Calabrese", ora mi viene in mente un nome: Di Donno o qualcosa del genere. Mi chiedete se potrebbe essere tale DONNICI e io rispondo che potrebbe essere questo il nome. Anzi penso proprio di si, mi ricordo che assai probabilmente questo DI DONNO o meglio DONNICI, aveva una carica all'interno della Regione. Non sono in grado di dire, però, se questo soggetto avesse contatti con la criminalità organizzata calabrese, certo io non mi sono presentato a lui come referente di Cosa Nostra.

DOMANDA: lei ha conosciuto il dr. Gioacchino PENNINO?

RISPOSTA: lo conoscevo fin da quando ero ragazzo. Era persona legata a Cosa Nostra ed alla massoneria come lui stesso mi disse. Era storicamente della famiglia di Brancaccio fin dai tempi di Giuseppe DI MAGGIO. In seguito naturalmente passò con i GRAVIANO. A sua domanda le dico che conoscevo anche Sebastiano LOMBARDO detto "Iano", legato ai Graviano e persona che si muoveva a suo tempo in ambienti politici democristiani quando la DC.......... Si dà atto che arriva una telefonata e si sospende il verbale alle ore 17.50....... Si riprende alle ore 17.55........ "governava" a Palermo. .......

ADR: il progetto di Sicilia Libera, che era un pò la continuazione dei precedenti progetti autonomisti delle leghe meridionali, era coltivato da Cosa Nostra e voluto da Leoluca BAGARELLA poiché già da tempo mi diceva che non si fidava più dei vecchi politici, diceva che non li controllavamo più, per cui dovevamo avere dei nostri uomini che si candidavano direttamente alle diverse cariche rappresentative fossero esse in comuni, in regioni o nel parlamento nazionale. Mi chiedete se fra questa strategia politica autonomistica, se non addirittura separatista (perché era questo il punto di arrivo, se le cose fossero andate bene) e quella delle stragi del 92-93 vi fosse un collegamento. Mi si rappresenta che in pregressi interrogatori ho riferito di tale collegamento e che in particolare la costituzione dei movimenti leghisti al sud era legata anche alla strategia stragista nel senso che entrambe servivano a creare le condizioni politiche per mettere in ginocchio lo stato unitario ed arrivare in tempi rapidi ad una sostanziale autonomia del sud rispetto al nord e che l'inaffidabilità dei politici dell'epoca era anche testimoniata dal fatto che Martelli, una volta vicino a Cosa Nostra, era diventato politico nelle mani di Giovanni Falcone. Dichiaro in proposito che non sono in grado di precisare le esatte fonti da cui poteva dedursi questo progetto complessivo, probabilmente, ho messo insieme una serie di indicazioni che adesso, essendo passati venti anni, non sono in grado di ricordare. Certamente confermo di averle riferite, ma adesso non ricordo bene. Con riferimento, quindi, a queste vicende relative alle stragi, a FALCONE e a MARTELLI, preciso che si trattava di informazioni che ho riferito all'AG di Palermo sulla base di ciò che ascoltavo in ambienti mafiosi senza che ne possa in alcun modo confermare la veridicità, in particolare il riferimento a Martelli che feci a quel tempo derivava da semplici sentito dire. Dunque si tratta di fatti tutti da verificare Tutte le altre circostanze di cui ho detto sopra, che mi hanno riferito Bagarella o Ciancimino, o che ho vissuto personalmente le confermo e posso attestarne la verità con serenità.

ADR: agli inizi del 1994, o alla fine del 93, ricordo che era il periodo durante il quale stavo organizzando Sicilia Libera anche in vista della raccolta delle firme ( mi sembra per le elezioni comunali) per presentare le liste (non ricordo esattamente quando iniziai tale raccolta), Leoluca BAGARELLA mi disse che seppure dovevo continuare in questa attività politica ed organizzativa, tuttavia, nell'immediato, Cosa Nostra riteneva fosse cosa più proficua appoggiare, alle elezioni politiche, un nuovo partito che sarebbe nato a livello nazionale, più esattamente mi disse che in questo nuovo partito sarebbero stati candidati degli "amici" (ovvio che si riferisse ad amici di lui stesso e di Cosa Nostra) che l'organizzazione avrebbe appoggiato al momento delle elezioni. Mi sembra, che, in quel momento, non mi disse il nome di questa nuova formazione politica, più probabilmente, in seguito, mi disse che si trattava di Forza Italia. Mi spiegò che il progetto di Sicilia Libera doveva considerarsi un progetto a lunga scadenza e che l'importante era aver costituito il partito e presentarlo alle elezioni. In effetti diceva che poteva sempre tornare utile avere un movimento politico su cui contare al cento per cento per evitare di trovarsi un domani con politici inaffidabili come era successo in quel periodo.

ADR: prendo atto che nel corso di pregresso verbale ho riferito di un incontro avvenuto con Filippo Graviano nel corso del quale mi fece capire, rivolgendosi a me come organizzatore di Sicilia Libera, che potevo lasciar perdere perchè c'era lui che ci pensava ad avere rapporti ad alto livello con i politici e che, grazie a tali rapporti si sarebbe risolto il problema dei pentiti. Confermo le precedenti dichiarazioni rese quando avevo la memoria più fresca. Preciso che effettivamente incontravo Filippo Graviano, anche se in quel periodo era latitante, perché i Graviano continuavano a chiedermi i soldi. Ora che ricordo bene, però, mi sono venute in mente le circostanze di cui sopra in cui Graviano mi riferì dei suoi rapporti politici e dell'inutilità dei miei sforzi organizzativi per Sicilia Libera. L'incontro non avvenne perché dovevo dargli dei soldi, ma perchè Bagarella mi disse che per il tramite di Graviano potevo ottenere uno sconto all' hotel San Paolo Palace di via Messina Marina di Palermo dove avevo svolto un convegno di Sicilia Libera. Incontrai il Graviano a Palermo, non ricordo esattamente dove, per chiedergli questo intervento ed avere, così, lo sconto e lui con tono di consiglio mi disse. "ma chi te lo fa fare......" e via di seguito, facendo poi il discorso relativo ai suoi rapporti politici ad alto livello.

Si dà atto che viene mostrato sul pc, per consentirne una migliore visione, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: non riconosco alcuna delle persone effigiate. L'album viene allegato al presente verbale.

ADR: oltre a quanto mi riferì Ciancimino in modo piuttosto generico, null'altro posso precisare sui rapporti tra 'ndrangheta e massoneria.

ADR: nulla so dirle su eventuali rapporti tra tali movimenti autonomisti e leghisti meridionali e Stefano DELLE CHIAIE, anzi, non ho mai sentito parlare di Stefano DELLE CHIAIE...omissis".

Significativa, conferma alle propalazioni del Cannella - conferma che, fra l'altro, aveva, anch'essa il pregio di evidenziare, in modo convergente, le sinergie e la comunione d'interessi che, all'epoca, anche sul piano politico, erano riscontrabili fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta – proveniva dal collaboratore di Giustizia Gioacchino Pennino, alto borghese palermitano, medico, che era stato, ad un tempo, legato alla massoneria e uomo d'onore della famiglia di Brancaccio. Famiglia, di cui, come noto, erano capi indiscussi Filippo e Giuseppe Graviano. Pennino iniziava a collaborare con la Giustizia in data 20.8.1994 Ritenuto pienamente attendibile e rilevante, specie nel descrivere i rapporti fra Cosa Nostra e i poteri esterni che alla stessa si collegavano, veniva sottoposto a programma di protezione in data 19.10.1994. Viene ascoltato dalla Dda di Reggio Calabria il 25.2.2014:

"...ADR: Ho personalmente conosciuto Rocco e Domenico "Mimmo" Musolino. Si tratta di una conoscenza che è maturata nel corso degli anni 80'. Devo rappresentare che sia io che mio fratello buonanima Aldo – deceduto pochi giorni or sono – eravamo appassionati di tiro al volo. Per tale ragione frequentavamo, fra gli altri, anche lo "stand" di Gambarie, frazione di S.Stefano d'Aspromonte. Questo stand – cioè il campo di tiro – era gestito da Mimmo Musolino, fratello più giovane di Rocco. Tramite Mimmo conoscemmo Rocco. Rocco Musolino era persona che era circondata da una vera e propria venerazione, un rispetto enorme, non solo da parte del fratello e dei familiari (era sicuramente persona che ricopriva il ruolo di vero e proprio capofamiglia) ma anche da parte di tutti coloro che frequentavano Gambarie. Da questi comportamenti capivo, comprendevo, che Rocco Musolino era un uomo d'onore della 'ndrangheta calabrese. Ho poi avuto modo di frequentare Rocco Musolino in quanto, ad esempio, insieme al predetto, al fratello, al mio amico defunto Antonino Schifaudo, ex funzionario regionale a Palermo nonché massone, a mio fratello ed altri facemmo anche, sul finire degli anni 80' un viaggio negli Usa, andando a NY e Las Vegas. Si trattava di un viaggio di piacere.

ADR: Non sono a conoscenza - anche se non posso escluderlo - del fatto che il Musolino Rocco sia massone. Ritengo che sia possibile che certo Pizza, che mi sembra che in qualche modo collaborò con la AG, essendo originario di S.Stefano d'Aspromonete possa riferire tali particolari sul Musolino Rocco. Tuttavia, come ebbi già a riferire a suo tempo, mi risulta, per averlo appreso da tale Martorano (si tratta di un imprenditore calabrese), che il Musolino Rocco unitamente all'On Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, faceva parte di un comitato d'affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva, come mi pare volesse fare intendere il Martorano, 'ndrangheta, massoneria e politica.

ADR: Martorano o Marturano lo conobbi in quanto frequentatore del tiro al volo di Gambarie. In effetti il Martorano intendeva chiedermi una raccomandazione presso un mio conoscente, tale Alfredo Li Vecchi, professore universitario di estrazione DC. Costui era componente del CdA delle Ferrovie dello Stato. In pratica Martorano voleva ottenere degli appalti dalle FFSS. Io per la verità non me ne interessai in quanto sapevo che il Li Vecchi era uomo molto serio ed incorruttibile.

ADR: Posso dire che il rispetto di cui godeva Rocco Musolino era, per le modalità con cui si manifestava, in tutto simile a quello di cui godeva mio zio Gioacchino Pennino, uomo d'onore della famiglia di Brancaccio.

ADR: Confermo che mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60', ospite dei Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una "cosa sola". Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d'affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare "quel progetto di tuo zio" (il comitato d'affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l'invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo.

ADR: Giuseppe Di Maggio era il rappresentante della famiglia di Brancaccio fra i 70' e gli 80'. Dopo la morte di Bontate venne destituito da tale ruolo e in seguito ucciso. Egli sicuramente conosceva bene il Provenzano e per questo, così come dissi a suo tempo nel corso di un precedente interrogatorio, fu in grado di farmi delle confidenze sulla vicinanza del Provenzano alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla 'ndrangheta calabrese. Devo dirvi, tuttavia che era voce diffusa il fatto che il Provenzano giocasse su più tavoli, non solo quello di Cosa Nostra. In ogni caso in proposito non posso che confermare quanto disse il Di Maggio e null'altro posso aggiungere.

ADR: Conoscevo bene Tullio Cannella. Era, in origine, un democristiano come me. Se non sbaglio era consigliere circoscrizionale a Brancaccio. Unitamente ai Graviano ospitò presso un villaggio turistico nei pressi di Cefalù alcuni esponenti della 'ndrangheta. Questo a dimostrazione del rapporto molto stretto fra le due organizzazioni. Tullio Cannella era animatore del progetto politico, voluto da Leoluca Bagarella, di tipo separatista. In particolare era dirigente a Palermo di "Sicilia Libera". Cannella manteneva anche la latitanza di Bagarella. La circostanza che dietro a Bagarella, in questo progetto politico, vi fosse Provenzano era una mia mera supposizione che, verosimilmente, peraltro, alla luce, dei fatti non mi sembra neppure esatta. Confermo, invece, che proprio Vito Ciancimino inizialmente sostenne il progetto separatista/autonomista. Ciò mi venne confidato da Giuseppe Lisotta, parente di Vito Ciancimino, oltre che mio collega, con il quale ero in buoni rapporti. All'epoca se non sbaglio si faceva riferimento alla Lega Meridionale.

ADR: Sebastiano Lombardo, detto Iano, era uomo d'onore della famiglia di Brancaccio che effettivamente mi propose di andare a Lametia Terme a questo incontro fra leghe autonomiste. Egli in tale occasione si fece latore di una richiesta dei Graviano che volevano coinvolgermi evidentemente in questo progetto. Ovvio che la stessa circostanza che sia stato proprio Iano Lombardo a parlarmi di questo incontro di Lametia Terme mi fece comprendere che si trattava di una iniziativa a cui era fortemente interessata la criminalità organizzata non solo siciliana. Confermo che anche il già indicato Donnici doveva partecipare a tale incontro di Lametia Terme così come riferitomi dal Lombardo. A vostra domanda vi dico che questo Donnici non l'ho mai conosciuto.

ADR: In effetti il De Bernardo, che era stato al vertice del Grande Oriente d'Italia, a seguito delle sue dimissioni – cui seguì la creazione della Grande Loggia Regolare d'Italia – come appresi da Lisotta, Giuseppe Ciaccio (uomo d'onore e massone) e Schifaudo, disse che non poteva capeggiare una organizzazione al cui interno vi erano soggetti che organizzavano - con le organizzazioni criminali - attentati contro lo Stato. Cosa che aveva compreso svolgendo il suo ruolo. Ciò avvenne nel 1993. Sempre i predetti e forse anche altri, mi dissero che il De Bernardo disse tali circostanze anche al vertice della Grande Loggia d'Inghilterra a cui era affiliato il Grande Oriente d'Italia. All'epoca era il Duca di Kent il vertice inglese della Grande Loggia d'Inghilterra. Proprio per questo la Grande Loggia d'Inghilterra non riconobbe più il Grande Oriente d'Italia...omissis".

Vicende politiche, che si legano in maniera oscura con il mondo della massoneria. E così tanto Pennino quanto Cannella, riferivano dell'incontro strategico di Lamezia Terme, non a caso, svoltosi, per l'appunto, proprio in Calabria che, già all'epoca, era una sorta di laboratorio politico/criminal/massonico. Convergenze nelle affermazioni dei collaboratori di giustizia, ma ance in quanto racconta, il 6 marzo 2014, l'ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Giuliano Di Bernardo:

"......ADR: Entrato in massoneria nel 1961, nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal GOI (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d'Italia nel 2002 in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d'Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il GOI disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, persona che per me era il più alto rappresentante del GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d'Italia ( una sorta di CdA del GOI in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro del GOI ) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l'inizio dell'indagine del dott. Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetto situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avute dall'Ambasciatore in Italia e dai servizi di sicurezza inglese. Io feci espresso riferimento alla commistione fra criminalità organizzate e GOI. Faccio presente che in precedenza, intorno al 1990, poco dopo la mia nomina, nel corso di una mia visita in Sicilia seppi da Massimo Maggiore, palermitano presidente del più alto organo della Giustizia massonica (la Corte Centrale) che il più alto esponente della circoscrizione del GOI di Mazara del Vallo era mafioso, nonché, numerosissimi esponenti del GOI siciliani, e specie nel trapanese, erano mafiosi. Dunque, capii che davvero, come diceva Cordova, il GOI era una "palude". Fu il duca di Kent che mi suggerì di uscire dal GOI e creare un nuovo Ordine. Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana.

ADR: Con riguardo al periodo 1990/93, non ho elementi diretti per collegare attacco allo stato (e quindi stagione stragista) criminalità organizzata, separatismo, massoneria. Però era un collegamento che in via deduttiva facevo (e che continuo a fare). Ciò rappresentavo anche all'esterno, con le dovute cautele naturalmente, come mia argomentazione. Sicuramente al Duca di Kent feci questi ragionamenti.

ADR: Seppi dai miei referenti calabresi e non solo, di cui non ricordo i nomi, ma che potrei riconoscere, che all'interno del GOI all'inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l'origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del GOI. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del GOI era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei. Si dà atto che il Di Bernardo riferisce di due specifici episodi in materia, direttamente da lui constatati.

ADR: Alla riunione nella quale venne riferito della presenza della 'ndrangheta nelle logge calabresi erano presenti oltre ai soggetti sopra indicati Eraldo Ghinoi, ligure e il Gran Segretario, di origine abruzzese, di cui non ricordo il nome.

ADR: Non conosco quali massoni, tali, Lisotta, Giuseppe Ciaccio e Schifaudo. Non escludo che fossero massoni ma non li ricordo questi nomi. Sapevo che il noto Gioacchino Pennino era massone. Mi dicevano, non ricordo chi me lo disse, che era persona pericolosa in quanto legato alla criminalità organizzata. In seguito seppi che collaborò con la giustizia. Mandalari me lo volevano presentare ma io non volli conoscerlo...omissis".

Di Bernardo conferma quindi l'esistenza di intrecci criminalità organizzata e Massoneria, ma, con specifico riguardo alla criminalità calabrese, rappresentava una situazione di quegli anni che sarebbe più esatto definire come di vera e propria colonizzazione della Massoneria da parte della 'Ndrangheta, colonizzazione, evidentemente, funzionale ad interessi, affari e progetti che non potevano essere sviluppati, con le sue forze, dal solo mondo criminale (che, altrimenti, avrebbe evitato di perdere tempo ed energie nei rituali massonici) ma che, invece, necessitavano di più ampie sinergie. E certamente, fra questi progetti, per così dire, di più ampio respiro, che necessitavano di una più vasta alleanza fra diverse forze che intendevano capovolgere l'attuale ordinamento costituzionale, vi era quello separatista/autonomista, sul quale convergevano gli interessi non solo di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, ma anche di soggetti legati alla Massoneria del GOI. Le dichiarazioni del Di Bernardo, del Cannella e del Pennino, laddove evidenziavano a cavallo fra 1990 ed il 1993, sinergie 'Ndrangheta-Cosa Nostra-Massoneria-Destra eversiva, sul fronte separatista si saldano perfettamente con le propalazioni rese, in epoca non sospetta e partendo da punti di osservazione del tutto disomogenei, da due affidabili collaboratori di Giustizia calabresi, Filippo Barreca e Cosimo Virgiglio.

Partiamo da Filippo Barreca. Si tratta di uno dei principali collaboratori di Giustizia reggini degli anni 90', le cui dichiarazioni sono state utilizzate in numerosi, "storici", procedimenti contro la 'ndrangheta, fra questi il noto procedimento Olimpia. Egli era stato, per anni, il capo della locale di 'ndrangheta di Pellaro, santista e massone. Si tratta, dunque, di un soggetto perfettamente inserito in quel crocevia fra 'ndrangheta, servizi deviati, e massoneria e, come vedremo, destra eversiva, nel quale la vicenda relativa al sostegno fornito dalla 'ndrangheta per garantire la latitanza di Franco Freda era assolutamente emblematica. Voluta dalla destra eversiva e gestita dalla 'ndrangheta e mediata dai esponenti delle istituzioni deviate, la vicenda Freda è fra quelle che più di altre consentono di comprendere la peculiarità del retroterra criminale calabrese e la sua particolare e specifica attitudine ad avere interlocuzione con ambienti politici ed istituzionali. Ecco, le dichiarazioni del Barreca rese alla DDA di Reggio Calabria, utili a comprendere i rapporti fra Cosa Nostra Siciliana e 'Ndrangheta, fra entità criminali e politiche ed il cd "progetto separatista". Il 3.2.1993: "...Quando, nei verbali precedenti, ho parlato di collegamenti di alcune famiglie della 'ndrangheta reggina con Cosa Nostra siciliana, non ho inteso fare riferimento ad un rapporto di vera e propria affiliazione. In realtà io intendevo concettualizzare che le famiglie della 'ndrangheta da me indicate erano i referenti di Cosa Nostra siciliana in un rapporto di reciprocità. Chiarisco meglio il mio pensiero. Cosa Nostra siciliana è (N.d.PM: più esattamente sarebbe da dire: ha) una sorta di vertice, o Cupola, che aggrega le famiglie mafiose più prestigiose e rappresentative; pertanto, non ogni mafioso o famiglia mafiosa siciliana appartiene a Cosa Nostra bensì quel vertice che è esponenziale delle famiglie più potenti e prestigiose. Nella provincia reggina, ove opera la 'ndrangheta, fino ad alcuni anni orsono non si era riprodotta una situazione analoga, dal momento che le singole cosche operavano in proprio e, pur mantenendo fra loro collegamenti ed alleanze, non presentavano una struttura di tipo piramidale al cui vertice esistesse una cupola. Tale situazione si è ribaltata a decorrere dall'inizio del '91, come ho illustrato nei precedenti verbali, e cioè da quando, anche per dirimere la guerra di mafia in corso tra le cosche reggine, si è costituita in tutta la provincia una vera e propria cupola di modello analogo a Cosa Nostra siciliana. Tale cupola esercita poteri di intervento su tutte le organizzazioni della 'ndrangheta; controlla tutte le attività illecite ed, in generale, interferisce con l'autorevolezza di un vero e proprio potere gerarchico sopra ordinato. La costituzione, anche presso la 'ndrangheta calabrese, di una struttura di tipo piramidale modellata su quella siciliana, ha reso certamente più agevole e più pericoloso il rapporto fra le due organizzazioni, dal momento che adesso Cosa Nostra siciliana ha un solo interlocutore, di ampiezza provinciale, cui rivolgersi, laddove in passato il rapporto intercorreva invece soltanto con talune delle famiglie della 'ndrangheta che avevano assunto la qualità di interlocutori privilegiati. Il riferimento, da me fatto poc'anzi, ad una maggiore pericolosità che scaturisce dalla coesistenza di due strutture ampie, articolate e similari fra loro, deriva anche dalla circostanza che l'anello di congiunzione fra le due strutture è rappresentato (quanto meno lo è stato) da un personaggio politico che ha fatto parte della struttura Gladio e che è stato eletto nell'ultima legislatura al Parlamento con l'appoggio anche delle cosche mafiose del reggino; personaggio che ha peraltro acquisito indubbi meriti, agli occhi delle organizzazioni 'ndranghetiste e mafiose, per la sua attività di mediazione finalizzata a risolvere lo stato di belligeranza fra le cosche reggine. .......... "

Il 5 maggio 1993: "...Confermo quanto dichiarato nel verbale del 03.02. u.s. di cui mi viene data lettura. E' vero che ho parlato di un personaggio che fa od ha fatto da collegamento tra Cosa Nostra siciliana e la 'ndrangheta reggina. Sono ora disposto a fare il nome di questa persona e posso dire che si tratta dell'avv. ROMEO Paolo. A mio avviso costui rappresenta l'anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica. Volendo fare un paragone potrei dire che è il "LIMA" reggino. Il suo ruolo è sicuramente superiore a quello dell'avv. DE STEFANO Giorgio ed è stato determinante nelle trattative per il raggiungimento della pace. Non so dire con chi l'avv. ROMEO tenga i collegamenti in Sicilia ma credo che si tratti di personaggi politici che alloro volta sono collegati con Cosa Nostra. Sapevo da varie fonti che l'avv. ROMEO è massone ed apparteneva alla struttura GLADIO. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i servizi. So anche che era interessato ad un progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del paese ma anche su questo non so fornire ulteriori particolari. Tale progetto era già di mia conoscenza e mi fu confermato da ROSMINI Diego in carcere nel periodo in cui eravamo insieme nel carcere di Palmi. Anche ROSMINI riferiva di tale progetto all'avv. ROMEO...omissis...Tornando all'avv. ROMEO Paolo il suo rapporto con i DE STEFANO è molto remoto e risale alla rivolta di Reggio. Probabilmente nasce dal fatto che ROMEO e DE STEFANO (intendo dire Paolo e l'avv. Giorgio) erano collegati con i servizi segreti ...... Mi risulta inoltre che l'avv. ROMEO fosse legato ai LATELLA di Ravagnese in favore dei quali spese il suo interessamento in occasione dei processi in cui erano imputati. I LATELLA in cambio favorirono elettoralmente l'avv. ROMEO procurandogli un gran numero di voti nella loro zona così come fecero i DE STEFANO-TEGANO ad Archi. Ciò spiega anche i risultati elettorali conseguiti dal ROMEO anche nella Piana di Gioia Tauro. Mi riservo di fornire ulteriori indicazioni su tutti gli argomenti sinora trattati in un prossimo interrogatorio.

A.D.R.: Mi risulta che a Reggio Calabria esiste più di una loggia massonica coperta di cui fanno parte professionisti reggini a tutti i livelli e di cui mi riservo di fare i nomi di persone che ne potrebbero fare parte. Ne potrebbero far parte anche rappresentanti di alto livello delle istituzioni e della politica...omissis Posso anche affermare con certezza, anche questa assoluta, che i sequestri di persona avevano una componente "eversiva e politica". Essi infatti erano finalizzati da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica da altre vicende criminali più importanti e dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia di questo disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi calabresi (PAPALIA) ed i gruppi siciliani...omissis...

A.D.R.: Quando mi riferisco ai PAPALIA intendo dire dei tre fratelli Domenico, Rocco, Antonio; e dico proprio Domenico quello condannato all'ergastolo per omicidio il quale pure ha sempre partecipato in una posizione di supremazia ai traffici della sua famiglia, anche quando si trovava in semi-liberta', come so benissimo...omissis....

Importante era la posizione dei PAPALIA che provvedevano a convogliare i soldi provento dei sequestri di persona per utilizzarli per gli acquisti delle sostanze stupefacenti. E' appena il caso di ricordare come la esecuzione dei sequestri di persona rispondesse ad una unica centrale, come per altri già affermato......"

Il 18.5.1993: "...Tornando alla vicenda di FREDA ed, in particolare, alla sua fuga da Catanzaro, voglio precisare che per accompagnare FREDA a Reggio Calabria furono il Dr. ZAMBONI di Modena, medico a Roma ed un Generale, direttore dell'Artiglieria del Museo di Gerusalemme in Roma. Questo generale era parente dei fratelli Dante ed Eugenio SACCA'. Non so' presso chi venne portato FREDA inizialmente. So soltanto che venne accompagnato a casa mia da MARTINO Paolo, dall'avv. ROMEO Paolo e dall'avv. DE STEFANO Giorgio. Mentre era a casa mia scrisse una lettera indirizzata a DE STEFANO Paolo, che all'epoca si trovava in carcere a Reggio Calabria. Io avrei dovuto consegnare la lettera a MARTINO Paolo perchè la facesse recapitare a DE STEFANO Paolo ma io non lo feci. Nella lettera FREDA ringraziava DE STEFANO Paolo per il trattamento ricevuto a Reggio Calabria. La lettera è stata allegata agli atti relativi all'arresto di ROMEO Paolo. Sono stato io stesso a consegnare la lettera al dr. CANALE della Questura di Reggio Calabria e servì per la comparizione della calligrafia di FREDA. FREDA rimase a casa mia per circa 4 mesi ed io protestavo perchè ero sorvegliato speciale e non volevo correre rischi, fu così che venne trasferito in una casa di VADALA' Carmelo di San Lorenzo; la casa in questione si trovava a Reggio, vicino alla caserma dell'ex 208. Dopo poco tempo FREDA venne accompagnato dallo stesso VADALA' a Ventimiglia, presso altri calabresi che avrebbero dovuto farlo espatriare in Francia. Fu lo stesso FREDA a dirmi che era stato accompagnato a Reggio dal generale e dal Dr. ZAMBONI, credo che il suo primo rifugio a Reggio fu la casa di VERNARECI Pippo, amico di ROMEO Paolo, e DE STEFANO Giorgio e MARTINO Paolo. Fu io stesso a ricevere da FREDA Franco, che a sua volta li aveva ricevuti da ROMEO Paolo e MARTINO Paolo, marchi tedeschi per un valore di circa 40.000.000 di lire italiane; io cambiai i marchi attraverso il direttore della Banca di Credito e Sovvenzioni di Pellaro, Dr. AMODEO Paolo. So' che AMODEO per ragioni tecniche cambiò i marchi a Reggio presso la Direzione dell'Istituto. Più volte FREDA mi disse che se non fosse riuscito ad uscire dal processo di Piazza Fontana avrebbe fatto saltare l'Italia intendo dire che avrebbe fatto rivelazioni sconvolgenti sul ruolo di apparati dello Stato che non so meglio specificare. Nessun alto venne a trovare FREDA in quel periodo, ma so' che era in contatto telefonico con un avvocato di Modena o di Bologna di cui non ricordo il nome...omissis...DE STEFANO Paolo era anche legato a CONCUTELLI e a quanto io ho saputo fu' lo stesso DE STEFANO a fare da delatore per il suo arresto. Ricordo adesso un altro episodio molto significativo. Nel '74 mi trovavo a Crotone insieme a DE STEFANO Giovanni che dopo poco tempo sarebbe stato ucciso al Roof Garden. In quella città' Giovanni mi presentò alcuni esponenti della massoneria tra cui un commerciante di pneumatici di cui non ricordo il nome; si trattava di persone e che mostravano di conoscere bene DE STEFANO Giovanni e probabilmente era massone anche lui. Durante quel viaggio DE STEFANO Giovanni mi disse che da lì a qualche giorno sarebbe dovuta scoppiare una bomba alla Standa o all'Upim di Reggio Calabria, cosa che avvenne veramente. La bomba doveva servire a creare una situazione di terrore, Giovanni mi disse che la bomba sarebbe stata collocata da loro su incarico di personaggi di primissimo piano...Tornando al discorso della massoneria di cui ho parlato nei precedenti interrogatori posso dire che tradizionalmente ci sono stati ottimi rapporti tra 'ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà. Sulla Jonica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don STILO e NIRTA Antonio, sulla tirrenica da BELLOCCO Giuseppe, mentre a Reggio tali rapporti erano tenuti dall'avv. DE STEFANO Giorgio e dell'avv. ROMEO. Tutte le persone da me indicate appartengono contemporaneamente sia alla 'ndrangheta anche alla massoneria. Sono sicuro che esistono logge coperte alle quali aderiscono questi personaggi..."

Ecco le dichiarazioni rese da Barreca ai magistrati di Palermo in data 12.9.1996:"...omissis...

P.M.S.: Senta signor Barreca il problema è farle alcune domande in relazione a precisazioni ed approfondimento di alcune dichiarazioni da lei già rese in data 5 Maggio 1993 alla Procura di Reggio Calabria, in particolare modo volevamo chiederle una...notizie più precise circa questo avvocato Paolo Romeo che lei in quel verbale indica come anello di congiunzione tra struttura mafiosa e politica, e la politica e inoltre come soggetto legato all'omicidio e a personaggi collegati con "Cosa Nostra". Cos'ha da riferire di preciso?

B: Dunque, dell'avvocato Paolo Romeo ho parlato ampiamente in dei verbali, svariate volte, alla procura Distrettuale di Reggio Calabria, in particolare, come ebbi già a dire, è un personaggio che io definirei il Lima reggino, il Lima reggino lo definisco perchè è il personaggio chiave della struttura della 'ndrangheta....omissis... è un uomo che passò dal mondo MSI alla Social Democrazia e prima di questo proprio per un intoppo che è avvenuto dietro una mia..., dietro la cattura di Franco Freda, la cattura di Franco Freda avviene, mi pare, se non ricordo male, nel maggio, giugno 1979, lui portò Franco Freda, lui portò a casa mia Franco Freda, che lo tenni circa...

P.M.S: Chi?

B: Paolo Romeo, l'avvocato Paolo Romeo, mi portò assieme al gruppo De Stefaniano, quindi per conto di Paolo De Stefano e di Paolo Martino, mi portarono a casa mia il famoso Franco Freda che nel maggio del 79 è stato catturato in Costa Rica. E questo tipo di... diciamo per la cattura di Freda venne incriminato il Romeo che subito dopo...

P.M.S: Per favoreggiamento...omissis...

P.M.S: Si. Senta, lei sempre in questo interrogatorio del 5 maggio, ha detto in particolare di sapere, di avere saputo da Araniti che l'avvocato Romeo è massone ed è appartenente alla struttura di Gladio, nonchè collegato con i Servizi Segreti, da chi è che ha appreso queste notizie?

B: Guardi io avevo un buon rapporto con Araniti Santo che tra l'altro è stato quello che mi... infatti c'è uno dei miei figli, Vincenzo, che eravamo imputati nello stesso procedimento, in quel famoso processo "Droga 2", dopo di che, lui essendo a casa mia... di cui... con le forze di polizia, siccome io avevo un nascondiglio, in buona sostanza, salvai l'Araniti e mi feci arrestare io...omissis.., quindi questa riconoscenza ha, come dire, permesso all'Araniti di avere una più ampia fiducia nei mei confronti, perchè in buona sostanza, avrei potuto tranquillamente rischiare anch'io e mettermi nello stesso nascondiglio, ma una volta che le forze di polizia avevano arrestato me, il problema in casa mia si era risolto....omissis...

B: Di conseguenza questo episodio, quando poi nel 1986 io sono uscito dalla...diciamo, uscito da questo processo, la Cassazione mi ha scarcerato per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, abbiamo intrapreso nuovamente i rapporti con l'Araniti anche se lui era, diciamo, da tanto tempo latitante, dall'83. Nel 1988/87/88 e per questo errore mi mandò a chiamare perchè voleva, ha voluto, che gli dessi una mano per l'uccisione dell'Onorevole Ligato....omissis... a un certo punto mi ha, diciamo il discorso scaturì da quello che era l'andamento della situazione reggina, cioè sia reggina che nazionale, in particolare lo sunto l'abbiamo preso nel momento in cui si parlò di quello che poteva essere e che era lo scalpore che aveva suscitato l'uccisione dell'Onorevole Ligato e in particolare lì, nella zona locale della..., ma dove io ero uno dei personaggi, sicuramente, più importanti o il personaggio più importante, a un certo punto dice... dice; "La guerra, in questo frangente l'hanno persa" dice "anche perchè ora non so come si mette paolo Romeo. Il discorso scaturì su Paolo Romeo perchè secondo quello che mi dice Araniti, il Romeo era il personaggio che assieme a Ligato e assieme agli altri era il più vicino al gruppo dei Rosmini. Parlammo di un progetto che loro avevano, cioè il cugino di Araniti, Arnone Pietro, onorevole della... del partito Repubblicano passò, doveva passare, con la uccisione doveva passare alla, al mondo della Democrazia Cristiana, cioè doveva essere, una volta ucciso Ligato, il personaggio più rappresentativo dell'intera provincia di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il progetto di separatismo che io ho parlato dei miei...

P.M.S: In quello stesso verbale lei ha fatto riferimento ad un interessamento dell'avvocato Romeo per questo...

B: Ad un interessamento di questo, l'avvocato Romeo, io so che nell'ultimo periodo, da quello che mi diceva sempre Reni, aveva preso contatti con personaggi del mondo politico, certamente io non so chi sono i personaggi.

P.M.S: Chi aveva preso contatto?

B: Il Romeo.

P.M.S: Il Romeo.

B: Il Romeo aveva preso contatti per formare delle Leghe ecc..

P.M.S: Che anno siamo più o meno?

B: ma, guardi, già nel 1990/91, questi sono i periodi, questo è il periodo.

P.M.S.: ... sempre da Araniti giusto?

B: Quindi il progetto, in poche parole, consisteva nel fatto di fare la separazione dell'Italia in tre regioni, quella del Nord, quella del Sud, e quella del Centro, questo era in sintesi...

P.M.S: E rispetto a questo progetto, cioè era un'iniziativa dell'avvocato Romeo a titolo individuale o c'erano interessi della ‘ndrangheta o di altri...?

B: Certamente, certamente l'interessamento era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento a più alto, a più ampio, diciamo, spazio. Perchè dico questo? Perchè successivamente a questi fatti anche in carcere, io siccome poi fui arrestato nel ... il 4 di gennaio del 1991, anche in carcere con il gruppo dei Rosmini, non avevamo le idee chiare sulla... su questo tipo di progetto, però il ...il più grande me ne parlò.

P.M.S: Che si chiama come?

B: Si chiama, uno dei più grandi, il più grande dei Rosmini mi pare, ora in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Va be, va bene.

B: Com'è che si chiama, comunque mi pare, bè non....

P.M.S: Va bè, non ha importanza.

B: Non me lo ricordo, in questo momento non me lo ricordo.

P.M.S: Il più grande cosa le disse?

B. Parlava di un discorso dell'avvocato Romeo, della potenza che poteva avere per far tacere, dice: "Non vi preoccupate che qui l'avvocato Romeo ci mette in condizioni a tutti di potere uscire, quindi di potere essere nelle condizioni che i processi si debbono aggiustare, quindi..."

P.M.S: Ma questo in relazione alle iniziative dell'avvocato Romeo? o in relazione al progetto, cioè ci entrava o non...?

B: No, assolutamente, questo era un discorso che era la potenza dell'avvocato Romeo.

P.M.S: Ho capito.

B: Certamente su un progetto separatista, io non è che so di più, so che c'era questo interessamento da parte dell'avvocato Romeo a, diciamo, a separare l'Italia, so che l'interessamento c'era, che c'era interessata anche la massoneria su questo progetto, ma di più...

P.M.S: Che c'era interessata anche la massoneria da chi l'ha appreso?

B: Ma, sempre da Araniti, cioè parlavamo, cioè nel momento in cui abbiamo parlato, dice: "...qui c'è un discorso molto importante, cioè c'è un discorso che sono interessate alte personalità e c'è un discorso che c'è la massoneria dietro questo..." Anche per rafforzare ancora di più questo progetto c'era la massoneria.

P.M.S: E' Araniti che è un esponente di spicco della 'ndrangheta.

B: E' uno dei personaggi credo, più importanti all'interno anche della politica, perchè il cugino, non va dimenticato, che era Onorevole e Consigliere Regionale, svariate volte.

P.M.S: Dico, era Araniti, era lui personalmente interessato, quindi la 'ndrangheta era personalmente interessata a questo progetto separatista tramite l'avvocato...

B: Che era anche, era, era naturalmente, l'avvocato com'era rappresentava la ‘ndrangheta, voglio dire, voglio dire che questo l'avvocato Romeo era un personaggio che veniva portato dalla ‘ndrangheta, non è che era un personaggio che veniva così, quindi il progetto che riguardava l'avvocato Romeo, riguardava anche la 'ndrangheta.

P.M.S: Benissimo. Senta lei poi successivamente, quando poi è stato arrestato, ha saputo più nulla di questo progetto separatista, se è andato avanti, non è andato avanti, se venne abbandonato?

B: Io per quello che so, era un progetto che non poteva fermarsi, ma che doveva necessariamente andare avanti. Cioè ci furono le aspettative.

P.M.S: Perchè, ci furono momenti di contrasto all'interno della 'ndrangheta'.

B: Certo. Poi c'è stato un momento in cui si composero questi contrasti interni alla ‘ndrangheta, grazie anche all'interessamento dei Siciliani, debbo dire, perchè....

P.M.S: Questo avvenne mentre lei è detenuto?

B: Questo mentre io sono detenuto sì. Dico…

P.M.S: Quindi questo, questo favorì rapporti più stretti tra la 'ndrangheta e i Siciliani e "Cosa Nostra", lei sa se in qualche modo si è riflettuto su…sul progetto separatista? Dico... se ha avuto notizie lo accenni.

B: Io...? Notizie per quello che abbiamo parlato ripeto con il....

P.M.S:" Ma so che aveva dei rapporti anche con il mondo politico, anche Siciliano il...l'avvocato Romeo. "Con chi in particolare del mondo Siciliano?

B: All'interno so della Democrazia Cristiana era il...diciamo il rapporto che aveva era con il mondo della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Siciliana?

B: Siciliana.

P.M.S: Lei sa con chi in particolare?

B: In particolare non lo so. Comunque della Democrazia Cristiana.

P.M.S: Sa se c'erano alcune zone in particolare della Sicilia, nella quale, nelle quali, l'avvocato Romeo, aveva rapporti più stretti? Alcune provincie, alcune zone, zona di Catania, zona di Palermo, zona di Messina.

B: Guardi sicuramente Catania come, che io ebbi a dichiarare anche nei verbali, se lei può vedere parlare proprio di un... di una loggia che è stata istituita nel momento in cui c'era il gruppo, nel momento in cui c'era diciamo il gruppo a cui faceva parte sia l'avvocato Romeo, sia altri personaggi, una loggia che veniva istituita, è stata istituita a Catania una loggia, una loggia super segreta a Catania. Questo già nel 1979…omissis...

P.M.S: senta in questo stesso verbale lei fà riferimento per quanto riguarda...le avevo fatto precedente la domanda della appartenenza alla struttura Gladio dell'avvocato Romeo, questo lo ha appreso sempre da Araniti?

B: Ma guardi, questo è uno dei fattori più diciamo, ne parlai a Vario titolo con svariati personaggi, tra questi anche Araniti. Poi io so che, anche, con altri parlammo, che in questo momento io non ricordo, anche con altri personaggi abbiamo parlato proprio in riferimento all'avvocato Romeo, in particolare proprio con uno dei miei cugini, mi parlò di un discorso di appartenenza della... diciamo che aveva nelle mani i Servizi di Sicurezza, cioè aveva rapporti di grande intimità con i Servizi e poteva manovrare come voleva all'interno, anche del... condizionale.

P.M.S: con chi in particolare, le venne detto?

B: ma guardi, in particolare non mi venne detto chi, ma so che errano interessati sia i due Servizi, che... sia il SISMI che il SISDE.

P.M.S: Il nome di Gladio glielo fece espressamente?

B: Si, il nome di Gladio si, espressamente sì.

P.M.S: E lei capì che cosa era la nostra... ma lei lo sapeva già...

B: No, era una struttura che serviva anche per...

P.M.S: Questa era una sua considerazione, o l'appresa pure da...

B: No, no era per tenere a bada nel caso in cui ci fosse un, una entrata al Governo di Comunisti, questo quello che…

P.M.S: Questo glielo disse Venuta?

B: Si.

P.M.S: E lei non lo sapeva per i fatti suoi prima.

B: Ma, nel mondo politico non è che mi interessava tanto, ma comunque ecco.

P.M.S: Senta comunque qualche accenno leggendo appunto il verbale del 5 maggio 93, lei dichiarò qualche cenno Rosmini glielo fece del progetto separatista, cioè questo progetto...

B: Con Rosmini abbiamo anche parlato del progetto separatista proprio per quel discorso che io avevo fatto precedentemente con Araniti, cioè che io innescai il discorso e lo stesso Rosmini mi disse: "Compare c'è un progetto separatista che deve essere necessariamente portato avanti, per fare in modo che dobbiamo avere più comando, più per essere qui da noi insomma ecco". Avere più controllo come si suol dire per avere più…le cose più da vicino, cioè....

P.M.S: insomma è chiaro.

B: Ma questo era il senso della...cioè che avevo il controllo della... dell'intera provincia e il controllo soprattutto del mondo politico.

P.M.S: E le spiegarono com'è che questo progetto separatista, doveva arrivare a questo obiettivo così ambizioso? Attraverso quale itinerario, perchè non è che sia facile mettere su un soggetto politico, arrivare a conquistare posizioni di potere. Quale doveva essere l'itinerario, se lei lo sa, se non lo sa, non lo sa?

B: Non lo so.

P.M.S: Non lo sa, va bene. Senta lei in questo stesso verbale ha fatto riferimento alla...rileggiamo: "Io posso affermare che... persone comprendono... eversiva e politica". Sempre nel verbale del 5 maggio 93, disse: "Finalizzato da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle altre vicende criminali più importanti, dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia del disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi Calabresi... e i gruppi Siciliani. Mi rendo perfettamente conto che un disegno di questo genere non può essere esclusivamente mafioso, non so dare indicazioni sulla matrice politica": Ora la domanda è se questa considerazione, cioè, anzi queste due considerazioni, primo la componente eversiva-politica di queste persone e secondo che fosse in qualche modo anch'essa in relazione al progetto separatista, è una notizia che lei ha appreso da qualcuno o...

B: E' una ...sono delle notizie che io attraverso un mio bagaglio di conoscenze feci, io personalmente.

P.M.I: Cioè, proviamo a spiegarlo, cioè come arriva, cioè è una conclusione sua?

B: E' una conclusione che non ha assolutamente, voglio dire, è una delle mie conclusioni.

P.M.S: Che arrivano sulla base di quali dati?

B: Sulla base dei dati che... all'interno, diciamo...

P.M.S: Interrompiamo un attimo alle ore 17:19 per sostituire il nastro. Alle ore 17:27 si riprende la registrazione. Quindi la domanda che le avevo rivolto, signor Barreca, era di precisare, sulla base di quali elementi, di quali dati, cioè di conoscenze svariate, di fatto lei perveniva, lei poi è venuto alla conclusione che vi fossero... dei sequestri di persona dell'organizzazione "'ndrangheta", definita "'ndrangheta", che aveva una componente eversiva e politica in qualche modo, che sia rafforzare il progetto separatista di cui diceva prima.

B: Cioè questa è stata una mia deduzione, sulla base di quelle che erano le mie conoscenze, e le mie conoscenze anche in un mondo dei sequestri di persona che ho dedotto che potevano essere ricollegati a quel progetto, ma è solo una mia, ripeto, esclusiva deduzione, che non altro.

P.M.S: ma dico, all'interno della 'ndrangheta che vi fosse, a parte il collegamento del progetto separatista, una componente, diciamo, eversiva nei sequestri di persona. Va...

B: Veda, io su questo, va, l'ho appreso all'interno della 'ndrangheta, questo sì, ora non so con chi ne abbiamo parlato, ma....

P.M.S: Sequestri di dodici persone, commessi in quale periodo?

B: ma, nei periodi 198... dall'85 in poi... sequestro Casella, ha avuto uno dei periodi più culminanti del.... perchè? Perchè per quello che io ebbi già a dichiarare nel... nei svariati verbali il sequestro Casella è stato fatto dai... dal gruppo che facevano capo ai Papalia, ai Sergi, e poi concluso in Calabria con la mediazione dell'avvocato Romeo, omonimo dell'avvocato Paolo Romeo, e nella ... Servizi di Sicurezza.

P.M.I: E da chi' Se lei ne è a conoscenza.

B: Ma guardi, personalmente da quello che mi è stato riferito, si interessò il SISMI alla liberazione della... del ragazzo di Papalia, di quel ragazzo che, ha liberato poi, successivamente per l'avvocato Rotolo che era stato preso dai Sergi...

P.M.I: Ma lei sa in virtù di quali rapporti?

B: Ma, io so che avevano dei buoni rapporti, istauratisi prima con il…diciamo con la... con il vecchio Nirta, inteso vecchio non di età, chiamato "Due nasi", il quale era in buoni rapporti con... da quello che si diceva in carcere, che poi è stato, diciamo, riconosciuto come uno dei delatori del Generale Delfino e quindi diciamo è stato messo da parte ed è stato pure esautorato, veniva chiamato Dottore Nirta "Due nasi". E a un certo punto questo "due nasi" è stato messo da parte anche in carcere nonostante fosse il personaggio, diciamo, che era, nonostante fosse il nipote, diciamo, del vecchio Dottor Nirta, personaggio di spicco, importante nel mondo della 'ndrangheta, e perchè secondo quello che mi diceva Giovanni Vottari nel carcere di Messina, il "Due nasi" era in contato con un Generale dei carabinieri, il Generale Delfino. il quale, diciamo, faceva la doppia situazione, da una parte chiudeva gli occhi nei suoi confronti, dall'altra gli dava una mano, al "Due nasi" all'intimidazioni dei sequestrati, per quello che io so il discorso poi è ricaduto con il gruppo dei Papalia che era molto, poi da quello che si sa, era ...azienda per le...

P.M.I: Senta, lei in questo verbale ha parlato di incontri che avvenivano a Milano fra i gruppi calabresi, il gruppo Papalia e i gruppi Siciliani, ma chi si riferisce come gruppi Siciliani che si incontravano e avevano contatti a Milano con i Papalia? Cioè lo sa innanzitutto?

B: Si, da quello che mi diceva Peppe Zacco, e per quello che erano naturalmente le mie conoscenze, Peppe Zacco, che ci incontrammo nel carcere di Pisa nel 93, 92 scusi.

P.M.I: Che è originario, di dov'è?

B: Che è originario di Palermo, di, di è stato, era il compare di Paolo De Stefano, era personaggio che è stato imputato nel famoso processo "Pizza connection", con molto... che era molto vicino al mondo imprenditoriale Milanese, più precisamente al gruppo dei Socialisti, da quello che lui diceva, e che tutti gli appalti che venivamo effettuati nella zona di Milano venivano controllati da "Cosa Nostra" e dalla "'ndrangheta".

P.M.I: E quindi lei stava dicendo, Peppe Zacco fece riferimento a contatti con i Calabresi, "Cosa Nostra", ma come punti di riferimento Siciliano a Milano, che avevano questi contatti, questi rapporti intensi con i calabresi, le fece riferimenti specifici a parte, cosa le disse?

B: Io per quello che parlammo con Peppe Zacco, io mi trovavo pure nel carcere di Messina, sempre di conoscere un personaggio con cui ebbi anche un rapporto che poi l'ho già dichiarato in altri, nei precedenti verbali, con il... con il... con uno dei personaggi Siciliani vicino al... molto vicino a "Cosa Nostra" ed era... in questo momento non mi viene il nome comunque...

P.M.I: Va bè, se non le viene il nome, poi se lo ricorda me lo dirà.

B: Si in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, in questo momento non...

P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?

B: Si, so che fossero, che erano interessati anche il gruppo dei Papalia a questo progetto...omissis"

Il Barreca, infine, escusso dalla Dda di Reggio Calabria, in data 20.2.2014, riferiva: "...omissis....

ADR: i rapporti fra i De Stefano e Concutelli, di cui ho riferito nei verbali resi a suo tempo, si originano dai rapporti strettissimi fra i De Stefano e i servizi segreti che, non a caso avevano originato anche i rapporti fra Freda e De Stefano – Romeo. Io Concutelli non l'ho mai conosciuto ma dei rapporti fra quest'ultimo e i De Stefano e della loro genesi ho saputo direttamente da Paolo De Stefano...omissis....

ADR: Era Paolo Romeo il deputato (eletto con i nostri voti, gladiatore e che rappresentava l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta) di cui riferisco nel verbale del 3.2.1993 alla DDA di Reggio Calabria.

ADR: Confermo che a Milano – grazie ai Papalia, mi riferisco a Rocco e Domenico che ho personalmente conosciuto – si rinsaldarono i rapporti fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Ciò avvenne sulla base di comuni interessi nel settore del traffico di sostanze stupefacenti. Su questa base di rapporti oramai saldi e pienamente operativi si innestò il cd progetto "separatista" voluto e sponsorizzato da Cosa Nostra e dalla 'Ndrangheta. I collegamenti fra cosa nostra e 'ndrangheta si intrecciavano in modo coordinato a Milano grazie ai Papalia e a Reggio Calabria grazie a Paolo Romeo. Insomma Paolo Romeo e i Papalia agivano, in questo ambito, come un'unica persona, in esecuzione di un unico disegno. Tutte queste sono circostanze che appresi dai De Stefano. Al momento non ricordo da chi di loro esattamente...omissis

ADR: Fu Freda che per primo mi parlò della Massoneria mi diede anche copia dei rituali di affiliazione passaggio di grado. Esibisco tali rituali. L'Ufficio da atto che vengono esibite della pagine su cui sono riportate le "Istruzioni per il grado di Maestro" con varie formule rituali...omissis"

Dichiarazioni, rese nell'arco di un ventennio, che mostrano ancora una volta la joint venture tra 'ndrangheta e Cosa Nostra, ma anche i collegamenti istituzionali e paraistituzionali, soprattutto con il mondo della massoneria e dei servizi segreti. E, ancora, la piena adesione della 'ndrangheta al progetto separatista dell'inizio anni 90', che sappiamo, condivideva, con Cosa Nostra siciliana e, in particolare, con i Graviano direttamente incaricati di tirare le fila di tali movimenti in ambito palermitano; la finalità ultima del progetto leghista che consisteva nel creare delle macro-regioni, dove, in quella meridionale, le organizzazioni di tipo mafioso potevano meglio controllare il quadro politico di governo e godere, quindi, di una sorta di immunità e salvacondotto permanenti. Il quadro dei rapporti fra 'Ndrangheta e massoneria, veniva, infine, da ultimo compiutamente descritto dal collaboratore di Giustizia Cosimo Virgiglio. uomo di fiducia dei Molè per conto dei quali movimentava imponenti capitali che venivano investiti nel settore della contraffazione e delle importazioni tramite il Porto di Gioia Tauro, professionista colto, già massone di provata fede ( appartenente alla Loggia "Garibaldini d'Italia") ecco un estratto delle sue dichiarazioni: Virgiglio Cosimo 24.3.2015 ".....omissis...Si dà atto che a questo punto il Virgiglio riferisce dei rapporti fra la Loggia Garibaldini d'Italia, la loggia coperta di Ugolini Giacomo Maria denominata Grande Oriente di San Marino e i Molè/Piromalli. Riferisce del ruolo avuto da lui stesso e dal Cedro Carmelo ed i suoi fratelli. Riferisce che lui è uscito da tale contesto quando si stava concretizzando l'alleanza fra Garibaldini/Molè e Grande Oriente di San Marino...omissis....Riferisce del progetto di pilotare la scarcerazione di Mommo Molè per motivi di salute attraverso Cesare Previti ed il dott. Ceraudo/Ceravolo medico del Dap, Boccardelli segretario di Ugolini condannato per 416 bis c.p. in Appello nell'operazione Maestro e Balestrieri ex piduista presidente del Rotary di New York uomo di punta della loggia di Ugolini...(N.d PM: Giorgio Hugo Balestrieri, già Ufficiale della Marina Militare, già iscritto alla Loggia Propaganda 2, come risulta dagli atti della Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta dall'On.le Tina Anselmi, è attualmente imputato innanzi al Tribunale di Palmi, per rispondere del delitto di concorso esterno nella cosca Molè, reato per il quale è stato raggiunto da misura cautelare, confermata in sede di gravame. Non rileva, ovviamente in questa sede l'esito del procedimento. Ciò che qui conta è l'esistenza di rapporti documentati fra il piduista e la 'ndrangheta, al di là del fatto che questi rapporti possano, o meno, essere inquadrati nella fattispecie contestata di concorso esterno). Riferisce del ruolo di grande influenza in Calabria, in quanto legatissimo a Licio Gelli, di tale ...omissis...di Cosenza, persona inserita nel contesto della loggia di Ugolini che può a sua volta considerarsi una sorta di continuazione della loggia Propaganda 2 in quanto connotata dai medesimi obiettivi di potere e soprattutto dalla struttura "coperta" e "segreta", senza contare i legami personali fra Licio Gelli, Ugolini e Balestrieri ed i medesimi legami che la loggia di Ugolini aveva, al pari della P2, con gli ambienti e la finanza vaticana ( non a caso Ugolini era ambasciatore di S. Marino presso il Vaticano, anzi decano degli ambasciatori di tutto il mondo presso il Vaticano). La 'ndrangheta utilizzava tale struttura per ripulire il denaro garantendo in cambio la gestione a favore di tale struttura segreta dei flussi elettorali a favore dei soggetti politici".

Ancora Virgiglio il 29.4.2015. "...ADR: Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni 80'. Io frequentavo l'università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nei GOI. Il tempio di Messina che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questo ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 92/93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di una indagine sulla massoneria. In quello stesso periodo Aguglia mi fece entrare nell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, che è un sodalizio organico al Vaticano. A capo di tale Ordine vi era Mons. Montezemolo. Zio di secondo grado del più noto Luca Cordero. La cerimonia di iniziazione si celebra in chiesa. All'interno dell'Ordine vi era Matacena Elio.

Virgiglio riferisce ancora che la struttura massonica calabrese era molto ampia ed era composta da una parte visibile ed una invisibile; che nel 2004/05 Franco Labate, medico di Reggio Calabria, si era rivolto a Peppe Piromalli di creare un punto di contatto con Licio Gelli. Dalle dichiarazioni del Virgiglio, che, come si è visto, oltre ad avere un comprovato rapporto organico con la cosca Molè-Piromalli, era documentatamente, un massone di lungo corso (produceva anche la sua lettera di dimissioni dalla Loggia Garibaldini d'Italia del 2006 ) dunque, oltre ad essere lui stesso la prova vivente della commistione fra le due militanze, quella massonica e quella mafiosa, era la persona che più di qualsiasi altra, era in grado di riferire dei rapporti fra le due entità, oltre confermare (sul solco di Di Bernardo, Lauro, Barreca ed altri ancora) la commistione fra le due entità, specificava come Gelli ed i suoi uomini avessero un ruolo attivo non solo nei contesti massonici che operavano in Calabria, ma anche nei rapporti con le cosche e in particolare quelle tirreniche dei Molè/Piromalli, di cui l'indagato Filippone sarebbe l'elemento di collegamento.

Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio. La “massoneria mafiosa di Stato” nelle parole dei pentiti, scrive il 27 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi. Anche quella odierna (così come quella di ieri e quella di domani) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo,altri…». Quel riferimento alla massoneria non era casuale e ieri abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta. E vediamo, a questo punto che cosa dichiarò alla Commissione Parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992 il pentito di San Cataldo (Caltanissetta, una provincia culla delle più raffinate strategie massonico deviate) Leonardo Messina. Il pentito parlava della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo. «Molti degli uomini d’onore – dirà testualmente Messina – cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di vecchie lire), fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.

Non so se è sufficientemente chiaro: delle Istituzioni e tra queste, ovviamente anche la magistratura. O si deve pensare che la magistratura (la quota marcia, ovviamente) fosse o sia ancora oggi immune? Messina va avanti come un treno e allo stesso Scarpinato, il 3 giugno 1996, dirà ancora: «Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata». E questo lo dice nel ’96 e non si riferisce certo solo al passato. Vogliamo andare avanti con altre sponde che portano sempre alla stessa direzione? Bene (si fa per dire). Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa una specifica conferma delle dichiarazioni dell’altro pentito calabrese Filippo Barreca, ma anche di alcuni altri collaboratori di giustizia palermitani (in particolare Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei “servizi deviati”. Una commistione, che – sempre secondo le dichiarazioni di Nucera – sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa”, ovvero la struttura di vertice dell’organizzazione criminale, venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata. Ma vorrei chiudere la puntata odierna con un finale che racchiude il senso di quanto al momento scritto e anticipa quanto scriverò domani: sapete Messina quando e con chi fece cenno, per la prima volta, della riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo? Risposta: il 30 giugno 1992 al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Poteva quel sistema massonico deviato – infiltrato ovunque, a partire dalle Istituzioni statali, magistratura, uffici giudiziari e investigativi inclusi – lasciare in vita Paolo Borsellino? La risposta la conoscete, come la conosce purtroppo Fiammetta e tutta la famiglia Borsellino. E la risposta sta tutta nella “massoneria mafiosa di Stato” – come potremmo definirla a posteriori – che all’epoca imperversava e continuò a farlo anche negli anni successivi. Ma non crediate che le cose, oggi, siano migliorate.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive Paolo Pollichieni il 09 gennaio 2016 su ilVelino/AGV NEWS. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale.  Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma, ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

Strage via D’Amelio, Rita Borsellino: “25 anni di giustizia negata”, scrive Sky tg24 il 19 luglio 2017. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla ai microfoni di Sky TG24 durante la cerimonia di commemorazione a Palermo: “In tanti sanno la verità. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”. Il fratello Salvatore: “Vogliamo sapere dov’è l’agenda di Paolo". “Parliamo di giustizia che non c’è, di 25 anni di giustizia negata”. Rita Borsellino, sorella di Paolo, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione per i 25 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui il magistrato perse la vita insieme a 5 agenti della sua scorta. Ai microfoni di Sky TG24 dice: “Vorremmo sapere perché è negata questa giustizia? Chi non vuole che questa verità venga fuori? La verità c’è e la sanno in tanti”. Rita Borsellino ha citato Fiammetta, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, che dopo anni di silenzio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato di “25 anni di schifezze e menzogne”. In una recente commemorazione, ricorda Rita Borsellino, “Fiammetta, alla battuta di Grasso che disse "ci dobbiamo aspettare un altro pentito" commentò "un pentito lo vogliamo nelle istituzioni" e aveva ragione. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”.

Alla cerimonia era presente anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “C’era qualcuno in questa via che aspettava l’esplosione. Qualcuno si è avvicinato alla macchina di Paolo, ha preso la borsa e si è allontanato. Non sappiamo a chi l’abbia portata. Quando quella borsa è stata rimessa nel sedile posteriore dell’auto, l’agenda non c’era più. Forse speravano che la macchina prendesse fuoco e si perdesse anche il ricordo di questa agenda. Ma non si è perso”. Salvatore Borsellino ha aggiunto a Sky TG24: “Ci sono foto che mostrano un capitano dei carabinieri che si allontana con la borsa. È stato assolto ma vogliamo sapere a chi ha portato quella borsa, chi ha preso l’agenda e dove si trova oggi. Sui contenuti dell’agenda penso si reggano i ricatti incrociati che legano il sistema di potere della seconda Repubblica, che ha le fondamenta intrise di sangue”.

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio. 

Un anticipazione dei verbali di Paolo Borsellino al Csm: “Stanno smantellando il pool antimafia”, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. L’audizione desecretata per la prima volta dal Consiglio Superiore della magistratura a 25 anni dalle stragi. Sono parole pesanti quelle che Paolo Borsellino pronunciò il 31 luglio del 1988 davanti al Comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura per spiegare alcune sue dichiarazioni, che aveva rilasciate precedentemente in un evento pubblico e due interviste. “Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Il giudice Borsellino come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia, così definiva il pool antimafia di Palermo, di cui aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala: “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia“. Ecco un’anticipazione degli atti: Borsellino accese i riflettori sul fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. Al termine dell’audizione durata 4 ore Paolo Borsellino disse che all’interno dell’Ufficio Istruzione “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”. L’audizione di Borsellino dinnanzi al CSM avvenne qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore a Palermo, che venne preferito a Giovanni Falcone, prendendo di fatto il posto e ruolo che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. Ed aggiunse: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più“.

Borsellino, lo sfogo della figlia: i suoi colleghi non ci frequentano. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».

Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?

«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.

Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?

«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».

Sottovalutazione generale?

«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».

Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.

«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».

Che cosa rimprovera?

«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».

E poi?

«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».

Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?

«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».

Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?

«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».

Compresi i magistrati?

«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».

Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.

«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto». Di Felice Cavallaro Fonte Corriere della Sera Palermo, 19 luglio 2017

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.

«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.

Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.

Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.

SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia...perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".

LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone -  che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa -  sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".

SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.

LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce -  aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto -  ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.

CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo...fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.

IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".

LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa -  volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.

I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io “ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?”. Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".

IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.

Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.

Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.

La scorta?

Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».

Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?

Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.

Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.

Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.

Graviano intercettato: adesso Firenze e Caltanissetta valutano se riaprire le indagini su Berlusconi per le stragi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sugli eccidi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia. I pm della procura di Palermo, infatti, gli hanno girato le intercettazioni del boss di Brancaccio in carcere. Cinquemila pagine di registrazioni in cui il padrino - secondo gli investigatori - assegna all'ex premier il ruolo di ispiratore delle bombe del primi anni '90: accusa per la quale è già stato indagato e archiviato, scrive Giuseppe Pipitone il 9 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso bisognerà vedere se la procura di Firenze o quella di Caltanissetta decideranno di riaprire le indagini su Silvio Berlusconi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sulle stragi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia.

Alfa e Beta, Autore 1 e Autore 2 – Attraverso la coordinazione della Dna, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno girato ai pm fiorentini e nisseni le intercettazioni dei colloqui tenuti in carcere dal boss Giuseppe Graviano, iscritto nel registro degli indagati per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato nel fascicolo stralcio dell’inchiesta sulla Trattativa. Più di cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017 in cui il mafioso di Brancaccio si confida con il camorrista Umberto Adinolfi. Quindici mesi in cui i due malavitosi parlano di tutto, dal calcio alla politica, ma è quando Graviano apre bocca che gli investigatori della Dia sottolineano in grassetto i brogliacci riepilogativi. Sì, perché il boss condannato per le stragi del 1992 e 1993 tira in ballo spesso proprio il nome di Berlusconi. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri vennero iscritti nel registro degli indagati della procura nissena – indicati come Alfa e Beta – per concorso nella strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta.

La cortesia con urgenza – Sulla base delle intercettazioni di Graviano, dunque, i pm toscani e siciliani dovranno valutare se chiedere al gip di riaprire o meno le indagini su Berlusconi. Secondo gli investigatori palermitani nelle intercettazioni in carcere il boss di Brancaccio assegna all’ex premier il ruolo di ispiratore delle stragi del 1992 e 1993. Gli investigatori hanno puntato gli occhi soprattutto su una frase pronunciata dal mafioso in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, dice Graviano il 10 aprile del 2016. Poi aggiunge: “Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Un linguaggio che gli inquirenti interpretano come un’allusione alle stragi del 1992, in particolare a quella di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Una ricostruzione avanzata più volte in tutti questi anni ma mai dimostrata, come testimoniano le archiviazioni di Firenze e Caltanissetta, ma anche la sentenza Dell’Utri che assolve definitivamente l’inventore di Forza Italia per i fatti successivi proprio all’anno zero della Repubblica: il 1992. Eppure è proprio dal marzo del 1992, poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, che Dell’Utri incarica il politologo Ezio Cartotto: dovrà cominciare a studiare l’operazione Botticelli, dalla quale sarebbe poi nata Forza Italia. Il 21 maggio 1992, invece, Paolo Borsellino rilascia la famosa intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi, quella in cui parla per la prima volta di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio del 1992 ecco il botto di via d’Amelio: a schiacciare il telecomando che fece esplodere la Fiat 126 ci sarebbe stato – secondo il pentito Gaspare Spatuzza – proprio Giuseppe Graviano. È questa la “cortesia” di cui parla il capomafia di Brancaccio? E quale sarebbe stata l’urgenza? Forse le indagini di Borsellino su Mangano?

“Non volevano più le stragi” – O forse Graviano parla di altro? “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice in un altro passaggio delle intercettazioni il boss. Ma se non erano stragi di mafia, di chi erano allora quelle bombe che vedono la piovra colpire per la prima volta fuori dalla Sicilia? Riferendosi all’epoca successiva, cioè al 1994, Graviano racconta al suo codetenuto: “Dovevamo accordare, alla fine c’erano tanti punti da risolvere invece si proseguì con questo. E intanto poi: è successo quello che è successo. Non volevano più le stragi allora io ho imboccato un altro “. Un altro chi? E chi sono quelli che non volevano più le stragi? Un passaggio che per gli inquirenti è da ricollegare ad un’altra conversazione: quando il 22 gennaio del 2016 Graviano si vanta con Adinolfi. “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto”, dice portando la mano sinistra sulla pancia e indicando se stesso. E in effetti Graviano viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.

Il colpetto e lo stadio Olimpico – È per questo motivo che gli investigatori collegano queste conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”.  A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.

“Si preoccupava: se questo parla a me mi arrestano subito” – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utrinegli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Su Dell’Utri, Graviano ricorda soprattutto un episodio recente. “Noi – racconta al compagno d’ora d’aria – eravamo a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009.  Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolge sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. Come dire: l’ex premier può stare tranquillo perché Giuseppe Graviano non è tipo da pentirsi.

“Ho messo mia moglie incinta al 41 bis” – Ovviamente c’è da capire se il boss di Brancaccio sapesse o meno di essere intercettato: se abbia cioè utilizzato le cimici della Dia a suo piacimento per inquinare le indagini.  Per i pm della procura di Palermo non è così ed il motivo è da ricercare in un particolare abbastanza angosciante: passeggiando con Adinolfi, infatti, Graviano torna più volte sull’argomento della sua paternità. Ufficialmente nel 1996 Giuseppe Graviano e il fratello Filippo – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. È in quel modo misterioso che le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro.

“Nascosta tra la biancheria” – Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano: secondo le confidenze fatte dal boss al suo compagno d’ora d’aria, sarebbe riuscito a mettere incinta la moglie all’interno del carcere. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nel penitenziario per giacere col marito. La stessa cosa sarebbe riuscita anche al fratello di Filippo. “Dormivamo nella cella assieme”, dice Graviano. “Mio figlio è nato nel ’97 – racconta – ed io nel ’96 ero in mano loro. Ti debbo fare una confidenza: prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…poi ad un certo punto … lei venne nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”.

Ragionamenti genuini – I pm della procura di Palermo hanno scoperto che effettivamente per un periodo del 1996 i due fratelli Graviano furono detenuti nello stesso carcere, l’Ucciardone di Palermo. Il 28 marzo del 2017, quando vanno a interrogare Graviano gli contestano quindi anche quelle parole sulla paternità. Il boss non ha risposto alle domande dei pm e il giorno dopo l’interrogatorio torna a passeggiare con Adinolfi. Una volta nel cortile gli racconta che gli investigatori li intercettano da 15 mesi.  “È sempre un fastidio – dice Adinolfi – ma noi non lo sapevamo, Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto”. Poi a favore di cimice Graviano torna a parlare delle sua paternità, spiega al codetenuto che i pm “gli hanno contestato anche il fatto del figlio”. Quindi rilancia la storia delle provette e dice: “Capirono male”.

Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.

Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?

«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».

Uomo d'onore di che famiglia?

«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?

«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».

Quando ha visto per la prima volta Mangano?

«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».

Per interrogarlo?

«Sì, per interrogarlo».

E dopo è stato arrestato?

«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?

«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».

Quando, in che epoca?

«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».

Ma lui viveva già a Milano?

«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

E si sa cosa faceva a Milano?

«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?

«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero... ».

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?

«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...

«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».

Mangano conosceva Bontade?

«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.

«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?

«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?

«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?

«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra"[non c'entra, ndr]”).

«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?

«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».

A Palermo?

«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».

Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].

«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».

I fratelli?

«Sì».

Quelli della Publitalia, insomma?

«Sì».

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?

«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».

Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?

«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».

In un albergo. Dove?

«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».

Ah, oltretutto.

«Sì».

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?

«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Sono di Palermo tutti e due...

«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].

«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?

«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].

«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.

«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?

«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?

«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».

Concernenti cosa?

«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?

«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?

«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?

«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...

«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.

E questa inchiesto quando finirà?

«Entro ottobre di quest'anno...».

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?

«Certamente ...».

Perché  servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...

«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.

Paolo Borsellino, i segreti dell’intervista su Berlusconi e gli interessi di Canal Plus. Parla l’autore: “È la mia maledizione”. Parla Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 intervistò il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. E racconta i retroscena su quel colloquio in cui si parla per la prima volta delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri. "Come nacque quell'intervista? Canal Plus era interessato ai rapporti tra il padrone della Fininvest e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq ed era entrato in concorrenza con loro. Perché non venne pubblicata? Dopo l'omicidio non vollero sentirne più parlare", scrive Giuseppe Pipitone il 19 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente conosciuto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto noto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece fino a oggi era meno conosciuto – se non totalmente ignoto – è il prequel di quell’intervista: come nasce, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione”.

Calvi, perché quel film è la sua maledizione?

«Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia».

Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?

«Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare».

Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?

«Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano».

E perché si rivolge a Borsellino?

«Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose».

A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.

««E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte».

Perché non si fece intervistare in procura?

«Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video».

La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.

«Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Ma non si sapeva niente di indagini aperte a Palermo. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso».

Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994. 

«Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc».

Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?

«Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai».

Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri? Ha avuto questa sensazione?

«Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto».

Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.

«Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino».

Come nasce?

«Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus».

Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi l’inchiesta o l’avete proposta voi?

«No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare».

Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello, però, era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?

«Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più».

Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?

«Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva».

Ha mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?

«Cioè per l’intervista?»

Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.

«Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa».

Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino. 

«L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale»».

In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?

«Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso».

Cosa c’entra Spatuzza con Berlusconi. Il mafioso che ha rivelato l'organizzazione della strage di via D'Amelio ha raccontato anche un pezzo della lunga storia di accuse sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". In un interrogatorio con i magistrati del 16 giugno 2009, Gaspare Spatuzza descrisse quello che a oggi è uno degli episodi più concreti della lunga storia di rapporti reali, raccontati e presunti di Silvio Berlusconi con la mafia: stando al racconto di Spatuzza, un mafioso che si era da un anno dichiarato “collaboratore di giustizia” dopo undici anni in carcere, il suo boss Giuseppe Graviano gli diede un appuntamento all’inizio di gennaio del ’94 al bar Doney di via Veneto a Roma, alla vigilia dell’attentato poi fallito allo stadio Olimpico di Roma (e anche dell’arresto dello stesso Graviano a Milano). Questo è il racconto di Spatuzza, ripetuto in successivi processi. Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella (…) Poi aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra (…) Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene (…) Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. Quando a Spatuzza fu contestato a processo di avere aggiunto questo racconto alle sue altre confessioni e testimonianze solo un anno dopo la formalizzazione del suo “pentimento” – la legge gli toglierebbe quindi ogni validità, perché per evitare mercanteggiamenti impone che un collaboratore dica le cose che ha da dire entro sei mesi – la sua spiegazione fu che si era allora appena insediato il quarto governo Berlusconi e questo lo aveva preoccupato sull’ottenimento del regime di protezione richiesto dal suo status di “collaboratore”, e che si era deciso a parlare di Berlusconi solo una volta ottenutolo, mesi più tardi. Le indagini sui rapporti con la mafia di Silvio Berlusconi hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante e definitivo è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro. Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione: In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. (…) In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Il tema dell' “estorsione” praticata dalla mafia nei confronti di Berlusconi è molto delicato e controverso. È quello che permette che non ci siano state fino a oggi condanne nei confronti di Berlusconi per i suoi rapporti con la mafia, malgrado la sentenza su Dell’Utri e le molte accuse che questo rapporto sia stato spesso di collaborazione complice. La storia più nota e rilevante in questo senso è quella del rapporto con Vittorio Mangano, il mafioso che in virtù dell’accordo citato sopra prese residenza nella villa di Arcore di Berlusconi negli anni Settanta (come “stalliere” dei cavalli secondo Berlusconi) e costruì con Berlusconi e Dell’Utri un rapporto molto intenso e continuato (che poi si interruppe e ha come episodio più famoso la strana telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri dopo un attentato di cui lo credono responsabile).

Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie – mai dimostrate, mai giunte a condanne, sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia – sono state fino a oggi: che Berlusconi abbia – nell’ambito degli accordi di cui sopra – usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; che abbia usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; e che abbia avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri). È realisticamente a quest’ultima ipotesi (“abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare”, dicono) che lavorano Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – a capo della Direzione Nazionale Antimafia – quando nel 1998 interrogano in carcere Gaspare Spatuzza e gli chiedono di un soggiorno dei Graviano in Sardegna, di una vacanza “in una barca con belle donne e la personalità”, se l’attentato contro Maurizio Costanzo avesse a che fare con Fininvest, se a Milano fosse stato ospitato da “uno che era al maneggio dei cavalli”, se “la discesa in campo di nuove forze politiche” fosse stata considerata al tempo degli attentati.

Spatuzza risponde di no o di non saperne niente: nel 2009 giustificherà con i timori per la sua famiglia il non aver parlato allora, ma per avvalorare il suo racconto su Graviano e Berlusconi sosterrà di avervi già alluso quanto secondo lui bastava in un colloquio investigativo con Pier Luigi Vigna nel 1997 (cita anche la presenza di Grasso, su cui però ha dato versioni diverse). Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi “fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Intendevo dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione. Parole di cui però allora non fu comprovata la presenza in nessun verbale di colloquio investigativo (oggi non possono essere confermate da nessuno di persona: Grasso escluse di averle mai ascoltate ma non sappiamo se abbia partecipato a tutti i colloqui, Pier Luigi Vigna è morto nel 2012).

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

La profezia americana sul processo Andreotti, scrive il 17 luglio 2017 "Piccole Note". Sulla Repubblica del 17 luglio, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo pubblicano documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma relativi agli anni delle stragi di mafia e a un incontro riservato con il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Pur se un po’ (inevitabilmente) pervaso dall’aura che circonda la figura di Andreotti, la leggenda nera alimentata da decenni di narrativa ostile, l’articolo offre spunti interessanti. Nel report dell’ambasciata si legge che l’uomo politico democristiano critica sia Luciano Violante che Leoluca Orlando, suoi grandi accusatori (particolare in realtà di secondo piano). Più interessante il cenno che inquadra le accuse a lui rivolte come risposta a sue iniziative contro la mafia, la quale quindi si starebbe «vendicando», accusando lui di collusioni con la stessa. Non solo la mafia italiana, secondo Andreotti: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Accuse più che circostanziate, soprattutto quella rivolta all’United Sates Marshall Service, un’Agenzia con compiti di vigilanza giudiziaria davvero poco nota alla cronaca. Evidentemente con quel cenno tanto particolare Andreotti vuole indicare ai suoi interlocutori di avere informazioni molto dettagliate sulle trame ordite contro di lui. Nel report americano non c’è traccia di domande da parte americana sul punto: gli interlocutori di Andreotti cioè non chiedono spiegazioni, cosa che invece dovrebbe essere più che doverosa. Semplicemente lasciano cadere la cosa, come argomento di nessuna importanza. Forse avevano paura che quelle accuse trovassero un qualche riscontro? Poi, a un certo punto, Andreotti inizia a fare domande. Così viene segnalato nel report: «“Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai”. «Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure “che è stato un errore» aver diffuso quella nota”. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi possano essere resi pubblici”. Messaggi con sue conversazioni “di alto livello e sensibili”». Accennando alla “profezia” del consolato di Palermo, Andreotti di fatto accusa gli Stati Uniti, alcuni ambiti ovviamente, di aver costruito il processo a suo carico, creando quei pentiti che lo avrebbero poi portato alla sbarra (davvero tanti i pentiti di quella stagione: un fenomeno unico, per le sue proporzioni, nella storia d’Italia; ma magari nel processo sulla trattativa Stato mafia, semmai andrà a compimento, si troverà qualche risposta a tale inspiegabile anomalia). Nella loro risposta, di fatto gli americani accusano Andreotti di aver reso noto quel documento: e ciò secondo loro sarebbe stato un “errore”. Strana protesta data la natura del documento in questione. In realtà quella americana sembra più un “avviso” rivolto al loro interlocutore a non prendere altre iniziative simili. Minaccia alla quale Andreotti risponde per le rime, accennando alla possibilità che possano sfuggirgli altre rivelazioni “sensibili”. Al di là dello scambio di battute finale, che di questo si tratta nella sostanza, resta la clamorosa vena profetica del documento del consolato Usa a Palermo, in particolare sulla genesi della legione di pentiti che avrebbero poi accusato Andreotti passando per Lima, il politico siciliano della sua “corrente” (pentiti che non potevano essere ignorati dalla magistratura). Val la pena ricordare, en passant, che già prima che iniziasse il processo Andreotti, un pentito aveva provato ad accusare Lima di collusioni con la mafia: tal Giovanni Pellegriti. Era il 1989 allora e Falcone lo accusa del reato di calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. Gli ignoti evocati da Falcone non furono individuati, ma il magistrato riuscì egualmente a condannare Pellegriti per calunnia. Poi Falcone verrà assassinato… il resto è storia. Una storia ad oggi scritta dai vincitori di allora, ma che, come si evince da questi cenni, riserva ancora sorprese.

«L’Italia è incapace di reagire ai boss». I dossier segreti Usa sulle stragi di mafia, scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica" il 17 luglio 2017. Il dispaccio indirizzato a Washington è del 23 luglio 1992, quattro giorni dopo l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino: «L’ultimo massacro della mafia contro il simbolo delle speranze dei siciliani ha scioccato e ulteriormente infiammato la gente, ormai stanca dell’influenza mafiosa che pesa sul futuro». Il console generale americano a Palermo Mann nel suo messaggio (numero “P231430Z Jul 92”, from Amconsul Palermo to AmEmbassy Rome and SecState WashDc) avverte la segreteria di Stato: «Sono il governo e il sistema politico, che la gente valuta nel loro fallimento... La reputazione internazionale dell’Italia, già messa a dura prova dall’omicidio di Falcone, viene ulteriormente scalfita dall’uccisione di Borsellino e dall’apparente incapacità del governo e delle istituzioni politiche nel definire un piano d’azione contro la minaccia». Carteggi riservati sull’Italia delle stragi. Le bombe di mafia commentate dagli americani in una serie di comunicazioni che cominciano il 26 maggio 1992 – appena dopo Capaci – e si chiudono il 2 luglio 1993, quando sono passati meno di due mesi dal massacro di via dei Georgofili. Ci sono dentro i morti di mafia ma ci sono anche personaggi sospettati di mafiosità come Giulio Andreotti. Documenti riservati e recuperati al Dipartimento di Stato americano dal professore Andrea Spiri della Luiss di Roma, una ricostruzione di quei mesi di terrore vista con gli occhi degli americani. A Roma tremano, a Washington mettono in allarme tutte le sedi consolari in Italia. L’ambasciatore Peter Secchia – è il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio – incontra il nuovo procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (il magistrato che deve indagare sulle uccisioni di Falcone e Borsellino) e riferisce al governo americano: «Non ha nascosto di essere sotto pressione…». E informa Washington che il procuratore ha chiesto l’intervento dell’Fbi nelle indagini sugli attentati. Da Palermo è ancora il console Mann che, il 20 luglio, inoltra un altro dispaccio alla segreteria di Stato: «Borsellino era stato identificato poco prima dell’omicidio Falcone come l’obiettivo di un assassinio commissionato dalla mafia stessa, stando alle rivelazioni di mafioso in carcere che sta collaborando con le autorità giudiziarie». Borsellino, un delitto annunciato. L’Italia è nel caos. Passano alcuni mesi e alla procura di Palermo mettono sotto accusa per mafia l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. È il 27 marzo del 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato è datata 14 aprile. L’uomo politico italiano più importante dal dopoguerra – 7 volte capo del governo e 21 volte ministro della Repubblica – chiede un incontro con l’ambasciata americana. Il primo luglio del ‘93, «l’incaricato d’affari riceve a pranzo il presidente Andreotti e il suo ex capo di gabinetto, Riccardo Sessa». Per gli americani, è un incontro riservato. Annotano all’ambasciata di via Veneto nel dispaccio numero P021616Z: «Abbiamo spiegato in modo chiaro che il pranzo doveva intendersi come un incontro privato e che non avrebbe dovuto essere strumentalizzato per scopi mediatici». Il report ha questo titolo: «L’accusato. Parla Andreotti». Il testo riportato è all’inizio una lunga autodifesa: «Andreotti ha fatto presente che negli anni ‘70, nelle sue vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (compreso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli era a capo del governo anche nel momento in cui il giudice antimafia Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia. Più tardi, sulla scia dell’assassinio di Falcone, il suo governo ha varato la normativa che si è rivelata così efficace negli ultimi mesi. La mafia, ha detto Andreotti, si sta vendicando di lui». Poi gli americani annotano altre parole di Andreotti: «Questa vendetta viene sfruttata dai politici della Rete di Orlando, alcuni dei quali egli ha descritto come molto vicini alla mafia, e da vecchi comunisti implacabili come il presidente della Commissione parlamentare antimafia (Luciano Violante, ndr)...». Le accuse dell’ex presidente del Consiglio non si fermano lì: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Gli americani chiedono ad Andreotti se è ancora convinto, dopo l’esecuzione di Salvo Lima, dell’estraneità agli ambienti mafiosi del suo amico siciliano: «Lui ha risposto di non avere mai avuto prova evidente di un simile rapporto, sostenendo che le dichiarazioni sul punto rese dai pentiti non sono chiare e convincenti». Ma ad un certo punto è Andreotti a fare domande. Viene segnalato nel report: «Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai». Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure «che è stato un errore» aver diffuso quella nota. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi «possano essere resi pubblici». Messaggi con sue conversazioni «di alto livello e sensibili».

Così il Divo fregò anche gli Usa. Dai file rivelati da WikiLeaks emerge come la diplomazia americana non riuscisse a capirci molto del potente politico democristiano: e alla fine, estenuata dai suoi misteri, preferiva puntare su Forlani e Cossiga, scrive Stefania Maurizio il 7 maggio 2013 su “L’Espresso". Per tutti è l'uomo dei misteri d'Italia. E Giulio Andreotti resta un personaggio difficilmente decifrabile anche quando si hanno in mano le carte per raccontarlo. Settecentocinquantanove documenti contenuti nel giacimento dei "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che vanno dal 1974 al 1976 e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica", ne restituiscono – manco a dirlo - un'immagine enigmatica. Non è il leader democristiano che ha una strategia di lungo corso che gli americani combattono con le unghie e con i denti, com'è Aldo Moro (che la diplomazia Usa vede come fumo negli occhi per il suo dialogo con il Pci). Non è il cavallo di razza della Dc con cui gli americani hanno un rapporto di complicità, comE Francesco Cossiga, con cui via Veneto si appassiona a ragionare delle strategie migliori per evitare l'infiltrazione dei comunisti negli apparati dello Stato (dai servizi segreti all'Arma dei carabinieri). Non è «l'italiano più profondamente morale che l'ambasciata abbia mai conosciuto», come è il Dc Benigno Zaccagnini, un nemico per gli Usa perché troppo vicino a Moro e al portare al "compromesso storico". E allora chi è il Giulio Andreotti che esce dai "Kissinger Cables"? Un grigio sacerdote del potere. Intelligente, certo. Ma piatto come un contabile e sprovvisto di quell'arguzia che, da noi, lo ha reso celebre per battute memorabili. L'uomo che ha incarnato il Potere granitico e immarcescibile, il depositario dei segreti della Repubblica, esce dai "Kissinger Cables" come un personaggio evanescente. Non un file che lo sorprenda a parlare con gli americani con slancio, come fa Cossiga. Non un documento che colpisca per una sua analisi, un'invettiva o anche un commento velenoso contro un avversario politico. Dov'è il Belzebù, il luciferino custode degli arcana imperii? Nel database non c'è traccia. Tutto quello che i cablo ricompongono è un mosaico di mosse, riti e trattative quotidiane, che parcellizzano l'enorme potere del personaggio: Andreotti sembra riuscire a camuffarlo e farlo sparire anche da qui. Per gli americani, certo, è un amico. Quando nel 1974 la Grecia, appena uscita dalla stagione dei Colonnelli, minaccia di uscire dalla Nato, gli Usa si affidano alla mediazione dell'allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Uno dei nostri migliori amici in Italia", scrive l'ambasciatore John Volpe al Dipartimento di stato. E poi: «Sono fiducioso che lui voglia sinceramente essere utile". Il segretario Henry Kissinger, allora, autorizza via Veneto a fare un briefing con il ministro sulla vicenda, ma senza lasciargli in mano alcun documento. Forse anche gli americani temevano i suoi archivi. Sono anni di scandali, stragi e trame. La diplomazia americana non gli perdona il suo comportamento nello scandalo del Sid, i potenti servizi segreti di Vito Miceli, al centro di mille disegni eversivi. «La gestione di Andreotti dell'affare Sid, che ha portato all'arresto dell'ex capo Miceli", scrivono, "ha provocato notevoli critiche da parte dei circoli moderati e conservatori e militari, come anche un violento attacco da parte del partito neofascista Msi". Secondo quanto riportato sui cablo, è per questa gestione che Andreotti viene fatto fuori come ministro della Difesa nel 1974. E gli americani non sembrano affatto dispiaciuti. Tutti gli arresti che ruotano intorno all'eversione di destra - da Amos Spiazzi, dell'organizzazione neofascista "Rosa dei Venti", fino quella di Miceli - irritano moltissimo gli americani, convinti che «questa caccia alle streghe in corso» avvantaggi la sinistra, che può usarla a livello mediatico. Sull'anticomunismo di Andreotti, però, gli Stati Uniti non hanno dubbi: «E' uno dei pochi leader Dc che ha la capacità di guidare nel migliore dei modi la Dc contro i piani del compromesso storico con il Pci», scrivono. Allo stesso tempo, però, sono consapevoli che, politicamente, è un realista, «un politico furbo», con cui devono relazionarsi in modo «franco ed energico». Dopo le elezioni del giugno 1976, quelle del rischio del "sorpasso storico" del Pci di Berlinguer sulla Dc, «Andreotti sottolinea che è necessario guardare alla realtà della politica italiana e che la Dc di trova ora davanti alla possibilità che il Partito comunista formi un governo con i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, i radicali e democrazia proletaria. Di fronte a questa situazione la Dc o lavora a un accordo con il Pci, o va all'opposizione o indice nuove elezioni». Ma poiché né Andreotti né i colleghi credono che le ultime vie alternative siano percorribili, «sarebbe meglio cercare di accomodarsi con il Pci in un modo che non implichi alcun ruolo di governo per i comunisti in Italia». Di fronte a questo lucido realismo, gli americani replicano in modo franco ed fermo, giocando la carta del ricatto finanziario: «Sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti e, presumibilmente, per gli altri partner europei fornire assistenza economica e di altro tipo all'Italia nel caso in cui il Pci avesse un importante ruolo nella formazione del governo», chiarisce l'ambasciatore Usa con Andreotti, sottolineando che la politica dell'America rimarrà la stessa negli anni a venire, indipendentemente da un'amministrazione democratica o repubblicana. Giulio Andreotti ne prende atto e consiglia agli americani di coltivarsi Bettino Craxi e i socialisti in funzione anticomunista. Proprio quel Craxi che poi lo ribattezzò 'Belzebù' per le sue trame luciferine. Il database non lascia dubbi su chi sono gli uomini su cui, nel '76, punta la diplomazia americana per tenere l'Italia al riparo dai comunisti: Andreotti, Craxi e Forlani, quest'ultimo è il leader che vogliono alla guida della Dc. Non l'onestissimo Zaccagnini, pericolosamente vicino a Moro. Puntano su Forlani, ma non vogliono «appoggiarlo apertamente, perché sarebbe controproducente» e forse «verrebbe usato per confermare le speculazioni che nel 1972, quando era segretario di partito, ha avuto a che fare con la Cia». Quanto a Craxi, gli Usa sembrano prendere sul serio i consigli di Andreotti e sono particolarmente soddisfatti che «il suo [di Bettino] viscerale anticomunismo sia ben nascosto dall'occhio pubblico». Trenta anni dopo questi cablogrammi, Andreotti, Craxi e Forlani sono tramontati. E del 'divo Giulio' nei file di WikiLeaks che vanno dagli anni 2002 al 2010, si ricordano appena le sue traversie giudiziarie e che «è strettamente associato al Vaticano».

Nel labirinto delle stragi, scrive Attilio Bolzoni il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l'Italia non conosce. A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall'Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni. E' un lungo racconto ma non è solo un racconto. E' anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell'estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi. Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all'altra anche se lontane nel tempo. C'è l'intrigo della trattativa Stato-mafia e c'è l'oscura parentesi della dissociazione "morbida" che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c'è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina. Un'estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il "suicidio" nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell'attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni - il 27 luglio del 1993 - in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane. Con l'apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il "pupo vestito", il pentito fasullo di via D'Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi. Venticinque anni dopo - nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola - siamo ancora dentro il labirinto. Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.

Quei delitti "preventivi", scrive Enrico Bellavia, Giornalista di Repubblica, il 16 luglio 2017. Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989. L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno. A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore. Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita. A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino. Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima. Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa. E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo. Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo. 

Talpe, spie e traditori, continua Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. L’Addaura, partiamo allora da lì, lasciando in ombra il contesto e tirando fuori alcuni fatti e alcune domande irrisolte. Chi avvertì i sicari di Cosa nostra che il giudice avrebbe fatto ritorno a casa a quell’ora - nella sua villa sul litorale di Palermo per concedersi una pausa e deliziare i suoi ospiti durante una rogatoria - con i magistrati elvetici che indagavano sul riciclaggio della mafia in Svizzera? Chi fu la talpa che corse a informare lo squadrone di sub pronti all’attacco che sì il tritolo poteva essere piazzato a quell’ora in riva al mare, nel punto in cui, Falcone si sarebbe immerso? Sappiamo adesso, perché lo disse Falcone, che a salvargli la vita fu un giovane poliziotto che lavorava al commissariato San Lorenzo. Si chiamava Nino Agostino. Lo uccisero il 5 agosto 1989, quarantasei giorni dopo il fallito attentato dell’Addaura. Dal suo armadio sparirono delle carte importanti che un collega confessò al telefono di aver distrutto. Il padre si ricordò di aver visto una settimana prima nei pressi di casa del figlio uno strano personaggio, uno con "la faccia da mostro", presentatosi a cercarlo insieme con un collega poliziotto. Bisogna tenere bene a mente questo particolare perché avremo modo di tornarci. Con Agostino morì la moglie incinta, Ida Castelluccio. E, uccidendola, eliminarono con ogni probabilità l’unica testimone diretta dell’avventura umana di un servitore dello Stato al lavoro nell’avamposto più ostile e infido che si potesse immaginare.Talpe e spie dappertutto intorno ad Agostino, pronte a impedirgli di rivelare in che modo si fosse imbattuto nella notizia che gli permise di evitare la strage dell’Addaura. Un altro ragazzo ci rimise la vita: si chiamava Emanuele Piazza. Lavorava già nei "servizi". Ma i suoi capi per lungo tempo hanno negato. Era agli inizi, in prova, e si era gettato nell’impresa di dare la caccia ai latitanti. Faceva base al commissariato San Lorenzo, lo stesso in cui lavorava Agostino. In palestra, Piazza aveva agganciato Francesco Onorato, il pugile, superkiller della cosca dei Madonia di San Lorenzo e dei Galatolo, loro fidi alleati: due piedi nella mafia ma, come vedremo, molte orecchie tra gli sbirri. Ligio al dovere, Piazza, passava le informazioni ai superiori. Dopotutto era stato il superpoliziotto Luigi De Sena, al vertice del Sisde, poi anche parlamentare del Pd, a ingaggiarlo. Glielo aveva presentato il suo autista, un ispettore che finirà condannato per aver favorito i Graviano di Brancaccio. Un giorno di marzo del 1990, Piazza lasciò la porta di casa aperta come se fosse uscito con qualcuno che conosceva per rientrare poco dopo. Non tornò più. Chi tradì Piazza? Chi tradì Agostino? E chi aveva tradito una prima volta Falcone?

Speciale Via D'Amelio. Storia di un colossale depistaggio, scrive il 17 Luglio 2017 Gea Ceccarelli su "Articolo 3". E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno. Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta. Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone. E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto. Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo. Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale. Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89. Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitanti” Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa. Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”. Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità. Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata. Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile. E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.

Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio. La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattaccabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico. Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.

E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”. Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo. Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde, “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”. Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.

Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.

Borsellino, la trattativa e il più grande depistaggio di sempre, scrive ancora Gea Ceccarelli su "Articolo 3" a luglio 2016. Ventiquattro anni. Tanto tempo è passato da quel 19 luglio 1992, quando, in via D'Amelio, a Palermo, una 126 imbottita di tritolo fece saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. A tanti anni di distanza, però, i motivi della strage, così come i veri colpevoli, sono ancora nell'ombra. Per anni si sostenne che Borsellino fosse stato ammazzato perché scomodo, perché giudice antimafia, perché, come Giovanni Falcone, perseguiva un ideale di giustizia. Perchè troppo esposto, magari proprio da chi, come Scotti, l'aveva candidato pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia. Ed è vero. Ma sono anche tanti, ora, che si domandano se non c'entri, in quell'eccidio così frettoloso, anche qualcosa riguardante la trattativa Stato-mafia: era possibile, infatti, che Paolo Borsellino avesse scoperto come lo Stato avesse contattato Cosa Nostra per raggiungere un accordo, e si fosse messo di traverso? Non appare un'eventualità così impossibile. Paolo Borsellino il giorno prima di morire, parlando con la moglie Agnese, rivelò di sapere che, a ucciderlo, non sarebbe stata soltanto la mafia. In un'altra occasione, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, venne trovato a piangere, sostenendo di esser stato tradito da un amico. E ancora: al ritorno da un viaggio a Roma (in quel periodo si moltiplicarono), si sfogò spiegando di aver visto, nella capitale, il vero volto della mafia. C'è, in particolare, uno di quei viaggi nella città eterna, a restar impresso più di altri. Lo racconta il pentito Gaspare Mutolo, che, quel giorno, era interrogato da Borsellino. Era il primo luglio e il giudice venne interrotto da una telefonata dal Ministero dell’Interno: il neoministro Nicola Mancino, subentrato a Scotti, voleva conferire con lui. Secondo quanto riportò Mutolo, all’incontro Mancino e Borsellino non erano soli: “Borsellino tornò dopo circa due ore – ricordò infatti – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (allora capo della Polizia) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Mancino, però, negli anni successivi, smentirà il tutto, sostenendo di non aver mai incontrato il magistrato e che, a quel tempo, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Ancor prima, nell'ultima settimana di giugno, il capitano del Ros De Donno avvicinò Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, per informarla dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo nell'ottica di creare un canale di dialogo con Cosa Nostra. Da parte sua, la Ferraro riferì il tutto al ministro della Giustizia Martelli e a Paolo Borsellino, il quale organizzò subito un incontro con i carabinieri del Ros, De Donno, ma anche Mori, che si tenne il 25 giugno. Di cosa parlarono, è impossibile saperlo. Certo è che pochi giorni dopo, a Palermo, venne denunciato il furto di una 126. E' quindi possibile che, dietro la strage, ci siano ombre istituzionali? Di questo era convinto per esempio Totò Riina che, nel 2009, riferendosi a Borsellino, sosteneva: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Quando poi tornò a parlare, nel 2013, con il suo compagno d'aria Alberto Lorusso, aggiunse: "L'agenda rossa?", diceva, intercettato.  "I servizi segreti, gliel'hanno presa". L'agenda rossa è un altro dei misteri che gravitano attorno la strage di via D'Amelio. Per quasi due mesi Borsellino non fece altro che ripetere di voler essere interrogato dalla Procura di Caltanissetta, quella titolare delle indagini sulla strage di Capaci. Voleva riferire quanto aveva scoperto, quanto sapeva e che non poteva render pubblico, per il segreto d'inchiesta. Nessuno lo volle ascoltare. E' presumibile che avesse comunque segnato tutto sulla sua agenda, che aveva con sé anche quel 19 luglio, e che non fu mai più ritrovata. Ma, oltre a Riina, anche Gaspare Spatuzza ha parlato di servizi segreti. Lui, uno dei veri esecutori della strage, sostenne infatti che, all'interno del garage in cui era stata portata la 126 per imbottirla di tritolo, si trovava anche un uomo estraneo a Cosa Nostra, un agente dei servizi. Fu una delle tante, importanti, rivelazioni che Spatuzza offrì, permettendo di riscrivere la storia giudiziaria di via D'Amelio e smantellare il più grande depistaggio di sempre, quello del falso pentito Vincenzo Scarantino, che aveva portato alla condanna di innocenti. Successivamente, Scarantino sostenne di esser stato costretto a mentire, dal super poliziotto Arnaldo La Barbera -colui che, secondo l'ex boss Di Carlo si recò nelle carceri inglesi in cui si trovava recluso per avere un contatto con Cosa Nostra per allontanare Falcone- e magistrati, tra cui Palma e Tinebra: questi, raccontò Scarantino, lo avrebbero anche invitato a prendere "questa cosa della collaborazione come un lavoro", e di star tranquillo, nell'accusare innocenti, perché "se non hanno fatto questo, hanno fatto altro". Le ultime dichiarazioni, Scarantino le ha rilasciate qualche anno fa, dagli studi di Servizio Pubblico. Fuori dallo studio, però, lo attendevano le forze dell'ordine per arrestarlo. Ha parlato e, con tempistiche quantomeno anomale, è finito con l'essere arrestato con l'accusa di stupro; una storia di cui non s'era mai avuta notizia prima e che, l'anno scorso, s'è conclusa con la sua assoluzione. Intanto, però, il messaggio di tacere era stato inviato.

La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.

Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.

La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.

La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.

Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.

La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdì di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.

Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.

I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.

In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.

Quegli ''innominati'' dietro la scomparsa dell'agenda rossa, scrive il 17 Luglio 2017 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. L'imputazione coatta nei confronti di Arcangioli viene accolta dalle aspre polemiche dei suoi difensori. Il 27 febbraio 2008 gli avvocati Diego Perugini e Sonia Battagliese depositano una memoria difensiva con la richiesta di audizione di numerosi uomini delle istituzioni tra cui l'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, i generali dei carabinieri Antonio Subranni e Domenico Cagnazzo, l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e molti altri. I legali di Arcangioli premono per risalire ai nominativi degli uomini dei Servizi presenti in via d'Amelio il giorno della strage e chiedono ugualmente di sentire pentiti del calibro di Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè ed altri. Il 5 marzo 2008 i pm avanzano la richiesta di rinvio a giudizio per Arcangioli. Martedì 1° aprile 2008 si svolge l'udienza preliminare davanti al Gup di Caltanissetta, Paolo Scotto Di Luzio. A metà pomeriggio viene emessa la sentenza di non luogo a procedere «per non avere commesso il fatto». Un mese dopo le motivazioni sono depositate in cancelleria. Tra le 27 pagine del documento il Gup traccia un'ombra ambigua sull'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Per il giudice la circostanza che Arcangioli sia stato filmato nell'atto di portare la borsa appartenuta a Borsellino non consente di stabilire «che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta scomparire», poi poche righe più sotto rimarcando che «nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione». Il 13 maggio la procura nissena impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, illustrano le contraddizioni espresse in sentenza, così come la illogicità delle motivazioni e soprattutto il travisamento della prova. In merito alla considerazione alquanto azzardata del Gup che mette in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice, vengono poste di contraltare le dichiarazioni (rese nel corso della fase istruttoria) della signora Agnese Piraino Leto, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini. Di Natale e Liguori smontano pezzo per pezzo le evidenti incongruenze della sentenza di proscioglimento per Arcangioli. L'ipotesi ventilata dal giudice della «presenza simultanea di due borse, entrambe nella disponibilità del Dr. Borsellino» contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa. L'eventualità ipotizzata dal Gup che Paolo Borsellino avesse potuto stringere in una mano l'agenda rossa nel momento stesso che si accingeva a citofonare alla madre viene contraddetta dalla logica dei fatti. «Dalla corretta (e in questo caso non controversa) ricostruzione degli eventi - scrivono i magistrati nel documento - si ricava, infatti, come il Dr. Borsellino si trovasse alla guida della vettura blindata (era di domenica pomeriggio e quindi non c'era l'autista del Ministero della Giustizia) mentre la borsa si trovasse nel pianale posteriore (dove fu poi ritrovata dopo l'esplosione)»; «Ne consegue - sottolineano i magistrati - che risulta alquanto improbabile (oltre che complicato) che il magistrato abbia fatto uso della borsa (o peggio abbia estratto l'agenda dalla borsa) durante il tragitto per Via d'Amelio (mentre si trovava alla guida), né tanto meno si spiegherebbe perché il Dr. Borsellino avrebbe dovuto portare con sé l'agenda rossa (che di certo non utilizzava per gli appunti quotidiani, quali appuntamenti, spese ed altro) una volta arrivato in via d'Amelio, considerato che era sceso dall'autovettura solo per citofonare alla madre che avrebbe dovuto accompagnare da un medico per una visita prenotata da tempo». In un dedalo di interpretazioni e travisamenti della prova il dott. Paolo Scotto Di Luzio mette in dubbio le stesse riprese televisive che inquadrano Arcangioli mentre si allontana da via d'Amelio. Per il Gup le immagini non sarebbero in grado di restituire con esattezza il preciso percorso del tenente. «Seppur non essendo dato conoscere, sulla base del filmato, la destinazione finale del percorso di Arcangioli - scrivono i pm nel loro ricorso - né il tempo esatto del possesso della borsa, è ancora errato e illogico trarne conclusioni in termini indiziari assolutamente neutri, senza considerare sia il luogo dell'ultima immagine dell'Arcangioli (già di per sé fortemente sospetto), sia la direzione (altrettanto sospetta), che la circostanza che per sottrarre un'agenda da una borsa (possibilmente consegnandola a terzi) non necessitano né ore, né minuti, ma solo pochi secondi». La procura nissena smonta ulteriormente il teorema del Gup sulla possibile presenza di «due borse» appartenenti a Borsellino e sull'eventualità che Arcangioli potesse essere giunto successivamente all'assistente di polizia, Francesco Paolo Maggi. «Tale assunto - ribadiscono i pm Di Natale e Liguori - travisa completamente il dato probatorio e contrasta inevitabilmente sia con gli accertamenti della Dia di Caltanissetta, che hanno concluso per l'identità della borsa trovata dal Maggi con quella raffigurata nella foto dell'Arcangioli, che con le dichiarazioni dei familiari del Dr. Borsellino che hanno riconosciuto in quella repertata l'unica borsa di cuoio utilizzata quel giorno dal magistrato»; «Inoltre - sottolineano i magistrati nisseni - la ricostruzione cronologica riportata in sentenza si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni dei soggetti venuti in qualche modo a contatto con la borsa del magistrato». Nel ricorso in Cassazione vengono messe a confronto tutte le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di Giuseppe Ayala e lo stesso Arcangioli a dimostrazione della necessità assoluta di celebrare un dibattimento per chiarire definitivamente ogni dubbio su una materia tanto delicata come la sparizione dell'agenda di Paolo Borsellino. I giudici nisseni concludono affermando che la sentenza del Gup «ha avuto la pretesa di giudicare sulla colpevolezza/innocenza dell'imputato come se si trattasse di un giudizio abbreviato, e ha concluso tentando di porre una pietra tombale su una delle vicende giudiziarie più inquietanti degli ultimi tempi». Ma quella «pietra tombale» sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa verrà messa proprio dalla VI sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto il 17 febbraio 2009. Pochi minuti basteranno agli ermellini per scrollarsi di dosso una vicenda ritenuta decisamente fastidiosa. Un caso da seppellire al più presto nei caotici archivi di una cancelleria istituzionale. Nell'aula austera del «palazzaccio» la presenza di un carabiniere in borghese, qualificatosi come «colonnello», non passa inosservata. In un luogo normalmente inaccessibile per chiunque non sia coinvolto nel processo celebrato, quell'uomo è lì ed assiste al pronunciamento della sentenza. Il procuratore generale, Carlo di Casola, chiede inaspettatamente il rigetto del ricorso della procura nissena. Identica richiesta viene avanzata dal difensore di Arcangioli l'avv. Adolfo Scalfati. L'avvocato di parte civile, Francesco Crescimanno, è l'unico a chiedere la possibilità di avere un regolare processo per chiarire il mistero del furto dell'agenda rossa. Ma rimane in minoranza. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della procura di Caltanissetta. E il proscioglimento del colonnello Arcangioli diventa definitivo. L'ombra di una «ragione di Stato» si allunga sulla sentenza di un processo abortito ancor prima di iniziare. Nelle quattro paginette della motivazione della sentenza l'ignominia di uno Stato che non vuole processare se stesso prende forma. Il punto più alto dell'indecenza lo si raggiunge nel momento in cui viene messa nuovamente in dubbio l'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Nel citare le testimonianze dell'ispettore Maggi, dell'appuntato Farinella, del dott. Teresi e dell'on Ayala, gli ermellini sottolineano come da «nessuna di queste fonti, i cui contributi vengono puntualmente riportati e criticamente analizzati, è desumibile l'esistenza dell'agenda nella borsa maneggiata dall'Arcangioli e meno che mai si può ritenere la sottrazione ad opera di quest'ultimo dall'interno della borsa». L'evidente strumentalizzazione delle relative testimonianze assume i contorni di una decisione già concordata e che doveva essere solo formalizzata. Nella motivazione della sentenza di Cassazione il presidente della VI sezione penale si avvale per buona parte delle motivazioni del Gup di Caltanissetta concludendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un'agenda». Sconcerto, delusione e soprattutto rabbia quella di Salvatore e Rita Borsellino alla notizia del proscioglimento di Arcangioli con una simile motivazione. «A questo punto - scrive provocatoriamente Salvatore Borsellino sul suo sito - non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l'occultamento dell'Agenda». «Dato che Paolo non se ne separava mai - rimarca con sdegno e rabbia il fratello di Borsellino - solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell'imputato». «Il momento attuale è peggiore del '92 - dirà successivamente Rita Borsellino - allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c'è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l'eredità di Paolo». Nei computer dei magistrati nisseni restano archiviati i file delle dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda incredibile. Chiuse nelle cartelline rimangono scritte le loro ambigue contraddizioni. Ed è rileggendole che il fumo nero di via d'Amelio si dipana. Dietro quelle nebbie si intravedono ora i volti degli «innominati» di questa epoca. Ma anche questa volta è una questione di tempo. E il timer è già scattato.

“Già si cominciava a parlare della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Lavoravamo al nostro archivio, volevamo catalogare le immagini più emblematiche delle stragi di mafia. Quella foto in realtà era una diapositiva, con le lenti d’ingrandimento passavamo in rassegna gli scatti di via D’Amelio prima di scansionare e conservarli in formato digitale. La nostra attenzione si fissò su quella borsa, invitammo alcuni colleghi a visionarla. Il responso fu unanime, poteva trattarsi della borsa di Borsellino. Non si fece in tempo a venderla (la foto, ndr), avevamo contatti con L’Espresso, Panorama e Repubblica per la cessione in esclusiva ma un collega giornalista ci tradì, la notizia uscì su Antimafia 2000 a firma di Lorenzo Baldo. Pochi giorni dopo bussarono alla porta dello studio gli uomini della Dia e sequestrarono la foto. Ci fu proibito persino di parlare del sequestro”. A parlare al Gazzettino di Sicilia è il fotografo Michele Naccari, collega di Franco Lannino (colui che materialmente ha scattato la foto che ritrae l’allora capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli). Una precisazione: il primo lancio della notizia di quella fotografia non è uscito sul nostro giornale, bensì su l’Unità. La vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che ci ha visto testimoni diretti per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine di Arcangioli, merita quindi di essere raccontata per intero. A futura memoria. «Esiste una foto dove si vede un ufficiale dei carabinieri che si allontana da via d'Amelio pochi minuti dopo lo scoppio della bomba reggendo la borsa di Paolo Borsellino». Per un attimo rimango in silenzio**. Ma poi torno alla carica. «E chi sarebbe questo carabiniere?». «Giovanni Arcangioli, nel '92 aveva il grado di capitano». Sono gli ultimi mesi del 2004 quando ricevo questa segnalazione da una persona decisamente attendibile che conosciamo da diversi anni. Gli chiedo altri dettagli. Voglio vederci chiaro. «La foto è custodita dal fotografo palermitano Franco Lannino». La conversazione finisce lì. Dopo una rapida consultazione in redazione telefono al funzionario della Dia di Caltanissetta Ferdinando Buceti. Il vice questore si occupa delle nuove indagini sui mandanti occulti nelle stragi del '92 sotto il coordinamento della procura nissena. Non mi interessa fare alcun tipo di “scoop” per Antimafia Duemila. La precedenza va all'autorità giudiziaria. Punto. Buceti prende nota per poter verificare gli elementi ricevuti. Nel frattempo mi accorgo che Giovanni Arcangioli è lo stesso ufficiale che nell'estate del 2004 ha freddato a Roma il serial killer Luciano Liboni, soprannominato «il lupo». Un osso duro, Arcangioli, che nel frattempo è diventato tenente colonnello. Successivamente il funzionario della Dia scopre da riscontri incrociati che il 19 luglio 1992 risulta confermata la presenza di Arcangioli in via d'Amelio. Ma è il secondo passo quello determinante. In una sorta di «irruzione» vera e propria cinque agenti della Dia piombano nello studio dal fotografo Franco Lannino. Devono visionare il suo archivio. Subito. La cartellina delle immagini della strage di via d'Amelio viene analizzata minuziosamente fotogramma per fotogramma. La foto del carabiniere che regge la valigetta di Borsellino esce fuori dall'album. E' stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992. E' lui. E' Giovanni Arcangioli, all'epoca comandante della sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Il reperto fotografico viene acquisito immediatamente dall'autorità giudiziaria. E' la prova documentale della segnalazione giunta in redazione. La macchina investigativa ha acceso i suoi motori. E' l'alba del 27 gennaio 2005 quando parto per Roma. L'appuntamento è per le ore 11 agli uffici della Dia. La verbalizzazione ufficiale della nostra segnalazione sulla fotografia di Arcangioli è prevista per quella mattina. L'indicazione fornita telefonicamente poche settimane prima al dott. Buceti viene trascritta in un verbale che confluisce nel fascicolo sulla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel momento l'opinione pubblica ignora ancora la notizia del ritrovamento della foto. Ma è solo questione di un paio di mesi. Il 26 marzo l'Unità pubblica un articolo a firma di Marzio Tristano. Il ritrovamento della foto del carabiniere con la valigetta di Paolo Borsellino diventa di dominio pubblico. Da un dispaccio Ansa del 19 maggio si scopre che Giovanni Arcangioli è stato interrogato un paio di settimane prima per una foto che lo ritrae con in mano la borsa del giudice Borsellino. Domenica 5 febbraio 2006 le agenzie diramano la notizia che la Dna ha segnalato alla procura di Caltanissetta l'esistenza di un vecchio verbale del 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento della borsa del giudice Borsellino. I dispacci riportano che Ayala e Arcangioli sono stati sentiti sul punto specifico dall'autorità giudiziaria. Passano solamente quattro ore e le agenzie battono la notizia di un nuovo interrogatorio di Giovanni Arcangioli previsto nei giorni successivi. Ed è nella data di martedì 8 febbraio che quell'interrogatorio avviene negli uffici romani della Dia. Quello stesso giorno viene sentito nuovamente anche Giuseppe Ayala. I due verranno messi a confronto e le rispettive versioni non coincideranno. Inizia così una sfida a colpi di memoria. Giocata su più tavoli. Primi vagiti di un depistaggio. Consapevole o non. Ma di certo non innocente. Cinque mesi dopo, nell'edizione delle ore 20, il Tg1 trasmette un servizio di Maria Grazia Mazzola sulla strage di via d'Amelio. Per la prima volta in assoluto un canale nazionale, nell'edizione di punta del proprio telegiornale, manda in onda il video di quel frangente. Nel filmato il capitano dei carabinieri avanza spedito reggendo in mano la borsa di cuoio di Borsellino. Dietro di lui si intravedono le auto in fiamme e i pompieri che si affannano a spegnerle. La telecamera insiste implacabile sull'ufficiale. Ma è questione di pochi secondi. Con grandi falcate Arcangioli esce dal quadro delle riprese allontanandosi da via d'Amelio. Riparte il filmato, questa volta a rallentatore. Il volto del carabiniere non tradisce alcuna emozione. La valigetta è stretta nella sua mano destra. Poi più nulla. Nel servizio l'intera vicenda viene sintetizzata sotto la scure dei tempi televisivi. Ma è la novità di quel video ad attirare tutta l'attenzione. La consacrazione definitiva a livello pubblico della scomparsa dell'agenda rossa è avvenuta. Nell'immaginario collettivo la figura di colui che preleva la valigetta di Paolo Borsellino ha finalmente un volto, un corpo e un'anima.

La pietra tombale sulla scomparsa dell'agenda rossa. “Etica è innamorarsi del destino degli altri e Palermo è uno dei pochi luoghi etici rimasti in questo Paese perchè si è costretti a scegliere: o stai con gli assassini, oppure no, o stai da una parte oppure dall'altra, anche se poi è difficile vivere questa scelta”. Un cielo grigio avvolge la città di Caltanissetta. Ripenso a quelle parole pronunciate diversi anni fa da Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di quella città, mentre mi dirigo verso il palazzo di giustizia. E' il 24 febbraio 2006, alle ore 11 è prevista la mia audizione come persona informata sui fatti. L'inchiesta sulla scomparsa dell'agenda rossa procede in un percorso a ostacoli. Il procuratore capo Francesco Messineo e l'aggiunto Renato Di Natale si fanno ripetere sostanzialmente tutto l'iter della segnalazione giunta in redazione. Passano poi agli approfondimenti. Ma l'interrogativo che pesa maggiormente nella sala riunioni della procura nissena riguarda l'identificazione della «fonte». Il procuratore intende sapere se quella segnalazione provenga da ambienti «istituzionali» o meno. Ribadisco ai magistrati la provenienza «non istituzionale» della segnalazione. Sono però costretto a ricorrere al «segreto professionale» sull'identità dell'autore per una precisa volontà dello stesso. Messineo e Di Natale non battono ciglio e procedono alla verbalizzazione. Sabato 25 febbraio il quotidiano La Repubblica anticipa l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli per false dichiarazioni al pubblico ministero. La miccia è stata accesa. E' come se una scintilla cominciasse a percorrere un lungo filo prima di arrivare all'esplosivo. Non passa nemmeno un mese e i difensori di Arcangioli chiedono di spostare la competenza dell'indagine a Roma. Secondo i legali il reato ipotizzato sarebbe stato commesso a Roma e di conseguenza i giudici naturali sarebbero quelli della Capitale. La procura di Caltanissetta oppone un fermo rifiuto in quanto i reati sarebbero stati commessi nel territorio di competenza della procura nissena. Un braccio di ferro che termina con un risultato a favore della procura. L'inchiesta resta a Caltanissetta. Il fascicolo in cui si ipotizza il reato di furto resta a carico di ignoti; l'ufficiale dei carabinieri viene iscritto nel registro degli indagati per false dichiarazioni ai pm. Nel mese di ottobre del 2006 si conclude l'indagine su Arcangioli. Da quel momento attorno al caso della sparizione dell'agenda rossa si apre una danza schizofrenica a suon di carte giudiziarie. Il 3 novembre del 2006 i pm titolari dell'inchiesta, Renato Di Natale e Rocco Liguori, chiedono per l'ufficiale dei carabinieri una prima archiviazione. L'istanza viene rigettata dal Gip Ottavio Sferlazza che, il 21 luglio 2007, ordina di integrare il quadro probatorio con ulteriori accertamenti. Il 28 settembre 2007 una nuova richiesta di archiviazione da parte della procura nissena viene depositata in cancelleria. Poche pagine che racchiudono tra le righe una piccola nota in fondo al testo che apre ulteriori scenari. «Da indagini parallele in altro procedimento penale - si legge nel documento - emergeva comunque come la borsa (di Paolo Borsellino, nda) fosse stata consegnata al Dr. Giovanni Tinebra il giorno dopo l'attentato dal Dr. Arnaldo La Barbera». Il 5 novembre il Gip rigetta nuovamente la richiesta di archiviazione e ordina un supplemento di indagine. Il 14 gennaio 2008 viene reiterata dalla procura la terza richiesta di archiviazione. Il giorno 1° febbraio 2008 il Gip impone ai Pm l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli con l'accusa di furto pluriaggravato. Nell'ordinanza il Gip Sferlazza illustra una per una le gravi contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Arcangioli mettendole a confronto con le testimonianze di Giuseppe Ayala, altrettanto altalenanti, così come con quelle di Vittorio Teresi. «Contrariamente all'assunto del ten. col. Arcangioli - si legge nel documento - a nessuno dei magistrati presenti, chiamati in causa dal predetto ufficiale, fu affidata, anche temporaneamente, la borsa in questione». «L'allora capitano Arcangioli - che in un determinato contesto spazio-temporale certamente si trovò ad operare da solo - rimase per un apprezzabile lasso di tempo nella disponibilità della borsa, come documentalmente provato dai fotogrammi che lo ritraggono con la borsa in mano nell'atto di allontanarsi fin quasi l'incrocio con Via Autonomia Siciliana dove la telecamera cessa di inquadrarlo». Secondo il Gip Giovanni Arcangioli si allontana «ingiustificatamente di ben 60 metri dalla zona maggiormente interessata dall'esplosione (portineria e cratere) e dai rilievi in corso».Per Ottavio Sferlazza la direzione di marcia dell'ufficiale sembra piuttosto «funzionale all'esigenza di allontanarsi da quello spazio per controllare personalmente la presenza dell'agenda lontano da occhi indiscreti e per farla sparire, affidandola ad altri o nascondendola in una autovettura parcheggiata nei pressi, per poi fare ritorno verso via d'Amelio dove la borsa potè essere agevolmente riposta nell'autovettura del Dr. Borsellino ma ormai priva del suo prezioso documento». In totale antitesi con le registrazioni video che lo smentiscono in pieno Arcangioli aveva invece detto di essersi spostato «sul lato opposto della via d'Amelio rispetto alla casa del Dr. Borsellino» dove avrebbe aperto la borsa per esaminarne il contenuto. Per il Gip di Caltanissetta «appare evidente che, fallito clamorosamente il tentativo di precostituirsi una prova “autorevole” e “tranquillizzante” proveniente da fonte qualificata - costituita dalla asserita verifica da parte dei magistrati presenti, nell'immediatezza del prelievo della borsa dall'autovettura e sotto il loro controllo visivo, dell'assenza di una agenda all'interno della borsa stessa - all'Arcangioli, ripreso dalle telecamere in quell'atteggiamento univocamente indiziante, non rimaneva che negare di “avere mai superato, portando la borsa, il cordone di polizia che sbarrava l'accesso alla via d'Amelio”». Sferlazza sottolinea che in realtà c'era una sorta di corridoio libero che non era sbarrato da alcun cordone di polizia e che comunque per Arcangioli, munito di distintivo al petto, non era certo difficile attraversare quel tratto di strada per dirigersi verso la via Autonomia Siciliana «dove certamente sostavano molte autovetture di servizio in cui ben potè operare indisturbato, e fare poi ritorno in via d'Amelio senza destare alcun sospetto». Il Gip nisseno definisce «alquanto singolare» che il capitano Arcangioli non abbia redatto alcuna relazione di servizio «su un episodio di indubbia rilevanza investigativa, quale il rinvenimento di una borsa appartenuta al Dr. Borsellino», nemmeno «l'asserita consegna della borsa ai magistrati presenti […] avrebbe giustificato l'omessa redazione di una annotazione di servizio su un episodio tanto significativo». Nel documento viene riportata la dichiarazione di un superiore di Arcangioli, il ten. col. Marco Minicucci il quale, sul punto specifico, sottolinea che «sarebbe stato normale per un ufficiale che preleva la borsa che era contenuta nell'auto di Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage redigere una relazione di servizio». Ma Arcangioli misteriosamente non redige alcun rapporto. Per il Gip «non può dubitarsi della esistenza dell'agenda all'interno della borsa né della attribuibilità al solo Arcangioli, almeno in una prima fase, di una condotta di sottrazione della stessa». Sferlazza evidenzia le circostanze dei diversi ritrovamenti della borsa di Paolo Borsellino all'interno della sua auto. La prima persona che recupera la borsa «sul sedile posteriore» è l'agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Successivamente l'ispettore Francesco Paolo Maggi asserisce di averla trovata «sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri». I due diversi ritrovamenti costituiranno i pilastri del mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo il Gip nisseno la sparizione dell'agenda «va collocata in una fase certamente precedente all'intervento dell'ispettore Maggi ed appare chiaramente ascrivibile all'ufficiale dell'Arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni». «E quale altra funzione - scrive Sferlazza nell'ordinanza - può avere avuto la successiva ricollocazione della borsa all'interno dell'autovettura se non quella di consentirne un successivo recupero, dopo averla fraudolentemente privata di quel documento approfittando della confusione che regnava in quella fase concitata e confidando sul fatto che il successivo repertamento della stessa avrebbe destato ben minori sospetti rispetto ad un suo eventuale e definitivo mancato rinvenimento?!». In merito ai risvolti legati a quanto vi possa essere scritto nell'agenda scomparsa il Gip di Caltanissetta punta dritto verso quegli organi di Stato «infedeli». «E' evidente - ribadisce Sferlazza - che il suo contenuto (dell'agenda rossa, nda) dovette subito apparire di estremo interesse al punto di suggerirne una definitiva e deliberata sottrazione ad ogni possibile sviluppo e/o doveroso approfondimento investigativo da parte dell'A.G. funzionalmente competente, mentre fu privilegiata, in sedi che non è dato conoscere ma certamente da parte di organi dello Stato infedeli, la definitiva espunzione di quel documento da un quadro probatorio complessivo, fin dall'inizio di difficile ricostruzione e lettura, che avrebbe potuto essere arricchito e reso più decifrabile». «Diversamente opinando - conclude il Gip - non si comprenderebbe perché quell'agenda non sia stata - si ribadisce, neppure tardivamente - mai più restituita alla famiglia Borsellino, sia pur, in ipotesi, dopo averne fotocopiato ed acquisito “clandestinamente” il contenuto, al di fuori delle corrette regole procedurali, tanto più ove si consideri che ciò avrebbe potuto essere fatto anche soltanto il giorno dopo senza destare alcun sospetto, mentre si è scelta la strada della criminosa e definitiva sottrazione del documento a qualunque verifica probatoria».

«Non ho un ricordo molto nitido, però, relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini». Le parole dell'ispettore Giuseppe Garofalo, in servizio il 19 luglio 1992 alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, infittiscono le nubi su via d'Amelio. I magistrati lo ascoltano attentamente. «Ricordo - racconta Garofalo - di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto». I funzionari della Dia sottopongono quindi all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprende Giovanni Arcangioli. Ma l'ispettore esclude che si tratti della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo ravvisa «forti somiglianze tra l'Adinolfi (il tenente colonnello del Ros di Palermo Giovanni Adinolfi, nda) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa», poi però in data 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato Garofalo «non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi». Dal canto suo il col. Adinolfi ribadirà quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in ordine alla sua presenza in via d'Amelio il 19 luglio 1992 ma «seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli». I magistrati riportano che nelle successive deposizioni lo stesso Adinolfi «nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino». Le asserzioni dell'isp. Garofalo si intersecano in maniera inquietante con quelle dell'agente della Volante San Lorenzo, Salvatore Angelo, tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. In mezzo a quella bolgia l'agente Angelo riconosce il collega Salvatore Mannino in servizio fino a qualche tempo prima al commissariato San Lorenzo. Mannino era stato poi trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo aveva descritto come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa, ma era anche sospettato di essere stato una «talpa» del commissariato. Non appena individuato Mannino, Salvatore Angelo resta interdetto. «Mi ha colpito addirittura un abbigliamento consuetudinario a lui - ricorda l'agente Angelo - giacca e pantaloni colore cammello e questo ha fatto scattare l’interrogativo di dire: ma 'sta persona qua che ci fa? Proprio perché il soggetto era quello che io ricordavo da sempre. Io poi l’ho perso con lo sguardo, perché come lui ha attraversato ancora c’era il fumo, c’erano le... le auto in fiamme, cioé non era facile seguire le persone all’interno della via D’Amelio. Ripeto, sono attimi in cui la cosa era ancora abbastanza fresca». Successivamente le dichiarazioni dell'artificiere antisabotaggio, Francesco Tumino, all'epoca in servizio presso il Nucleo Operativo del Comando Provinciale dei carabinieri di Palermo, creano ulteriore confusione nelle indagini degli investigatori. «Per il mio specifico compito cominciai ad attenzionare il cratere provocato dall’esplosione - racconta Tumino - se ben ricordo erano le 19.00 circa, allorquando notai la borsa che mi mostrate in foto in mano ad un tale ben vestito che, attraversato il cratere, si diresse verso un capannello di persone ove vi erano i più alti esponenti delle forze dell’ordine. Tale circostanza mi colpì poiché la borsa risultava per un lato bruciata e per l’altro integro e bagnata. Non conosco il tale che teneva in mano questa borsa e non mi sono accorto a chi l’abbia consegnata. Escludo, tuttavia, che potesse trattarsi di un nostro ufficiale poiché l’avrei riconosciuto». Viene quindi verbalizzata una ricostruzione alquanto discordante dalle altre testimonianze. Ma Francesco Tumino è lo stesso artificiere dei carabinieri coinvolto nei misteri del fallito attentato all'Addaura del 1989. Ed è lo stesso brigadiere che verrà condannato in appello per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sul fallito attentato a Falcone per aver accusato l'allora capo della Criminalpol di Palermo, Ignazio D'Antone, di essersi appropriato di alcuni reperti recuperati dopo la disattivazione dell'ordigno esplosivo. Tumino morirà nel mese di gennaio del 2006 portando con sé ambiguità e segreti. Nel frattempo i misteri si intensificano. La relazione di servizio del ritrovamento della valigetta di Borsellino viene inspiegabilmente redatta dall'ispettore Maggi il 21 dicembre 1992 e consegnata al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Un'incomprensibile e irragionevole vuoto temporale. Un enigma che alcuni protagonisti dell'epoca riescono ulteriormente a ingarbugliare con i propri vuoti di memoria. Il funzionario della Mobile di Palermo, Paolo Fassari, viene indicato da Francesco Maggi come il comandante che gli ordina di portare la valigetta di Borsellino in questura. Fassari, sentito successivamente dall'autorità giudiziaria, riferisce di non ricordarsi bene della presenza di Maggi in via d'Amelio, né tanto meno rammenta di avergli impartito l'ordine di recarsi in questura una volta rinvenuta la borsa del giudice. Fassari tuttavia non esclude che si siano verificate tali circostanze «in considerazione del notevole tempo trascorso e della grandissima confusione che era scaturita, in quei frangenti, in via d'Amelio». Dal tenente colonnello Marco Minicucci (all'epoca Comandante del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri Palermo I, nda), dipendevano cinque Sezioni Operative, a capo di una delle quali, la prima, era il capitano Giovanni Arcangioli. Ed è proprio Minicucci, interrogato dagli inquirenti nel 2005, a fornire un'ennesima versione dei fatti. «Ricordo in merito alla valigetta, molto vagamente, atteso i tredici anni trascorsi, che il collega (Giovanni Arcangioli, nda) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall’interno dell’auto del Procuratore Borsellino la valigetta dello stesso all’interno della quale mi ricordo che era contenuto un Crest araldico, se non erro dell’Arma, questo sulla base dei racconti che mi erano stati fatti dal Capitano Arcangioli». «In merito alla valigetta - specifica Minicucci - non ricordo altro e ritengo di potere escludere che siano stati redatti verbali da personale dipendente poiché l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato in segno di rispetto per le perdite subite. Non so aggiungere altri particolari e dettagli in merito alla valigetta poiché non ho vissuto materialmente il prelievo ed il controllo della stessa ma ne sono venuto a conoscenza dal collega successivamente e limitatamente alla parte che ho appena narrato». Gli investigatori confrontano le diverse dichiarazioni e tornano a sentire l'appuntato Farinella che non ha alcun problema a confermare quanto precedentemente riferito. «Io ricordo perfettamente - ribadisce Farinella - che appena notata la borsa il vigile ha cercato di spegnere le fiamme esterne ed insieme abbiamo tentato, fino a riuscirci, di aprire la portiera che permetteva di prendere la borsa. Ricordo altrettanto bene - sottolinea l'appuntato dei carabinieri - che abbiamo aperto una delle portiere posteriori, ma non so dire se la sinistra o la destra, proprio perché abbiamo fatto diversi tentativi. Inoltre, quando io ho prelevato la borsa la stessa era perfettamente asciutta, diversamente sarebbe dovuta essere inzuppata d’acqua». L'ipotesi della borsa bagnata è uno dei punti nevralgici delle contraddizioni emerse dalle differenti dichiarazioni dei testimoni. In totale contrapposizione alle affermazioni di Rosario Farinella, Francesco Maggi riferisce che la borsa era inzuppata d'acqua in quanto un pompiere l'aveva bagnata per impedire il principio di un incendio che si stava formando all'interno dell'autovettura. Di fatto Farinella e Maggi prelevano la borsa in tempi diversi. Nel primo caso non c'è alcun incendio all'interno della Croma, così come testimonia il pompiere che aiuta l'appuntato Farinella ad aprire l'auto. Mentre quando Maggi preleva la valigetta un altro pompiere ha appena colpito con un getto d'acqua l'interno della vettura. Ad avallare le dichiarazioni di Farinella si aggiungono quelle del vigile del fuoco Giovanni Farina che materialmente lo aiuta ad aprire la portiera della macchina blindata di Borsellino. «Il giorno della strage - racconta Farina agli inquirenti il 26 ottobre 2005 - ero funzionario di servizio e subito dopo la richiesta d'intervento sono stato tra i primi ad intervenire in via d'Amelio. Al momento del nostro arrivo, al quale seguiva immediatamente l'arrivo di una squadra dei Vigili del Fuoco del distaccamento portuale, ho notato che sul posto vi erano già delle auto delle forze dell'ordine che impedivano l'accesso alla gente che sopraggiungeva». «Preciso che in quella prima fase - sottolinea il vigile del fuoco - non sapevamo ancora quali fossero lo cause di quello scenario che si presentava davanti a noi. Ricordo, però che quando siamo arrivati ciò che c'era in via d'Amelio era completamente oscurato dal fumo. Inizialmente, accorgendoci che diverse macchine erano in fiamme abbiamo provveduto a spegnerle». A quel punto Giovanni Farina mette a fuoco il ricordo della macchina del giudice. «In tale circostanza ho notato che vi era una Fiat Croma di colore blu scuro alla quale non riuscivamo ad aprire le portiere. Nel tentativo di rompere un deflettore posteriore mi sono accorto che era un'auto blindata». «Successivamente - evidenzia il pompiere Farina - grazie all'intervento di qualcuno appartenente alle forze dell'ordine siamo riusciti ad aprire le portiere e verificare che non vi fosse nessuno al suo interno. Preciso che l'autovettura in questione era posizionata quasi al centro della strada, quasi all'altezza del portone d'ingresso della madre del giudice Borsellino». Il vigile del fuoco spiega successivamente agli inquirenti di aver appreso direttamente da Giuseppe Ayala, circa 30 minuti dopo «che si era trattato di un attentato al giudice Borsellino». Quando i magistrati mostrano a Rosario Farinella la foto del capitano Arcangioli per un'identificazione, l'appuntato dei carabinieri dichiara di non essere in grado di riconoscere la persona nella fotografia. «Posso aggiungere però - conclude Farinella - che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei». Dai principali protagonisti della scena del prelevamento, Giovanni Arcangioli e Giuseppe Ayala, si susseguono una serie di affermazioni, rivedute e corrette fino allo sfinimento. Arcangioli chiama addirittura in causa magistrati che non ci sono mai stati in via d'Amelio quel 19 luglio come Alberto Di Pisa (che minaccia querele per essere stato citato inopportunamente), e cita ugualmente chi vi è arrivato solamente nel tardo pomeriggio come Vittorio Teresi. Il 12 luglio 2005 il procuratore aggiunto di Palermo racconta agli investigatori la sua versione dei fatti. «Non posso precisare l'ora in cui arrivai in via d'Amelio - dichiara Teresi agli investigatori - ma probabilmente era trascorsa un'ora e un quarto o un'ora e mezza dall'esplosione. Mi fermai per qualche minuto ad osservare il terribile spettacolo dei corpi straziati tra i quali quello di Paolo Borsellino, e poi, mi andai a collocare sul marciapiede opposto alla cancellata del palazzo, in posizione però spostata verso l'imbocco di via d'Amelio». «Nel medesimo luogo - sottolinea il magistrato palermitano - credo di ricordare di avere visto i colleghi Ingroia e Natoli e forse Patronaggio e Ayala. Ricordo anche che altri colleghi erano sul posto ma non riesco a ricordare chi fossero». A quel punto gli inquirenti chiedono a Vittorio Teresi se ricorda di aver incontrato in quella circostanza Giovanni Arcangioli. «Non ricordo, in quella circostanza - replica Teresi - di essere stato avvicinato dal capitano Arcangioli né di avere comunque parlato con lo stesso. Chiarisco che io conoscevo e conosco benissimo il capitano Arcangioli con il quale avevo svolto alcune indagini, ma non ricordo che in via d'Amelio lo stesso mi abbia avvicinato o in qualsiasi modo interpellato». «Naturalmente - evidenzia il procuratore aggiunto di Palermo - non mi sento neanche di escludere che ciò sia avvenuto, perché, come ho detto, mi trovavo in uno stato di grande confusione e prostrazione psichica». Ai magistrati presenti Vittorio Teresi illustra minuziosamente la sua versione sul ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino. «Escludo in modo più assoluto come fatto materiale - sottolinea Teresi - che il capitano Arcangioli abbia esibito qualsivoglia borsa ed a maggiore ragione che io abbia aperto tale borsa, o comunque che una borsa sia stata aperta in mia presenza o anche da un altro. Peraltro io non avevo alcuna veste istituzionale, non essendo il sostituto di turno e quindi non avrei potuto ricevere alcun reperto, cosa questa che il capitano Arcangioli assai esperto doveva sapere». Prima di concludere il verbale di interrogatorio Vittorio Teresi dichiara agli investigatori di ricordarsi della presenza dell'agenda rossa del giudice assassinato «sul tavolo di Paolo Borsellino sino a venerdì o sabato (prima della strage, nda)», ma di non poter sapere se tale agenda fosse quella scomparsa. Il 13 dicembre dello stesso anno gli investigatori interrogano Mario Bo, funzionario della Squadra Mobile di Palermo nel '92 (all'epoca dirigente della II° sezione investigativa antirapina e successivamente componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera), che cinque anni dopo sarebbe stato indagato nella nuova inchiesta sul depistaggio nelle indagini per la strage di via d'Amelio. Mario Bo racconta agli investigatori di avere ricevuto la notizia della strage di via d'Amelio mentre si trovava al mare all'Addaura. Bo specifica di essersi immediatamente recato sul posto, ma di esservi rimasto per poco tempo a causa del suo abbigliamento troppo informale, di essere quindi passato a casa sua per cambiarsi prima di recarsi agli uffici della Mobile e solo successivamente in via d'Amelio. Gli investigatori mostrano a quel punto alcune fotografie della borsa di Paolo Borsellino e chiedono all'ex funzionario della Mobile se ricordi averla vista in via d'Amelio. «Dopo aver visionato le foto - risponde il dott. Bo agli inquirenti - debbo dire che, nonostante l'enorme lasso di tempo intercorso, sarebbe assai improbabile non aver mantenuto il ricordo di un oggetto così particolare. In effetti, non posso escludere di avere avuto modo di vederla, ma non riesco a contestualizzare il latente ricordo». «La mia difficoltà, in questo momento - evidenzia l'attuale capo della Squadra Mobile di Trieste - è accentuata dal fatto di non averne memoria neppure in relazione alle indagini sull'attentato in questione ed alle quali io ho partecipato a partire dal mese di giugno 1993, allorquando entrai a far parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, diretto dal dott. La Barbera». In ultimo gli investigatori chiedono a Bo se l'assistente Maggi gli abbia mai parlato della borsa in questione. Dal funzionario di polizia giungerà l'ennesima risposta negativa. Dal canto suo Giuseppe Ayala cambierà versione progressivamente. Come una tela di Penelope il racconto del ritrovamento della valigetta di Borsellino assumerà forma e sostanza mutevole. A seconda della testimonianza si allungherà in dettagli fuorvianti, o si accorcerà dietro inquietanti omissioni. Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e L. Baldo, Aliberti) 

Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.  

La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:

1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.

2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.

3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.

4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.

Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.

Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.

I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.

Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via D’Amelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via D’Amelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno...Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».

Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantovani. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.

La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato.

Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario.

L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione.

L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale? 

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

«Mio figlio curò zu Binnu per questo fu ucciso», scrive Errico Novi il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La madre di Attilio Manca contro la pronuncia che afferma la morte per overdose dell’urologo. Lunedì scorso la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che la morte del dottor Attilio Manca fu procurata da Monica “Monique” Mileti, la donna che gli procurò due dosi fatali di eroina. Una sentenza che esclude la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Provenzano. Ma la madre del medico non si arrende: «Un pentito attendibile ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano». Certo qualche iperbole scoraggia. Ad esempio le parole con cui Antonio Ingroia grida la sua verità: “Attilio Manca è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo”. Eppure la storia di questo giovane e brillante medico trovato morto, per overdose secondo i giudici, a 34 anni il 12 febbraio 2004, lascia ancora qualche zona d’ombra. Lunedì scorso, alla vigilia di Ferragosto, la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che Monica “Monique” Mileti procurò a Manca le due dosi fatali di eroina. La 58enne è stata dunque condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado. Con la verità giudiziaria affermata dal magistrato, per l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, verrebbe esclusa la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Bernardo Provenzano. Ma oltre a Ingroia, avvocato della famiglia Manca insieme con il collega Fabio Repici, è la madre del medico, Angela, a non arrendersi: “Il pentito barcellonese Carmelo D’ Amico”, ha scritto la donna su facebook, “ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano: è molto attendibile e tutto quello che ha detto fino ad oggi è stato regolarmente verificato. Che motivo avrebbe a mentire sull’omicidio di Attilio? ”. Secondo la famiglia, l’urologo sarebbe stato ucciso, e la sua morte mascherata da overdose, pochi mesi dopo aver visitato, e forse operato alla prostata, il boss mafioso a Marsiglia. Ipotesi che sarebbe suffragata da una telefonata fatta a casa dal figlio proprio nell’autunno del 2003, in cui spiegò di trovarsi in Costa azzurra per ragioni professionali. Poi, la dichiarazione di D’Amico. E ancora, il fatto che mai in famiglia si era potuto solo sospettare della tossicodipendenza di Attilio. Diverse anomalie nella stanza della casa di Manca a Viterbo in cui il corpo fu ritrovato: per esempio il fatto che i buchi attraverso i quali sarebbe stata iniettata la droga erano nel braccio sinistro, nonostante Attilio fosse mancino. Le tumefazioni al labbro, il fatto che nel bagno fossero state trovate impronte di Ugo Manca, cugino e teste chiave sia rispetto al fatto che l’urologo fosse da anni un “consumatore anomalo” di eroina (non ne veniva intralciato nella sua attività clinica, che svolgeva all’ospedale Belcolle di Viterbo) sia dei rapporti ormai ultradecennali tra lo stesso medico e la spacciatrice da poco condannata. Nelle motivazioni, la giudice Mattei nota come “l’istruttoria non si è limitata a esaminare le prove a carico dell’imputata in relazione al reato di spaccio, ma ha avuto a oggetto una serie di elementi apparentemente non direttamente riferibili al reato contestato che, tuttavia, si è ritenuto opportuno prendere in esame per valutare, infine escludendola, la possibilità di individuare cause alternative alla morte di Manca”. La giudice scrive anche che “altre ipotesi sono estranee all’attuale vicenda processuale”. Come pure che “non esiste una prova diretta della cessione dello stupefacente da Mileti a Manca nei giorni immediatamente precedenti il decesso”. C’è però “una serie di elementi” che “inducono a ritenere” come “l’autrice della cessione fatale sia stata l’imputata”. Soprattutto i “plurimi contatti (telefonici, nda) nei giorni immediatamente precedenti” la morte del medico. Ingroia parla di “ingiustizia”. La pronuncia con cui il Tribunale accoglie la tesi della morte da eroina e dunque nega quella dell’omicidio mascherato da overdose si basa sulle “stesse ricostruzioni lacunose e le stesse considerazioni infondate sostenute dalla Procura, lo stesso incredibile capovolgimento della realtà, la stessa ignobile calunnia verso una persona perbene, un giovane e stimato chirurgo spacciato come un tossicodipendente”. E poi c’è quel grido di dolore della madre Angela. Sull’ipotesi mafiosa la Procura di Roma è prossima all’archiviazione. Difficile che l’esposto alla Procura nazionale antimafia possa modificare le scelte di Piazzale Clodio. Ma un interrogativo continua ad agitarsi: le due verità in conflitto, tragedia personale e manipolazione criminale, potrebbero essere intrecciate? Possibile che proprio averle considerate alternative tra loro impedisca di cercare ancora la verità?

La provvidenziale morte di “faccia da mostro”, scrive Giulio Cavalli il 22 agosto 2017 su Left. È morto il 21 agosto 2017 mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauso, sulla costa ionica catanzarese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono. Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle. A Reggio Calabria Aiello era indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore. A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato. Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.

Faccia da mostro, muore in spiaggia Giovanni Aiello: ordinata l’autopsia. Il caso Agostino e le stragi: tutte le accuse. L'ex poliziotto ha avuto un malore mentre stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione: si è accasciato in mezzo ai bagnanti Se ne va così un uomo sospettato dai delitti più efferati: dall'omicidio del poliziotto a Villagrazia di Carini, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l'archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi. I legali: "Morto da innocente, basta sciacallaggi", scrivono Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone il 21 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Si è sentito male in spiaggia, colto da un malore in mezzo agli altri bagnanti. È morto così, come un turista qualsiasi che cerca di portare a riva la sua barca, Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, finito al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni con un’accusa infamante. Per almeno quattro procure, infatti, era lui Faccia da Mostro, l’oscuro personaggio con il volto sfregiato che si muoveva sullo sfondo delle stragi di mafia tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. L’ex poliziotto si trovava sulla costa ionica in provincia di Catanzaro, dove da anni si era ritirato a vivere a Montauro: stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione, ma dopo averla tirata sulla battigia si è accasciato in mezzo ai bagnanti che lo avevano aiutato, probabilmente colpito da un infarto.

Disposta l’autopsia. I legali: “Morto da innocente” – Se ne va così un uomo sospettato dei delitti più efferati: dall’omicidio del poliziotto Nino Agostino, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l’archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Accuse sempre smentite dal diretto interessato e che secondo i suoi legali sarebbero state già tutte archiviate. “Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico. La famiglia di Aiello dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso”, dicono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. Per Aiello il pm di Catanzaro, Vito Valerio, coordinato dal procuratore capo, Nicola Gratteri, ha disposto l’autopsia.

Le indagini di 4 procure – Chiaro di capelli e con una guancia sfregiata da una cicatrice sul volto – che a suo dire era il frutto di un incidente – Aiello era stato congedato dalla polizia nel 1977. Nel 2011 finisce al centro delle indagini della procura di Caltanissetta. Per i pm nisseni era lui l’inquietante personaggio che ha percorso come un’ombra tutta la Palermo delle stragi, per poi scomparire definitivamente, lasciando traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. Un killer a servizio di Cosa nostra con un tesserino dei servizi in tasca evocato più volte come uomo chiave di tanti misteri a cavallo tra Stato e mafia che però non era mai stato individuato. E i riscontri ai pm nisseni mancheranno anche nel 2012, visto che chiedono e ottengono di archiviare le accuse a suo carico. Passano pochi mesi e il nome di Aiello viene nuovamente rilanciato nei vari fascicoli di indagine sulle stragi: solo che questa volta a indagare sul suo conto sono anche i pm delle procure di Palermo, Catania e Reggio Calabria.

Il caso Agostino – A tirarlo in ballo è più di un pentito: Vito Lo Forte lo fa nel novembre del 2015 davanti al giudice per le indagini preliminare Maria Pino, che stava celebrando l’incidente probatorio a carico di Gaetano Scotto e Antonino Madonia, accusati di aver ucciso il poliziotto Agostino e la moglie Ida Castelluccio, il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini.  “Lì c’era anche Giovanni Aiello, aiutò Scotto e Madonia a farli scappare a bordo di un’altra auto, dopo aver distrutto la motocicletta che avevano utilizzato”, è la versione del pentito Lo Forte.  Pochi mesi dopo, il 26 febbraio del 2016, era arrivato a riconoscere Aiello in un confronto all’americana anche Vincenzo Agostino, il padre dell’agente assassinato, che già in passato aveva raccontato della presenza di uno strano soggetto con la faccia butterata nei pressi di casa sua, pochi giorni prima dell’assassinio del figlio. “Era un uomo con i capelli biondi, dal viso orribilmente butterato, venne a bussare a casa mia chiedendo di mio figlio”, aveva detto Agostino. Che in quel confronto al carcere Ucciardone di Palermo non ha dubbi: “Faccia da mostro è lui”, dice indicando Aiello, nonostante l’ex poliziotto si fosse tinto per l’occasione i capelli di castano scuro.

L’indagine per concorso esterno – Quel riconoscimento, però, per i pm ha poco valore: anche per questo i magistrati chiederanno l’archiviazione di Aiello, Scotto e Madonia. Oltre che per l’omicidio Agostino, l’ex poliziotto era indagato anche per concorso esterno a Cosa nostra: sono diversi, infatti, i collaboratori di giustizia che lo dipingono come una sorta di sicario professionista al centro di un reticolo di misteri, omicidi e depistaggi. Alcuni pentiti, poi, lo indicano come assiduo frequentatore di fondo Pipitone, e cioè la base storica della famiglia mafiosa dei Galatolo nella borgata marinara dell’Acquasanta: lì i boss si riunivano per discutere degli affari di Cosa nostra, da lì partivano gli ordini di morte per alcuni degli omicidi eccellenti degli anni ’80, e sempre lì i pentiti raccontano di aver visto più di una volta Aiello. “Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta quell’uomo veniva periodicamente a Fondo Pipitone, incontrava mio padre, partecipava alle riunioni con gli altri capi delle famiglie palermitane”, ha raccontato Vito Galatolo, rampollo dell’Acquasanta che ha riconosciuto l’ex poliziotto in un altro confronto all’americana, come già aveva fatto la sorella Giovanna. Sono soltanto alcune di una serie impressionante di testimonianze che per i pm “costituisce prova insuperabile da poter ritenere Aiello in contatto qualificato con Cosa nostra (se non addirittura intraneo)”. Solo che tutti i racconti dei collaboratori di giustizia si fermano al massimo alla fine degli anni ’80, ed è per questo che per i magistrati anche “il reato di concorso esterno deve ritenersi estinto per prescrizione”.

Le accuse di Logiudice – Il nome di Aiello compare anche in alcune inchieste della procura di Reggio Calabria. A citarlo è stato il pentito Nino Logiudice, detto Il Nano, che nell’estate del 2013 era scappato dalla località protetta dove risiedeva prima di essere arrestato di nuovo alcuni mesi dopo. Quando venne catturato dalla squadra mobile, al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo il Nano disse di essere stato avvicinato da alcuni soggetti: si spacciavano per carabinieri e sapevano delle sue dichiarazioni su Faccia di mostro messe a verbale davanti al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio.  Al quale Logiudice non aveva riferito solo del possibile ruolo che Faccia da Mostro avrebbe avuto nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nei racconti del pentito calabrese compare anche una certa Antonella: una donna che agiva con lo stesso Aiello, la cui identità resta ancora un mistero, mentre alcune ipotesi le accreditano una status da agente di Gladio. “Vi dico la verità Aiello lo sentii nominare all’Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995…”, racconta Logiudice a Lombardo. Le dichiarazioni del pentito sono contenute nell’ordinanza sulla Ndrangheta stragista, che ha ricostruito la partecipazione delle cosche calabresi alle stragi contro i carabinieri del 1994. Le parole di Lo Giudice, però, sono piene di omissis.

Il legame con Contrada – Aiello compare anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagato. C’è una fonte che i magistrati reputano attendibile, un testimone il cui nome resta ancora top secret, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Contatti sui quali la Dda sta ancora indagando e che potrebbero aprire uno squarcio sul patto Cosa nostra -‘ndrangheta nella stagione delle stragi “continentali”.

Malore in barca, muore ex poliziotto Faccia da Mostro: fu coinvolto nelle indagini sullo stragismo mafioso. Indagato da quattro procure, è morto in Calabria dove viveva. La procura dispone l'autopsia. Fu sospettato di essere dei servizi e di aver avuto un ruolo in alcuni omicidi di Cosa Nostra. Lui si era difeso: "Non sono io il killer di Stato", scrivono Alessia Candito e Salvo Palazzolo il 21 agosto 2017 su "La Repubblica". E' morto stamani stroncato probabilmente da un malore Giovanni Aiello, 71 anni, l'ex poliziotto della squadra mobile di Palermo conosciuto alle cronache come "Faccia da mostro" e al centro di alcune vicende giudiziarie controverse. L'uomo, che da anni viveva a Montauro, sulla costa ionica catanzarese, è deceduto tra i bagnanti mentre stava sistemando la barca a riva. Inutili i soccorsi, è stato utilizzato anche un defibrillatore. La procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia, per fugare ogni dubbio sulle cause della morte. Il nome di Aiello è stato più volte associato alle stragi di via D'Amelio e di Capaci, ma anche agli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Ufficialmente era un ex poliziotto in pensione, alcuni pentiti lo hanno descritto come un agente dei servizi segreti, ma Aisi e Aise hanno sempre smentito una sua appartenenza all'intelligence. Di un uomo con il volto deturpato, "una faccia da mostro", aveva parlato per primo il boss confidente Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio, a metà degli anni Novanta. "E' coinvolto nei delitti più strani di Palermo". Su Giovanni Aiello hanno indagato quattro procure: Palermo, Caltanissetta, Catania e Reggio Calabria. L'ex poliziotto è stato accusato di avere avuto un ruolo nell'omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, ma l'inchiesta non ha trovato i riscontri necessari, la procura di Palermo aveva chiesto di archiviare la posizione di Aiello per prescrizione, la procura generale ha avocato il fascicolo e sta continuando a fare accertamenti. Contro Aiello c'era il riconoscimento del papà di Agostino, avvenuto alcuni mesi fa nel corso di un drammatico incidente probatorio, ma al momento non è bastato per un processo. A Catania, è stata invece archiviata l'inchiesta contro Giovanni Aiello. La procura di Caltanissetta si apprestava a fare altrettanto, l'esame del Dna ha escluso la presenza dell'ex poliziotto sul luogo della strage di Capaci, come ipotizzato da alcuni pentiti. I pm di Reggio Calabria continuavano invece le indagini sul misterioso poliziotto, di recente "una fonte" aveva svelato ai magistrati altri indizi su Giovanni Aiello. Al momento, non è chiaro se sul suo corpo sarà effettuata un’autopsia, né quale procura si occuperà di un’eventuale indagine sul decesso. Comune cittadino per i magistrati di Catanzaro, territorialmente competente, a Reggio Calabria Aiello era invece uno dei principali indagati dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il coinvolgimento dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”. Una lunga scia di sangue in cui vanno inseriti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – anche gli attentati ai carabinieri che nel ’91 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo. Episodi per lungo tempo rimasti misteriosi, ma che di recente hanno trovato un movente perché incastrati nel mosaico eversivo tessuto dalle mafie tutte, con la collaborazione di massoneria, galassia nera e settori dei servizi, per assicurarsi interlocutori politici compiacenti. Un piano in cui Giovanni Aiello per i magistrati di Reggio Calabria avrebbe avuto un ruolo. Così, l'ex poliziotto di Palermo era finito iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di aver indotto a mentire l’ex capitano del Noe, Saverio Spadaro Tracuzzi, già condannato per gli ambigui rapporti con i clan; nel luglio scorso Aiello era stato nuovamente perquisito. Insieme alla sua casa, erano state passate al setaccio anche quelle di persone considerate a lui vicine o legate, come l’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada, l'ex agente di polizia Guido Paolilli e i fratelli Gagliardi di Soverato. I legali dell'ex poliziotto, Eugenio Battaglia e Ugo Custo, sottolineano che Giovanni Aiello "è morto da innocente". Ma da più parti, già stamattina, era arriva una richiesta di effettuare l'autopsia per chiarire se sia stata una morte naturale.

Sospetti su morte di Faccia da mostro. Padre agente ucciso: "Si faccia autopsia". I legali: "No a sciacalli". L'ex agente Giovanni Aiello era accusato di coinvolgimento nelle stragi di mafia. I suoi avvocati: "Morto da innocente". Ma Vincenzo Agostino incalza: "Una fine che mi dà cattivi pensieri", scrive il 21 agosto 2017 "La Repubblica". I segreti che Giovanni Aiello si riteneva nascondesse da anni saranno sepolti con lui. Ma la sua stessa morte ora alimenta sospetti. Per questa ragione, la procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia. L'ex agente di polizia conosciuto come "Faccia da mostro" e chiamato in causa nelle inchieste più scottanti sulla mafia - dalla stagione delle stragi alla trattativa stato-mafia - ha avuto un malore fatale a Montauro, il paese della provincia di Catanzaro dove si era ritirato da qualche anno. "La notizia mi dà cattivi pensieri - dice Vincenzo Agostino, il padre dell'agente ucciso con la moglie nel 1989 - le prove a suo carico erano sempre più rilevanti, è necessario disporre l'autopsia per verificare se la sua sia stata una morte accidentale o una uccisione di Stato per togliere di mezzo un soggetto divenuto fastidioso per tanti apparati". Vincenzo Agostino ha giurato di non tagliarsi la barba fino a quando non conoscerà la verità sulla morte dei suoi cari. "L'avevo riconosciuto in aula quel signore - dice - mi sembrava il poliziotto che era venuto a cercare mio figlio qualche giorno prima del delitto. Quando lo vidi, l'anno scorso, non mi sembrò un uomo di 70 anni, ma un atleta, non capisco perchè avrebbe avuto un infarto. Che qualcuno lo abbia tolto di mezzo? Mi sembra doveroso che venga disposta un'autopsia vera e il sequestro degli immobili per evitare che possibili reperti utili vengano eliminati". Un'opinione condivisa dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, secondo il quale l'autopsia e il sequestro dei beni sono una misura cautelare nell'ipotesi che non si tratti di morte naturale: "Aiello porta nella tomba tante domande che riguardano i tragici fatti della stagione stragista mafiosa e non soltanto. Dall'omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio fino alla recentissima inchiesta 'Ndrangheta stragista della Dda di Reggio Calabria, il suo ruolo di collegamento tra mafie e apparati dello Stato è stato tante volte evocato, mai provato però. Ora, qualora mai avesse voluto rispondere a qualcuna di queste domande, non potrà più farlo e questa per ora è l'unica certezza". A replicare sono i legali di Aiello: "Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico", sostengono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. "La famiglia di Aiello - aggiungono i due legali - dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso".

Mafia, nel rifugio di Faccia da mostro: "Non sono io il killer di Stato". Parla per la prima volta l'ex agente indagato da 4 Procure: "Con le stragi non c'entro ", scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo il 5 dicembre 2013 su "La Repubblica". Giovanni Aiello, l'uomo del mistero. MONTAURO (CATANZARO) - L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa.

Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano.

Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". 

L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Mafia e ‘ndrangheta, pupi e pupari. Così la verità annega tra le bugie, scrive il 20 ottobre 2016 Felice Manti su “Il Giornale”. Pupi e pupari, segreti e rivelazioni, misteri e non ricordo. Al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia – come ricorda il Fatto quotidiano – è andato in scena un altro capitolo della commedia chiamata ‘ndrangheta. Che tutto vuole e tutto sa, quando conviene. A tentare di incantare i giudici di Caltanissetta che indagano sulla morte di Giovanni Falcone (l’esplosivo sarebbe arrivato dalla nave Laura C, il supermarket dell’esplosivo in mano alla ‘ndrangheta, come ho già scritto) e Paolo Borsellino c’era il collaboratore Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, che ha già fatto tanti casini gettando fango su molti magistrati, e che avrebbe rivelato dopo un pentimento finito male, la verità sul ruolo dei servizi segreti nella strage di via D’Amelio nella quale morì Borsellino. «Faccia di mostro, cioè l’ex poliziotto Giovanni Aiello, mi disse che era stato lui a preparare la bomba e a premere il telecomando di via D’Amelio. Con un cannocchiale era appostato su una montagna e aspettava l’arrivo di Paolo Borsellino per dare il via all’esplosione. Aiello era un agente segreto, mi disse che in quel crimine c’erano lui, l’ex numero due del Sisde Bruno Contrada e l’allora questore di Palermo La Barbera».

Tutto vero? Tutto falso? Verosimile? L’ex pentito prima di deporre al processo di Caltanissetta sulla morte di Borsellino aveva detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone.

Poi si era rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. A stanare il ruolo di Lo Giudice come possibile talpa delle trame dietro la strategia stragista del 1992-1993 era stato l’ex sostituto della Dna Gianfranco Donadio, che aveva ricostruito i rapporti tra Lo Giudice e Aiello, riconosciuto come Faccia di mostro (cioè l’agente segreto che avrebbe trescato con la mafia palermitana). Il pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia è legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: secondo Lo Giudice Donadio gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso (allora capo della Dna, prima di diventare presidente del Senato) era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna come abbiamo già scritto è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Adesso che è tornato a pentirsi, è credibile? E i tanti «non so, non ricordo»?. «Dottore – ha detto Lo Giudice al pm che lo incalzava – io ho tentato il suicidio e prendevo psicofarmaci, ecco perché tante distorsioni». E quando l’avvocato di parte civile gli ha chiesto: «Signor Lo Giudice, ci può dire chi sono i suoi suggeritori odierni?» la domanda è rimasta senza risposta perché non è stata ammessa. Ma è questo il punto. I pentiti mescolano il vero e il falso, mandano messaggi cifrati, a seconda di chi ha in mano il loro telecomando. Anche quando si tratta, per esempio, di un magistrato.

Addio “faccia di mostro”, lo accusavano di tutto ma è morto innocente, scrive Damiano Aliprandi il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Lo 007 nei tritacarne dei pentiti. “Faccia da mostro” è morto ieri in Calabria. Lo 007 accusato dai pentiti di ogni strage e omicidio consumato nel nostro paese, aveva 71 anni e ha passato gli ultimi anni della sua vita facendo quello che aveva sempre sognato di fare: il pescatore. Giovanni Aiello (questo era il suo vero nome) fu processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Fu accusato anche per le stragi di via D’Amelio e quella di Capaci. Lo tirarono in ballo anche nel processo alla “trattativa Stato- mafia”. Ma tutte le sentenze finirono allo stesso modo: non colpevole. Ieri mattina è morto Giovanni Aiello, conosciuto come «Faccia da mostro» a causa del suo viso deturpato da una vistosa cicatrice. È stato stroncato da un infarto mentre cercava di portare a riva la propria barca alla spiaggia di Montauro, località della costa ionica catanzarese dove viveva da tempo. Aiello aveva 71 anni ed era un poliziotto in pensione. Ma non era una persona qualunque. Il suo nome era stato tirato in ballo in diverse occasioni: dietro ogni strage e omicidio di mafia – secondo le accuse mosse da diverse procure siciliane – c’era sempre lui. Processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Era stato accusato di tutto: di essere stato sulla scogliera dell’Addaura (ci fu il primo tentativo di attentato contro il giudice Falcone), e poi sull’autostrada di Capaci e poi in via D’Amelio, l’hanno accusa- to persino di aver partecipato all’assassino di un bambino ( Claudio Domino) e del commissario Ninni Cassarà ( «Era lì con un fucile di precisione», lo accusò Giovanna Galatolo, l’ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90), e ancora di avere avuto un ruolo nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, di avere messo bombe sui treni e di avere dato assalto a caserme. Tutte accuse, alcune delle quali nell’ambito della cosiddetta trattativa Stato – mafia, crollate una ad una. Fu l’uomo preso di mira da diversi pentiti. Tra i tanti, meritano attenzione le accuse di Nino Lo Giudice, detto “Nano”. Un pentito particolare. Lo Giudice si è sempre autodefinito un boss di alto livello della criminalità organizzata calabrese, anche se a Reggio gira voce che i “veri” boss lo considerino solo un “venditore di meloni”. Era balzato alle cronache quando scappò dalla propria abitazione che occupava da quando aveva indossato i panni del collaboratore di giustizia. Prima di scappare – in seguito verrà riacciuffato aveva reso pubblico un memoriale nel quale ritratta anni di presunti pentimenti. Nel memoriale, Lo giudice aveva scritto che sarebbe stata una «cricca ad avermi costretto a dire le cose che ho detto». Una “cricca” formata dai pezzi da 90 che nel recente passato hanno indagato sulla ‘ ndrangheta reggina. Il primo nome sulla lista del Nano quello, famosissimo, di Giuseppe Pignatone, procuratore capo a Reggio e attualmente con lo stesso ruolo a Roma. Fu all’epoca che Lo Giudice aveva stroncato la carriera di Alberto Cisterna, numero due della Dna ai tempi di Pietro Grasso: «Mio fratello mi fece intendere che era stato favorito dal dottore Cisterna in cambio di soldi». Risultato: Cisterna venne trasferito a Tivoli. Ritornando all’ex polizotto Giovanni Aiello, il Nano ritornò alla ribalta l’anno scorso avanzando delle accuse che poi vennero archiviate. «È stato Aiello – dichiarò Lo Giudice ai magistrati di Reggio Calabria – a far saltare in aria Paolo Borsellino e i 5 agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D’Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona… Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sempre l’anno scorso aveva fatto molto rumore l’incontro di "faccia da mostro" con Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto Nino Agostino ucciso a Palermo da Cosa Nostra il 5 agosto 1989 insieme alla moglie Ida, che durante un riconoscimento all’americana (insieme a Aiello, dietro al vetro, stavano altri due uomini camuffati) lo indicò: «È lui! – disse Vincenzo Agostino – faccia da mostro è lui!». La stessa procura di Palermo, che nell’ambito della presunta trattativa mafia – stato si occupò del caso, richiese l’archiviazione. Non poteva fare altrimenti visto che il riconoscimento era avvenuto quando, già da tempo, i principali giornali avevano pubblicato la foto di Aiello. Ma non solo. Vincenzo Agostino, in tempi diversi, aveva riconosciuto altre due persone.

Il nome di Giovanni Aiello, però, nei giorni scorsi era ritornato alla ribalta nell’ambito di una inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, la quale ipotizza un patto tra mafia e ‘ ndrangheta nell’attacco sferrato allo Stato, tra il 1993 ed il 1994, in quella che fu definita la stagione delle ‘ stragi continentali’ con gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Un’inchiesta giudiziaria, tra l’altro, che riprende quella denominata “Sistemi Criminali”, all’epoca condotta dai magistrati della Procura di Palermo nella quale vennero messi sotto indagine undici persone tra esponenti delle diverse associazioni criminali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita), della massoneria, dell’estremismo di destra e del mondo delle professioni, tutti sotto indagine ai sensi dell’articolo 270 bis, cioè l’associazione sovversiva per fini terroristici. L’inchiesta si risolse con un nulla di fatto, ma è stata riportata in auge dalla procura di Reggio Calabria. Aiello è stato indagato per induzione a rendere dichiarazioni false all’autorità giudiziaria. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello avrebbe costretto l’ex capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi a mentire agli inquirenti sul suo ruolo nella ‘ ndrangheta reggina. A tutto ciò il suo nome era comparso anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagata. C’è una fonte, ritenuta attendibile dai magistrati, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Quest’ultimo ha smentito categoricamente di averlo conosciuto. Ora Aiello è morto da innocente. I suoi ex avvocati difensori hanno supplicato di lasciare in pace la sua famiglia che, dopo anni di sofferenze, «non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso».

PARLIAMO DELLA SICILIA.

Il broglio disgiunto, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 8/11/2017, su "Il Giornale". Nessun dubbio sui brogli evocati dal decollato Cancelleri nelle elezioni regionali siciliane: «Se non abbiamo vinto, nonostante il brevissimo distacco dalla coalizione di centrodestra, è per via degli impresentabili». I brogli cominciano con le menzogne. Il «brevissimo distacco» è di più di 13 punti: 40% per le liste a supporto di Musumeci e 26% per M5S. Già, perché Cancelleri ha molti più voti dei 5 Stelle e arriva al 34,7%. L'anomalia, o il broglio, è infatti, simmetricamente, che il candidato del centrosinistra abbia liste che arrivano fino al 26%, mentre a lui toccano ben 9 punti di meno. Singolare coincidenza. Come si spiega? Elettori poco convinti, disorientati? Soccorso rosso? O una deliberata manovra di vaporosi votanti deviati per tentare di fare perdere il centrodestra, non potendo vincere il centrosinistra? Ecco il famoso «voto disgiunto». Un'azione di depistaggio, una vera e propria frode, con voti di convenienza invece che di convinzione. Una truffa politica senza alcuna coerenza ideale. Il vero broglio è questa trasmigrazione di voti.

Il retroscena. La bomba dei brogli elettorali per far votare i malati. Nella Sicilia dov’è caduto il muro di Berlino. A scrutini conclusi, il confronto e le somme dei numeri è stupefacente. Fabrizio Micari ha preso 388.886 voti, pari al 18.70%. I voti delle quattro liste che lo hanno sostenuto, 488.939 voti, il 25.40% dei voti. Dunque 100.053 elettori del centrosinistra hanno deciso di votare per Cancelleri. Il candidato dei Cinque Stelle ha preso 722.555 voti pari al 34.70% mentre la lista grillina, primo partito in Sicilia, si ferma a 513.359 voti, pari al 26.70%. Da dove sono arrivati 209.197 voti? Scrive Guido Ruotolo il 7 novembre 2017 su "Notizie Tiscali". Ė caduto il Muro di Berlino in Sicilia e a Roma non se ne sono ancora accorti. E intanto esplode la bomba dei brogli elettorali. La Procura di Catania ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato e senza nessun indagato, dopo aver acquisito la denuncia presentata ai Carabinieri di Gravina di Catania da parte dell’autore di un video postato sulla pagina Facebook del meetup dei Cinque Stelle. Nel video si vede un uomo che va in una casa di cura di Gravina di Catania chiedendo se effettivamente la madre, che è interdetta, ha votato per le regionali siciliane. E rivolgendosi a una impiegata ha detto: «Come lei hanno fatto votare tutte le altre persone a Sammartino». Luca Sammartino, candidato del Pd, ex Udc Luca Sammartino che ha ottenuto la cifra record di 32.299 preferenze. Dunque, il Muro che non c’è più. Centomila elettori del centrosinistra hanno deciso di votare il candidato a Presidente della Regione Siciliana dei Cinque Stelle, Fabrizio Cancelleri. Lo hanno fatto per contrastare la vittoria del centrodestra. Sarà il sistema maggioritario puro siciliano, per cui vince il candidato che prende un voto in più degli altri, sarà che quel voto ceduto ai grillini è, come dire?, il male minore per chi lo ha fatto. In ogni caso questa diserzione per il proprio candidato rappresenta una svolta nel panorama politico nazionale. Già ieri lo stesso candidato governatore sconfitto del centrosinistra, Fabrizio Micari, spiegava appunto che il voto disgiunto che lo aveva penalizzato nei voti segnalava questa novità, e cioè che una quota dei votanti delle liste aveva deciso di votare il Cinque Stelle come argine alla vittoria di Musumeci del centrodestra. A scrutini conclusi, il confronto e le somme dei numeri è stupefacente. Fabrizio Micari ha preso 388.886 voti, pari al 18.70%. I voti delle quattro liste che lo hanno sostenuto, 488.939 voti, il 25.40% dei voti. Dunque 100.053 elettori del centrosinistra hanno deciso di votare per Cancelleri. Il candidato dei Cinque Stelle ha preso 722.555 voti pari al 34.70% mentre la lista grillina, primo partito in Sicilia, si ferma a 513.359 voti, pari al 26.70%. Da dove sono arrivati 209.1976 voti? Sicuramente da una buona fetta dagli elettori del centrosinistra. Si può ipotizzare anche che una parte dei candidati ed elettori del centrodestra abbiano deciso di contrastare Il loro candidato a Presidente, Nello Musumeci, che aveva annunciato in campagna elettorale la sua battaglia contro gli Impresentabili. Lo stesso Musumeci in conferenza stampa ha detto che gli Impresentabili non lo avevano votato e per questo lui li ringraziava.  Di certo Musumeci ha preso solo 21.700 voti in più rispetto alle liste che lo appoggiavano, mentre si aspettava un voto disgiunto a suo favore superiore. Anche Fava ha preso 27.574 voti in più rispetto alla lista che lo appoggiava. Dunque quel Muro di Berlino che per anni ha separato il popolo del centrosinistra e il movimento dei Cinque Stelle, con un atto unilaterale di duecentomila elettori, che equivalgono a un partito del 10%, ha chiesto a Roma di riaprire una partita politica che sembrava chiusa, per non consegnare il Paese alle destre. Se Grillo, Renzi, Bersani, D’Alema raccoglieranno questo messaggio, è ancora troppo presto per dirlo. Certo è che una parte del popolo che vota a sinistra o per il centrosinistra non è disposto a contaminarsi con uno schieramento guidato da Berlusconi, Salvini e la Meloni. In queste ore, in quella sinistra romana  che ha sostenuto il candidato Claudio Fava c’è chi fa questi ragionamenti: «Se la sinistra non mette in campo una proposta forte e in rottura con questi anni il rischio che la partita sia ancora a due tra destra e a cinque Stelle è concreta. Oggi in Sicilia domani in Italia».

Vincino: «Io vi dico che la mafia ha votato 5 Stelle», scrive Simona Musco l'8 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Intervista al vignettista siciliano. «Musumeci è la scelta migliore, Cancelleri è negato e Micari è stato messo all’ultimo». La mafia in Sicilia c’è e vota per «il nuovo». Vincenzo Gallo, alias Vincino, il “vignettista dai facili costumi” che ha tratteggiato nei suoi disegni le contraddizioni e le ipocrisie del nostro paese, dà questa lettura al voto per le regionali in Sicilia, sua terra d’origine, dove la vittoria di Nello Musumeci rappresenta «il meglio che potesse uscire da questa tornata elettorale». Un giudizio costruito da un’analisi che sancisce, in primis, il fallimento del Pd, partito che non ha saputo risolvere le contraddizioni emerse il 4 dicembre scorso con il fallimento del referendum, e la vaporosità del fenomeno Cinque Stelle, «un partito che sarà inaffidabile, come sempre».

Per molti questa è la vittoria del M5s, che si afferma come primo partito nella sua regione. Qual è la situazione politica dopo queste elezioni?

«Intanto non c’è mica una vittoria dei Cinque Stelle: hanno un distacco di oltre cinque punti, mica un’incollatura. Potevano essere una grande occasione di speranza e invece hanno fallito. La vittoria è tutta di Musumeci, che mi sembra essere un uomo abbastanza navigato, uno esperto, che ha già ricoperto molti ruoli politici. Però un conto è lui, un conto sono i suoi deputati, per tre quarti un ceto politico terribile, per i quali conta solo quello che riescono a prendere, sia al governo sia all’opposizione. Musumeci può fare molte cose, ha una maggioranza e non ha bisogno dell’accordo con altri partiti per governare. Il M5s, secondo me, non si smentirà, rimanendo inaffidabile. In passato ha appoggiato alcune cose di Crocetta, poi al momento opportuno s’è tirato indietro. Ha fatto solo una strada non asfaltata, niente di più».

E il Pd come ne esce?

«Conferma i suoi problemi a livello nazionale. Renzi non ha ancora capito gli errori fatti il 4 dicembre, non ha capito perché ha perso e che le riforme erano fatte male. Avrebbe dovuto studiare gli errori e poi fare un nuovo programma e rilanciare il partito. Non l’ha fatto e ora avrà problemi in tutta la nazione. A livello locale, poi, è stato un disastro sin dall’inizio: non capisce la Sicilia, non la conosce».

Dunque Musumeci è stata la scelta più saggia?

«Rispetto ai candidati in corsa è assolutamente la scelta migliore. Giancarlo Cancelleri è totalmente negato, Fabrizio Micari è stato messo lì all’ultimo, così… Claudio Fava, invece, è da 20 anni che si presenta: è un uomo di teatro simpatico ma fare tutta una elezione solo per avere un ruolo di testimonianza mi sembra un disastro».

Il refrain dei Cinque Stelle ora è “hanno vinto gli impresentabili” e contestano l’exploit di Luigi Genovese, figlio di Francantonio, con- dannato a 11 anni di carcere per il processo “Corsi d’oro”. Cosa ne pensa?

«Mi fa specie che un Movimento dove uno dei due che comanda ha ereditato la carica del padre contesti il fatto che uno, a Messina, ha preso un sacco di voti ereditandoli dal padre. Gli unici che non dovrebbero parlare sono proprio loro, che hanno parenti ovunque. Casaleggio padre era una persona intelligente e di valore, ma per dire, le mie figlie non sanno disegnare come me… Il fatto che un ragazzino di 21 anni abbia preso un sacco di voti non significa niente, sono cose che esistono nella politica, in America come in Italia. Poi detto dal M5s, che ha poca libertà al proprio interno… basti vedere come fanno fuori deputati e senatori quando dicono “forse Grillo sbaglia”».

E della storia che la mafia avrebbe votato per l’una o per l’altra parte?

«Messina, per restare in tema, è una provincia meno mafiosa rispetto ad altre. Decidono gli elettori con il loro voto, non decidi tu. Il voto dei cittadini va rispettato sempre non solo quando votano me. Bisogna sicuramente dire che la mafia in alcuni paesi è ancora molto forte. Il fatto che un vecchietto pensi di ammazzare la figlia e dia il mandato al figlio per riconquistare peso nell’arena mafiosa di Bagheria, ad esempio, fa venire i brividi. Ma io credo che ormai il voto della mafia sia un voto d’opinione».

In che senso?

«La mafia è stata delusa sia dalla destra sia dalla sinistra e quindi vota i nuovi».

Vota i 5Stelle?

«Sì, anche perché il centrodestra non gli ha levato il 41 bis, che oltretutto è una cosa incivile, la sinistra, pure lei, gli ha peggiorato le cose. Se in passato hanno fatto patti, oggi come oggi, secondo me, votano in base ad altri ragionamenti. Quindi non ha vinto la mafia».

Ora che il parlamento è formato cosa si aspetta dall’assemblea regionale?

«Sarebbe tutto da rifare: abbiamo una politica obsoleta in un mondo nel quale tutto cambia in modo pazzesco. Fino ad oggi la Sicilia ha speso una barca di soldi per non fare nulla. Per la formazione, ad esempio, sono nate decine di cooperative con lo scopo di spartirsi i fondi. Come funziona la politica in Sicilia? Appena si va a pensare una legge subito 10 deputati pensano come guadagnarci sopra, in qualsiasi campo. Se capiscono che il meccanismo da cambiare è questo allora c’è speranza ma non credo lo capiranno».

Quale sarebbe il suo programma?

«Partirei da quattro linee ferroviarie veloci per raggiungere tutta la Sicilia, creerei una società ferroviaria regionale che una volta messo in rete tutto camminerebbe da sé. Io, ad esempio, ero favorevole al ponte sullo Stretto. Quando hanno creato i treni veloci che ti portano a Roma, Milano e Napoli in poco tempo la vita è cambiata. Ecco, io vorrei fare così con Palermo, arrivarci senza fatica. Ma per farlo ho bisogno che il pezzetto tra Reggio e Messina sia collegato da un ponte, solo per questo. Però dicono: prima del ponte bisogna fare altro ma non capiscono che se lo si fa da quel ponte nasceranno altre cose».

Ma anche qui c’è il solito discorso della mafia che si accaparra i lavori.

«E che discorso è? C’è in ogni lavoro pubblico, non è che non fai niente perché c’è la mafia. Ci sono degli strumenti per mettere i mafiosi in condizione di non nuocere. Lo stesso discorso che faccio da sempre per il 41 bis: non serve un bugigattolo in cui buttare la gente, ci sono gli strumenti per rendere innocue le persone. Più sono incivili loro più devo essere civile lo Stato, che solo così mostra la propria magnificenza».

Gli abitanti di Corleone ora attaccano Saviano: "Diffama il nostro paese". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia", scrive Luca Romano, Giovedì 09/11/2017, su "Il Giornale". "Per l'ennesima volta, vergognosamente, l'immagine di Corleone e dei suoi cittadini onesti viene diffamata e additata". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia". "Il risveglio di stamattina ci lascia un po' l'amaro in bocca. Ci dispiace constatare che la nomea di Corleone città della mafia non riguarda solo persone andate avanti a pane e Padrino ma anche Roberto Saviano che da anni "combatte" contro la camorra e incontra quotidianamente persone che a causa della camorra hanno perso parenti, sorrisi e speranza - dicono i ragazzi del Museo sulla mafia di Corleone - L' avevamo invitato a venire: se solo avesse accolto l'invito, si sarebbe reso conto che Corleone si, ha da raccontare storie di lupare e dolore, ma oggi può raccontare storie di grandi lotte e di riscatto". "Grazie Roberto Saviano per l'ennesima spinta indietro che ci costringi a fare - dicono - Noi barcolliamo un po', ma non perdiamo l'equilibrio e andiamo avanti camminando sulle idee dei giudici Falcone e Borsellino. La legalità ci ha insegnato e ci insegna ancora a splendere di luce propria...non riflessa "caro Saviano". Buona giornata da chi ogni giorno lotta per sentire il fresco profumo di libertà che non ha colore politico". Anche sui social c'è stata una rivolta contro le parole di Saviano. "Che delusione - scrive Patrizia Gariffo su Facebook - Dare un giudizio così netto e senza appelli, senza neanche essere venuto a Corleone. Prima di parlare, è bene pensare un po", mentre lo storico Pasquale Hamel bolla Saviano come "un presuntuoso che ha speculato per creare il proprio personaggio". Dino Paternostro, storico attivista per i diritti di Corleone invita lo scrittore in città: "Roberto Saviano, vieni a visitare Corleone. Sarai mio ospite. Poi, solo poi, potrai dare un giudizio fondato sulla nostra città".

Un tiro Mannino, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 02/11/2017, su "Il Giornale". Nella morbosa eccitazione sugli «impresentabili» nelle liste del centrodestra in Sicilia, scende un colpo di fulmine. Parla col Fatto uno dei più autorevoli esponenti della vecchia Dc, Calogero Mannino, uscito indenne (si fa per dire, perché ingiustamente arrestato) da tre processi per associazione mafiosa: «Liste sporche? Musumeci li conosce tutti». L'intervista appare fin troppo arrabbiata e non priva di stranezze. Perché, per esempio, Mannino risponde da Carini, la città della baronessa, ma non risulta abiti lì. Poi afferma sovversivo: «Musumeci è un vecchio arnese della politica, un fascista, e io coi fascisti ci facevo sempre a botte». Mannino, prima giovane dirigente dell'Azione cattolica e dal 1961 consigliere comunale a Sciacca per la Dc, si cambia i connotati: «Sono cresciuto in un ambiente di destra, mio padre era nei giovani liberali». Doveva insospettire. Infatti chi risponde non è Calogero Mannino, ma un altro. Uno scambio di persona. Il Fatto ha chiamato un altro Mannino (cognome non raro), Nino, anche lui politico, che nel '61 fu segretario provinciale della Fgci; poi, come Lillo, deputato, ma del Pci; e da ultimo, sindaco di Carini. Cosa che Calogero non fu mai. L'intervista a Mannino diventa dunque un campo minato, la prova del pressappochismo di un giornale che non informa ma giudica a prescindere dai fatti. E che parla di impresentabili non sapendo con chi parla. Presentatevi almeno: «Piacere, Luca; piacere, Nino». E Mannino dov'è?

Morta l'antimafia se ne fa un'altra. Arrivano i santissimi sputtanatori, scrive Giuseppe Sottile Giovedì 9 Novembre 2017 su "Live Sicilia". Il mascariamento non finisce mai. Lo dimostra la campagna d'odio sugli "impresentabili", targata M5S. (Dal Foglio). Diciamolo pure con un certo sconforto, ma diciamolo: l'antimafia, quella che un tempo spaccava le ossa e garantiva trionfi e carriere, non tira più. E per averne conferma basta guardare tra le pieghe delle elezioni siciliane. Rosario Crocetta, che cinque anni fa era diventato governatore grazie alle sue furbesche intemerate contro gli invisibili spettri di criminalità e malaffare, è finito nella polvere con tutto l'armamentario delle imposture spacciate come verità nel teatrino di Massimo Giletti. Leoluca Orlando, altro campione dell'antimafia chiodata, ha tentano il salto dal comune di Palermo alla Regione, ma le sue liste non hanno superato la soglia di sbarramento e sono miseramente naufragate, come quelle di Angelino Alfano, nel grande mare dell'irrilevanza. Stesso destino per Claudio Fava, che pure è testimone di un impegno serio e rispettabile: la sua fatica con quel che resta della sinistra non è andata oltre il 6 per cento dei voti e ha conquistato appena un seggio a Sala d'Ercole. La disfatta, com'era prevedibile, ha travolto anche le comparse del vecchio cinema antimafia, con tutti i loro attrezzi di scena. Valeria Grasso – un'improbabile eroina del cerchio magico di Crocetta, elevata dal ministero dell'Interno al ruolo di testimone di giustizia – ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento di salire sul palcoscenico elettorale per riscuotere gli applausi. E per meglio commuovere gli spettatori ha raccontato la storiellina, ovviamente “misteriosa e inquietante”, di un furto in casa. Un furto “strano”, va da sé. Un'esperienza “traumatica e brutale”, naturalmente, proprio perchè i ladri si sarebbero limitati, guarda un po', a rubare la foto di Valeria ritratta con i figli. E nulla più. La storiellina, finita sui giornali a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto quantomeno suscitare consensi e solidarietà, trepidi abbracci e infiocchettati attestati di stima. Ma le masse, chiamiamole ancora così, non hanno risposto all'appello e Valeria Grasso ha raccolto nelle urne appena 501 voti. Gli elettori hanno mostrato verso la sua antimafia la più assoluta e sincera indifferenza. Si è schiantato contro un muro di gomma anche la sublime architettura messa in piedi per condizionare il voto dalla cosiddetta Confraternita della Trattativa, una sorta di setta conventicolare secondo la quale nessun magistrato, tranne Nino Di Matteo, riuscirà mai a scoprire le trame oscure e i mandanti occulti che lo Stato-mafia (col trattino piccolo piccolo) puntualmente nasconde tra le pieghe di ogni processo. La Confraternita, alla quale aderiscono santoni e tromboni con tutte le stimmate delle loro immacolate esistenze, ha tentato il colpo grosso. Da cinque mesi vagavano – tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta – i mille e mille discorsi fatti durante l'ora d'aria da Giuseppe Graviano, un boss stragista rinchiuso da 23 anni nel carcere duro di Ascoli Piceno. Graviano, che pure aveva sgamato di avere tutto intorno le cimici sistemate dagli agenti lungo il cortile per intercettare le sue parole, parla a ruota libera e, con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, lascia andare alcune frasi smozzicate che comunque tirano in ballo il bersaglio di sempre: Silvio Berlusconi. Una manna dal cielo per la Confraternita della Trattativa, e per i pochi cronisti che ancora si ostinano a seguire il processo in Corte d'Assise che si celebra nell'aula bunker dell'Ucciardone. E anche se il boss, chiamato dalla Corte a testimoniare, spegne subito gli entusiasmi, avvalendosi della facoltà di non rispondere, la Confraternita che affianca dall'esterno Di Matteo (candidato da Grillo a diventare il ministro di legge e ordine in un futuro governo a cinque stelle) non si arrende e spara il colpo di riserva: l'annuncio che Berlusconi, con Graviano, è stato iscritto a Firenze nel registro degli indagati. La notizia, anche se vecchia e usurata, doveva restare segreta. Ma la Confraternita ha i suoi incappucciati sparsi un po' in tutti i sottoscala delle procure. E la notizia è stata opportunamente veicolata, si dice così, sui due principali quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. Teoricamente, avrebbe dovuto fare sfracelli. Ma le elezioni siciliane hanno ratificato anche il fallimento di quella particolare specie di antimafia che, giocando di sponda con i magistrati politicamente più sensibili e più disponibili, si è trasformata da tempo in una autonoma forza sbirresca. L'elettorato, messo di fronte all'ennesima scempiaggine, non ha abboccato. La criminalizzazione di Berlusconi non ha funzionato. Anzi, a giudicare di come sono andate le cose, c'è da pensare che la manovra degli incappucciati abbia portato al centrodestra più consensi che dissensi, più simpatie che antipatie. Ciò non significa tuttavia che il tracollo dei professionisti dell'antimafia abbia restituito alla politica, soprattutto a quella siciliana, la cultura della libertà e dello stato di diritto. No. Perché morta un'antimafia se ne fa un'altra. E per rendersene conto basta guardare alla scomposta – forsennata, si stava per dire – campagna condotta dal Movimento cinque stelle contro i cosiddetti “impresentabili”: una categoria molto vaga di impuri sui quali si sono scatenati in quest'ultimo mese i puri e duri di Beppe Grillo. Giancarlo Cancelleri, che nella corsa alla presidenza della Regione ha raccolto oltre il 34 per cento dei voti, non ha accettato la vittoria di Nello Musumeci e ha platealmente respinto l'invito a stringergli la mano: “La sua elezione si deve agli impresentabili di cui erano piene le liste di centrodestra”, ha sentenziato. E mascariando e sputtanando, ha cominciato a criminalizzare non solo il figlio di Francantonio Genovese, che fu ras a Messina prima del Pd e poi di Forza Italia e che ha sulle spalle un condanna in primo grado a 11 anni di carcere per avere abbondantemente lucrato sui corsi di formazione della Regione; ma anche i candidati che malauguratamente si ritrovano un indagato tra gli ascendenti o i discendenti, tra i nonni o gli zii, tra i parenti vicini o i parenti lontani. Certo, uno scheletro negli armadi può capitare a chiunque: ieri, a ventiquattr'ore dall'elezione, è finito agli arresti domiciliari per evasione fiscale Cateno De Luca, un guitto della politica reclutato dall'Udc di Lorenzo Cesa ma la scuola grillina pretende che l'impresentabile appartenga sempre e comunque alla sponda opposta. Perché se finisce sotto indagine un esponente del Movimento, come è successo al sindaco di Bagheria o ai deputati rinviati a giudizio per le firme false, la macchia giudiziaria diventa un semplice incidente di percorso al quale ovviare, se proprio se ne avverte il bisogno, con una semplice autosospensione. La questione degli impresentabili è diventata dunque non solo la nuova bandiera di moralisti e moralizzatori. Ma anche e soprattutto il nuovo strumento di lotta politica che il M5s impugna o per delegittimare l'avversario, esattamente come avveniva con l'antimafia, o per sfuggire al dibattito in particolar modo quando il dibattito pone la necessità di approntare risposte concrete a domande che non si possono più eludere o rinviare. Sarà pure un caso, ma la scatola con dentro il giochino dell'impresentabilità è stata regalata ai grillini proprio dalla Commissione parlamentare antimafia che, non avendo più alte indagini da fare per mantenersi a galla, promette a ogni vigilia elettorale di rivelare urbi et orbi chi sono gli impresentabili veri o presunti nascosti dentro le liste. Poi puntualmente non ci riesce e l'operetta immorale diventa automaticamente patrimonio esclusivo di chiunque voglia fare politica con gli insulti, di chiunque pensi di annientare il nemico con uno sfregio e con una diffamazione, di chiunque voglia tenere ancora viva in questo paese la devastante cultura del sospetto. “Il sospetto è l'anticamera della verità”, teorizzava trenta e passa anni fa Leoluca Orlando, ancora sindaco di Palermo, quando spadroneggiava tra i circoli antimafia con una arroganza che lo spingeva a insultare un giudice come Giovanni Falcone o uno scrittore come Leonardo Sciascia. Oggi la sua stella si è appannata e la sua antimafia non brilla più. S'avanzano i nuovi odiatori: da Cancelleri a Gigino Di Maio, da Alessandro Di Battista al poco conosciuto Angelo Parisi che, appena designato da Cancelleri tra gli assessori dell'immaginario governo grillino, si è guadagnato gli onori, si fa per dire, della cronaca lanciando la nobile proposta di mandare al rogo Ettore Rosato, il capogruppo del Pd colpevole di avere proposto la legge elettorale poi approvata dai due rami del Parlamento. Ebbene, diciamolo pure con un pizzico di cinismo, ma diciamolo: meglio che la Sicilia sia finita nelle mani dell'onesto Nello Musumeci, anche se eletto con i voti di Cateno De Luca e di altri tre o quattro candidati impresentabili, che non in quelle di Cancelleri e dei suoi professionisti del rancore. Abbiamo visto i guai e le nefandezze dell'antimafia forcaiola, che Dio ci liberi dai guai e dalle nefandezze dei santissimi sputtanatori.

Vogliamo leggere i commenti più o meno razzisti, più o meno comunisti, o c'è un fondo di verità?

Elezioni in Sicilia: la sinistra vuole solo impallinare Renzi, scrive Gianfranco Morra il 4 novembre 2017 su "Italia Oggi". Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla. L'isola nostra più bella, che alterna e armonizza come nessun'altra bellezze naturali e memorie storiche. Un succedersi di tante civiltà: cartaginesi, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, tedeschi, francesi, spagnoli, piemontesi, austriaci, italiani, americani. Popoli che vi hanno lasciato una straordinaria varietà di monumenti, costumi e cibi. Ha dato alla cultura due premi Nobel (Pirandello e Quasimodo), ha avuto grandi filosofi: Empedocle mago e profeta, Gorgia che inventò le fake news, e uno grandissimo del Novecento, Giovanni Gentile. La Sicilia ha saputo non solo creare, ma anche esportare una «onorata società», che, non di rado, ha preso il posto di governi e classi inette. Chiamata volgarmente «mafia» ha aiutato garibaldini e americani a liberare l'isola. Nata sicula, è divenuta nazionale e mondiale. Nei secoli bui decideva «Vossia», quando giunse la modernità bisognava accettare la volontà popolare espressa dal voto. Il suo primo plebiscito, che la unì all'Italia, fu una grande truffa, così bene descritta da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo («Donnafugata: votanti 512, sì 512, no zero»). Regione conservatrice per dna, accetta ogni mutamento, tanto sa bene che tutto tornerà come prima. Come nello straordinario attacco del romanzo: «La recita quotidiana del rosario era finita. Taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordine, nel disordine consueto». Ciò che accadrà domani in Trinacria è atteso da molti. I partiti si combattono tra di loro: quelli convinti di vincere, sottolineano il valore nazionale del voto, gli altri lo negano. Ma tutti, tolto il Pd e neppure tutto, hanno un solo fine: Renzi se ne vada. Intanto si sono accentuati i consueti trasferimenti dei candidati, la sartoria teatrale del Massimo ha esaurito i costumi. Ma nessuno scandalo, la situazione è mutata, dal Nord nuovi «liberatori» sono giunti: Grillo-Garibaldi dal mare ligure, Salvini-Bixio dalle valli prealpine. Probabilmente preferiranno il re dongiovanni Berlusconi-Vittorio Emanuele, anche nel ricordo del film Paolo il Caldo (Giancarlo Giannini) con la irresistibile cameriera Lilia (Rossana Podestà). Lunedì sapremo. E assisteremo come sempre a polemiche e indignazioni, proteste e denunce, che sono di casa, come aveva capito Cicerone, «Mano pulita» mandato dal Senato nell'isola per indagare sulle ruberie del propretore Verre: «Siciliani, gente molto acuta e sospettosa, qualunque cosa capiti loro la commenteranno con un motto di spirito». Ma allora non cambierà nulla? Nel «Gattopardo» quando arriva Garibaldi il nipote del Principe, Fabrizio, andò dalla sua parte: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Ma non è detto che sarà così. Non siamo più nel 1860, ma nel 2017 e tutti i cinque candidati a governatore lo hanno solennemente promesso: «Con me cambierà tutto». Vedremo.

Vince Nello Musumeci. Meno di 2 siciliani su 10 ha votato per lui.

Ribaltone alle elezioni regionali in Sicilia. Gli exit poll: centrodestra avanti di poco sui grillini, sconfitti il Pd e gli alfaniani. Record negativo per l’affluenza. Oggi lo spoglio, scrive Fabio Albanese il 6/11/2017 su "La Stampa". Musumeci viaggia verso Palazzo d’Orleans. Come da pronostici e nonostante la rimonta grillina di Cancelleri, il nuovo governatore della Sicilia dovrebbe essere proprio lui, l’ex missino voluto da Salvini e Meloni e poi accettato da Berlusconi. Almeno, così dicono gli exit poll diffusi ieri notte da Rai e La7: per Piepoli e Noto, Musumeci è in una forchetta tra il 36 e il 40 per cento, Cancelleri tra il 33 e il 37 per cento. Percentuali simili le dà Emg Acqua, secondo cui Musumeci oscilla tra il 36,5 e il 40,5 e Cancelleri è tra il 33,5 e il 37,5. I dati reali si potranno conoscere solo oggi, visto che la legge elettorale siciliana prevede che lo spoglio si faccia il lunedì a partire dalle 8.

Fabrizio Micari, al terzo posto, risparmia il paventato smacco da parte delle formazioni di sinistra che con Claudio Fava e la sua lista «Cento passi per la Sicilia» arrivano quarti. Ma il dato politico dice che i dem in Sicilia sono in grave difficoltà, anche per l’esperienza dell’uscente governatore Crocetta, da molti definita deludente. I due exit poll sono simili: Micari tra il 16 e il 20 per cento sia per Emg sia per Piepoli-Noto; Fava tra il 6 e il 9 per Emg e tra 7 e 11 per Piepoli-Noto. Da prefisso telefonico la performance del candidato di Siciliani Liberi, Roberto La Rosa, tra 0 e 2. 

Per quanto riguarda le liste, i Cinquestelle risultano il primo partito con una percentuale tra il 30 e il 34%. Nella coalizione di centrodestra la parte del leone la farebbe Forza Italia (tra il 13 e il 16% per Emg) ma il risultato della Lega - in una lista in comune con Fratelli d’Italia accreditata di un 5-8 per cento - sarebbe un successo per Salvini, oltre che per Meloni (che rivendica di essere stata la prima a credere in Musumeci, ndr), in una terra che fino a qualche anno fa i leghisti definivano «sprecona», ricambiati dai siciliani che li consideravano «razzisti». Non entusiasmante il dato della lista di Musumeci #diventeràbellissima, tra il 4 e il 7 per cento, mentre l’Udc oscillerebbe tra il 6 e il 10% e i Popolari e autonomisti di Saverio Romano sarebbero tra il 3 e il 6% (che rivendica: «Noi i primi a credere in Musumeci»), in una terra che fino a qualche anno fa i leghisti definivano «sprecona», ricambiati dai siciliani che li consideravano «razzisti». Non entusiasmante il dato della lista di Musumeci #diventeràbellissima, tra il 4 e il 7 per cento, mentre l’Udc oscillerebbe tra il 6 e il 10% e i Popolari e autonomisti di Saverio Romano sarebbero tra il 3 e il 6%. 

Sul fronte centrosinistra, il Pd rischia perfino di ottenere un dato a una cifra, visto che per Emg la forchetta è tra il 9 e il 13 per cento. Delude Alternativa popolare, del ministro agrigentino Alfano, che viaggia tra il 2 e il 5%, quanto la lista di Micari. Fa meglio la lista di Pdr-Sicilia Futura di Salvatore Cardinale (3-6%). Comunque vada, il voto delle liste rischia di offrire al vincitore una Assemblea regionale senza maggioranza, con il rischio che il nuovo presidente debba aprirsi ad alleanze. 

L’affluenza alle urne è stata anche stavolta bassa, da record negativo: il 46,76% degli elettori; ancora meno di quel 47,41 che cinque anni fa portò a Palazzo d’Orleans Rosario Crocetta. Nella notte le prime reazioni. «Abbiamo fatto un miracolo», commenta il commissario di Forza Italia Gianfranco Miccichè. Lorenzo Guerini (Pd) parla di una «sconfitta netta e indiscutibile». Mentre Micari dice: «Parleremo con i dati reali». 

Vince Nello Musumeci. Meno di 2 siciliani su 10 ha votato per lui.

M5s le comprò la casa finita all'asta, lei si candida con FI. Cancelleri: "Ha scelto la lista sbagliata", scrive il 25 Settembre 2017 "Il Giornale di Sicilia". “Siamo contenti per lei, si vede che le abbiamo restituito tanta di quella serenità, da potere pensare pure di dedicarsi alla politica attiva. Ci dispiace solo che abbia scelto il lato sbagliato”. Il candidato governatore per il Movimento 5 stelle, Giancarlo Cancelleri, commenta così la notizia della candidatura nelle liste di Forza Italia di Martina Guarascio, la figlia del muratore di Vittoria che si suicidò dandosi fuoco per difendere la propria casa finita all'asta”. “Quella casa – racconta Cancelleri – noi la ricomprammo e la restituimmo alla famiglia sottraendola alla disperazione, ma, soprattutto, per accendere i riflettori sul problema delle aste giudiziarie, che rappresentano un vero incubo per tantissimi. Per mettere argine al fenomeno facemmo approvare all'Ars un disegno di legge voto per l'impignorabilità della prima casa, tutt'ora fermo a Roma”. La casa fu comprata con i soldi provenienti dalle restituzioni di parte degli stipendi dei 14 deputati all'Ars “e, contrariamente a quello che di tanto intanto afferma qualcuno – dice Cancelleri - fu interamente pagata. In tal senso abbiamo chiarito tutto in maniera evidentissima in un post del 23 gennaio del 2016, pubblicato nella mia pagina facebook, dove abbiamo allegato financo gli atti notarili a supporto dell'operazione”.

Casa Guarascio è uno dei progetti finanziati con la restituzione di parte degli stipendi dei 14 deputati all'Ars. Il M5s le ricompra la casa, lei si candida con Forza Italia: il padre di Martina Guarascio, persa l'abitazione all'asta, era morto dandosi fuoco. I grillini avevano usato le loro indennità, scrive il 5 novembre 2017 Dario D'angelo su "Il Sussidiario.net". Non le è bastato che i parlamentari del M5s rinunciassero a parte delle loro indennità da parlamentari per ricomprarle la casa che aveva perso all'asta. Martina Guarascio, alle elezioni Regionali Sicilia 2017, ha deciso di sposare le sue idee politiche di sempre, quella passione per Forza Italia che ha coltivato fin da ragazza ha avuto la meglio anche sulla riconoscenza. E dire che suo padre, Giovanni Guarascio, muratore disoccupato di 63 anni residente a Vittoria, per quella casa nel maggio del 2013 aveva perso la vita. Impossibilitato ad estinguere il debito di 10 milioni di lire contratto nel 2001 con la banca, quando l'unica strada possibile era rimasta la messa all'asta della casa di famiglia, l'uomo si era ricoperto di benzina e si era dato fuoco. Un gesto che non era passato inosservato, con il M5s che insieme alla trasmissione Servizio Pubblico era riuscito a raccogliere 30mila euro (su un totale di circa 50mila) da consegnare proprio alla famiglia di Martina per riacquistare la casa. Nemmeno quest'atto concreto, però, è bastato a farle cambiare idea: la fede politica prima di tutto, evidentemente, anche prima dei suoi interessi. Inutile sottolineare che la scelta della 32enne di Vittoria, Martina Guarascio, di candidarsi con Forza Italia nonostante il gesto del Movimento 5 Stelle, abbia indispettito e non poco i sostenitori grillini, che hanno preso d'assalto la protagonista della storia riportata da Il Corriere della Sera. Ed è la stessa Martina a definire "inaccettabile" il trattamento riservatole sul web, con i suoi legali al lavoro per querelare tutti coloro che le hanno mosso offese private e non. Non riesce proprio a spiegarsi tanto accanimento nei suoi confronti, anche perché "io non sono mai stata dei 5 Stelle. Al contrario, la mia famiglia si è sempre considerata di destra. Mio fratello è stato coordinatore dei giovani di Forza Italia. E poi, il M5s ha comprato la casa non le mie idee. Ora voglio condurre la mia battaglia contro il sistema delle aste giudiziarie. Per gli altri. Per mio padre".

Cari siciliani andate a votare, tanto è inutile, scrive Vittorio Feltri il 4 Novembre 2017 su “Libero Quotidiano”. I siciliani votano per la loro regione incasinata come nessun' altra. Sono appassionati di politica perché non hanno alternative: sperano che i partiti risolvano i problemi da loro stessi creati. Si illudono. Da un secolo almeno confidano in una buona gestione dell'isola. Nulla da fare. Qualsiasi amministrazione, di destra o di sinistra, ha fallito. Gli enti pubblici locali sprecano, investono in cose inutili, i trasporti fanno orrore, non funzionano, le strade sono rimaste quelle del tempo in cui Berta filava, non esistono infrastrutture degne della modernità, l'economia langue, poi gli incendi, i forestali che costano e non agiscono, i bilanci delle istituzioni sono in eterno passivo. Il voto serve soltanto a perpetuare una situazione ambientale scandalosa. Per quale motivo ci dovremmo eccitare per le elezioni di domenica? Non ci importa chi vincerà e chi perderà. Quale sia l'esito dello spoglio, non muterà alcunché né a Catania né a Palermo né altrove. Crocetta non si è comportato peggio dei suoi predecessori e i suoi successori non faranno meglio di lui. Berlusconi non ha torto quando dice che la Sicilia è stata dominata da tutti, da cani e porci, e che le manca solo di finire sotto le grinfie dei grillini. Sarebbe un finale drammatico, visto il modo osceno in cui il Movimento 5 stelle ha guidato le città delle quali si è impossessato. Però il punto è un altro. La storia insegna che la Trinacria è irrecuperabile, chiunque la governi non è in grado di raddrizzarla. Non so perché essa sia incapace di tenere il passo con altre zone italiane, ma è evidente che non riuscirà mai a recuperare e a mettersi al passo con la Lombardia, per citare una regione europea a ogni effetto. Pertanto sia che il torrone venga menato dal Cavaliere o da Grillo o da Renzi (improbabile) non verificheremo alcuna differenza. L' isola seguiterà ad essere bella e maledetta, affascinante, misteriosa e soggetta alle soperchierie di vari potentati, non esclusi quelli mafiosi. La mafia è una sorta di cultura che poi è diventata mentalità, abitudine, costume. È un sistema sociale che, oltre ad aver preso piede, ha preso le teste. Sradicarlo è un'impresa titanica in quanto la piovra è efficiente, mentre lo Stato è affidato a gente sprovveduta, incapace di imporre la legalità. Non lo diciamo noi, lo confermano i fatti sotto gli occhi di chiunque ne abbia buono almeno uno. Stando ai politici impegnati nella campagna elettorale, il voto siciliano è importante poiché sarebbe un anticipo di quanto tra alcuni mesi succederà sul piano nazionale: chi spopolerà nell'isola, spopolerà nella penisola. Non è vero. La Sicilia è un mondo a sé. Una realtà particolare che non rispecchia quella generale. La consultazione di domani non è una cartina di tornasole, bensì un fenomeno paesano e amen. Il centrodestra, costituito da Berlusconi, Salvini e Meloni, non ha minori opportunità di prevalere rispetto ai grillini e al centrosinistra (sinistrato), ma ciò non conta ai fini del rinnovo del Parlamento romano. Questa sarà un'altra partita. Ultima considerazione. Se il buon Silvio punta sul ponte riguardante lo stretto di Messina per trionfare in Sicilia, vuol dire che ha poche o zero cartucce da sparare. Siamo alle solite boutade che non hanno mai dato frutti e scatenato soltanto grasse risate. Ma dove vai se il ponte non ce l'hai? Vittorio Feltri

Elezioni regionali, M5S nella Sicilia affondata nell’isola degli sprechi che compra orche e si indebita. Se oggi il candidato del centrodestra rischia di perdere, è perché dietro di lui avanza la Sicilia dell’eterno ritorno, dove tutto all’apparenza è in movimento ma in realtà è immobile, scrive Aldo Cazzullo il 4 novembre 2017 Corriere della Sera”. Se il sistema in Italia vacilla, in Sicilia può crollare. Se vince Grillo solo contro il centrodestra unito (5 simboli, 300 candidati) tutto può accadere. Il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione, Nello Musumeci, è un galantuomo: «Faccio politica da quando avevo 15 anni. Ne ho 62. Mi hanno rivoltato come un guanto; non hanno trovato nulla». È anche una persona seria: «Nel ’94 ero presidente della Provincia di Catania, quando la mafia mi condannò a morte. Ho avuto la scorta per nove anni. Ma non ho mai fatto il perseguitato di professione». Ha la tempra di chi è sopravvissuto a un figlio, e quindi non ha più paura di niente. Nel 2012 perse perché la destra era divisa; contro di lui si presentò Gianfranco Miccichè, che ora è il suo grande sponsor, ha convinto Berlusconi ad appoggiarlo nonostante le rughe, gli occhiali e il pizzetto bianco. Stavolta a dividersi è la sinistra, che si dilania per stabilire se farà meno peggio il rettore uscente e rientrante di Palermo, Fabrizio Micari, o il solito Claudio Fava. Se oggi Musumeci rischia di perdere, è perché dietro di lui avanza la Sicilia dell’eterno ritorno, dove tutto all’apparenza è in movimento ma in realtà è immobile, come i mascheroni barocchi da secoli spalancati in oscene boccacce sotto i balconi di Catania.

Totò e Raffaele, sempre in campo. Quattordici deputati — come vengono chiamati qui i consiglieri regionali, stipendiati meglio di Trump e della Merkel — che sostenevano l’ex comunista Crocetta sostengono l’ex missino Musumeci. Totò Lentini ha fatto uno slalom sinistra-destra-sinistra-destra, con un’agilità tipo Thoeni nei suoi momenti più belli. Alessandro Porto, presidente del gruppo «Con Enzo Bianco» al Comune di Catania, si candida con Berlusconi. Antonello Rizza ha quattro processi e 22 capi di imputazione.

Francantonio Genovese, ex pd, condannato a 11 anni di carcere, è sostituito dal figlio ventenne Luigi. C’è pure Francesco Cascio, ex presidente dell’Assemblea regionale, ex alfaniano, condannato per corruzione. Forza Italia ha perso Vincenzo Figuccia, passato all’Udc, ma ha messo in lista Onofrio Figuccia «detto Vincenzo»: qualche elettore di sicuro si confonderà. Gaetano Armao, in teoria vice di Musumeci, non si candida ma piazza il suo teologo e padre spirituale Pietro Garonna, «detto Armao». E dietro di loro spunta il profilo sempiterno di Saverio Romano e Renato Schifani, nati a destra, passati a Roma con il centrosinistra e ora tornati al nido come rondini a primavera quando il clima muta e il vento si fa favorevole. Lo spettacolo è tale da disgustare pure Totò Cuffaro, che cinque anni fa era a Rebibbia («guardate com’è dimagrito, la galera per lui è stata una beauty farm» ha detto Grillo con una battuta crudele). Totò non vota perché ha perso i diritti civili ma fa sapere che sostiene Roberto La Galla per un nobile motivo: è primario della moglie radiologa. Molto attivo anche il fratello Silvio Cuffaro, sindaco di Raffadali il paese natale. Ridiscende in campo Raffaele Lombardo, che aveva preso sei anni e otto mesi per mafia ma è stato assolto in appello — confermati solo i due anni per voto di scambio, che sarà mai —: il gabbiano, simbolo del suo Movimento per l’autonomia, vola in una delle liste di Musumeci. Resta da capire se gli elettori sono mandanti o vittime.

Grillo arriva a nuoto o va in barca. Se i siciliani che abitano case abusive, fanno lavori precari, campano di sussidi, sono complici o non hanno scelta. «Ribellatevi, sono cent’anni che vi prendono in giro! — grida Grillo in piazza —. Dovreste essere i più ricchi d’Italia e invece siete i più poveri. Avete tutto, l’arte i vulcani le spiagge, e non avete nulla». A Grillo la Sicilia porta bene, qui ha avuto la prima affermazione, il 18% alle scorse regionali. Lui arrivò a nuoto, Gianroberto Casaleggio lo vegliava in piedi dalla barca con basco alla Che Guevara e mantello a nascondere il salvagente, nella bufera pareva Washington al passaggio del Potomac, «non è propaganda è un evento fondativo, la prova che può accadere qualsiasi cosa» mormorò allo sbarco. Aveva ragione. Grillo trovò i cronisti ad attenderlo e ancora gocciolante li salutò ferocemente serafico: «Cosa siete venuti a fare? Ormai non contate più nulla. C’è la rete. Quando tornerete in redazione non troverete più le scrivanie. Il tuo giornale ha chiuso, il tuo sta chiudendo, il tuo chiuderà...». Stavolta è stato ancora più diretto: «Se perdo non torno a nuoto, vengo qui con una barca di 25 metri e vi mando tutti affanculo». Il grillino che tallona Musumeci nei sondaggi, Giancarlo Cancelleri, come molti candidati Cinque Stelle è quasi trasparente. L’elettore deve avere l’impressione di votare per se stesso. Geometra, ha cominciato come magazziniere; il che è un merito, e lo sarebbe ancora di più se avesse aggiunto al curriculum un’esperienza amministrativa che però non ha; in compenso ha mandato in Parlamento la sorella Azzurra. Grillo lo chiama Cancellieri, con la i, anche se lo conosce da quando organizzò il Vaffaday a Caltanissetta e fondò i Grilli nisseni, prendendo l’1%. Ma il disastro complessivo è tale che molti siciliani guardano ai 5 Stelle come a un grimaldello per far saltare la macchina di debiti della Regione, e liberare le energie della comunità.

L’orca sprecona destinata a Sciacca. La Sicilia è tecnicamente fallita. «Dovrebbe portare i libri in tribunale — dice Pietrangelo Buttafuoco —. Le elezioni non servono a conquistare un potere che non c’è. Sono un concorso per assegnare posti pubblici». E Pippo Baudo: «Musumeci è mio compaesano, di Militello come me, ma non mi pronuncio; sono troppo amareggiato». Gli sprechi sono tali che a un certo punto la Regione stabilì di potersi permettere un’orca: un’orca marina vera, comprata e messa a pensione nei mari del Nord — «non si ha idea di quanto costi allevare un’orca» sorride Buttafuoco — in attesa di essere portata al parco marino di Sciacca, che non si è mai fatto. La sinistra punta su volti nuovi: Mirello Crisafulli, ribaldo compiaciuto — «se fossi di Forza Italia sarei già a Guantanamo» —, che sostiene Luisa Lantieri, ex cuffariana; e Totò Cardinale, che nonostante la sua vicenda politica quasi secolare guida una lista che si chiama minacciosamente Sicilia futura.

Orlando: cuore a destra e fegato a sinistra. Micari, atteso oggi da una storica batosta, è andato in giro per i mercati di Palermo con il suo amico sindaco. Leoluca Orlando, volto da imperatore berbero, pancia ormai impressionante, piastrina al collo che lo identifica come portatore della sindrome di Kartagener — «sono stampato al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra; siamo quattro in tutto il mondo», si prepara a dar la colpa a Renzi: «Di Micari era entusiasta. L’ha sostenuto, sia pure da lontano». Il segretario Pd in effetti quasi non si è visto. È stato dappertutto invece Salvini, che ha scoperto l’incanto dell’isola, da Noto ad Agrigento: «Mi fa ribollire il sangue» s’indigna Cuffaro. Salvini, Berlusconi e la Meloni hanno parlato a Catania in tre piazze diverse a mezz’ora di distanza, poi si sono fatti selfie ridanciani in trattoria senza dissipare l’idea che la loro alleanza sia provvisoria. Il centrodestra unito potrebbe prendere una valanga di voti qui e nel resto d’Italia, se solo restituisse un’impressione di solidità; ma oggi il primo partito saranno gli astensionisti. «La Sicilia è davvero bella» si meraviglia il capo leghista. Però arriva il giorno in cui la bellezza non è una consolazione, ma un’aggravante.

Intrighi, candidati impresentabili e pupari occulti: ecco a voi le elezioni regionali in Sicilia. Notabili che si odiano ma corrono insieme, partiti che si combattono ma già si preparano alle coalizioni post-voto. E poi scandali più o meno nascosti. Cosa sta succedendo nell'isola alla vigilia del 5 novembre, scrive Lirio Abbate il 30 ottobre 2017 su “L’Espresso”. Ci sono politici siciliani che non si sono rivolti la parola per anni, perché divisi e contrapposti su qualunque argomento. Adesso invece si ritrovano insieme nelle coalizioni che vogliono vincere le elezioni regionali, costi quel che costi. Vale per il candidato di destra, Nello Musumeci, e per quello del centro sinistra, Fabrizio Micari. Poi, dietro e sopra i candidati, ci sono i “pupari”, che già pensano al dopo voto del 5 novembre. E lavorano perché, nel caso probabile di un esito incerto, le coalizioni che adesso si fanno la guerra depongano le armi pur di formare una maggioranza. L’importante è tenere ai bordi del campo dell’Assemblea regionale siciliana, il parlamento dell’isola, gli uomini dei 5 Stelle guidati da Giancarlo Cancelleri o quelli della Sinistra di Claudio Fava, e non far loro toccare palla. Sarà una partita tutta da seguire. La destra fa mostra di grande unità e valori condivisi. Tanto che l’ambasciatore di Berlusconi in Sicilia, Gianfranco Miccichè, ha dovuto ingoiare un boccone amaro. Il suo uomo, destinato alla vicepresidenza di un’eventuale giunta Musumeci, è stato cancellato dal listino. Nel 2001, all’epoca delle elezioni politiche vinte 61 a zero, Miccichè non avrebbe mai accettato una simile umiliazione. Adesso però l’ordine impartito da Arcore è quello di riconquistare uniti e senza polemiche il voto dell’isola. La Sicilia, laboratorio da più di mezzo secolo dei futuri equilibri nazionali, può proiettare i suoi effetti sulla prossima campagna elettorale nazionale. La partita è dunque fondamentale per il centrodestra. Le discussioni sono rimandate, chi oggi subisce tacendo potrà avere ricompense nelle elezioni politiche del 2018. Oggi, tutti amici, con la parola d’ordine di conquistare Palazzo d’Orléans. Nello Musumeci, il candidato, viene presentato come figura credibile perché, pur avendo ricoperto a lungo incarichi nella pubblica amministrazione e godendo di una rete di potere consolidata negli enti pubblici catanesi, non è mai stato colpito da alcun procedimento penale. Caratteristica che viene venduta come valore aggiunto: dovrebbe essere il minimo per qualunque candidato, solo che in Sicilia non è la normalità. Musumeci inoltre si propone come persona seria e credibile, e cerca così di nascondere le decine di “impresentabili” che lo stanno appoggiando in campagna elettorale. Il dato emerge davanti ai commissari dell’antimafia, impegnati nello screening di tutte le liste che sostengono i candidati alla presidenza. Musumeci si limita a invitare gli elettori a non votare gli impresentabili, ma sa benissimo che sarebbe stato doveroso non candidarli affatto. Miccichè intanto continua a stare in silenzio. Inghiotte le contumelie e accarezza proprio gli impresentabili inseriti nelle liste. In attesa di tornare a fare ciò che ha sempre fatto: il puparo. Come altri potenti del centrodestra nell’isola, Miccichè è convinto di poter governare Musumeci a piacimento. Ma chi lo conosce bene descrive il candidato come tutt’altro che remissivo. Per il carattere, e anche per la sua storia politica legata alla destra radicale. La forza di Musumeci, comunque, dipenderà dal risultato del suo partito personale: “Diventerà bellissima”. Avrà più voti delle altre liste di centrodestra? Forza Italia in Sicilia non ha più la presa di un tempo. Ma l’incognita vera per Musumeci è capire se il consenso accumulato da tanti anni nella destra catanese funzionerà anche a Palermo. Non è facile penetrare nel ventre molle della città, negli strati popolari che è obbligatorio conquistare, come ha saputo fare il sindaco Leoluca Orlando. I sondaggisti prevedono che metà degli aventi diritto al voto non andranno alle urne. E questo scenario non avvantaggia chi ha i consensi più volatili e trasversali, come il candidato del Pd Fabrizio Micari. Rettore a Palermo, persona seria e “gentile”, voluto da Leoluca Orlando, presenta un grave deficit di notorietà rispetto ai competitori. Micari paga il prezzo di una candidatura nata nei giochi di potere del centrosinistra e rischia di essere stato usato come specchietto per le allodole. Il sindaco di Palermo pensava di rilanciarsi da protagonista nell’agone nazionale, e ha imposto al Pd il proprio candidato a governatore. Ora Orlando si trova a mangiare polvere, con i sondaggi sfavorevoli e Matteo Renzi che indica quella del rettore come una nomina locale, decisa dalla società civile, e non da Roma. Il bilancio assai poco esaltante che i democratici presentano ai siciliani dopo gli ultimi cinque anni al governo della Regione rischiano di far finire Micari terzo, dietro il candidato del centrodestra e quello dei 5 Stelle. Chi non ha voluto correre con i dem è stato Claudio Fava, che ha scelto di candidarsi con la Sinistra in polemica con la decisione del Pd siciliano di abbracciare il partito e i candidati di Angelino Alfano. E così Fava ha iniziato la sua corsa: vuole vincere, dice, per offrire ai siciliani “verità e coerenza”, ma anche una proposta di cambiamento reale. Il candidato della sinistra raccoglie così una parte dei voti di protesta “duri e puri” che avrebbero potuto trovare la strada dei 5 Stelle, o quelli di chi, pur di non far vincere la destra radicale di Musumeci, avrebbero votato Pd turandosi il naso. Tra i suoi elettori non solo “i comunisti”, ma molti di quelli che a sinistra sono in disaccordo con la politica di Renzi e tanti di coloro a cui non piace la candidatura di Micari, giudicato solo una figura posticcia messa lì da Leoluca Orlando. Fava ha parlato di possibili convergenze post elettorali con i 5 Stelle. Cancelleri in un primo tempo aveva fatto intuire che poteva esserci un collegamento con alcune liste civiche come possibili compagni di strada. Poi il candidato di 5 Stelle è tornato a ripetere il mantra del movimento: non si fanno accordi con nessuno. Intrighi e laboratorio politico, in Sicilia, sono spesso la stessa cosa.

ELEZIONI SICILIA 5/11/2017. Il mio partito, scrive il 3 novembre 2017 Riccardo Orioles su "Telejato". In Sicilia, in realtà, le elezioni si sono tenute due mesi fa. I senatori romani, che votavano spostandosi da un lato o dall’altro dell’aula, dicevano pedibus ire in sententiam, “votare con i piedi”. Così è andata in Sicilia, almeno per i ragazzi al primo voto. I giovani appena diplomati (quelli laureati lo facevano già da qualche anno), appena visti i risultati dell’esame, cominciano a cercare i Ryanair sull’internet e in un paio di settimane sono già pronti a partire: per Londra, per Berlino, per Montreal, qualcuno per Dubai. Non sono gite turistiche, sono dove vivranno la loro vita. Un tempo, per Belgio e Germania, partivano i minatori di Agrigento; e poi i contadini-operai per Mirafiori o Lingotto, con la lettera del prete. Adesso partono i ragazzini, i più vivi e studiosi, quelli che faranno qualcosa nella vita. Partono per non tornare. E queste sono le nostre elezioni. Le elezioni, del resto, da noi sono una formalità per far finta di essere italiani. Presidenti, assessori? Lo sanno tutti chi comanda in realtà. Comandano i mafiosi. Non quelli delle fiction, con coppola e lupara ma quelli dei consigli d’amministrazione, dei centri commerciali, delle migliaia di voti nel cassetto. Degli ultimi tre presidenti, due – secondo i giudici – avevano molto a che fare coi mafiosi. A Catania, con gli stessi consiglieri, si fanno giunte di destra, di centrosinistra, di sinistradestra. Ma il vero padrone della città, per quarant’anni, è un imprenditore – secondo una lunga inchiesta della procura etnea, in contatto coi mafiosi – che si chiama Mario Ciancio. Il processo a lui e al suo establishment – un altro vero e realistico momento elettorale – si farà in primavera, se mai veramente lo faranno. Queste sono le cose importanti. I ragazzini che partono, e i giudici che ammucchiano disperatamente le carte “in nome – come si dice – del popolo italiano”. Tutto il resto è fuffa.

Dopodiché, anche se non serve a niente, io a votare ci vado. Ho un vecchio camerata dei tempi di guerra (“camerata” qui non vuol dire fascista, vuol dire uno che era con te in fanteria), che purtroppo è tornato in Sicilia per “fare politica” (sghignazzata) e solo non lo lascio, perché è uno di coraggio e noi, fra noi della guerra, non ci siamo mai abbandonati. “Politicamente”, è una cazzata: arriva con d’alemi e bersanotti al seguito, a cui la gente ovviamente non dedica la minima attenzione. Ma politicamente è una cosa grande, perché, tra le tante cose inutili che dice, ce n’è una in cui noi siciliani possiamo credere ed è – quando sta zitto un momento – la sua faccia. La faccia seria e dura, e virilmente malinconica, di uno dei tanti di noi che all’improvviso si son trovati in guerra, e fra paura e dolore l’hanno accettata. Senza grandi parole, senza chiacchiere, e – altro che cento passi – senza passi indietro. Non lo voto per i suoi libri e i suoi film – roba da settentrionali – lo voto perché la sua faccia ci dice, a noi di questa terra, una cosa precisa: noi siamo l’antimafia. E ci siamo ancora. Tutto la rimanente carovana, del suo cosiddetto partito come di tutti gli altri, è onesta fuffa. C’è il vecchio “fascista onesto”, col pizzetto alla Balbo, che ogni mattina si sveglia, legge i giornali e apprende stupito i nomi dei suoi candidati: che lui non conosceva, almeno non quanto li conoscevano i carabinieri. C’è il professore perbene, lanciato allo sbaraglio da un Pd allo sbando (“Vadi, vadi, professore, vadi avanti lei”), che la sera si prende la testa fra le mani e poi con un sospiro se ne va a letto. C’è il grillino ferocissimo, bravo ragazzo in fondo, ma fermo alla Maffia dei film (che non ammazza i bambini e la droga la spaccia, alla don Corleone, soltanto ai negri); il capo del partito, la volta che calò in Sicilia a parlare d’informazione, se l’andò a prendere… con la povera Milena Gabanelli, ignorando completamente l’esistenza di un Ciancio. Ci sono tutti quelli che non votano, o per troppa ignoranza o per troppa democrazia, e sono il partito più numeroso. E c’è – ma nessuno lo caca – il ragazzino che vota perché a scuola gli hanno insegnato che votare è civile, ma vota in fretta perché poi deve prendere l’aereo – il Trenu di lu Suli d’oggigiorno – verso la sua nuova vita. “Porca Italia!, i biastemia, andemo via”: scriveva cent’anni fa un poeta veneto, parlando dei suoi emigranti “serati in l’osteria” la sera prima della partenza. Ed è sempre la stessa Italia, che caccia via a calci i suoi migliori, con l’unica differenza che oggi i padroni, fattisi furbi, scatenano i loro tromboni contro i poveracci che “ci invadono”: parlare di chi arriva, per non parlare di chi parte.

Lunedì, quando arriveranno i risultati delle vostre elezioni (tardi, perché qui il regime turco tuiene congelate le schede per una notte) e tutti voi commenterete animatamente nei vostri bar e nei vostri talkshow i “risultati”, due o tre ragazzi apriranno, come ogni giorno, il portone di ferro (coi buchi delle pallottole ricoperti alla meglio) del capannone del Gapa, a San Cristoforo. È il quartiere di Santapaola, dove il candidato buono è andato a sfidare, con noi intorno, il candidato nostalgico dei clan: è uscito sui giornali e in tv, com’era giusto. Nessun giornale e nessuna tv parlerà della ragazza che anche stavolta sarà andata lì,a fare il doposcuola ai bambini poveri del quartiere o a organizzare i senzacasa o a raccogliere i soldi per fare il “Giardino di Scidà”. Ma ce ne sono tanti così, di ragazze e ragazzi come lei. Io a volte sbaglio i nomi, e chiamo per errore – sono vecchio – Rosalba quella che invece si chiama Ivana, e Ivana è quella di oggi, e Rosalba quella di vent’anni fa. I visi si confondono, ma i gesti e i sorrisi sono gli stessi. E anche quella piccola piega ostinata, ironica e lieve, all’angolo della bocca che fa “Forza ragazzi, cominciamo”. E questo, elezioni o non elezioni, è il mio partito.

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

Sicilia sprecona e parassitaria, ma è proprio così?

Baccei conferma: lo Stato ruba 7 miliardi all’anno ai Siciliani, scrive il 22 maggio 2016 "I Nuovi Vespri". Questa domenica ci ha riservato una bella sorpresa. Incalzato da un bravo giornalista, l’assessore all’Economia quantifica in maniera corretta gli scippi delle imposte che spetterebbero alla Sicilia. Il tutto pubblicato da l’Espresso…Che dire? Meglio tardi che mai, forse. Cominciamo ribadendo che in quelle occasioni in cui lo abbiamo incontrato, nel corso di rarissime conferenze stampa, non lo ha mai ammesso. E neanche lo ha fatto nell’Aula dell’Assemblea regionale siciliana. Al contrario, ha sempre tentato di ridimensionare la questione e ridurla a poche centinaia di milioni di euro. Adesso, finalmente, anche lui dice la verità. Parliamo di Alessandro Baccei, l’assessore regionale all’Economia inviato a Palermo da Palazzo Chigi. Che nel corso di una intervista a l’Espresso in edicola oggi, ammette che l’IVA e l’IRPEF che spetterebbero per Statuto ai Siciliani, ma che lo Stato (illegittimamente) trattiene “valgono per la Sicilia circa 7 miliardi di imposte in meno”. Ecco spiegata la crisi di liquidità della Regione siciliana e le misure draconiane cui sono sottoposti tutti i settori dell’amministrazione pubblica: dalla sanità, ai Comuni e quindi a tutti i servizi per i cittadini. Urrah, ci verrebbe da urlare. Finalmente un po’ di verità. Che poi a questa verità contribuisca anche Baccei, è già una notizia. Va da sé che trattandosi di un assessore inviato da Roma non farà nulla per sanare questa pesantissima ingiustizia che costa alla Sicilia una crisi di liquidità mai vista prima. A meno, certo, di clamorose sorprese. Cosa lo ha spinto a fare questo outing? Illuminato sulla via di Damasco? Ha studiato le carte? Non si è sentito di raccontare cose false ad un giornalista bravo, preparato e onesto intellettualmente come Giuseppe Oddo che scrive per una testata importante? Sia quel che sia, è una vittoria per tutti quei Siciliani che da tempo si battono per ristabilire una verità e che per questo sono stati anche scherniti da certa pubblicistica asservita e superficiale. Nell’articolo si parla anche del contributo alla finanza pubblica che dà la Sicilia: “Questo contributo- scrive Oddo – nel 2015 ha sfiorato 1.3 miliardi di Euro ed è stato il secondo dopo quello della Lombardia che però ha un PIL notevolmente più grande”. “Con una mano – scrive il giornalista – lo Stato concorre alla spesa sanitaria con 2,4 miliardi di euro l’anno alla Sicilia, e con l’altra se ne riprende il triplo”. In tema di stampa, certamente da segnalare questo scatto in avanti de l’Espresso e del già citato Giuseppe Oddo. Che, per redigere il suo articolo, ha studiato le carte, letto le reprimende della Corte dei Conti Siciliana sui trattenimenti illeciti dello Stato (di cui vi abbiamo parlato spessissimo in solitudine, qui ad esempio) e scritto con grande onestà intellettuale.

La Corte dei Conti conferma i furti dello Stato. E i politici stanno a guardare…, scrive il 15 aprile 2016 "I Nuovi Vespri". Ieri, in audizione all’Ars, i magistrati contabili parlando del caos delle Province, sono tornati a puntare il dito contro il mancato trasferimento di tributi che spetterebbero alla Sicilia ma che lo Stato continua a trattenere. Mentre la Regione è sull’orlo del default. Cosa dobbiamo aspettare ancora prima di vedere i politici siciliani difendere gli interessi di questa terra? Arriva l’ennesima conferma. E sempre da una fonte autorevolissima. Parliamo delle risorse che lo Stato italiano continua a scippare alla Sicilia. Una storia che va avanti da 70 anni, ma che in questi tempi di vacche magre in cui, come vi abbiamo detto qua, la Regione non ha più un soldo e lascia a secco tutti i settori pubblici (a partire dai Comuni e dalla Province fino agli enti collegati), grida vendetta. Che le cose stiano così, lo conferma come accennato, una voce non sospetta. Parliamo della Corte dei Conti Siciliana che già a dicembre aveva tuonato contro l’Agenzia delle Entrate che, unilateralmente, trattiene tributi che spetterebbero alla Sicilia e con i quali, sempre detto dai magistrati contabili, si potrebbe dare ossigeno ai Comuni e portare a termini i programmi comunitari (sappiamo che per spendere i fondi europei serve il cofinanziamento regionale e statale). Qui potete leggere la deliberazione cui facciamo riferimento. Dopo una denuncia così autorevole, ci saremmo aspettati la rivolta dei deputati dell’Ars, invece niente. Va da sé che non si ribella neanche il Governo regionale che, di fatto, lavora per compiacere il Governo nazionale e il Pd e quindi assiste imbelle a questi scippi in danno dei Siciliani. Ebbene, ieri, la Corte dei Conti ha ribadito il concetto fornendo i numeri. Lo ha fatto davanti alla Prima Commissione dell’Ars parlando delle Province. I magistrati contabili hanno, ovviamente, puntato il dito contro il ritardo della Regione siciliana nell’attuazione della riforma sugli enti intermedi. E’ sotto gli occhi di tutti e lo leggiamo sulle cronache da due anni a questa parte. Tra le peggiori criticità “particolare importanza assume la definizione dei criteri per la riallocazione delle funzioni e delle risorse finanziarie, umane e strumentali, nonché la ricognizione delle entrate e delle spese necessarie allo svolgimento delle funzioni attribuite agli enti di area vasta”. Insomma, la politica schizofrenica ha prodotto come unico risultato confusione su funzioni importanti, e, ciliegina sulla torta, solo incertezza sul futuro dei dipendenti delle Province che difficilmente potranno essere assorbiti dai Comuni già alle prese con la questione precari. Fin qui tutto noto. Quello che ha una importanza rilevante e che, come detto, la Corte dei Conti aveva già denunciato a Dicembre, è quanto segue: “Le riscossioni delle entrate da trasferimenti statali – hanno ribadito ieri i magistrati contabili all’Ars – passano, nel quadriennio 2011/2014, da 184,3 milioni di euro a 7,2 milioni di euro nel 2014 (-96%)”. Non si tratta di tagli, come verrebbe da pensare. Sono entrate tributarie che spettano alla Sicilia ma che vengono fagocitate, attraverso l’Agenzia delle Entrate, dallo Stato che dovrebbe trasferirli alla Regione ma non lo fa. Non si tratta di tagli, sono furti. E il bello è- si fa per dire- che i politici siciliani, mentre la Sicilia muore pur avendo in teoria le risorse per sopravvivere, stanno a guardare. Vero è che ieri il capogruppo di Forza Italia, Marco Falcone, in un comunicato, ha esortato l’esecutivo regionale a definire le trattative con Roma, paventando il rischio di insubordinazioni sociali.

Ma non basta un comunicato. E non basta un deputato. Una trattativa è fata da due parti che pongono condizioni. La Sicilia, ad esempio, è la piattaforma energetica d’Italia: chiudete i rubinetti energetici siciliani e forse Roma ci ascolterà. Ma per fare questo servirebbe un Governo siciliano al servizio dei Siciliani. Che non c’è.

Sicilia, un bilancio lacrime e sangue. Eppure Palermo dà allo Stato più di quanto riceve, scrive il 26/05/2016 TP24 ed Il Mattino di Sicilia. Il nuovo numero de L'Espresso (che da questa settimana diventa supplemento di Repubblica) si occupa molto della Sicilia.  “Tagli ai servizi, ai dipendenti alle pensioni. Oggi si tenta di rimediare a decenni di spese senza freni. Eppure Palermo dà allo Stato più di quanto riceve”, scrive in un articolo Giuseppe Oddo, che definisce quello della Sicilia "un bilancio di lacrime e sangue”.  L’Espresso sostiene che il presidente Crocetta sia di fatto “commissariato” dall’assessore all’Economia, Alessandro Baccei “il toscano gradito a Palazzo Chigi”.  Oddo ricorda le valutazioni della Corte dei Conti siciliana sul contributo che la Sicilia dà allo Stato per il risanamento della finanza pubblica, all’origine della crisi di liquidità: “Questo contributo – scrive Oddo – nel 2015 ha sfiorato 1.3 miliardi di euro ed è stato il secondo dopo quello della Lombardia che però ha un Pil notevolmente più grande”. “Sul fronte fiscale la Sicilia sconta problemi non risolti che ne deprimono le entrate – sostiene L’Espresso –, come l’Iva che dovrebbe essere assegnata per intero alla Sicilia, che invece ottiene a solo quella riscossa dalle imprese che hanno sede nell’Isola. Basta avere una sede legale fuori dall’Isola e le risorse destinate all’Isola svaniscono. In Sicilia si vendono i prodotti e l’imposta viene versata altrove”. “La Regione ci rimette circa 3 miliardi su 5” scrive Oddo. L’analisi continua con l’Irpef che spetterebbe alla Sicilia ma viene intascata dallo Stato. “Queste due violazioni statutarie, ovvero i minori incassi di Iva e Irpef valgono per la Sicilia circa 7 miliardi di imposte in meno”, riconosce l’assessore all’Economia Baccei. Oddo intervista anche Massimo Costa, docente di economia e leader degli indipendentisti. “L’Autonomia siciliana applicata in maniera distorta è un handicap più che un vantaggio, perché la Regione Siciliana può contare su un livello di entrate inferiore a quello cui avrebbe diritto ed è massacrata dal contributo alla finanza pubblica sproporzionato rispetto alle sue condizioni economiche”. Le conclusioni di Oddo: “Con una mano lo Stato concorre alla spesa sanitaria con 2,4 miliardi di euro l’anno, e con l’altra se ne riprende il triplo”.

Ecco l'articolo: Il governo Crocetta per tentare di bloccare l’emorragia ­finanziaria del bilancio regionale stringe i cordoni della spesa, riduce i ­finanziamenti per i servizi ai siciliani, taglia i dipendenti. E il governatore sembra un fantasma davanti alle decisioni da prendere, tanto da apparire “commissariato” dai toscani sulla politica economica. Nella scorsa legislatura, durante gli ultimi sussulti della giunta di Raffaele Lombardo, la Regione siciliana rischiò l’insolvenza per una crisi di liquidità. Rispetto ad allora i numeri sono cambiati. Il bilancio consuntivo del 2015 registra un avanzo di circa 150 milioni a fronte di entrate correnti per 11,3 miliardi e di spese sanitarie per 6,3 miliardi. Rispetto al defi­cit di 2 miliardi dell’anno precedente, è un’inversione di tendenza. È il primo risultato di un percorso di risanamento avviato nel novembre 2014 con l’inserimento nella giunta Crocetta di un assessore all’Economia gradito a Palazzo Chigi: il fi­orentino Alessandro Baccei. Da allora è cominciata una politica di aggressione alla spesa di cui già s’intravedono, a livello contabile, i primi effetti. I risparmi, in parte attesi in parte da conseguire, riguardano diversi ambiti dell’amministrazione. Primo fra tutti, il personale diretto, che tra il 2015 e il 2020 sarà sfoltito con il prepensionamento di 4.500 unità: un cambio di passo per una Regione che occupa 15mila dipendenti ed ha in carico 17mila pensionati, 24mila forestali, 20mila precari, 6mila lavoratori socialmente utili, 8mila formatori, senza contare gli addetti alle partecipate (altri 6mila), agli enti controllati (altri 5mila) e via elencando. Nello stesso tempo, il sistema di calcolo pensionistico degli impiegati regionali è stato allineato a quello statale. Dal primo gennaio 2017, i pensionati di Palazzo dei Normanni non andranno più in quiescenza con l’ultimo stipendio maggiorato del 20%, ma con il 90% dell’ultima busta paga, che scenderà all’85% nel 2020. La Regione, che oggi spende circa 700 milioni in pensioni (una cifra che supera il valore degli stipendi), ne trarrà un bene­ficio consistente. Nel 2015 sono stati inoltre cancellati dal bilancio residui attivi (crediti accertati, ma non riscossi) per 5,3 miliardi e ne sono stati imputati per altri 5,5 miliardi ai bilanci ­no al 2017. I residui attivi hanno permesso alla Regione siciliana (e ad altri enti quali Lazio e Campania) di gonfi­are regolarmente le entrate e di registrare a bilancio crediti inesigibili a copertura di incrementi di spesa altrimenti non giustifi­cabili. L’attitudine a gon­fiare le spese, per foraggiare settori clientelari come la formazione professionale e i forestali, ha raggiunto il massimo nella passata legislatura con l’iscrizione alle entrate previsionali di 930 milioni che la Regione avrebbe dovuto ricavare dalla dismissione di immobili in base a valutazioni irrealistiche. La vendita non è mai avvenuta, ma l’avere riportato la somma nel bilancio di previsione ha autorizzato un’uscita equivalente, creando nuovo deficit. L’altro strumento per aumentare la spesa e ripianare i disavanzi è stato l’indebitamento. Il ricorso al debito è cominciato nella seconda metà degli anni ’90 ed è proseguito senza interruzioni negli anni Duemila. Mentre i governi nazionali si allineavano ai parametri europei, attuando politiche di rientro del debito, la Regione ha accresciuto l’esposizione e ha accumulato interessi passivi. L’illiquidità di cassa è divenuto un fenomeno ricorrente, fi­nché non è esplosa in modo virulento nell’estate 2012, rischiando di far collassare la Sicilia. Dice Baccei: «Oggi abbiamo smesso di autorizzare spese prive di entrate, che creavano indebitamento e mandavano in sofferenza la cassa. Lo scorso anno abbiamo utilizzato 700 milioni dei fondi sviluppo e coesione per coprire spesa corrente, ma dal 2016 questi soldi sono stati restituiti agli investimenti per fare strade, contrastare il dissesto idrogeologico, sostenere il turismo e i beni culturali». Nonostante questi innegabili passi avanti, la Corte dei Conti segnalava tuttavia, ancora nel 2015, come gli andamenti delle giacenze di cassa rendessero problematica in prospettiva la situazione di liquidità della Regione. E indicava due cause: la ‑flessione delle entrate fiscali in seguito alla recessione e la loro erosione per il contributo dovuto dalla Regione allo Stato per concorrere al risanamento dei conti pubblici nazionali. Questo contributo nel 2015 ha s­fiorato gli 1,3 miliardi ed è stato il secondo dopo quello della Lombardia, che ha però un pil notevolmente più grande di quello della Sicilia. Regioni altrettanto grandi come Lazio, Campania e Piemonte o più ricche come Emilia Romagna, Toscana e Veneto versano cifre decisamente inferiori. Sul fronte ­scale la Sicilia sconta inoltre problemi non risolti che ne deprimono le entrate e che svuotano di contenuto lo statuto autonomistico. Il primo è legato all’imposta sul valore aggiunto: il fisco riconosce alla Regione solo l’Iva riscossa dalle imprese che hanno sede legale in Sicilia, mentre le imprese che, pur vendendo i loro prodotti in Sicilia, hanno sede nel continente versano l’imposta allo Stato. La Regione ci rimette con questo sistema circa 3 miliardi su 5. Il secondo problema è legato al sostituto d’imposta: il server che elabora le buste paga dei dipendenti statali e dei pensionati Inps residenti in Sicilia è stato spostato a Latina. Una quota rilevante dell’Irpef maturata in Sicilia, che spetterebbe per statuto alla Regione, è pertanto trattenuta dallo Stato. Queste due violazioni statutarie, ovvero i minori incassi da Iva e Irpef, «valgono per la Sicilia circa 7 miliardi di imposte in meno», spiega Baccei. Con quale risultato è presto detto: le entrate tributarie pro-capite dell’Isola sono nell’ordine di 2 mila euro, pari a quelle di una Regione a statuto ordinario, contro i 4 mila della Sardegna, i 6 mila del Friuli, gli 8mila delle province autonome di Trento e Bolzano e i 9mila della Valle d’Aosta. «La Sicilia spende peggio di altre Regioni, non di più», prosegue Baccei. Piuttosto che investire in infrastrutture, servizi, ciclo dei ri­fiuti, cultura, conservazione delle opere d’arte sperpera il denaro in attività improduttive e mantiene un esercito di dipendenti. Ma quello della spesa è un enorme problema di qualità, non di quantità. Spiega Massimo Costa, professore di Economia aziendale dell’università di Palermo e leader del movimento Siciliani liberi: «L’autonomia speciale applicata in modo distorto è un handicap più che un vantaggio, perché la Regione siciliana può contare su un livello di entrate inferiore a quello cui avrebbe diritto ed è massacrata da un contributo alla fi­nanza pubblica sproporzionato rispetto alle sue condizioni economico- sociali. Per di più espleta funzioni che nelle Regioni ordinarie sono a carico dello Stato». Con una mano lo Stato concorre alla spesa sanitaria dei siciliani, trasferendo alla Regione 2,4 miliardi l’anno, e con l’altra se ne riprende il triplo trattenendo per sé imposte che spetterebbero alla Sicilia. Per rimediare, il governo ha avviato l’iter per la revisione delle norme attuative dello statuto, ma con un’operazione a somma zero: il trasferimento alla Regione di imposte trattenute dallo Stato per un valore di 1,4 miliardi, in cambio di tagli di importo analogo nel bilancio regionale. La verità è che le aperture del governo Renzi in materia di enti regionali e locali sembrano contraddette dalla modi­ca del comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione dove si afferma che «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale ». Costa individua in questa formulazione una clausola di supremazia che consentirebbe alla Stato (se gli italiani votassero Sì al referendum costituzionale di ottobre) di riprendersi competenze trasferite alle Regioni con deliberazione della Camera a maggioranza semplice. Una clausola in linea con la visione centralistica dello Stato manifestata da Renzi, che depotenzia in modo defi­nitivo le Regioni autonome a statuto speciale come quella siciliana, trasformandole in gusci vuoti. 

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

«Tuo cugino forse è mafioso dunque tu sei impresentabile». I ragionamenti di Claudio Fava e la caccia alle streghe, scrive Davide Varì il 2 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Da quando la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi ha annunciato che no, stavolta la black list degli impresentabili siciliani non arriverà in tempo per le elezioni del 5 novembre, sull’isola si è ufficialmente aperta la stagione della caccia alla parentela mafiosa. L’obiettivo è quello di delegittimare e screditare il più possibile gli avversari accusandoli di aver imbarcato nelle proprie liste boss, vice- boss, semplici affiliati o, quando proprio non si trova niente di meglio, amici e parenti di mafiosi. E tra i cacciatori di taglie più attivi c’è Claudio Fava, candidato governatore della sinistra. L’ultima rivelazione del vicepresidente dell’Antimafia, che evidentemente ha spulciato come un segugio i casellari giudiziari di mezza Sicilia, riguarda la lista del candidato grillino Giancarlo Cancelleri. Tra le fila di quest’ultimo si sarebbe infatti insinuato il cugino di un boss: «Nella lista di Palermo dei 5stelle è candidato Giacomo Li Destri, cugino di primo grado dell’omonimo Giacomo Li Destri, sotto processo per associazione a delinquere di stampo mafioso e ritenuto referente di Cosa Nostra a Caltavuturo», ha infatti denunciato Fava che poi ha sentenziato: «Si tratta di una candidatura inopportuna politicamente e moralmente». Che poi il Li Destri sia ancora sotto processo e dunque sia un boss soltanto presunto, è questione di lana caprina che a Fava interessa assai poco. Come del resto non gli interessa che il candidato non è il Li Destri” presunto boss, ma il Li Destri” cugino. Del resto la trovata del cosiddetto reato di parentela mafiosa non è certo cosa recente. Da Napoli in giù, non c’è elezione in cui l’albero genealogico dei candidati non venga sezionato, tanto da diventare parte integrante del curriculum dell’aspirante onorevole. E non importa che la Cassazione e i Tar di mezza Italia abbiano negato qualsiasi consequezialità nel rapporto di parentela tra un candidato e il parente mafioso o presunto tale, la battaglia sul reato di parentela prosegue senza sconti. Insomma, gran parte della campagna elettorale siciliana non si gioca sull’economia di una delle regioni più povere d’Europa, né sui cavalcavia che crollano come castelli di sabbia o sulle ferrovie anteguerra. Nulla di tutto questo: il cuore dello scontro si ha sui cosiddetti impresentabili. Tanto che per attaccare il candidato del centrodestra Nello Musumeci, il dem Fabrizio Micari ha addirittura scomodato Goethe: «Musumeci si è venduto l’anima al diavolo come il dottor Faust. Si è accollato gli impresentabili pur di provare a farcela. Ha persino detto di aver saputo degli impresentabili dai giornali… sì, evidentemente dalle pagine di cronaca nera». Ma l’ultima parola, almeno fino a oggi, se l’è presa Totò Cuffaro il quale è l’unico che parla di politica: «Meno male che mi hanno interdetto il diritto di voto, vedere il Leghista Salvini che spadroneggia in Sicilia mi fa ribollire il sangue».

Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:

a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;

b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;

c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.

Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni. 

Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.

Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.

Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.

Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”. 

Ingroia indagato a Palermo per peculato: "rimborsi non dovuti". Interrogato in procura, i reati contestati sarebbero stati commessi in qualità di amministratore di Sicilia e-Servizi. Indagine sull'indennità di risultato da 117 mila euro che l'ex pm si è liquidata. La replica: "Non ho nulla da rimproverarmi", scrive il 7 marzo 2017 "La Repubblica". L'ex pm di Palermo Antonio Ingroia è indagato per peculato. L'ex magistrato, ora amministratore della società regionale Sicilia e servizi, è stato interrogato questa mattina, in procura. Secondo l'accusa avrebbe percepito, indebitamente, una serie di rimborsi per trasferte, proprio nella qualità di amministratore della società regionale. Sotto inchiesta, inoltre, è finita anche l'indennità di risultato che Ingroia si è liquidato. La Procura mantiene il più stretto riserbo sul caso. L'indagine, coordinata dall'aggiunto Dino Petralia e dai pubblici ministeri Piero Padova ed Enrico Bologna, prende in esame il periodo compreso tra il 2014 e il 2016. Secondo gli inquirenti, Ingroia avrebbe intascato rimborsi per trasferte per 30 mila euro comprensivi dei trasporti e delle spese di vitto e alloggio, nonostante fossero rimborsabili solo i soldi spesi per il viaggio. L'ex magistrato, assistito dall'avvocato Mario Serio, si è difeso sostenendo che la norma che disciplina i rimborsi comprende non solo il trasporto, ma anche le altre spese di viaggio. Più complessa è la contestazione relativa alla liquidazione dell'indennità di risultato. Secondo l'accusa a fronte di un utile di 33 mila euro, l'amministratore di Sicilia e servizi si sarebbe liquidato un'indennità di 117 mila euro: somma che avrebbe comportato per la società un deficit di bilancio. L'indennità di risultato, dal 2008, ha una nuova disciplina che prevede la liquidazione delle somme solo in presenza di utili e comunque in misura non superiore al doppio del cosiddetto compenso omnicomprensivo. La previsione legislativa renderebbe indebito, a fronte di un utile di 33 mila euro un compenso di 117 mila.

Ingroia: "Sempre agito nel rispetto delle leggi". L'ex pm, in lunga nota, ribatte alle accuse. "In merito all'indagine della procura di Palermo sui miei compensi come amministratore di Sicilia e-servizi, preciso che si tratta di una vicenda vecchia, che avevo già ampiamente chiarito a suo tempo in sede giornalistica, dal momento che a sollevare il caso fu un articolo del settimanale L'Espresso del febbraio 2015 in cui erano riportate cifre inesatte e notizie incomplete. Questa indagine mi consente comunque di sgomberare una volta e per tutte, anche in sede giudiziaria, il campo da ogni equivoco, sospetto e maldicenza su una storia totalmente infondata". "Oggi - aggiunge - sono stato convocato in procura a Palermo per dare spiegazioni e ho fatto presente ai magistrati il mio stupore perchè la contestazione nei miei confronti si basa su una legge del 2006 abrogata nel 2008 dalla legge n. 133 (Art. 61, Comma 12). Per quanto riguarda in particolare il cosiddetto premio di indennità da risultato, si tratta di un riconoscimento previsto dalla legge in caso di raggiungimento di determinati obiettivi e serve a integrare una indennità certamente non commisurata alle grandi responsabilità in capo all'amministratore di una società come Sicilia e-Servizi, che gestisce svariate decine di milioni di euro ogni anno". Inoltre, continua Ingroia, "Va puntualizzato che il diritto all'indennità non me la sono certamente attribuita io ma mi è stata riconosciuta dall'assemblea dei soci e segnatamente dalla Regione Sicilia. Per quanto riguarda invece il capitolo relativo alle spese di viaggio da me sostenute, ricordo solo che all'atto della mia nomina come amministratore unico di Sicilia e-Servizi ero già residente a Roma da tempo e che la legge prevede, in caso di nomina di professionisti residenti fuori sede, il rimborso delle spese di viaggio, ossia trasporto, vitto e alloggio, così confermato da più pronunce della Corte dei conti. Spese tra l'altro contenute, come ho avuto modo di dimostrare alla procura, sulla base di un regolamento dei rimborsi spese che io per la prima volta ho introdotto a Sicilia e-Servizi. Detto questo, rivendico con orgoglio i risultati raggiunti alla guida di Sicilia e-Servizi, avendo salvato nel 2013 la società dal baratro del fallimento e avendo così salvato sia i servizi informatici per i siciliani che i posti di lavoro dei dipendenti". "Restano lo stupore e l'amarezza - conclude Ingroia - per questa contestazione fondata su leggi non più in vigore già al tempo dei fatti e, in più, nel constatare che qualcuno ha dato in pasto alla stampa la notizia di questa indagine. Ma siccome sono certo del riserbo mantenuto dai magistrati sono certo che la procura di Palermo saprà agire con la stessa energia e saggezza dimostrata dalla procura di Roma dopo la fughe di notizie sull'inchiesta Consip, perchè è stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie di stampa solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura". 

Consulenze folli in Sicilia: "Dodici volte gli stipendi". La Corte dei conti denuncia le irregolarità nelle partecipate. Aperte 51 istruttorie sulla sanità, scrive Lodovica Bulian, Mercoledì 1/03/2017, su "Il Giornale". Irregolarità gestionali. Violazioni dei divieti di assunzione. Consulenze facili. Obblighi di trasparenza aggirati. Un «fenomeno grave» e una «piaga per la finanza regionale» che nemmeno scandali e cicliche ondate di indignazione riescono a curare. Il buco nero delle partecipate siciliane continua a inghiottire risorse. E nel carrozzone che si alimenta con soldi pubblici ma è sempre a secco, spesso il fine del bene comune sbiadisce negli intrecci tra affari e poltrone. Il quadro dipinto dalla procura della Corte dei Conti all'inaugurazione dell'anno giudiziario offre una bocciatura senza appello alla rete di società controllate della Regione Sicilia. Ma anche alla classe politica, ai gruppi del parlamentino a cui «manca il senso del non sono soldi miei, manca il senso dello Stato», e pure alla sanità, tra errori professionali e finanziari. L'appalto dell'ospedale di Agrigento, per esempio, è costato 12 milioni di danni. Ma è l'economia regionale la bestia nera. Nel solo 2016 la magistratura contabile ha aperto 13 istruttorie e scoperchiato un calderone da cui sono emerse «irregolarità» dovute a «risorse pubbliche impiegate per il reclutamento di personale in violazione dei divieti di assunzione e di ogni obbligo di evidenza pubblica». Dentro la giungla delle controllate non c'è solo l'ultimo caso riportato dal Giornale di Riscossione Sicilia, l'ente nato per incassare tasse ma che negli ultimi dieci anni non ne ha riscosse per 52 miliardi di euro. A proposito, perdeva 14 milioni nel 2014, ultimo bilancio pubblicato, ma con la finanziaria presentata all'Ars il governo Crocetta è pronto a iniettarci altri 42,5 milioni, oltre ai 29 già previsti per il prossimo anno. Settanta in due anni per una società che nel 2015 è stata capace di recuperare 480 milioni su 5 miliardi di tributi da riscuotere. Cifre su cui si litiga in questi giorni in commissione Bilancio. Il presidente Vincenzo Vinciullo avverte: «Manca la relazione tecnica che giustifica l'impiego di questi 42 milioni e degli altri 29. Non approveremo poste che non siano motivate e dettagliate. A che servono tutte queste somme?». Non c'è solo Riscossione, appunto. L'occhio della procura è caduto su Sicilia Immobiliare Spa, la partecipata creata nel 2006 per «valorizzare» il patrimonio pubblico della Regione. È già avviata alla liquidazione ma continua a macinare denaro dei contribuenti attraverso consulenze «che superano fino a 12 volte l'importo delle retribuzioni dei dipendenti», ha denunciato il procuratore regionale Giuseppe Aloisio. Si tratta soprattutto di legali esterni ingaggiati per l'assistenza in contenziosi accesi in gran parte contro la stessa controllante, la Regione siciliana. Un circolo vizioso di sprechi, quello dei contenziosi «instaurati dai terzi nei confronti delle società» e dei costi «per consulenze e incarichi conferiti dagli amministratori». «Convocheremo i vertici, chiederemo spiegazioni di queste consulenze e in caso invieremo gli atti in Procura», assicura Vinciullo. Intanto il virus della malagestione infetta anche la sanità. Qui le istruttorie aperte sono 51 e contengono «errori sanitari da non imputare solo al personale medico ma anche all'organizzazione delle aziende sanitarie». I problemi riguardano la fornitura di beni e servizi. Come l'appalto per la costruzione dell'ospedale di Agrigento, «realizzato con cemento depotenziato: il danno è di 12 milioni di euro».

Se in due anni i disabili in Sicilia aumentano del 130 per cento. Dopo le urla tra Pif e il governatore Crocetta, scrive Felice Cavallaro il 26 febbraio 2017 su "La Repubblica". Dopo le urla tra Pif e Rosario Crocetta, fra il regista alla guida di una truppa di disabili in carrozzella e il governatore della Sicilia, dopo le dimissioni dell’assessore alla Famiglia e il terremoto seguito all’inchiesta tv delle «Iene» sull’abbandono di chi ha diritto all’assistenza, la regione da sempre con il più alto numero di falsi invalidi rischia di guadagnare un altro ignobile primato perché da una indagine interna si scopre che, negli ultimi due anni, i portatori di gravissimi handicap sarebbero aumentati del 130 per cento. Passando da 2.203 a 3.682 casi. Con stratosferiche punte del 3.500 per cento in un paese sotto l’Etna come Giarre. E con Agrigento in testa fra i capoluoghi di provincia, visto che con 60 mila abitanti ne avrebbe 323, contro i 102 di Palermo che ha 770 mila abitanti. Inevitabile pensare a quel disabile che qualche anno fa, durante una partita di serie A, seppure inchiodato alla carrozzella che gli aveva consentito di attraversare gratuitamente tutti i varchi di sicurezza, piazzandosi col suo accompagnatore a bordo del prato della Favorita, schizzò su per miracolo saltando di gioia al primo gol del Palermo. Eloquente istantanea di una furbizia meridionale da macchietta cinematografica. La stessa scoperta proprio da Crocetta, dopo avere dimissionato l’assessore beccato dalle «Iene», Gianluca Micciché, insediandosi al suo posto come assessore pro tempore. Immediata una ricognizione fra burocrati allarmati. Clamorosa la denuncia rivelata da Crocetta ieri mattina davanti al ministro della Salute Beatrice Lorenzin mentre stavano celebrando i 110 anni della più antica casa di cura italiana, la «Candela» di Palermo. Da una parte, gli elogi a una struttura privata con un’attività di servizio pubblico definita eccellente. Dall’altra, il disastro delle cifre. A Licata, con 61 mila abitanti, ci sarebbero 144 disabili con necessità di assistenza continua, cioè 42 in più di Palermo dove il fenomeno è tenuto sotto costante controllo dal direttore dell’Azienda sanitaria Antonio Candela, non a caso più volte minacciato, ma recentemente premiato per questo al Quirinale dal presidente Mattarella. Si impone così un monitoraggio stretto, «modello Palermo» come dice il sindaco Leoluca Orlando, e come ribadisce il ministro Lorenzin: «Siamo in sintonia con la Regione. In questo campo non si possono distogliere risorse». Come Crocetta pensa sia accaduto: «Forse in tanti comuni si pensa più alle cooperative che devono espletare i servizi e meno ai veri sfortunati che hanno bisogno di assistenza».

Forestali, finti malati e vitalizi. Ecco l'isola del Bengodi. I 23mila agenti costano 250 milioni, quanti abusi sui permessi. E i politici in pensione pesano per 18 milioni, scrive Angelo Amante, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". Non solo la libertà di non pagare tasse per cinquantadue miliardi di euro come svelato ieri dal Giornale, ma un intero sistema di illegalità e compiacenze, che fa della Sicilia un'isola del Bengodi. Con soldi pubblici. E naturalmente a vantaggio dei furbetti con un santo in paradiso. I più noti tra questi sono i ventitremila forestali, arruolati periodicamente da politici a caccia di voti. Secondo una relazione presentata dalla Corte dei conti regionale, costano 250 milioni di euro l'anno. Non basta. A causa di un accordo sindacale, dal 2002 a oggi seimila addetti all'antincendio si sono visti rimborsare trasferte, anche di pochi chilometri, per ulteriori 40 milioni. La macchina pubblica è elefantiaca, malgrado la riduzione dei costi raggiunta grazie a una pioggia di pensionamenti. Nel 2016 la Regione ha speso quasi 600 milioni di euro per gli stipendi del personale, cento in meno dell'anno prima. Ciò nonostante, la cifra rimane sei volte superiore a quella sborsata dalla Lombardia. La Sicilia è anche terra di malati immaginari. I più cagionevoli di salute sono gli agrigentini, capaci di denunciare le più svariate patologie, dai problemi di udito fino al diabete, allo scopo di ottenere i benefici della legge 104. Sono centinaia di insegnanti e bidelli, desiderosi di assicurarsi un posto di lavoro vicino casa. E ci riuscivano, con l'aiuto di medici compiacenti oggi finiti sotto indagine. Il sistema di smaltimento dei rifiuti fotografa meglio di tutti il legame tra sprechi e malaffare nella regione governata da Rosario Crocetta. Quindici miliardi buttati dal 2002 a oggi, senza trovare soluzioni alternative alle discariche. Una differenziata pressoché inesistente (al dodici per cento) e l'assenza di termovalorizzatori portano nelle tasche degli imprenditori del pattume 800 milioni l'anno. Il risultato, nonostante i siciliani paghino cifre astronomiche per la gestione dell'immondizia, è il collasso del sistema. Sacchi neri per le strade, impianti stracolmi e l'ombra della mafia che avrebbe imposto assunzioni alle ditte. Le mani di Cosa nostra si allungano anche sulla società che operano nella rete idrica. Lo scorso anno la Dda di Palermo ha messo nel mirino la Girgenti Acque, attiva nel territorio di Agrigento. Anche in questo caso, l'illegalità si sarebbe accompagnata a un sistema di assunzioni in cambio di voti. Un capitolo a parte è lo scandalo formazione professionale. Gli enti sorti in tutta l'isola avrebbero utilizzato fondi regionali per 200 milioni di euro a scopo privato. Soldi dei cittadini finiti in automobili, gioielli e orologi. La politica pura, quella dei palazzi, non si comporta meglio delle amministrazioni che governa. La Sicilia spende 18 milioni l'anno per pagare i vitalizi agli ex deputati regionali e le pensioni di reversibilità ai parenti. È una cifra più alta di quella necessaria a saldare gli stipendi annuali dei componenti dell'assemblea. Esponenti di tutti i partiti sono stati condannati dalla Corte dei conti a restituire soldi pubblici scialacquati negli anni trascorsi a Palazzo dei Normanni. L'ultimo in ordine di tempo è Francesco Musotto, ex capogruppo del Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo, che dovrà restituire 589mila euro. Completano il quadro le spese per l'acquisto di «materiale informatico e tecnico» nel 2016. La Sicilia ha speso in penne e matite 1,7 milioni di euro, contro i 112 mila della Lombardia e i 640 mila della Campania.

La Sicilia degli sprechi. Ars, diciotto milioni per le pensioni. Sette vanno agli eredi dei deputati. La spesa annuale per la reversibilità. Tra i beneficiari anche figli e vedove di nove parlamentari della prima legislatura e onorevoli rimasti in carica poche ore, scrive Emanuele Lauria l'8 gennaio 2017 su "La Repubblica". Quella spesa è una delle voci fisse del bilancio dell’Ars. Perenne, immutabile. Circa diciotto milioni di euro annui che, senza sensibili variazioni, nell’ultimo lustro sono andati via per pagare i vitalizi agli ex deputati e le pensioni di reversibilità a parenti di onorevoli scomparsi. Una somma superiore a quella degli stipendi per i parlamentari in carica. A perpetuarsi è un sistema di favore che premia gli eredi di esponenti politici, a volte semisconosciuti, che hanno militato fra i banchi di Sala d’Ercole persino nell’immediato Dopoguerra. Proprio quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della prima seduta dell’Ars: a nove parenti di deputati presenti quel giorno l’amministrazione di Palazzo dei Normanni paga ancora una pensione. Chi sono? Una pensione da circa tremila euro al mese va alla figlia di Ignazio Adamo, un marsalese eletto per il Blocco del popolo e all’Ars sino al 1955. Anna Maria Cacciola è invece la discendente in linea diretta di Natale Cacciola, che nacque in provincia di Messina prima del terremoto e nel ’47 si candidò per il Partito monarchico: grazie all’esperienza in Parlamento del papà (durata quattro anni in tutto), la signora Cacciola percepisce ancora un vitalizio da oltre duemila euro al mese. E chi si ricorda di Elios Costa, altro esponente trapanese del Blocco del popolo che subito dopo la guerra sbarcò all’Ars grazie a 14mila voti di preferenza? Se ne rammenta di certo la Ragioneria dell’Assemblea, che alla vedova versa ogni mese una pensione da 2.500 euro. Un altro pioniere fra i comunisti all’Ars fu Pietro Di Cara, che rimase in Parlamento dal 1947 al ’55 e in quel periodo fu pure segretario della Camera del Lavoro di Messina: la vedova è tuttora titolare di un assegno di reversibilità. Francesco Lanza di Scalea era invece un esponente del blocco liberale democratico qualunquista: a Sala d’Ercole stette appena tre anni. Un mandato che tuttora vale una pensione da duemila euro per la moglie. Stesso beneficio per la vedova di Michele Semeraro, altro frequentatore della prima legislatura dell’Ars (adesso siamo alla sedicesima) che rappresentava il Blocco del popolo. Carneadi e nomi noti della politica siciliani si alternano, nell’elenco dei percettori della pensione di reversibilità all’Ars: un assegno va anche al figlio di Giuseppe Alessi, il primo presidente della Regione siciliana, e alla vedova di Pompeo Colajanni, storica figura di partigiano e antifascista, che in Assemblea è rimasto per sei legislature, ricoprendo anche la carica di vicepresidente. Fra i beneficiari pure la moglie di Giuseppe D’Angelo, esponente della Dc che nel primo governo Alessi fu assessore all’Alimentazione e che all’Ars è rimasto fino al 1967 (ricoprendo anche l’incarico di presidente della Regione). La lista degli assegni di reversibilità comprende 130 nomi di beneficiari, undici in più di quelli che comparivano due anni fa. Il costo? Ogni mese 590mila euro, circa sette milioni l’anno. Sono invece 180 gli ex onorevoli ancora in vita che sono titolari di vitalizi “diretti”, per una spesa complessiva di quasi 882mila euro al mese, oltre dieci milioni di euro l’anno. Fra questi, anche parlamentari che sono passati dalle parti di Palazzo dei Normanni per poche settimane. È il caso di Salvatore Caltagirone, esponente di Alleanza nazionale che il 12 aprile del 2001 subentrò al collega Pippo Scalia e si fece giusto uno scampolo di legislatura: cinque sedute in tutto prima delle elezioni che ancor oggi gli fruttano un vitalizio da circa tremila euro. Il caso limite è quello di Franco Bisignano, che all’Ars neanche ci mise piede. Si candidò nel 1976 con il Movimento sociale, fu il primo dei non eletti. Bisignano però non si arrese: iniziò a farsi chiamare “onorevole” (anche se era soltanto sindaco del minuscolo comune di Furnari) e cominciò una guerra a colpi di carta bollata contro Antonino Fede, eletto al suo posto ma non residente in Sicilia. Alla fine, nel 1996, il tribunale gli diede ragione: solo che la legislatura si era conclusa da “appena” 15 anni. Poco male però: a Bisignano vennero concessi comunque la liquidazione e il vitalizio, che dopo la morte è passato alla vedova.

Vitalizi d’oro ai deputati siciliani. Reversibilità in eterno ai familiari. Assegno alla figlia di Alessi, primo presidente nel ’47, vissuto 103 anni, scrive Giovanni Rossi l'8 gennaio 2017 su "Quotidiano.net". Non sarà etica – o forse sì, dipende dai punti di vista – ma di sicuro garantisce assegni poderosi la criticatissima legislazione della Regione Sicilia su vitalizi e pensioni di reversibilità destinati agli ex deputati regionali o ai loro fortunati eredi.  Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre (elaborati dall’Agi), il conto annuale dell’erogazione previdenziale – generoso parto di uno Statuto speciale che attribuisce ai consiglieri regionali lo status di «deputati» – ammonta infatti a 18 milioni di euro: quasi un milione e mezzo al mese di risorse pubbliche che l’Ars (l’Assemblea regionale siciliana) trasferisce sui conti correnti di 310 esponenti della politica regionale – peraltro non sempre usciti di scena – o loro familiari. Nel dettaglio, il bengodi previdenziale mensile ammonta a 801.407 euro per gli assegni vitalizi di 163 ex deputati (media per deputato 4.916 euro mensili). Costano 572.830 euro i 127 assegni di reversibilità garantiti agli eredi dei deputati scomparsi (media pro capite 4.510 euro mensili). Le 17 pensioni erogate con il nuovo sistema pro-rata pesano per 98.384 euro mensili (media 5,813 euro mensili). Chiudono il conto i 9.788 euro per i soli 3 assegni di reversibilità pro rata figli dell’ultima ‘sforbiciata’ legislativa (media 3.262 euro mensili). Cifre comunque impressionanti in un’Italia che arranca e che, a fronte di bilanci costi-benefici platealmente misurabili come quello siciliano, si interroga sull’opportunità e sulla credibilità di un sistema decisamente compiacente anche dopo i tagli stabiliti cinque anni fa. Il Problema dal quale non c’è uscita riguarda i diritti pregressi. Mamma Ars – dicono in Sicilia – non dimentica nessuno. E l’Agi cita l’esempio della figlia del primo presidente della Regione, Giuseppe Alessi (scomparso nel 2009 all’età di 103 anni) tuttora protetta dall’assegno paterno. Alessi fu presidente della Sicilia dal 1947 al 1949, bissò l’incarico dal 1956 al 1957, quando diventò presidente dell’Ars (fino al 1959), prima di spiccare il volo al Senato e poi alla Camera. Un personaggio-chiave della storia siciliana e italiana (il ‘provino’ del marchio Dc fu partorito nel suo studio). Che il suo impegno politico così protratto, munifico e tuttavia lontano nel tempo – oltre che già remunerato con lauta pensione fino all’età di 103 anni – possa ora beneficare un erede sotto forma di assegno di reversibilità è una vicenda limite epperò simbolica. Specie se parametrata ai dolori delle nuove generazioni. La Sicilia ha modificato la normativa previdenziale nel 2012. Stop ai vitalizi (tranne quelli precedentemente maturati) e passaggio al sistema contributivo: al compimento dei 65 anni di età, il trattamento pensionistico premierà solo il consigliere regionale – pardon, il deputato – che possa vantare almeno cinque anni all’Ars (con anticipo a 60 anni per chi ha svolto almeno due mandati). Altri punti qualificanti: introduzione di nuove cause di incumulabilità della pensione; sospensione del trattamento previdenziale quando il deputato sia rieletto all’Ars, o sia eletto al Parlamento, al Parlamento europeo o a un Consiglio regionale o ricopra specifiche cariche pubbliche; sospensione anche nei casi di condanna con interdizione dai pubblici uffici. Insomma, nella Sicilia dei notabili e della politica formato mangiatoia questa è una fase di passaggio: convivono gli assegni vitalizi integralmente maturati fino al 2011 e le nuove pensioni dirette maturate in diversa percentuale con il sistema retributivo e l’attuale sistema contributivo. A regime, le pensioni dei deputati siciliani (e le erogazioni di reversibilità) saranno tutte contributive. L’allineamento alla realtà lentamente procede.

DI…CATANIA. Femminicidio: Palazzo Chigi impugna risarcimento orfani. La presidenza del Consiglio avrebbe dovuto pagare per la condanna dei magistrati negligenti che non avevano preso in considerazione 12 denunce della donna contro il marito che poi l'ha uccisa, scrive l'1 agosto 2017 "La Repubblica". È stato un femminicidio annunciato: fu uccisa dal marito che aveva denunciato, invano, 12 volte alla procura della Repubblica di Caltagirone. I magistrati sono stati ritenuti responsabili di negligenza dal tribunale civile di Messina e la presidenza del Consiglio è stata condannata a risarcire il danno subito dagli orfani. Palazzo Chigi, però, ha appellato la sentenza. Lo rendono noto gli avvocati Alfredo Galasso e Licia D'Amico legali dei figli di Marianna Manduca, assassinata dal marito, Saverio Nolfo, nel 2007. "Si tratta di una decisione grave ed inattesa, che tende a porre nel nulla un provvedimento giudiziario che per la prima volta riconosce e punisce la responsabilità non della magistratura nel suo complesso, ma di singoli magistrati, colpevoli di una inerzia giudicata dai loro stessi colleghi ingiustificabile", dicono gli avvocati. "C'era parso - spiegano - che una corretta ed imparziale applicazione della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, recentemente riformata, avrebbe indotto il presidente del Consiglio dei ministri ad adottare una diversa e solidale decisione nei confronti di una famiglia notoriamente generosa e bisognosa come quella che ha accolto da anni i figli di Marianna Manduca". "Ma ciò che è ancor più grave - proseguono - e che ci indigna è che è nell'atto di appello è stata chiesta la sospensione dell'esecuzione della sentenza di primo grado, allo scopo di non pagare al padre adottivo Carmelo Calì il modesto risarcimento riconosciuto, in attesa dell'esito di un appello che riteniamo del tutto infondato e dilatorio". Dodici denunce per maltrattamenti, minacce e percosse non furono sufficienti a salvare la vita a Marianna Manduca. Nonostante avesse segnalato agli inquirenti anche il progetto omicida del marito, nessuno fermò la mano dell'assassinio. Dopo una lunga battaglia legale, il Tribunale civile di Messina ha condannato la presidenza del Consiglio dei ministri a risarcire 300 mila euro di danni patrimoniali ai tre figli della donna. I giudici hanno applicato la norma sulla responsabilità civile dei magistrati, ritenendo che i pm che si occuparono del caso, in servizio nella procura di Caltagirone (Catania), non fecero quanto in loro potere per evitare il femminicidio.

Sicilia, condannata la procura: non fermò in tempo l'uomo che uccise la moglie. Saverio Nolfo era stato denunciato dodici volte dalla moglie alla Procura di Caltagirone. La corte d'Appello: "Inerzia dei magistrati". Condanna a 260mila euro, scrive Manuela Modica il 13 giugno 2017 su “La Repubblica”. “Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”: con queste parole Marianna Manduca si rivolgeva alla procura di Caltagirone, poco prima di essere uccisa dal marito, Saverio Nolfo con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia. Dodici denunce cadute nel vuoto e fattesi particolarmente allarmanti negli ultimi sei mesi di vita. Quei sei mesi in cui i pm la ignorarono: “All’epoca la questione fu considerata alla stregua di una lite familiare”, commenta l’avvocato del padre adottivo dei figli di lei, Alfredo Galasso. La procura di Caltagirone (genericamente il capo dell'ufficio all’epoca dei fatti, Onofrio Lo Re, che nel frattempo è morto) è stata infatti condannata da tre giudici messinesi, due donne e un uomo, della corte d'Appello di Messina. Si tratta della presidente Caterina Mangano, Giovanna Bisignano e Mauro Mirenna, che hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria. L’azione legale di Carmelo Calì, lontano cugino della donna uccisa che ha oggi adottato i tre figli maschi (15, 13 e 12 anni) è iniziata cinque anni fa. Il processo infatti ha dovuto passare un giudizio di ammissibilità, richiesto nel caso di responsabilità dei magistrati. L’ammissibilità della richiesta era stata rifiutata dal tribunale di Messina, poi dalla corte d’Appello fino alla Cassazione che ha bocciato le corti messinesi. Solo dopo la sentenza della corte di Cassazione, dunque, che ha accolto la richiesta dei legali Alfredo Galasso e Licia D’Amico, il processo ha avuto inizio e il 7 giugno il tribunale di Messina ha depositato la sentenza riconoscendo la responsabilità negli ultimi sei mesi di vita di Marianna della magistratura. La donna aveva 35 anni quando fu uccisa da sei coltellate al petto e al torace sferrate dal marito Saverio Nolfo, all’epoca trentasettenne, adesso in carcere, condannato a vent’anni per l’omicidio. Lei era geometra e lavorava presso uno studio privato mentre lui era disoccupato e tossicodipendente. I giudici di Messina hanno riconosciuto il danno patrimoniale derivato dal fatto che i tre figli non hanno più goduto dello stipendio della madre: “Siamo parzialmente soddisfatti, ricorreremo in appello: c’è un danno morale che a Messina non è stato riconosciuto soltanto perché all’epoca la legge sulla responsabilità della magistratura era diversa ma non è un caso che sia stata modificata e che non riguardi più soltanto la limitazione della libertà personale”, ha concluso Galasso.

Denunce a perdere. Marianna Manduca e la condanna civile dei Pubblici Ministeri negligenti. 12 denunce disattese che hanno causato la morte di Marianna per mano del marito. La condanna è per responsabilità civile del Magistrato, fatto eccezionale e dopo traversie, dove a pagare sarà lo Stato e non il Magistrato, in quanto i fatti sono antecedenti all'entrata in vigore della legge sulla responsabilità civile. Lo Stato, comunque, se si si rivarrà sul suo dipendente, sarà rimborsato dall’assicurazione per responsabilità civile che i magistrati hanno stipulato per poche decine di euro annue. Assicurazione valida anche come strumento risarcitorio post riforma. Come dire: Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. 

La condanna non è per omissione d’atti di ufficio.

La condanna non è per omicidio colposo o per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale, in quanto l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (art. 40 c.p.). 

Cari giornali, fate i nomi dei condannati anche se si tratta di due pm di Catania, scrive Vincenzo Vitale il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". Le agenzie di stampa e i giornali di tutta Italia hanno riportato in questi giorni a più riprese la triste vicenda di quella donna – Marianna Manduca – uccisa dal marito, ma che inutilmente aveva denunciato, alla Procura della Repubblica, numerosi precedenti di aggressioni subite dallo stesso. Per tale motivo, i figli della donna uccisa hanno intentato causa allo Stato per ottenere un congruo risarcimento del danno per la negligenza mostrata nel caso in specie da parte di due pubblici ministeri – allora in servizio a Catania o a Caltagirone (le notizie si contraddicono) – i quali, esaminando le denunce della donna, non avevano fatto quanto necessario a dotarla di un opportuno dispositivo di sicurezza che la ponesse al sicuro dalle aggressioni del marito. E dunque, lo Stato dovrà pagare trecentomila euro ai figli e poi si potrà rivalere sui due magistrati riconosciuti responsabili dal Tribunale di Messina per tale inescusabile negligenza. La notizia suscita interesse per due motivi.

Innanzitutto, perché si tratta di una delle rarissime occasioni in cui un Tribunale riconosce la responsabilità di un magistrato (anzi di due magistrati) nell’esercizio della propria funzione: a questi esiti l’opinione pubblica è del tutta non avvezza, al punto che ormai di ricorsi per responsabilità dei giudici se ne propongono in misura sempre decrescente – prossima allo zero – temendo appunto che vengano rigettati, consacrando invece una sorta di originaria infallibilità di costoro.

Invece, da un secondo punto di vista, scandalizza davvero che nessuna agenzia di stampa o fonte giornalistica in tre giorni filati che la notizia esce a ripetizione abbia sentito il normale impulso professionale a fare i nomi di questi due pubblici ministeri: silenzio assoluto! Nessuno, dico nessuno fra gli organi di stampa li ha pubblicati o forse addirittura conosciuti: e questo sarebbe ancor più assurdo.

Ma come è possibile? Come è possibile che chi siano costoro – tanto più se, come pare, uno almeno di loro è ancora in servizio – rimanga avvolto dalla nebbia più fitta? Che si tratti di un segreto di Stato? Che ce lo dicano… E allora delle due l’una. O la stampa si autocensura, evitando di rendere pubblici i nomi dei due pubblici ministeri, per una sorta di timore non confessabile (ma timore di che cosa? Di possibili ritorsioni? Da parte di chi? E perché?); oppure opera in modo sotterraneo, ma ben percepibile dagli addetti ai lavori, una sorta di silenziosa forza intimidatrice, proveniente dal sistema giudiziario nel suo complesso, la quale mette paura a chi sia incaricato per vocazione e per obbligo deontologico – come appunto il giornalista – di dire la verità: in questo caso la verità del nome di questi due pubblici ministeri.

Questa eventualità – se fosse vera – sarebbe ancor più inquietante dell’autocensura. E allora, siccome io non credo né alla prima tesi né alla seconda, chiedo qui formalmente a tutti gli organi di stampa italiani di trattare questi due pubblici ministeri come di solito si trattano in casi del genere i sindaci, gli assessori, i primari di medicina, gli avvocati, gli stessi giornalisti e in genere tutti gli uomini normali: chiedo cioè di fare una buona volta i nomi di questi due innominati. Chi sono? Come si chiamano? Attendo.

DI…PALERMO. Sale Bingo, parenti e gamberoni. Le ombre sul candidato grillino. Palermo, nello studio di Forello lavorava il figlio della pm accusata di corruzione. Nel suo tour elettorale in vista delle comunali, Beppe Grillo è stato ieri a Palermo dove ha pranzato con il candidato a sindaco Ugo Forello, scrive Ilario Lombardo l'8/06/2017 su "La Stampa". C’è un intreccio familiare e societario a Palermo in cui ritorna sempre lo stesso cognome: Forello. È il cognome di Ugo Salvatore, il candidato sindaco del M5S a cui ieri ha portato il suo sostegno diretto Beppe Grillo, sceso per l’occasione in Sicilia. Forello, com’è noto, è stato a lungo il leader di Addiopizzo, l’associazione che si batte contro il cancro dell’estorsione mafiosa nell’isola. Ma è anche un avvocato e un imprenditore. E l’impresa, come anche la professione legale, l’ha gestita molto in famiglia. Alcuni sospetti sulle sue attività hanno portato i suoi avversari a verificare la rete societaria di Forello e a fare visure alla camera di commercio di cui La Stampa è venuta in possesso. I Forello sono tanti e tutti in affari insieme. E uno dei loro core business sono le Sale Bingo. Un settore che dovrebbe creare un certo imbarazzo a un grillino, esponente di un Movimento che da sempre si batte contro il gioco d’azzardo. Il cugino e lo zio, Giuseppe e Lorenzo Forello, gestiscono il Millionaire Bingo, a Moncalieri, provincia di Torino, una delle più grandi sale d’Europa. E a Palermo il Las Vegas Big Bingo, riaperto due anni fa dopo essere stato confiscato al clan mafioso di Nino Rotolo. Per evitare la chiusura e la perdita dei posti di lavoro scese in piazza la Cgil. Proprio in quei giorni un magistrato denunciò: «Cosa nostra ha tentato di riprendersi la sala Bingo. Solo un imprenditore è risultato avere i requisiti necessari. E con lui stiamo chiudendo la trattativa». Quell’imprenditore era Giuseppe Forello, cugino di Ugo. Ma qui è interessante soprattutto il nome del magistrato: Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo rinviata a giudizio il 25 maggio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è accusata di vari reati, tra cui la corruzione, per la gestione dei beni confiscati. Il suo nome torna in questa storia che riguarda Ugo Forello perché a lei porta lo studio del candidato grillino, Palermo Legal, un crocevia fondamentale per riprendere la strada che ritorna alle imprese di famiglia. A Palermo Legal ha lavorato Francesco Caramma, figlio di Saguto. E a fargli il colloquio è stato proprio Forello, che alla Stampa dà la sua versione dei fatti. «Ha collaborato a titolo gratuito, realizzando articoli giuridici, senza mai una cointeressenza economica». Forello è avvocato e pesa molto bene le parole. Dice che la collaborazione del figlio di Saguto è successiva ai guai della madre e di non avere «mai avuto rapporti diretti con lei sui beni confiscati». Sempre a Palermo Legal fino a poco tempo fa lavorava anche Viviana Caniglia, cugina di Forello (per parte di padre) e figlia di Mario Caniglia. Il suo nome spunta nelle carte dell’inchiesta su Saguto perché a lui il magistrato si rivolse per ottenere sei chili di ventresca e svariati gamberoni da portare a una cena. Dopo la cena, Caniglia, intercettato, espresse un desiderio a Saguto: «Non mi dispiacerebbe avere un’altra amministrazione giudiziaria». Ma Caniglia risulta anche essere socio della Siase, società del settore alberghiero, assieme a Lorenzo, Giuseppe Forello e, attraverso la Inpa spa, Ugo. I Forello insieme sono soci anche della Solfin che a sua volta partecipa alla Gea Turismo, altra società in cui rispunta la cugina-avvocatessa Viviana Caniglia e di nuovo Ugo, attraverso la Forfin, una srl aperta con il fratello Giuseppe, omonimo del cugino che si occupa di Sale Bingo. «La Forfin però non è mai entrata in quel business - spiega Forello - e nel mio programma ho inserito la lotta contro il gioco d’azzardo». Se dovesse vincere, Forello dovrebbe dunque assumere iniziative che avrebbero un effetto sulle sale bingo dello zio e del cugino di cui lui è socio in affari.  

Palermo, il presunto estorsore viene assolto: le associazioni antiracket condannate a pagare le spese. A risarcire le spese processuali anche la famiglia dell'imprenditore che denunciò le pressioni della cosca. "Siamo amareggiati", dice il figlio. Il giudice assolve 11 presunti mafiosi e ne condanna 5. Scarcerato il vecchio boss di Bagheria Pino Scaduto, scrive Romina Marceca il 3 aprile 2017 su “La Repubblica”. Stupore e prese di posizione dopo la condanna del giudice Gigi Omar Modica al pagamento delle spese processuali da parte della famiglia dell'estorsore che denunciò il pizzo e delle associazioni antiracket che si erano costituiti parti civili nel processo. La decisione è di ieri. Il giudice ha assolto 11 presunti capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia (quattro vengono scarcerati) e ne ha condannati 5. Per uno degli assolti Giovanni Mezzatesta arriva anche il rimborso delle spese processuali. «Siamo molto amareggiati. Oggi ci confronteremo con il nostro avvocato», dice Tommaso Toia, il figlio dell’imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d’Appello la correttezza di questa decisione», afferma Fausto Maria Amato, l’avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell’estorsione, dell’usura, della mafia. «Il problema più grosso è comprendere come si arriva a un’assoluzione. Il giudice – dice Enrico Colajanni, volto storico di Libero Futuro – avrà avuto i suoi buoni motivi. Se questo determina un danno per le parti civili poi sarà la legge a stabilirlo. Noi non abbiamo un euro, penso che impugneremo il provvedimento. E di certo non abbiamo mai ottenuto nemmeno uno dei risarcimenti che ci sono stati riconosciuti. Spesso i mafiosi non hanno nulla di intestato». La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione. I giudici ormai hanno capito l’antifona e cominciano a decimare le parti civili, sottolineando come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto». Di certo questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili. E così la famiglia degli imprenditori Toia che denunciò le pressioni della cosca dovrà risarcire i duemila euro di spese avanzate da Mezzatesta, insieme alle altri parti civili: il Comune di Ficarazzi, Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai, l'associazione anrtiracket e antiusura "Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia", Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino, centro studio e iniziative culturali Pio La Torre. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate a vario titolo di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere. Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo. Per l'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso col pallino della poesia, è stata decisa la scarcerazione. Scaduto era al 41 bis dal 2008, Mineo da due mesi era agli arresti domiciliari. Scarcerati anche Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino.

Accusato di estorsione e assolto. La vittima dovrà risarcirlo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017.  Ha denunciato il racket del pizzo e si è costituito parte civile contro i taglieggiatori. Nel frattempo è morto e la sua battaglia è stata continuata dai figli. Oggi il giudice ha assolto il presunto estorsore, Giovanni Mezzatesta (assistito dall'avvocato Salvo Priola) e ha condannato gli eredi dell'imprenditore Giuseppe Toia - i figli Daniele, Tommaso e Fabrizio - a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket -Libero futuro, Addiopizzo, associazione Paolo Borsellino, Fai e Centro Pio La Torre, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi. La decisione è del gup, Gigi Omar Modica, e dovrebbe essere collegata al fatto che già la Cassazione aveva annullato il semplice obbligo di dimora imposto a Mezzatesta ritenendo che nei suoi confronti non ci fossero neppure i semplici indizi di colpevolezza. Nonostante la sentenza della Cassazione è arrivata lo stesso la costituzione di parte civile. Da amico dei boss a stritolato dai boss. “Mi consideravano praticamente come la loro cassa privata.”, aveva raccontato Domenico Toia, ucciso da una brutta malattia. Toia si era ribellato al racket nel 2013. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta le commesse, pubbliche e private, però, arrivavano a pioggia. La mafia che, per stessa ammissione dell'imprenditore, lo aveva agevolato alla fine gli avrebbe presentato il conto. Forse è per questa passata contiguità che è caduta l'estorsione, ma per saperlo si dovranno attendere le motivazioni. I boss si fecero vivi per la prima volta “verso la fine degli anni 80-inizi anni '90, ancor prima che venisse pubblicato il bando relativo alla manutenzione dell'impianto di illuminazione pubblica comunale di Bagheria”. Poi, qualcuno dell'ufficio tecnico gli fece sapere che "gli amici avrebbero avuto il piacere dell'aggiudicazione dell'appalto alla mia ditta”. E aggiudicazione fu. Subito dopo cominciarono le richieste di assunzioni di parenti e amici dei mafiosi. E soprattutto di soldi. Per la precisione “3 milioni di lire al mese per i parenti di Pino Scaduto, che nel frattempo era finito in cella”, per un totale di 360 milioni.

Dal 41 bis alla scarcerazione. Liberi il boss e il suo vice poeta, scrive ancora Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia" il 3 aprile 2017. Il padrino e il suo vice. Così venivano descritti dagli investigatori. L'anziano boss di Bagheria, Pino Scaduto, e Gino Mineo, il mafioso che amava la poesia, condividono in queste ore la scarcerazione. Il primo passa dal 41 bis, regime a cui era sottoposto dal 2008, alla libertà. Il secondo, invece, da due mesi era agli arresti domiciliari. Scaduto e Mineo erano stati condannato perché presero parte alla restaurazione di Cosa nostra stoppata dal blitz dei carabinieri denominato Perseo. Ora entrambi, assistiti dall'avvocato Jimmy D'Azzò, sono stati assolti dal giudice per l'udienza preliminare Gigi Omar Modica che ne ha ordinato l'immediata scarcerazione. Così come per Umberto Guagliardo e Giacinto Tutino difesi dagli Antonio Turrisi, Salvo Priola e Raffaele Bonsignore. “Un intimo amico mio che sta assime a me…”, diceva Scaduto parlando di Mineo al quale nel gennaio scorso erano stati concessi gli arresti in casa con il parere favorevole della stessa Procura. L'avvocato D'Azzò aveva tracciato il profilo di un uomo che in carcere sarebbe cambiato. A Voghera ha iniziato a scrivere poesie e sceneggiature di spettacoli teatrali. Niente a che vedere con il mafioso che, dopo, avere già scontato una pena negli anni Novanta, finì di nuovo in carcere nel 2008. Ora la notizia dell'assoluzione che chiude le sue pendenze giudiziarie.

Sempre in riferimento a quel giudice....

“Erano minacciati di morte”, il giudice di Palermo assolve due scafisti. Costretti a pilotare un gommone dalla Libia alla Sicilia. Nel naufragio erano affogati in 12. I pm volevano l’ergastolo. Il dramma. Nel corso della traversata il gommone si era forato. Erano morti 12 migranti, scrive l'8/09/2016 Riccardo Arena su “La Stampa”. Scafisti per caso, scafisti per forza: un giudice di Palermo assolve due migranti, accusati di avere pilotato un gommone stracarico di altri disperati come loro, 12 dei quali annegarono perché l’imbarcazione di fortuna si sgonfiò nel Canale di Sicilia, durante la traversata tra la Libia e la Sicilia. I due imputati, che rispondevano di omicidio plurimo, sono stati assolti dal gup Gigi Omar Modica col rito abbreviato: applicata la discriminante dello «stato di necessità», perché i due fecero da scafisti ma non decisero «autonomamente e liberamente di avventurarsi per il Mediterraneo alla guida di un mezzo di fortuna, carico all’inverosimile di persone», con un centinaio di passeggeri in un natante di dieci metri. Tutto fu organizzato piuttosto da «soggetti libici armati», che minacciarono i due, ieri assolti perché il fatto non costituisce reato. Sentenza a sorpresa, quella emessa nei confronti di Jammeh Sulieman, di 21 anni, originario del Senegal, e Dampha Bakary, di 24, gambiano, che sono stati anche rimessi in libertà: e contro di loro, difesi dagli avvocati Cinzia Pecoraro e Chiara Bonafede e imputati di omicidio plurimo, la Procura, che aveva chiesto l’ergastolo, si prepara a presentare il ricorso in appello. La decisione provoca sconcerto tra i pm (il titolare del fascicolo è Claudio Camilleri, coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia), che tuttavia non fanno commenti. Oltre che sulla mancata dimostrazione del legame tra i due imputati e i libici trafficanti di uomini, la motivazione, racchiusa in 17 pagine, punta anche su un altro aspetto considerato fondamentale dalla Procura, la credibilità degli altri migranti. Il gup Modica manifesta infatti dubbi sulla genuinità di testimonianze che consentono di ottenere il permesso di soggiorno («beneficio non secondario») e parla di «preciso interesse a rendere dichiarazioni accusatorie», che per questo motivo «devono essere sottoposte ad un attento vaglio di credibilità intrinseca ed estrinseca». La traversata oggetto dell’inchiesta risale al luglio 2015: i passeggeri superstiti del gommone furono salvati dalla nave Dattilo e trasportati al porto di Palermo. Sulieman e Bakary furono individuati grazie alle testimonianze raccolte - non senza difficoltà, dati i problemi di comprensione di lingue e dialetti - dalla polizia. A parlare furono soprattutto tre maghrebini, le cui deposizioni sono apparse però contraddittorie e per niente coerenti al gup. Sin dall’inizio gli avvocati Pecoraro e Bonafede avevano sostenuto che i libici, armati di kalashnikov e attrezzati per queste operazioni, per evitare l’arresto di loro uomini, ricorressero a minacce e pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni passeggeri, scelti a caso, costringendoli a pilotare da sé le imbarcazioni di fortuna. Il giudice concorda con i difensori: i due scafisti per forza «non avevano altra scelta se non quella di commettere i reati» a loro attribuiti, «per salvare la loro vita da una situazione superiore alla loro volontà». Non parlavano la lingua dei libici, non si capivano nemmeno tra di loro, Sulieman e Bakary («Nessuno dei testi riferisce di un ruolo organizzativo di tipo preparatorio») e, «quando giungono in spiaggia, trovano già il natante carico di migranti... sotto la minaccia di armi da guerra non possono che accondiscendere alla determinazione dei libici su chi dovesse guidare l’imbarcazione. Tornare indietro sarebbe stato un atto del tutto scellerato». Si sarebbero opposti infatti gli altri migranti, che avevano «pagato un prezzo esoso», ma il rischio di essere uccisi dai trafficanti di uomini sarebbe stato molto concreto. «Proseguire invece nella rotta - conclude la sentenza - poteva significare invece coltivare una qualche speranza di giungere sani e salvi in un Paese sicuro e libero come l’Italia». 

Anche un magistrato fra i clienti dei pusher. Mille consumatori nella rete delle indagini. Quindici avvocati, un carabiniere, un dentista, un assistente di volo, due noti ristoratori. Un giro d'affari da 300mila euro al mese, scrive Salvo Palazzolo il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". C'è anche un magistrato in servizio ad Agrigento fra i clienti degli spacciatori, era in contatto con Antonino Di Betta, uno degli arrestati del blitz della squadra mobile. E' lunghissima la lista dei consumatori finiti nella rete dell'indagine. Quindici avvocati, un appuntato dei carabinieri, un dentista, un assistente di volo, un assicuratore, alcuni commercianti e due noti ristoratori del centro città. L’ultima inchiesta della procura diretta da Francesco Lo Voi su due gruppi di attivissimi spacciatori ha registrato 919 clienti. I consumatori di polvere bianca chiamavano a tutte le ore i cinque pusher arrestati la scorsa notte: si tratta di Stefano Macaluso, 32 anni; Antonino Di Betta, 27; Danilo Biancucci, 27; Giovanni Fiorellino, 25; Alessandro La Dolcetta, 21. Gravitavano tutti nella zona della Zisa, sono delle vecchie conoscenze delle forze dell’ordine. Offrivano la sostanza stupefacente a prezzi concorrenziali: 50 euro per due dosi. Ricevevano una media di 300-400 chiamate al giorno, 30mila chiamate in tre mesi. Numeri che offrono uno spaccato inquietante del consumo di cocaina a Palermo. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Maurizio Agnello, hanno svelato una vera e propria agenzia dello spaccio, che era attiva 24 ore su 24. I due gruppi erano specializzati nelle consegne a domicilio. I clienti facevano riferimento a due utenze cellulari, una sorta di call center, in cui si alternavano i componenti delle bande. Molti dei clienti sono stati già segnalati alla prefettura, come assuntori abituali di droga. Acquistavano dalle due alle sei dosi a settimana. Il boom di richieste era nel week-end. Le indagini della sezione Narcotici proseguono per accertare i componenti dell’organizzazione che riforniva di droga i due gruppi. Il giro d’affari mensile dello spaccio è stato stimato in 300mila euro. Fra i clienti anche molti giovani, studenti universitari.

Il giudice di Agrigento sorpreso con lo spacciatore. Si allarga l'inchiesta sulla cocaina nella città bene. La polizia è intervenuta mentre il magistrato incontrava il pusher nel centro di Palermo. E lui ha mostrato il tesserino agli agenti, scrive Salvo Palazzolo il 16 febbraio 2017 su "La Repubblica". Venerdì tre febbraio, il telefonino di Antonino Di Betta, attivissimo spacciatore della cosiddetta “Palermo bene”, è rovente. Nel fine settimana, è sempre così. «Compare, dove sei?», gli chiede un giovane. Una telefonata come tante, quella sera. Però, l’uomo che chiama Di Betta sembra avere particolarmente fretta. È un giudice, ha 35 anni, è in servizio al tribunale penale di Agrigento. Ma i poliziotti della Narcotici ancora non lo sanno: da ore stanno intercettando il pusher e stanno seguendo i suoi movimenti. Una squadra è incollata alle cuffie, nella sala ascolto della squadra mobile; un’altra è mimetizzata fra i ragazzi della movida e osserva ogni passo di Antonino Di Betta, che è sfuggente, prudente più che mai, gli investigatori non sono ancora riusciti a sorprenderlo con un cliente. Da qualche minuto è passata la mezzanotte. Il giudice telefona tre volte allo spacciatore per avere un appuntamento. «Compare dove sei?», ripete. «Sono in via Mazzini», gli dice Di Betta. È davanti al Chatulle pub, uno dei locali più gettonati delle notti palermitane. Lo spacciatore e il giudice si salutano, scambiano qualche parola. È un attimo. I ragazzi della Narcotici piombano sull’insolita coppia. Di Betta ha 25 dosi di cocaina in tasca, evidentemente sperava di fare grandi affari. Invece, si ritrova in manette. L’uomo che è accanto a lui non ha droga in mano, e neanche in tasca. Ma appare comunque nervoso. Mette la mano nella giacca e tira fuori un tesserino: «Sono un giudice», dice. Come a chiedere chissà cosa. Ma fa poca differenza per i poliziotti della Mobile di Palermo. Si segue la procedura di ogni volta, si segue la legge. E, adesso, c’è anche il nome del giudice nella lista dei clienti eccellenti degli spacciatori della cosiddetta “Palermo bene”. Accanto ai 15 avvocati, all’assistente di volo, a due noti ristoratori del centro città, al dentista, all’assicuratore.

Pizza, vino e droga: mille clienti. Quelle notti bianche a tutta coca, scrive Riccardo Lo Verso il Riccardo Lo Verso, Mercoledì 15 Febbraio 2017, su "Live Sicilia". Dicembre 2016. Una coppia è seduta al tavolo di una delle pizzerie più apprezzate della città. L'uomo prende il telefonino e compone il numero di Antonino Di Betta, uno dei cinque arrestati del blitz antidroga della Squadra mobile di Palermo. Quel telefono era sotto controllo e ha registrato una delle tantissime ordinazioni di cocaina. I numeri fotografano un fenomeno dilagante. I clienti censiti sono stati quasi mille. Poi, ci sono quelli non identificati che fa schizzare ad oltre seicento il numero dei consumatori. Uomini e donne, un magistrato che lavora fuori città, avvocati, commercianti, assicuratori, gestori di pizzerie, ristoranti e botteghe di generi alimentari molto conosciuti in città, assistenti di volo, studenti, un dentista e forse anche un carabiniere: l'inchiesta svela livelli preoccupanti di consumo di cocaina.  In pochi mesi gli agenti coordinati dal procuratore Francesco Lo Voi e dal sostituto Maurizio Agnello hanno registrato ottanta richieste di droga al giorno, che raddoppiavano nei giorni festivi, finendo col toccare quota 22 mila conversazioni in appena due mesi. Oltre cinquemila messaggi. Veniva spacciata un chilo di cocaina al mese che giungeva dai mercati, calabrese e campano, per un giro d'affari di 400 mila euro. Il capitolo investigativo sugli approvvigionamenti resta aperto. Di Betta e Stefano Macaluso avevano un gran bel da fare per accontentare i clienti, di cui una buona fetta era composta da avvocati, giovani e meno giovani, ora segnalati alla Prefettura come consumatori. Il telefono di servizio dei pusher era attivo 24 ore su 24. Le consegne erano immediate, gli spacciatori si muovevano in sella a scattanti scooter modello Honda Sh. Consegne immediate, ma anche alla luce del sole. Spacciatore e consumatori non si infrattavano in luoghi bui e isolati. Sceglievano locali molto frequentati e strade affollate. Di sera, ma anche durante la pausa pranzo. Si mescolavano fra la gente, credendosi forse al di sopra di ogni sospetto. Frequentavano i locali più alla moda. Ed invece i poliziotti si erano appostati a poche decine di metri da loro. Leggere i passaggi delle intercettazioni significa instillare il dubbio che uno dei tanti episodi di spaccio possa essere avvenuto sotto i nostri occhi. “In via Mazzini”, “al tennis”, “al bowling”, “in via Sciuti”, “al Politema”, “al Motel Agip”: Macaluso e soci non temevano di essere scoperti. Le intercettazioni sono zeppe di nomi di strade ma anche di pub, enoteche, bar, ed altri esercizi commerciali dove venivano fissati gli appuntamenti. Per non parlare degli indirizzi degli studi legali, molti nella zona del Palazzo di giustizia, e delle abitazioni dei tanti avvocati-clienti. Il loro non era un consumo occasione, ma un'abitudine. Le cimici dei poliziotti hanno registrato 50, 70, 90 contatti fra ogni singolo avvocato e il pusher. Un paio di dosi costavano cinquanta euro. “... vado a fare bancomat e ci vediamo sotto lo studio”, diceva un legale. Ce n'è abbastanza per sostenere che “gli acquirenti cercavano insistentemente i pusher - si legge nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari Guglielmo Nicastro - chiedendo loro una o più dosi e dichiarandosi pronti a consegnare il denaro dandosi appuntamento nei pressi dei rispettivi studi legali ovvero nei locali pubblici centro della cosiddetta movida palermitana.

Scandalo Saguto, comune di Palermo chiede di costituirsi parte civile. Procura si oppone, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". Il Comune di Palermo ha chiesto di costituirsi parte civile nell’udienza preliminare che vede al centro le presunte irregolarità nella gestione dei beni sequestrati alla mafia e nell’assegnazione degli incarichi di amministrazione giudiziaria da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo all’epoca in cui era presieduta da Silvana Saguto, anche lei imputata insieme ad altre 17 persone. Ma la Procura di Caltanissetta si è opposta alla richiesta avanzata dal legale del Comune di Palermo, l’avvocato Giovanni Airò Farulla. Quest’ultimo ha motivato la richiesta sostenendo che l’ente avrebbe subito un danno patrimoniale in quanto diversi beni ricadono nel territorio comunale, ma per i magistrati nisseni il Comune non ha titolo a entrare in giudizio in quanto non ci sono i presupposti per considerarlo parte offesa. Il gup Marcello Testaquatra, che sta celebrando l’udienza preliminare, deciderà nell’udienza fissata per lunedì prossimo. Gli imputati rispondono a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso. I difensori dei 18 imputati nell’udienza preliminare del caso Saguto – accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, truffa e falso – si sono opposti alla costituzione di parte civile di alcune amministrazioni giudiziarie – che avevano avanzato tale richiesta lo scorso 22 giugno – in quanto non sono assistite dell’Avvocatura dello Stato. I legali hanno motivato l’opposizione sottolineando che le amministrazioni giudiziarie possono costituirsi parte civile per conto proprio solo se l’Avvocato generale dello Stato esprime parere contrario al patrocinio. Inoltre gli avvocati Giuseppe Dacquì e Carmelo Peluso si sono opposti alle richieste di costituzione di parte civile del ministero dell’Interno e del Ministero della Giustizia, in quanto non rappresenterebbero gli interessi della collettività, visto che, secondo i due componenti del collegio di difesa, l’unico rappresentante dell’interesse della collettività è la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il gup Marcello Testaquatra comunicherà le proprie decisioni nell’udienza fissata per lunedì prossimo.

Telejato chiede che sia tolto il bavaglio al processo contro Pino Maniaci, scrive il 14 luglio 2017 "Telejato". Il divieto che la procura di Palermo, a nome del presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo Benedetto Giaimo, che non ritiene che il processo abbia rilevanza sociale e a nome del pm Amelia Luise, che ritiene “difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo”, ha suscitato in tutta Italia, e in particolare tra i giornalisti siciliani un coro di proteste e di solidarietà nei confronti di Pino Maniaci, perché, senza porre troppi termini in mezzo, è proprio la ripresa delle fasi del processo che lo riguardano, che non si vuole rendere nota al pubblico. Ultimo comunicato è quello del presidente dell’Ordine regionale dei giornalisti Riccardo Arena. Quello della trasmissione integrale delle udienze è un servizio pubblico che dai tempi del maxiprocesso viene garantito, a vantaggio di tutti, non solo dei giornalisti, ma anche degli avvocati e dei magistrati. Perché adesso e in questo processo quest’ordine di silenzio? È una domanda che da ieri circola, anche sui vari dibattiti in rete e che lascia forti ombre sulla democraticità garantita alle informazioni e sulla trasparenza degli atti di un dibattito che, sino a prova contraria, non sarà fatto a porte chiuse. Si potrebbe replicare che nessuno impedisce ai giornalisti di prendere appunti, ma la stenografia è una scrittura che ormai pochi conoscono. Per quel che riguarda le richieste di alcuni mafiosi di non volere essere ripresi, il problema si chiude subito: nelle fasi che il tribunale, al momento dell’apertura dell’udienza e non preventivamente, come invece è stato fatto, ritiene non debbano essere trasmesse, basta o bastava prescrivere tale indicazione e il problema era risolto. A parte il fatto che i mafiosi, per quel che sembra, non vogliono essere ripresi dalla telecamera, ma sulle riprese microfoniche non si sa perché preferirebbero non essere registrati. Quindi, senza girarci troppo intorno il divieto è fatto essenzialmente per inibire l’accesso a Telejato, per non dare troppa importanza al processo, per farlo sembrare un procedimento secondario e senza importanza e per poi concluderlo con la mazzata di una qualsiasi condanna, a conferma che l’impianto accusatorio era fondato ed ha retto. Si tratta di “strategie” che ovviamente hanno qualche stratega e lo hanno avuto sin dall’inizio, con l’obiettivo di buttar fango sull’emittente, isolarla dal contesto di informatori, collaboratori e promotori pubblicitari che ne consentono una già molto precaria conduzione e arrivare in ultima soluzione alla sua chiusura. Un processo amplificato potrebbe far correre il rischio di svelare queste strategie e dissolvere un impianto accusatorio fondato sul nulla, che ha il suo più brillante ritrovato nell’associazione di Pino Maniaci con i mafiosi di Borgetto, loro estorsori per mafia, Maniaci estorsore semplice di pochi spiccioli, ma sempre estorsore. Quello che da questa emittente ci permettiamo di suggerire ai colleghi giornalisti che lavorano soprattutto nelle radio e nelle televisioni private e, oseremmo dire, anche in quelle nazionali, è di inoltrare richieste a ripetizione di effettuare riprese e obbligare la procura a notificare i suoi divieti e le sue censure a ognuno. Dopodiché ci sarà da vedere se il rispetto delle esigenze di alcuni mafiosi, che possono benissimo essere tutelati, non permettendo le riprese delle loro “deposizioni”, debba essere prevalente sul diritto di un imputato che vuole rendere note le lacune del procedimento cui è stato sottoposto. Insomma, vanno tutelati solo i mafiosi? Se è così meglio fare uscire di carcere Totò Riina per consentirgli “una morte dignitosa”.

Processo Maniaci e il no a Radio Radicale. Ordine e Assostampa: “Scelta non condivisibile”, scrive il 13 luglio 2017 "Telejato". La decisione della seconda sezione del Tribunale di Palermo di negare a Radio Radicale l’autorizzazione alla registrazione delle udienze di quello che per gli organi di informazione è il cosiddetto “processo Maniaci”, appare non condivisibile per una serie di aspetti. Tralasciando il carattere tecnico-giuridico del provvedimento, che in sé lascia molti dubbi anche ai profani, non si comprende come la richiesta non susciti “il consenso unanime delle parti” se il dibattimento non è ancora cominciato. Soprattutto, poi, non si capisce come si possa sostenere che non ricorra “alcun interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza” di un dibattimento in cui è imputato, fra gli altri, un giornalista ritenuto particolarmente impegnato nell’antimafia, accusato di estorsione nei confronti di amministratori pubblici, che sarebbero stati ricattati con la minaccia di pubblicare notizie e servizi televisivi sfavorevoli nei loro confronti. Negare l’importanza e la rilevanza sociale e pubblica della documentazione di un processo del genere è a nostro avviso veramente arduo: sta al tribunale, semmai, contemperare l’innegabile interesse pubblico per questa parte del giudizio con le esigenze delle altre parti e degli altri imputati che sono estranei alle contestazioni mosse a Maniaci. Quanto al collega imputato, non riteniamo che egli intenda non far conoscere ciò che avviene nel processo a suo carico: è anzi suo interesse che si sappia come sono andate veramente le cose. Invitiamo dunque il tribunale a rivalutare la questione alla prima udienza, interpellando in particolare Maniaci e stabilendo forme e misure che possano consentire, ad esempio, la registrazione delle udienze e degli atti dibattimentali che coinvolgono la posizione del giornalista pubblicista ed escludendo gli atti non inerenti questo contesto. 

Proibite le riprese televisive per il processo di Pino Maniaci. Siamo tornati al ventennio fascista, scrive il 13 luglio 2017 Salvo Vitale su "Telejato". I nove imputati sono sotto processo essenzialmente per estorsione mafiosa fatta nei confronti di alcuni commercianti della zona. Il caso di Pino Maniaci, in questo contesto si presenta anomalo, trattandosi, la sua, di estorsione semplice, che quindi non andrebbe giudicata da una corte, ma da un giudice monocratico. La richiesta di uno stralcio del processo è stata rigettata, e quindi Maniaci non potrà separare la sua vicenda da quella degli altri mafiosi, anche se con loro non ha nulla da spartire e malgrado ne abbia denunciato le malefatte attraverso la sua emittente. L’intenzione di chi dirige le operazioni della procura è chiara: Maniaci va trattato come mafioso e omologato ai mafiosi sotto processo. Ci sarebbe già da discutere molto su questa circostanza, ma è successo e sta succedendo di più: l’emittente Radio Radicale ha chiesto al presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, di registrare le udienze del processo che inizierà mercoledì prossimo e tale richiesta è stata rigettata con curiose motivazioni, scritte a mano a margine della richiesta: Il Pubblico Ministero Amelia Luise ha scritto che «si nega il consenso risultando difficoltoso proteggere le opposte esigenze di tutte le altre parti del processo». Sembra di capire che i mafiosi non vogliono essere ripresi neanche radiofonicamente e, per tutelare le loro esigenze, a seguito di inspiegabili “difficoltà”, si ritiene necessario non tutelare il diritto di cronaca né tantomeno rendere pubbliche le immagini che riguardano esclusivamente la linea difensiva di Pino Maniaci. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale, in una nota pubblicata su MeridioNews ha subito commentato: «Mai successo a Palermo per un pubblico dibattimento. L’articolo che regola la pubblicità del dibattimento parla chiaro: all’inizio il titolare del processo sente le parti una volta costituite e persino in caso di totale opposizione la sua decisione è sovrana e può comunque decidere di dare accesso a radio e televisioni in un processo che peraltro ha i requisiti di interesse pubblico – spiega Scandura – Anche la codicistica italiana è ormai obsoleta, perché la Cedu, la giurisprudenza europea, non consente più processi sottratti all’opinione pubblica». La decisione del tribunale arriva solo a una settimana dall’inizio del procedimento. «Serve una mobilitazione di Ordine e sindacato, perché l’archivio di Radio Radicale è un servizio pubblico che a Palermo viene garantito dai tempi del maxi processo con l’integralità delle udienze, servizio di cui usufruiscono tutti, non solo i giornalisti, ma anche magistrati e avvocati», dice ancora il giornalista. Questa decisione rischia di ostacolare il lavoro anche di altri colleghi e di rendere il processo a porte chiuse. «Stupisce che il tribunale abbia preso questa decisione, rigettando la nostra richiesta prima che inizi il processo, così come recita codice». Si aggiunga che il presidente della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, Benedetto Giaimo, nell’accogliere la proposta del p.m. ha aggiunto, di suo pugno che il rigetto è motivato dalla “mancanza di rilevanza sociale del processo”. E qua si salta dalla sedia: ma come, il 4 maggio 2016, attraverso la email servizinazionali@alice.it è stato inviato dal Comando Provinciale dei Carabinieri ai giornali di tutto il mondo il testo di 400 pagine di intercettazioni e il video sapientemente confezionato dai carabinieri di Partinico, perché bisognava sbattere il mostro in prima pagina, rilevando in tale notizia chissà quale importanza sociale, mentre ora tale importanza è venuta meno? Andrea Tuttoilmondo, presidente regionale dell’Unci, (Unione nazionale cronisti italiani) ha già manifestato solidarietà alla denuncia lanciata oggi dalla testata dicendo che “sorprende la decisione della seconda sezione penale del tribunale di Palermo, presieduta da Benedetto Giaimo, di respingere la richiesta registrazione audio avanzata da Radio Radicale: «Dispiace prendere atto di questa censura. Auspico che si possa valutare diversamente l’istanza presentata dai colleghi di Radio Radicale. Per la rilevanza sociale di chi è coinvolto, consentire la registrazione di questo processo significa contribuire a realizzare pienamente quella missione di pubblico servizio che guida lo spirito di chiunque faccia informazione seria e con coscienza». La rilevanza sociale, sembrava scontata in una vicenda, che, per via dei personaggi coinvolti, a partire da Maniaci è stata accompagnata da grande attenzione da parte dei mass media. In tal senso l’art. 147 del cpp, citato da Scandurra è chiaro: «L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Il citato articolo di Silvia Buffa richiama la legge, secondo cui le riprese non possono essere autorizzate invece quando «la pubblicità può nuocere al buon costume ovvero, quando può comportare la diffusione di notizie da mantenere segrete nell’interesse dello Stato. O, ancora, in caso di assunzione di prove che possono causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni. O, infine, in caso debbano essere ascoltati dei minorenni», secondo i commi uno, due e quattro di un altro articolo che regola la decisione di procedere a porte chiuse. Tutte condizioni che in questo caso non sembrano sussistere. Nel frattempo anche l’ordine dei giornalisti di Sicilia e l’Assostampa si sono pronunciati: “No a Radio Radicale? Scelta non condivisibile”. Non ci si può sottrarre a una domanda spontanea: che cosa si vuole nascondere? Di che cosa ha paura il tribunale di Palermo? Forse che tutta la polpetta preparata per incastrare Pino Maniaci si sbricioli e che tutti possano rendersi conto che si è voluto deliberatamente mandare alla gogna una persona scomoda per le sue inchieste sui beni sequestrati in cui erano coinvolti pezzi del tribunale stesso di Palermo che adesso deve giudicare Maniaci? La domanda è inquietante, perché se è deciso che una condanna qualsiasi dovrà essere affibbiata a Maniaci, nell’eventualità remota di un’assoluzione si correrebbe il rischio di fare la figura di coloro che hanno perso tempo inseguendo dei fantasmi. Ma sono cose tipiche dei tribunali in Italia paese che, per la libertà di stampa si piazza al 68° posto nel mondo.

Caso Maniaci, domani l’udienza preliminare al tribunale di Palermo, scrive il 18 gennaio 2017 Salvo Vitale su Telejato". Domani 19,1 si apre un altro capitolo della vicenda che coinvolge l’imputato Maniaci Giuseppe, detto Pino e altri 11 imputati. Si terrà infatti l’udienza preliminare in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio depositata in data 17/10/2016 con la quale il GIP Gabriella Natale aveva chiesto alla PM Amelia Luise di trasmettere al suo Ufficio la documentazione relativa alle indagini espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio relativa a 12 imputati: Nicolò e Antonio Salto; Giuseppe, Tommaso, Francesco, Davide e Antonino Giambrone; Francesco e Salvatore Petruso; Antonino Frisina; Giuseppe Maniaci; Salvatore Brugnano. L’udienza preliminare si terrà alle ore 09.30 presso il Nuovo Palazzo di Giustizia – piazza G.B. Pagano, piano II, aula 16. I 9 mafiosi, quasi tutti di Borgetto, sono accusati di avere chiesto il pizzo ad alcuni commercianti della zona. Uno dei Giambrone avrebbe consegnato i soldi dell’estorsione a Nicolò Salto, poiché tra i Salto e i Giambrone sarebbe intervenuto un patto di ferro per spremere soldi alle attività commerciali della zona. Per Nicolò Salto e Giuseppe Giambrone uno dei capi d’accusa è “Per essere intervenuti nella soluzione di controversie tra privati”. Apparentemente sembra quindi che siano accusati di aver messo pace tra due litiganti, reato strano che nasconde il fatto che il mafioso che fa il paciere, impone agli altri di accordarsi secondo i suoi ordini. Sempre Nicolò Salto “al fine di procurarsi un ingiusto profitto, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere Valenza Benedetto, imprenditore del settore della produzione e fornitura di calcestruzzo, a versare una imprecisata somma di denaro quale ‘messa a posto’, evento non verifìcatosi per cause indipendenti dallo loro volontà, a causa del rifiuto della vittima dalla quale si era recato prima Salto e poi Giambrone”. La deduzione porta a considerare Benny Valenza persona offesa, che ha avuto il coraggio di dire no alla richiesta estorsiva. Quella di mafiosi che chiedono il pizzo a loro stessi, tra di loro, è uno sviluppo interessante per capire di che pasta sono fatti i mafiosi sotto accusa. Tra gli imputati c’è Salvatore Brugnano, accusato di favoreggiamento. “Per avere aiutato Giambrone Giuseppe, sottoposto ad indagine per il reato di estorsione aggravata in danno dello stesso Brugnano, titolare dell’omonima azienda vinicola situata in contrada San Carlo di Partinico, ad eludere le investigazioni dell’Autorità che li riguardavano, omettendo di riferire alla polizia giudiziaria, in sede di sommarie informazioni, circostanze decisive ai fini dell ‘accertamento dei fatti di rilevanza penale al medesimo addebitato, in particolare negando di aver ricevuto richieste di natura estorsiva. In Partinico il 9.5.2016”. In pratica Brugnano, dichiarando di non avere pagato il pizzo ha detto il falso e ha “ostacolato” le indagini dei carabinieri contro il suo estorsore Giambrone. Resta il fatto che Brugnano ha dichiarato di avere mandato anche lui a quel paese i suoi estortori: conclusione: Benny Valenza è credibile, Brugnano no. Così come non è stato ritenuto attendibile Polizzi che ha negato di essere stato estorto da Pino Maniaci. Ma Polizzi non è sotto processo. Così anche la credibilità diventa un optional a disposizione del magistrato. Maniaci Giuseppe, deve invece rispondere di sei capi d’imputazione e le prove che lo accusano sono basate su intercettazioni e registrazioni di trasmissioni della sua emittente. Non si sa se siano state fatte verifiche e accertamenti sui fatti da lui denunciati, riguardanti le vicende e gli intrecci politico-mafiosi del territorio. Ecco le imputazioni:

costringeva POLIZZI GIOACCHINO ad acquistare una partita di magliette per sé e/o per l’emittente Telejato per un importo complessivo di 2.000 €, nonché a pagargli tre mensilità di affìtto per un’abitazione, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterata e specifica. In Borgetto, in epoca anteriore e prossima, ali’8 maggio 2013;

In relazione al viaggio a New York del sindaco De Luca “costringeva DE LUCA Gioacchino a versare indebitamente più volle somme dì denaro al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell’immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Borgetto, realizzando un ingiusto profìtto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterala e specifica. In Borgetto, dal 10 giugno 2014 al gennaio 2015”;

sfruttando con velleità minatorie il condizionamento mediatico esercitabile mediante la sua attività di giornalista e/o alternativamente offrendo allo stesso interviste “riparatrici” delle suddette notizie, così, tra l’altro, affermando “..te ne vai alla televisione e sii gridi come ha fatto il Sindaco di Giardinello che ha urlato e lo hanno salvato”, costringeva DE LUCA Gioacchino a versare indebitamente 600 € al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell ‘immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Borsetto, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterata e specifica. In Borgetto, in data 10 febbraio 2015;

costringeva LO BIUNDO Salvatore ad assumere “in nero” CANDELA Valentina per le pulizie al Comune e a versare indebitamente più volte somme di denaro per un ammontare mensile di 250 € circa, dal MANIACI destinati al mantenimento di CANDELA Valentina, al fine di evitare la suddetta divulgazione di notizie lesive dell’immagine del Sindaco e dell’amministrazione comunale di Partinico, realizzando un ingiusto profitto con pari danno per la persona offesa. Con la recidiva reiterala e specifica. In Partinico, accertati dal novembre 2014 al luglio 2015;

Il Sindaco De Luca Gioacchino, il vice sindaco Spina Vito e il Presidente del Consiglio Comunale Liparolo Elisabetta, in occasione di un viaggio istituzionale negli Stati Uniti, avrebbero avuto un incontro “in aeroporto con i figli del boss del boss Ciccio Rappa di Borgetto, e con altri esponenti appartenenti alla famiglia mafìosa del Vitale, Fardazza di Partinico. “Del viaggio della Madonna di Romitello a loro non interessava niente, sono andati in America per accordarsi con la mafia americana”. Lettera anonima resa visibile per un’altra settimana sul sito della predetta emittente televisiva. Con la recidiva reiterala e specifica. In Borgetto e nell’area di diffusione dell’emittente Telejato dal 25/8/2014 al 9/2014;

offendeva e denigrava la reputazione dei giornalisti QUATROSI Nunzio, GIULIANO Michele e PORCASI Gaetano, il 4.12.2014 , attraverso l’emittente Telejato, (in particolare dichiarando “ci sono alcuni pseudo-giornalisti locali: Nunzio QUATROSI che non è nemmeno tesseralo, dipendente comunale e tra le altre cose evasore fiscale perché fa anche cose che non dovrebbe durante il suo lavoro al Comune: Michele GIULIANO purtroppo figlio di un componente delle Forze dell’ordine ed è veramente grave che un figlio di uno che fa parte dei Carabinieri, o faceva parte dei Carabinieri, possa scrivere delle cose…e parliamo di un certo pittore che una volta si definiva antimafia per farsi i soldi, adesso forse si definisce sociale …messi insieme non valete un pelo dei coglioni di Billy” “come un certo pittore …Gaetano PORCASI…imbrattatele …che…non sa mettere quattro parole una dietro l’altra…dovrebbe…ritornare a scuola…l’imbrattatele a pagamento…forse lui non si definisce antimafia, ma adesso si definisce pittore sociale perché nel sociale lui ci sguazza nel senso che vuole essere pagato profumatamente per le sue tele …il comprensorio ha capito che questo Michele GIULIANO è semplicemente un pò ‘ spirciatu di ciriveddu con Pino MANIACI…frse, che vuoi? Ti dobbiamo dare la scorta perché… hai problemi di inferiorità, e credo che tu hai bisogno di far riaprire …i manicomi e farti ricoverare….la sua è sicuramente un ‘antimafia fasulla e a pagamento, visto che si fa pagare profumatamente per fare antimafia…con l’anti mafia ci guadagna…ma noi siamo disponibili a raccontare la sua carriera antimafia …adesso pure presidente onorario di un ‘associazione che a Partinico ha per sponsor uno che ieri era fascista…noi queste cose per convenienza, per tutte ‘ste manfrine che fate, non le abbiamo mai fatte e adesso cortesemente gli ho dedicato troppo tempo, troppo del mio prezioso tempo al nulla ammiscatu cu nnenti”. Con la recidiva reiterata e specìfica. In Partinico e nell’area di diffusione dell’emittente Telejato in data 4/12/2014 e 3/2/2015;

 Avere inserito quest’ultima imputazione nell’operazione Kelevra, con cui non aveva nulla da dividere, trattandosi di singola denuncia di privati in relazione a un servizio di Maniaci, dopo un articolo sul blog di Michele Giuliano, condiviso da Porcasi, in cui Giuliano si prospettava l’ipotesi che lo stesso Maniaci avrebbe ucciso i suoi cani per farsi pubblicità, è un’operazione giudiziaria al limite della genialità: troppo facile intravedere in quel servizio gli estremi della condanna e quindi trovare, rispetto alla fragilità delle altre imputazioni, un elemento che potesse giustificare tutta l’operazione.

Abbiamo riportato, i capi d’imputazione, di cui abbiamo già parlato troppe volte e rispetto ai quali qualsiasi commento è inutile: si commentano da sé. C’è solo da aspettare che giustizia sia fatta. Nel frattempo Maniaci si ritroverà faccia a faccia con quei malandrini, o PDM, come li chiama lui, dei quali ha denunciato le malefatte e che gliel’hanno giurata, al punto che, pur essendo imputato egli gode della tutela da parte dei carabinieri. Il collegio di difesa di Maniaci, composto dagli avvocati Ingroia e Parrino chiederà lo stralcio del processo riguardante Maniaci, sostenendo che non ha nulla a che fare con le operazioni estorsive dei mafiosi denunciati con l’operazione Kelevra.

Continua Salvo Vitale il 19 gennaio. In un’auletta 5×5 mq e stipata sino all’inverosimile c’erano tutti o quasi, i nove mafiosi di Borgetto, le parti lese e non lese, gli avvocati, mancavano tra queste i tre diffamati Giuliano, Quatrosi e Porcasi, difesi dal presente avvocato Bonnì e mancava anche il vicesindaco di Borgetto, Vito Spina, al quale, si è scoperto, non era stato notificato l’avviso dell’udienza, dove anche lui è parte lesa, offeso da Pino Maniaci. Guarda un po’, se l’erano scordati. E quindi, sono state convocate un centinaio di persone tra imputati, avvocati, parti lese, giudice, cancelliere, parti civili ecc. solo per sentirsi dire: signori miei, venite la prossima volta perché abbiamo dimenticato di avvisare una parte lesa, c’è stato un difetto di notifica, ci vediamo il 27 febbraio. Attenti, non il 28. Quindi tutti a casa, arrivederci, e grazie. Anche Pino Maniaci può tornare a casa? Perché non lo mandate di nuovo a Sciacca? Per adesso sì, diamogli un altro mesetto, poi si vedrà. Attenzione, hanno chiesto di costituirsi parte civile anche alcune associazioni antimafia, tipo Addio Pizzo, Libero Futuro, e altre, ma solo contro i mafiosi di Borgetto. Il Comune di Borgetto si costituisce invece contro Maniaci. Insomma tutto il baraccone si ripresenterà con l’inizio dei primi albori della nuova primavera, così ha stabilito il giudice Gabriella Natale.

Caso Maniaci, l’operazione Kelevra e i suoi risvolti, scrive il 17 gennaio 2017 Salvo Vitale su Telejato". In un articolo di Francesco Viviano, pubblicato qualche giorno prima su La Repubblica, si anticipava l’apertura di un’indagine per estorsione nei suoi confronti e a cui egli aveva risposto con un’intervista, ipotizzando dietro tutte le manovre la “longa manus” di Silvana Saguto, dei suoi colleghi e del suo “cerchio magico”, che avrebbero cercato vendetta per la campagna di denunce nei loro confronti, fatte dalla sua emittente. Costretto a seguire i carabinieri, Maniaci è portato in caserma e fotografato assieme ai P.D.M dei quali ha denunciato quasi quotidianamente i misfatti. Nella tarda mattinata in una conferenza stampa, il procuratore di Palermo Lo Voi dà notizia di un’operazione denominata Kelevra, fatta dai carabinieri di Partinico, contro nove mafiosi di Borgetto e contro Pino Maniaci. Lo strano nome è quello di un film uscito nel 2006 dal titolo Slevin Kelevra, con il sottotitolo La risposta del cane rabbioso. C’è, tra chi ha dato questo nome all’operazione, gente che conosce la cinematografia, acculturata ma non troppo, se scrive Kalevra e non, correttamente, Kelevra. Domanda: chi è il cane rabbioso? Si pensa subito a Pino Maniaci, che, quando si trova davanti microfono e telecamera non risparmia nessuno ed è come se abbaiasse su tutto e su tutti. Quindi un’operazione centrata su di lui, con il contorno di un gruppo di mafiosi. Ricostruiamo alcuni passaggi di questo intricato caso.

L’ORIGINE. L’operazione è nata nel 2013 per scoprire se il sindaco di Borgetto aveva “amicizie pericolose” con i mafiosi. Maniaci aveva denunciato da tempo le parentele di un consigliere comunale con alcuni mafiosi e agitato l’ipotesi che dietro l’elezione del sindaco di Borgetto Gioacchino De Luca ci fosse la mafia. In particolare si era soffermato su una visita fatta dal sindaco, con alcuni esponenti del Consiglio Comunale, negli Stati Uniti, dove, ad accogliere la delegazione, sarebbero stati presenti noti esponenti mafiosi. A seguito di un suo redazionale incentrato sulla presidente del Consiglio Comunale, Elisabetta Liparoto, anche lei in visita in America, Maniaci si era beccato da costei una denuncia per diffamazione, alla quale era seguita un’altra denuncia da parte del sindaco De Luca, secondo cui Maniaci avrebbe danneggiato l’immagine di Borgetto. Non si sa se le intercettazioni al sindaco De Luca siano nate dalle accuse di Maniaci o da altri elementi d’indagine. A seguito di queste intercettazioni, in particolare di una tra l’ex sindaco Davì e un certo Polizzi, consigliere comunale, si sarebbe scoperto “per caso” che Maniaci aveva “tappiato” Polizzi, cioè gli avrebbe commissionato duemila euro per magliette con la scritta Telejato, senza pagargliele. Quindi il caso di Maniaci entrerebbe nell’indagine per via traversa, con una spontanea domanda: se si voleva impallinare Maniaci, perché inserirlo dentro un’indagine che con lui non aveva nulla a che fare? Viene fuori l’ipotesi che tutta l’operazione Kelevra sia stata concepita, non, o non solo e non tanto per inchiodare i mafiosi di Borgetto, ma per incastrare Maniaci in una “degna” cornice. Infatti, se si va a dare un’occhiata alle intercettazioni che interessano i mafiosi, gli elementi d’accusa si basano su intercettazioni di alcune richieste di pizzo nel contesto di una generica intesa intervenuta tra i Giambrone e Salto, per avere ognuno mano libera nel controllo degli affari del territorio.  Passati alcuni giorni quattro di essi sono tornati a casa.

L’AVVIO. Ma cerchiamo di vederci meglio: La Repubblica, preannuncia l’operazione. È la prima mossa strategica della Procura, per preparare lo scoppio della bomba. Maniaci non scappa, il 29 aprile chiede di essere ascoltato come persona informata dei fatti. I magistrati hanno cinque giorni per interrogarlo. Sabato e domenica non si lavora. Se dovessero interrogarlo salterebbe tutto il pistolotto che è stato preparato da mesi, compreso il bel filmato. Perché si è perso tanto tempo e improvvisamente l’indagine ha questa accelerazione? Probabilmente per evitare di sentire, da parte di Maniaci risposte che avrebbero potuto rimettere in discussione il piatto già pronto. Il quattro maggio, cioè allo scadere del terzo giorno, tre ore dopo, cioè alle tre di notte, scatta l’operazione e Maniaci è obbligato a sloggiare dalla sua casa, onde evitare che possa usare la sua emittente per creare disturbi all’operazione. Nello stesso tempo, intorno alle ore 12,48 viene spedita dal comando provinciale dei carabinieri di Palermo, ufficio stampa, al servizio nazionale della stampa, l’ordinanza con il provvedimento e con il pistolotto delle intercettazioni. Maniaci non è arrestato, non ci sono gli elementi, ma interdetto da Partinico, e il suo viso viene messo assieme a quello degli arrestati.

IL FILMATO. Il filmato di otto minuti porta la firma dei Carabinieri di Partinico e si apre con le immagini del Sindaco De Luca che consegna 400 euro a Maniaci. L’ipotesi della Procura è che Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto, in cambio di un ammorbidimento degli attacchi contro di lui condotti dalla sua emittente. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove ed elementi d’accusa. Ben più di quanto non ne siano state raccolte su tutti e nove i mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Il filmato prosegue con una serie di intercettazioni tra Maniaci e una donna definita la sua amante, per la quale Maniaci chiede al sindaco di Partinico una sistemazione in un qualsiasi posto che garantisca un minimo d’entrata, cui segue, ogni tanto, la richiesta di 50 euro per comprare qualcosa alla figlia della ragazza, portatrice di un grave handicap. Maniaci chiede anche, si legge nelle intercettazioni, a un assessore, di procurare una sedia a rotelle per la bambina. Anche qua la Procura ipotizza l’ipotesi di estorsione, giustificata, come per Borgetto, da un ammorbidimento della linea di denuncia attraverso l’emittente. Seguono altri frammenti in cui Maniaci piglia per “stronzo” Renzi che gli aveva fatto una telefonata di solidarietà, sbraita contro magistrati, poliziotti e politici, dicendo che sono tutti corrotti, si lascia andare a un delirio di potenza datogli dall’uso della sua emittente, definisce “un premio del cazzo” un “oscar della legalità” conferitogli da un’associazione di Rosolini, e, dulcis in fundo, ipotizza che ad uccidere i due cani sia stato lo scemo del paese, ma, in realtà allude al marito della ragazza, che è un tossicodipendente e spacciatore ben noto alle forze dell’ordine. Quindi non si sarebbe trattato di un’azione intimidatoria, nei cui confronti tutta l’Italia aveva espresso solidarietà, ma di una vendetta privata che egli avrebbe invece usato e propagandato come intimidazione mafiosa. Per quest’ultimo caso, particolare importantissimo, viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme, ad aver compiuto il barbaro gesto.

LA GOGNA. Ce n’è abbastanza per demolire l’immagine di giornalista antimafia, che Maniaci si è costruito in dieci anni di lavoro e per presentarlo come un volgare ricattatore, immorale e indegno della fiducia che gli hanno dato sia i suoi collaboratori, sia la sua stessa famiglia. Gli elementi penalmente rilevabili sono dati solamente da 400 euro, consegnati, in bella mostra dal sindaco di Borgetto e da pochi spiccioli dati da quello di Partinico, il resto è tutto fango, ma così bene assemblato che tutta l’Italia ci cade e ci crede. Claudio Fava, scambiando premio, scrive che è stata offesa la memoria del giornalista Mario Francese, Lirio Abbate chiede a “Reporter sans frontières”, che ha elencato Maniaci tra i giornalisti più a rischio in Italia, di cancellarne il nome, Francesco Viviano scrive che Telejatoè stata chiusa, altri noti mafiologi prendono lo spunto per aggiungere questo caso a tanti altri che dimostrerebbero il fallimento dell’antimafia. Maniaci è messo al bando, finisce sulla gogna. Cosa c’è dietro questo stravolgimento d’immagine? Che cosa può avere motivato la Procura a usare il polpettone pronto da tempo, proprio in quei giorni?

CONSIDERAZIONI. Passato il clamore si può fare qualche riflessione: DI TUTTA L’ERBA UN FASCIO. Il primo obiettivo di tutta l’operazione è quello di distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato dovrebbe o avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso ha denunciato da anni le malefatte, è un colpo ben studiato, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione, e le richieste di denaro di Maniaci non c’è nessuna differenza. Le prime garantiscono protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantisce un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Possibile che l’indagine non abbia tenuto conto della presunta innocenza dell’imputato e dell’obbligo che ha il magistrato di verificarla? 

IL CONFINO. Altra trovata: non essendoci ancora processo, si è dovuto ricorrere a qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato comunque adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è ricorso alla misura cautelare del divieto di dimora, ovvero al famigerato “confinio” previsto dal codice Rocco nel 1935 e voluto dal fascismo per isolare i dissidenti politici o i criminali pericolosi. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista per provocarne la chiusura. A sorpresa il provvedimento del divieto di dimora viene revocato dopo una ventina di giorni, con la strana motivazione di un errore di notifica, ma forse, perché ci si è accorti della sua aberrazione e della sproporzione tra il provvedimento adottato e gli elementi di reato ipotizzati.

LE MAGLIETTE MAI FATTE. Caduto momentaneamente l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, più IVA, dall’altra una sorta di contributo di solidarietà, il GIP trova un altro escamotage per tornare a riproporre l’allontanamento: c’è un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non sarebbero stati pagati tre mesi d’affitto allo stesso, per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi nega tutto, ma è ritenuto “inattendibile” per la negazione, mentre si ritiene attendibile l’intercettazione. Davì, che aveva concesso a Maniaci, per i ragazzi di Telejunior, l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. Quindi, un elemento che in prima battuta non è stato ritenuto valido, e comunque insufficiente a determinare il provvedimento, viene ripreso e ritenuto valido dopo che non sono stati ritenuti più validi i precedenti due elementi d’accusa. A questo punto il ricorso finisce a Roma in Cassazione, che non ritiene di sua competenza la vicenda, viene disposto un nuovo allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato, ma dopo altri 15 giorni d’esilio, il Gup giudice Sestito annulla la nuova richiesta e rimanda Maniaci a casa. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine, quanto accanimento ci sia dietro e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente.

L’INCHIESTA SUI BENI SEQUESTRATI. Torniamo indietro: a partire dal 2014, Telejato ha aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano dell’allegra gestione, ma nessuno è intervenuto né tantomeno ha trovato il coraggio di intervenire. Una convocazione, di Maniaci, nel 2014, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato anche la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la Procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore.” “Se quelli lì si spicciassero.”. Ci risulta che, in una domenica dell’estate del 2015 la Saguto si sarebbe recata alla caserma dei carabinieri di Partinico, dove, nello stesso periodo si sarebbe recato anche il generale della DIA Nasca. Una corsa contro il tempo interrotta con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto, con i provvedimenti di sospensione o di trasferimento del prefetto, dei giudici a lei legati e col rinnovo dei giudici della sezione misure di prevenzione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano ‘a squagghiata di l’acquazzina, cioè allo sciogliersi della brina.

IL PROCURATORE LO VOI. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, e le supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista locale come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, sita a Partinico, uno dei principali bersagli di Telejato. Lo Voi si è insediato a Palermo il 3 dicembre 2014. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga ed è sposato con un altro magistrato del tribunale di Palermo, Pasqua Seminara. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo. Dice che Maniaci non c’entra. Da Caltanissetta si affrettano a dire subito la stessa cosa, Maniaci non c’entra niente, tutto è andato avanti per loro iniziativa. È Lo Voi ad affidare il “caso Maniaci”, più nove, a cinque magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia in provincia di Palermo e che con una dedizione più degna di miglior causa, si servono dei giornalisti che ruotano attorno alla Procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria.

TUTTI INSIEME ALLA TRASLAZIONE. Altro passaggio, ma di sola curiosità, è quello della traslazione della salma di Giovanni Falcone nella chiesa di San Domenico, ritenuta il “tempio” degli uomini siciliani famosi. Sorvoliamo sull’opportunità di tale gesto, che ha separato il giudice dal posto in cui era stato tumulato assieme alla moglie Francesca Morvillo. Siamo nel 3 giugno 2015. Alla cerimonia ci sono tutti, politici, sindaco, prefetto, forze dell’ordine, magistrati, tra i quali fa bella mostra Silvana Saguto, assieme a Lo Voi e a sua moglie.

CARABINIERI IN ASCOLTO. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni, che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse omesse. Tutto il materiale utilizzato è stato fornito dalla caserma dei carabinieri di Partinico, nei cui confronti la difesa di Maniaci, condotta da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino ha inoltrato una denuncia per diffamazione. Più volte Maniaci ha chiamato il “Nucleo operativo” dei carabinieri “Nucleo aperitivo”, denunciandone la scarsa efficienza, soprattutto dopo che a dirigere la caserma di Partinico è stato inviato un tenentino di prima nomina “mentre ci vorrebbe uno con le palle”. Stranamente la caserma garantisce ancora a Maniaci la “tutela” assegnatagli, ma non ha fornito più all’emittente notizie e veline sul proprio lavoro nel territorio.

LE ALTRE DENUNCE. Alla ricerca di qualsiasi motivo utile a una qualsiasi condanna, almeno in primo grado, di Maniaci, onde giustificare  la validità di tale indagine, sono state messe, nello stesso calderone delle accuse contro Pino Maniaci altre denunce, estranee a quelle dell’operazione Kelevra, da lui ricevute, a causa di alcune affermazioni diffamatorie fatte nei riguardi di altri giornalisti e personaggi locali, Michele Giuliano, Nunzio Quatrosi e Gaetano Porcasi, pittore antimafia, anzi “pittore d’impegno civile”. All’indomani dell’impiccagione dei cani di Maniaci Giuliano aveva scritto un articolo e lo aveva anche postato su Facebook lasciando spazio all’ipotesi che, ad uccidere i due cani fosse stato lo stesso Maniaci per farsi pubblicità. Quatrosi e Porcasi avrebbero condiviso l’articolo, causando la violenta reazione di Maniaci. Ma in questa cloaca probabilmente sarà messo anche una denuncia, arrivata all’inizio del 2017, di Leonardo Guarnotta, già Presidente del tribunale di Palermo, nei confronti del quale Maniaci avrebbe affermato che era al corrente di quanto succedeva all’ufficio misure di prevenzione, ma aveva preferito tacere e avrebbe dissuaso Maniaci dall’andare avanti nella sua inchiesta. Infine ci sono le denunce di Elisabetta Liparoto e del sindaco di Borgetto, perché Maniaci, nel sostenere che, durante la loro visita negli Stati Uniti erano stati accolti da esponenti mafiosi, avrebbe leso l’immagine di Borgetto. Insomma, qualcosa verrà pure a galla per punire il criminale.

LA SFIDA. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, proseguendo poi con la strategia della graticola: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa.

OBIETTIVO CHIUSURA. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, nella banalità che diventa notizia e nell’uso redazionale di alcune forme di censura o di autocensura, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti del 28 settembre 2016 pubblicata su "Telejato". "Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.

DI…RAGUSA. Sfruttamento, stupri e aborti: le braccianti rumene in Sicilia vivono ancora come schiave. L’Espresso è tornato nelle campagne del ragusano, dove due anni fa aveva scoperto le condizioni di vita terribili di centinaia di donne dell'est impiegate nell'agricoltura. E la realtà, se possibile, è peggiorata, scrive Antonello Mangano il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". «Se il fenomeno non esiste, allora molti bambini sono nati per opera dello Spirito Santo...». Don Beniamino Sacco è il parroco che per primo parlò dello sfruttamento sessuale delle romene nelle campagne del ragusano. Oggi risponde con questa amara battuta a quelli che ancora negano. Due anni fa L’Espresso denunciò quell’orrore. Intervennero i governi di Romania e Italia. La commissione per i Diritti umani del Senato avviò un’indagine conoscitiva. Dieci deputati presentarono due diverse interrogazioni parlamentari. La Prefettura convocò Procura, sindaci e forze dell’ordine. Seguirono retate, tavoli di lavoro e convegni istituzionali. Tutti presero impegni solenni. Siamo tornati a Vittoria, in provincia di Ragusa. E abbiamo trovato una realtà se possibile peggiorata. «Chi ha sbagliato deve pagare», ci dice il nuovo sindaco, Giovanni Moscato. Ma ribadisce che «non ci sono denunce». «Se pretendiamo di valutare la gravità del fenomeno dal numero delle denunce delle donne romene significa che abbiamo deciso di non aggredirlo. Nessuna di loro, in assenza di alternative lavorative e vivendo in una condizione di totale segregazione fisica e sociale, andrà coi suoi piedi a sporgere denuncia», spiega Alessandra Sciurba, ricercatrice universitaria. I dati dell’Asp di Ragusa sono angoscianti. Il numero di interruzioni di gravidanza di romene è spaventoso. Costante negli anni. Centoundici nel 2016, 119 nel 2015. Rappresentano il 19 per cento del totale della provincia. Il dato è enormemente superiore rispetto a quello delle italiane. Ed è sottostimato: c’è chi ricorre a metodi artigianali, chi torna in Romania ad abortire. Numeri che sono la spia di un’emergenza mai finita. «Alla prima marcia antimafia, trent’anni fa, eravamo io e il mio cane. All’ultima c’era tutto il quartiere», racconta don Beniamino. Siamo nel rione Forcone di Vittoria, cubi di cemento e mattoni forati: la storica roccaforte della criminalità locale. La sua parrocchia è un simbolo di resistenza. All’improvviso, però, confessa di essere stanco. Stanco di sentirsi dire «chi te lo fa fare», di ascoltare che «le romene se la vanno a cercare». Oggi il territorio si è chiuso a riccio. «Senza generalizzare, ci sono frange della nostra realtà economica dove tutto è consentito», spiega. C’è ancora chi nega i “festini agricoli”. Ormai le foto si trovano su Facebook. Tra teli di plastica e rifiuti tossici sono nate inquietanti discoteche romene in piena campagna. Le immagini mostrano donne seminude e improbabili dj che vengono dall’Est. Poi ci sono i festini dei padroni locali. «Si riuniscono più persone, si mangia, si beve, si fa del sesso», spiega don Beniamino. «La donna di turno deve fare buon viso a cattivo gioco. Tante romene sono lavoratrici con alle spalle situazioni difficili, spesso devono mantenere i figli in Italia o in Romania. Ma la promessa di dieci euro in più diventa una mortificazione». «Ho visto donne che in una prima fase sono estremamente consapevoli dell’ingiustizia che stanno subendo», dice la ricercatrice Sciurba. «È una decisione che mai nessuna donna dovrebbe essere costretta a prendere: annullare sé stessa per dare un futuro ai figli. In una seconda fase subentra spesso una sorta di adattamento alla brutalità». «I romeni sono tanti ma non sono una vera comunità», spiega don Beniamino. «Non hanno punti di riferimento o luoghi d’incontro».

Anche il sindacato parla del deterioramento all’interno della comunità romena: «Abbiamo segnali preoccupanti. Sta crescendo un caporalato degli alloggi, dei trasporti e dell’intermediazione lavorativa usato anche da grandi aziende», denuncia Peppe Scifo della Cgil. Sabato pomeriggio il piazzale dei supermercati si riempie di donne che dalle campagne vanno a comprare tutto il necessario per la settimana. Con passaggi di fortuna o pagando un tassista improvvisato, escono dall’isolamento. Per qualche ora. Anche la Caritas racconta la segregazione vissuta dai lavoratori delle campagne: «Vivono in baracche, garage, magazzini per gli attrezzi e vecchie gabbie adattate ad abitazione, coperte di plastica o eternit. La presenza umana è rivelata solo dai fili per stendere il bucato o dalle antenne satellitari». Sono case messe loro a disposizione all’interno delle proprietà agricole. Vivendo lì, si fa anche vigilanza notturna. Un’altra prestazione lavorativa con beffa: l’affitto viene detratto dal salario. «Ci sarà un’esplosione», profetizza Don Beniamino. Si riferisce al contrasto tra la violenza diffusa sul territorio e il silenzio delle comunità. In poche settimane, da febbraio in poi, tutti sono stati colpiti: romeni, tunisini, italiani. Lo scorso febbraio fiamme alte annunciavano l’incendio di quattro tir nei pressi del mercato ortofrutticolo. È il più grande del Meridione e quindi anche al centro degli appetiti mafiosi, specialmente per quanto riguarda trasporti e imballaggi. Poteva finire in tragedia. Dentro un camion c’era l’autista, che se l’è cavata con gravi ustioni. Ad aprile, in contrada Pozzo Bollente, hanno trovato un cadavere in una discarica col cranio fracassato. Era un tunisino ucciso da due lavoratori romeni. Le vittime avevano venduto autonomamente nove cassette di fagiolini per recuperare le giornate lavorative non pagate. Una violenta lite aveva risolto la questione, conclusa con un primo colpo di spranga di ferro alla testa e un secondo mortale. Sempre ad aprile, un capannone che produceva materiali di plastica per confezionare gli ortaggi è stato incendiato. Questo clima di follia collettiva non ha risparmiato neppure la Caritas. Il centro di Marina di Acate, presidio a sostegno dei lavoratori, è stato vandalizzato all’inizio di marzo dopo una trasmissione radiofonica. Il tema? Le agromafie.

Suleyman prende la bicicletta e torna verso il Cas (Centro di Accoglienza Straordinaria), una sigla ormai nota in Sicilia. È lì che sta nascendo un nuovo caporalato. Il Cas può essere un piccolo albergo, un posto per anziani, un casolare nel nulla. Qui i migranti attendono la risposta alla richiesta d’asilo che hanno presentato. I più fortunati aspettano un anno, chi presenta ricorso può doverne attendere anche quattro. In un centro sperduto nelle campagne incontriamo persone molto diverse tra loro. C’è chi è sopravvissuto al Mediterraneo, chi ha perso l’equilibrio mentale dopo le torture subite in Libia. Tutti vogliono mandare i soldi a casa. Nelle campagne si prende quello che offrono i caporali. I numeri non sono enormi - si parla di un centinaio di persone - e hanno abbassato ulteriormente il costo del lavoro. «Tanto hai da mangiare e da dormire», dicono i padroni. Se qualche anno fa i tunisini sindacalizzati prendevano cinquanta euro al giorno, oggi siamo arrivati a sette o dieci con gli africani in attesa d’asilo. A fine giornata, c’è gente pagata con una manciata di monete. «Purtroppo anche quelli che lavorano onestamente sono stati mortificati», dice don Beniamino. «Conosco chi ha subito blitz con trenta agenti. Senza che sia stato trovato niente». Abbiamo ascoltato anche la voce degli imprenditori ragusani. Non accettano generalizzazioni. Ribadiscono che la situazione è disperata. Aziende fallite, aste giudiziarie e code alla mensa parrocchiale. Alcuni provano a competere con l’ipertecnologia. Serre idroponiche, cioè piante irrigate con una soluzione nutritiva e suolo sostituito con lana di roccia. Sostanze chimiche che irrorano le coltivazioni. Semi selezionati nei laboratori di genetica israeliani per inventare prodotti adatti al gusto del consumatore nordeuropeo (forma, colore, grado zuccherino). Qualcuno punta a vendere un immaginario (il sole, il Mediterraneo, il buon vivere) e la qualità del prodotto. C’è un’impresa che per evidenziare la propria eticità e marcare la differenza scrive sul sito aziendale: «Abbiamo solo lavoratori italiani».

Ma, dal sindaco all’ultimo produttore, tutti puntano il dito sulla differenza di prezzo tra la serra e il bancone del supermercato. «Negli ultimi anni il nostro prodotto è stato venduto a trenta o quaranta centesimi al chilo e nei banconi dei supermercati lo trovavamo anche a otto euro», denuncia Giovanni Moscato, peraltro anche lui vittima di intimidazioni. Eletto da pochi mesi, è un giovane avvocato proveniente da Fratelli d’Italia. È il primo sindaco anticomunista a Vittoria, già cuore rosso della Sicilia. Ha iniziato una piccola rivoluzione, imponendo il controllo degli accessi al mercato ortofrutticolo. Prima entrava chiunque. Moscato ci accoglie nel palazzo barocco del Municipio parlando degli enormi interessi che vanno dalle cooperative fino alla Lidl. Ci sono vicende che sembrano dargli ragione. Nel 2012, l’imprenditore Maurizio Ciaculli ha scoperto una confezione di melanzane, probabilmente spagnole, sul bancone di un supermercato. Erano impacchettate col suo marchio, ma non erano prodotte dalla sua azienda. Meravigliato, ha denunciato la frode. Soltanto lo scorso febbraio si è tenuta un’udienza. Ma le minacce sono arrivate subito. Un’auto bruciata, biglietti intimidatori e un gatto morto davanti casa.

DI…SIRACUSA. Siracusa, arrestato per corruzione colonnello della Guardia di finanza. Custodia cautelare per Massimo Nicchiniello, comandante Nucleo di polizia tributaria: è uno degli indagati nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia, scrive Luca Signorelli il 16 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Arrestato il tenente colonnello della Guardia di Finanza Massimo Nicchiniello, in servizio a Siracusa, dove comanda dall’agosto 2016 il Nucleo di polizia tributaria. Il provvedimento di custodia cautelare in carcere gli è stato notificato questa mattina in quanto indagato assieme ad altri 15 persone nell’ambito della inchiesta Mose della Procura di Venezia legata alla concessione di denaro, doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Oggi, infatti, il Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia ha dato esecuzione a 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari, emesse dal gip del Tribunale di Venezia, su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di 6 imprenditori (di cui due domiciliari), 2 funzionari dell’Agenzia delle entrate (immediatamente sospesi dal servizio, «al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente», precisa l’Agenzia) ed un ex funzionario della stessa ora in pensione, 2 commercialisti, 2 ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e 2 dirigenti di un’azienda assicuratrice, coinvolti con diversi ruoli in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali. L’ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine ma a Siracusa è stata assicurata la continuità operativa del nucleo e la totale estraneità del Comando. L’inchiesta, condotta dal pm Stefano Ancilotto, è nata da alcune intercettazioni che erano state eseguite nell’ambito dell’inchiesta Mose. Nelle sedici misure cautelari emergono nomi importanti: tra questi Elio Borrelli, ai vertici dell’Agenzia delle entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo ed ex direttore dell’Agenzia di Venezia il secondo. Nell’elenco anche due ufficiali della Gdf, Vincenzo Corrado e Massimo Nicchinello, un giudice tributario della Commissione regionale, Cesare Rindone, due commercialisti di Treviso e Chioggia, Tiziana Mesirca e Augusto Sertore, e una serie di imprenditori appartenenti al gruppo Bison di Jesolo, specializzato in costruzioni, a Cattolica assicurazioni, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre a un produttore di prosciutti friulano, Pietro Schneider.

Il CSM scambia due giudici con lo stesso cognome e Tribunale diversi, scrive il 17 giugno 2017 "pippogaliponews.it". La vicenda dei giudici “scambiati” dal CSM corre sul web con impetuosità. E commenti poco lusinghieri sulle toghe. Il procedimento “contro” il Got del Tribunale Civile di Patti Elisabetta Artino Innaria è firmato da Paola Piraccini ed è registrato come 181/gt/2017. La parte denunziante è il siracusano Francesco Bongiovanni. Volgarmente: CSM inoperoso e quindi non luogo a procedere perché sarebbe atto di censura ad attività giurisdizionale. Quindi, dovrebbe essere la Corte d’Appello di Messina a intervenire, visto che si tratta di un Got in forza a Patti. Eh, no. Il giudice “giusto” da processare è, eventualmente, Giuseppe Artino Innaria, Fallimentare di Siracusa. Dunque, atti alla Corte d’Appello di Catania. E pure a Siracusa, per eventualmente competenza disciplinare.

Il signor Bongiovanni chiedeva giustizia per un leso diritto della difesa in una storiaccia che vede coinvolti un CTU e il figlio avvocato di un ex procuratore. Ma la domanda è semplice: se gli atti sono tutti rigorosamente aretusei come si arriva a Elisabetta Artino Innaria, che è un avvocato e fa il Got a Patti e vive a Sant’Agata di Militello con il marito, l’avvocato Alfio Pappalardo? L’inchiesta è durata quattro mesi visto che l’esposto del signor Bongiovanni è del gennaio 2017. Sorge il dubbio che la Piraccini abbia “mischiato” due fascicoli diversi relativi ad altrettanti Artino Innaria. Ma un’occhiatina finale non sarebbe stato il caso di darla prima di emettere il giudizio? Nota finale. Incrociando i dati su Elisabetta Artino Innaria e il marito Alfio Pappalardo si arriva allo stranoto studio legale di Andrea Lo Castro di Messina (una sospensione di due mesi per il titolare e una vicenda giudiziaria in corso). Sito in corso Cavour. Nel palazzo dove vive l’ex procuratore capo di Messina Totò Zumbo, Papà del consigliere di Corte d’Appello di Catania Eliana, sposa di Antonio Carchietti, pm friulano dal 2011 a Messina.

Siracusa, Veleni in Procura: il Csm ascolterà il 19 giugno il Procuratore capo Giordano e i Pm Longo e Musco. Per essersi venuti a trovare, "a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero", scrive Luca Signorelli su "Siracusa news" l'8 giugno 2017. Saranno ascoltati il prossimo 19 giugno dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura il Procuratore capo Francesco Paolo Giordano e i Pubblici ministeri Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Nella seduta del 17 maggio scorso il Csm aveva deliberato di aprire nei confronti dei magistrati la procedura di trasferimento d’ufficio per essersi venuti a trovare, “a prescindere da esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell’attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero”. Incompatibilità ambientale, insomma. Essendo il sostituto Musco già trasferito alla sede di Sassari con provvedimento cautelare (anche se in organico, ancora non ha preso servizio in Sardegna) la procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero mentre la commissione provvederà ad ascoltare Giordano e Longo, come prevede la procedura regolamentare. La Prima Commissione del Csm nei giorni di giovedì e venerdì, 11 e 12 maggio, si era recata negli uffici giudiziari di Siracusa dove aveva sentito 8 sostituti procuratori, il Procuratore aggiunto, il presidente del Tribunale, il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e il Prefetto. A questo punto sembra mancare davvero poco per arrivare a una decisione in merito a una Procura che naviga da anni in acque piuttosto agitate.

Convocati dal Csm il procuratore Giordano e i sostituti Longo e Musco, scrive "Libertà Sicilia" l'8 giugno 2017. Il CSM e il caso Siracusa con il suo carico di esposti, segnalazioni, denunce che coinvolgono magistrati, politici e professionisti giunge al capolinea. In questo nuovo filone di veleni, viene coinvolto di riflesso anche il procuratore capo Francesco Paolo Giordano, che ha appreso dalle agenzie che la prima commissione del Csm ha avviato la procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale nei suoi confronti e di quelli del pm Giancarlo Longo, mentre per il sostituto procuratore Maurizio Musco, già trasferito a Sassari, la nuova procedura riguarda solamente le funzioni di pubblico ministero. La prima commissione del consiglio superiore della magistratura ha fissato per il 19 giugno l'audizione del procuratore Francesco Paolo Giordano. Il capo della Procura aretusea avrà modo di dire la sua dopo che la commissione del Csm ha deciso di avviare la procedura di trasferimento nei suoi confronti e di altri due magistrati "per essersi venuti a trovare, a prescindere dall'esistenza di condotte colpevoli riconducibili a fattispecie di diversa natura, in una situazione tale da incidere sulla piena indipendenza e imparzialità dell'attività giudiziaria nella sede di Siracusa e nelle funzioni di pubblico ministero". Il procuratore Giordano ha ricevuto il carteggio con il contenuto delle audizioni che la prima commissione ha effettuato al palazzo di giustizia di Siracusa tra l'11 e il 12 maggio. In quella sede, come si ricorderà, sono stati sentiti quasi tutti gli 8 magistrati, firmatari di un esposto al Csm e alla Procura di Messina, il procuratore aggiunto Fabio Scavone, il presidente del tribunale, Antonio Maiorana, il prefetto Antonio Castaldo, e il presidente dell'Ordine degli avvocati, Francesco Favi. In precedenza era stato ascoltato a Roma il Procuratore generale Salvatore Scalia. Al di là dell'esposto, una parte importante nella decisione dei commissari di chiedere il trasferimento di Giordano l'avrebbero fatta le inchieste imbastite dalla Procura di Messina sul conto di magistrati in servizio a Siracusa. Nel pomeriggio del 19 giugno, saranno sottoposti ad audizione anche i sostituti procuratori Giancarlo Longo e Maurizio Musco. Per il primo, la procura peloritana ha aperto un fascicolo d'indagine, mentre per quanto riguarda il secondo, già trasferito in via cautelare a Sassari, la procedura di trasferimento riguarda la sola incompatibilità funzionale, e non quella ambientale.

Augusta. Caso “Villa Milena”, depositate le motivazioni della condanna a 3 anni ed 8 mesi inflitta al magistrato priolese Maurizio Musco, scrive il 7 giugno 2017 la Redazione di Webmarte. Confermata l’attendibilità del vice questore Pasquale Alongi. Per il Tribunale di Messina “…emerge a piene mani l’intento del Musco, già al momento della presentazione della denuncia del Corallo (ndr: consegnatagli il 29 agosto 2007 dall’Avv. Piero Amara) e del suo trattenimento, di “gestire” l’intera vicenda attinente i controlli effettuati dalla Polizia su Villa Corallo, facendo valere sugli appartenenti al commissariato il proprio ruolo”. È questo uno dei passaggi più significanti (e pesanti) delle motivazioni,  depositate quasi allo scadere dei 90 giorni previsti, della sentenza con la quale il Tribunale di Messina – Presidente Silvana Grasso – ha condannato nello scorso marzo a 3 anni ed 8 mesi di reclusione il PM Maurizio Musco per tentata concussione nei confronti degli uomini della Polizia di Stato del Commissariato di Augusta, disponendo per l’imputato anche l’interdizione perpetua dai pubblici e l’estinzione del rapporto di lavoro. La vicenda – come si ricorderà – risale all’agosto 2007 e prende spunto dall’accentuato fenomeno – verificatosi in quegli anni nel territorio di Augusta – di trasformazione di numerosi esercizi commerciali o di edifici privati in locali da ballo. Nell’ambito di una ampia azione di prevenzione e controllo avviata dal locale commissariato di P.S. di Augusta, guidato all’epoca dal vice questore Pasquale Alongi, per verificare il possesso da parte dei proprietari/gestori dei requisiti previsti dalla legge, agenti di polizia effettuarono alcuni interventi presso il noto ritrovo notturno “Villa Milena”, gestito dall’associazione culturale “Antropos” di cui il magistrato Musco era socio. Detti interventi peraltro si erano resi necessari a seguito delle numerose segnalazioni dei residenti vicini che lamentavano il disturbo del riposo notturno a causa dell’alto volume della musica.  Secondo la Procura di Messina, durante uno di tali controlli al locale, la notte tra il 30 e 31 agosto 2007, il Musco “…presente unitamente all’avv. Piero Amara (cui era legato da rapporti di amicizia)...”  intervenne sugli agenti di polizia “…qualificandosi  come PM della Procura della Repubblica di Siracusa, esibendo il tesserino di riconoscimento, chiedendo di sapere se il controllo era stato operato di iniziativa o meno e quale fosse la ragione….sindacava la possibilità da parte degli agenti operanti di misurare il volume della musica…..ed avvisava gli agenti che l’indomani avrebbero dovuto trasmettere al suo ufficio l’incartamento relativo a tale controllo…” sollecitando “… nei giorni a seguire l’invio della relazione.” Le 25 pagine della sentenza accolgono l’impianto accusatorio sostenuto dalla Procura della Repubblica di Messina, rappresentata dal PM. Antonio Carchietti, ricostruendo con meticolosità tutti i “passaggi” della delicata vicenda che ha visto protagonista Maurizio Musco, di recente trasferito dal CSM a Sassari. Per il Tribunale di Messina “ …è indiscutibile che il  Musco nel momento in cui riceveva e tratteneva presso di sé la denuncia del Corallo consegnatagli il 29 Agosto dall’Avv. Piero Amara non era il magistrato di turno” come è anche documentale che “ … le regole di organizzazione interna all’ufficio non prevedevano l’assegnazione al Musco di procedimenti aventi ad oggetto reati contro la Pubblica Amministrazione….(ndr: ipotesi di abuso d’ufficio a carico di in agente di Polizia)”. Sempre secondo il Tribunale di Messina poi “Musco non era nel turno e quindi non poteva ricevere le denuncia e, a fortiori, non poteva auto assegnarsela…” perché questo potere spettava al Procuratore capo o in sua assenza all’Aggiunto. Piena attendibilità viene invece riconosciuta dai giudici peloritani alla ricostruzione dei fatti fornita dal Vice Questore Pasquale Alongi, che con il Musco ebbe un incontro dai toni verbali molto accesi il 3 settembre 2007 (“Emerge la veridicità del litigio …”). In sentenza si evince la correttezza dell’operato del dirigente, fedele servitore dello Stato, e dei suoi uomini, il cui intento non era assolutamente “preordinato ad ostacolare l’attività del gestore del locale per danneggiare costui”. Le motivazioni non mancano poi di evidenziare “…la preesistenza di rapporti del Musco con l’avv. Piero Amara…” richiamando la sentenza della Corte di Appello di Messina relativa alla vicenda “Veleni in Procura” con la quale il magistrato priolese è stato già condannato a 18 mesi di reclusione per il caso “Oikothen”, condanna di recente confermata in Cassazione. Forse per mero scrupolo, il Collegio ritiene addirittura di riportare testualmente un significativo passo degli atti dell’inchiesta predisposta dal Ministero, laddove gli ispettori ministeriali nella loro relazione “…concludevano nel senso del raggiungimento della prova di una amicizia “corroborata da notoria frequentazione tra il Dott. Musco ed il citato avv. Piero Amara… altrettanto dimostrato è il progressivo allargamento di tale rapporto amicale alla condivisione di interessi economici…..” precisando che “In definitiva può dirsi che tra l’avv. Amara e il dott. Musco esisteva ed esiste un legame capace di ingenerare il sospetto che la determinazioni assunte dal suddetto magistrato potessero o possano essere ispirate a fini diversi da quelli istituzionali e dirette, per ragioni private e personali, a favorire o danneggiare gli eventuali soggetti coinvolti a vario titolo nei procedimenti in cui l’avv. Amara aveva interessi personali o professionali.” Secondo quanto è emerso dal dibattimento, in sentenza si legge anche come “… il Musco, abusando della sua qualità di magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica di Siracusa, abbia posto in essere una serie di atti diretti in modo non equivoco a coartare la libera determinazione degli agenti della polizia del commissariato di Augusta nell’espletamento di una doverosa attività d’ufficio già da essi intrapresa…”. “Nel caso in specie” – ad avviso del Tribunale – “tutte le condotte tenute dal Musco risultano idonee a determinare uno stato di soggezione negli appartenenti al commissariato di Augusta al fine di costringerli a non proseguire nell’attività di controllo presso Villa Corallo, risultato non perseguito per la resistenza da essi opposta al comportamento illecito del Magistrato.” Ai fini poi del computo della pena da infliggere, stigmatizzando “… l’elevato disvalore della condotta tenuta da parte dell’imputato approfittando del proprio ruolo in seno alla Procura della Repubblica di Siracusa”, i giudici messinesi hanno ritenuto che “non sussistano le condizioni per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, atteso…che non sono emerse in atti circostanze valutabili in senso favorevole nei suoi confronti.” Questo quanto stabilito dal giudizio di I° grado. È chiaro che per porre fine anche a questa inquietante vicenda, bisognerà attendere l’esito dell’Appello ed eventualmente della Cassazione.

"Veleni" in procura a Siracusa, arrivano gli ispettori, scrive l'11 Maggio 2017 "Il Giornale di Sicilia”. Saranno ascoltati gli otto sostituti sugli 11 in servizio a Siracusa firmatari dell’esposto al Csm e ai colleghi di Messina sul rischio di inquinamento dell’azione della procura, funzionale alla tutela di interessi estranei all’amministrazione della giustizia. Ma saranno sentiti anche i vertici degli uffici giudiziari e il prefetto. Sarà una trasferta impegnativa quella che domani farà a Siracusa una delegazione della Prima Commissione del Csm che da anni ha aperto un fascicolo sui veleni alla procura e sul cui tavolo ci sono diversi esposti. In quello dei pm si richiama la sentenza con cui l’ex procuratore Ugo Rossi e l’attuale sostituto Maurizio Musco - su cui pende una richiesta di trasferimento d’ufficio del ministro della Giustizia dopo che un precedente provvedimento era stato revocato in seguito a un’assoluzione disciplinare - sono stati condannati in appello per abuso d’ufficio. Ma soprattutto si segnalerebbero rapporti molto stretti di uno dei colleghi in servizio con alcuni imprenditori. Nell’ottobre scorso la Commissione presieduta dal laico del pg Giuseppe Fanfani, che domani guiderà la delegazione, aveva ascoltato il Pg di Catania Salvatore Scalia, che aveva descritto una situazione di grande conflittualità in tutti gli uffici giudiziari di Siracusa ma particolarmente grave in procura. Era stato sentito anche il procuratore di Messina Vincenzo Barbaro, che aveva riferito che dopo l’esposto dei pm erano state iscritte cinque persone nel registro degli indagati, tra cui un magistrato, Giancarlo Longo, alcuni consulenti e avvocati.

Siracusa, impressionante escalation “Veleni in Procura2”: salgono a 12 gli indagati a Messina. Scrive l'11 giugno 2017 Concetto Alota su “Siracusa Live”. Sarebbero arrivati a circa dodici gli indagati iscritti a modelli 21 (persone note) della Procura della Repubblica di Messina che sta indagando a fondo sui vecchi e i nuovi veleni, scaturiti alla procura di Siracusa già qualche anno fa, e ora finiti ancora una volta sui tavoli dei pm messinesi. Coinvolti a vario titolo, ci sono magistrati, giudici, imprenditori, dirigenti pubblici, politici, giornalisti, avvocati, faccendieri e portaborse. Quello che sta succedendo al palazzo di giustizia di Siracusa è una ripetizione di un pezzo di storia ancora tutto da riscrivere. Le verità cambiano al passar delle ore. Da Siracusa a Palermo, ancora Messina, poi Roma e Milano. L’impressionante escalation con cui si stanno evolvendo i fatti messi sulla bilancia della Giustizia costituisce un clamoroso atto d’accusa non soltanto contro i colleghi magistrati, ma nei confronti dell’intera classe politica, giudiziaria, imprenditoriale e sociale siracusana. Sulla bilancia la sanzione del trasferimento d’ufficio per diversi togati, la più grave, per almeno tre di questi magistrati, ha finito per essere una punizione per tutti. La premessa della cronaca aspira a chiarire che la Prima Commissione del Csm non arriva al Palazzo di Giustizia di Siracusa solo per il Pm Giancarlo Longo, come appare di primo acchito ascoltando i tamburi di guerra che suonano ormai notte e giorno, ma per una lunga serie di esposti e denunce ben articolate nel tempo trascorso in mezzo ai veleni. I nuovi veleni in Procura stavolta non convincono del tutto la pubblica opinione, e mentre i fatti si raccontano con paginate d’inchiostro, confondono le idee e verità e non s’intravvedono spiragli di chiarezza con tanto fumo negli occhi, calunnie e notizie false con la rettifica l’indomani. Il tutto è rimescolato in un brodo non del tutto conosciuto dalla maggioranza dei cittadini che da almeno dieci anni ribolle e dove ognuno vuole identificarsi come chi ha spedito per primo l’esposto-denuncia (arrivati a circa diciotto nel totale). Già, per la cronaca, altre volte ci sono state denunce contro magistrati e giudici siracusani. Anche il procuratore generale Scalia ha definito a caldo una vicenda insidiosa quella del palazzo di giustizia di Siracusa. “…per tutte le vicende elencate a lungo, ci sono degli accertamenti di spessore e perciò ci vogliono tempi lunghi. Le indagini sono complesse, e talora necessitano di perizie impegnative. Ma chi adombra sospetti e persecuzioni da parte di qualche magistrato sbaglia”. Da Messina investigatori e inquirenti hanno alzato il muro dell’assoluto silenzio, anche se nei giorni scorsi sarebbero state sentite diverse persone informate dei fatti. In gioco ci sono enormi interessi: nel comparto industriale, nel traffico dei rifiuti pericolosi, nelle cento discariche velenose e per quelli solidi urbani, nella gestione dell’acqua, nei risarcimenti milionari, nei lavori pubblici e tutto il resto che conosciamo molto bene. Un territorio da oltre mezzo secolo interessato ai connubi tra la politica e i poteri forti a ventaglio e che ancora una volta subisce i contraccolpi della guerra tra diversi gruppi di potere. Entrano nella logica investigativa anche le amministrative che terminano stasera, con intrecci e riferimenti proprio su interessi delle tematiche industriali, in particolare sulle discariche dei rifiuti velenosi e i dintorni, con il coinvolgimento diretto di uomini della politica, funzionari e dirigenti, nel “cerchio magico” del polo petrolchimico siracusano. La storia ci riporta indietro con il fascicolo “attacco alla Procura di Siracusa”, dopo i vecchi veleni alla stessa Procura. In un voluminoso fascicolo c’è la storia di una parte della politica siracusana che fu attaccata dalla Procura della Repubblica con la richiesta di arresti e di rinvii a giudizio. Facevano il loro dovere. Ma la politica e dintorni a sua volta reagì con un attacco, forse sproporzionato (ma legittimo sul piano giuridico – volevano solamente dimostrare la propria innocenza), coinvolgendo il Parlamento italiano, Camera e Senato, la Commissione Antimafia, il ministro della Giustizia, il Csm e tante istituzioni dello Stato. Quel processo non è mai partito. Fascicolo che giaceva fino a qualche mese fa presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, dopo essere transitato per quella di Messina per legittimità territoriale. Ma ora sembrerebbe che una parte di quel fascicolo che vede sotto accusa quattro giornalisti siracusani e due politici di vecchia data, nato forse da uno stralcio di quell’inchiesta messa in piedi dai Pm Ugo Rossi e Maurizio Musco, dove a vario titolo ci sarebbero stati invischiati una dozzina di persone e oltre cento personaggi chiamati in causa e appartenenti a diversi ambienti della vita pubblica italiana, abbia ripreso in parte a galoppare. Concetto Alota

Atto Camera. Interpellanza 2-01816 presentato da ZAPPULLA Giuseppe Venerdì 26 maggio 2017, seduta n. 804.

Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro della giustizia, per sapere – premesso che: 

alla Procura della Repubblica di Siracusa è stato nominato circa 4 anni fa (luglio 2013) il dottor Paolo Giordano procuratore della Repubblica; 

in questi anni l'azione della magistratura siracusana, coordinata dallo stesso procuratore, ha svolto un ruolo importante di presenza e di controllo del territorio con provvedimenti di grande rilevanza nella lotta alla criminalità e al malaffare; 

grazie all'egregio lavoro di diversi magistrati e all'azione rigorosa del procuratore della Repubblica sono stati attivati diversi fascicoli di indagini e relativi provvedimenti sulle attività dei vari comuni della provincia e, in particolare, sul comune di Siracusa; 

tali iniziative hanno visto coinvolti funzionari, imprenditori, responsabili di associazioni, consiglieri comunali, assessori e lo stesso sindaco della città di Siracusa; 

si è aperto uno scontro politico e mediatico contro la magistratura e in particolare contro quei magistrati più direttamente impegnati nei vari fascicoli di indagini; 

in questi anni è ripresa a crescere la credibilità nelle istituzioni giudiziarie e nella magistratura anche grazie all'egregio lavoro e azione realizzato dalla procura della Repubblica; 

sono ripresi i veleni nel palazzo di giustizia con ricorsi vari anche contro lo stesso procuratore della Repubblica; 

una consigliera comunale di Siracusa del Mdp signora Simona Princiotta ha recentemente, in una specifica conferenza stampa, denunziato pressioni, intimidazioni, tentativi di costruire falsi dossier contro di lei al chiaro scopo di delegittimarla sul terreno politico e personale; 

la stessa consigliera riferisce di un esposto documentato e presentato al Consiglio superiore della magistratura in relazione alla posizione di tre pubblici ministeri in forza alla procura della Repubblica di Siracusa, ovvero i pubblici ministeri Antonio Nicastro, Davide Lucignani e Andrea Palmieri; 

dal quadro degli eventi riferito emergerebbe una situazione assolutamente preoccupante che vedrebbe il coinvolgimento degli stessi per fatti e titoli diversi e per rapporti delicati tra avvocati e giudici; 

nella documentazione ufficializzata alla stampa la signora Princiotta chiede provvedimenti, tra l'altro, anche contro i suindicati singoli magistrati accusati di essere parte della lobby di interessi; 

la consigliera comunale, dal quadro di documentazione e di trascrizioni di registrazioni effettuate e già depositate, sarebbe stata vittima di una vera e propria persecuzione di stampo complottista, essendo considerata politicamente pericolosa e incontrollabile nelle sue ripetute denunce; 

in particolare la campagna diffamatoria innestata contro la Princiotta è stata basata su dichiarazione di un pentito di mafia che l'ha ripetutamente chiamata in causa in varie vicende passate e comunque non riconducibili all'attività politica; lo stesso pentito ha dichiarato di essere stato istigato a dire il falso dagli uomini più vicini al primo cittadino di Siracusa; 

in ragione di queste false dichiarazioni, il sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo ha rilasciato dichiarazioni pubbliche che hanno fatto scattare l'interesse delle Commissioni regionali e nazionali antimafia, Commissioni che hanno chiamato in audizione la stessa Princiotta; 

c’è stata, nelle settimane scorse, l'audizione di una delegazione della 1a Commissione del Csm nel palazzo di giustizia di Siracusa; 

nel rispetto dell'autonomia della magistratura e dei suoi organi di autogoverno, l'interrogante è però, fortemente inquietato dalle notizie suindicate e preoccupato dalle indiscrezioni apprese dalla stampa relativamente alla procedura aperta per incompatibilità proprio del procuratore della Repubblica, ovvero lo stesso che ha ridato lustro e credibilità alla procura della Repubblica di Siracusa; in questo senso, appare all'interpellante, paradossale che possano in qualche forma risultare danneggiati proprio quei magistrati che con tanto rigore e serietà stanno tentando di fare luce e giustizia sulle tante vicende legate alla corruzione, al malaffare e alla criminalità; 

è lecito denunziare il rischio che, accertati i fatti e verificate fondate le denunzie della consigliera comunale Simona Princiotta relativamente ad una lobby complottista fatta da avvocati – politici – operatori dell'informazione e alcuni magistrati, non solo si sia attentato alla libertà dell'esercizio dell'attività politica ma si sia messo seriamente in discussione il prestigio della stessa autorità giudiziaria –: 

se il Ministro interpellato sia a conoscenza della situazione della procura di Siracusa; 

se non intenda avviare con urgenza un'attività ispettiva presso la procura di Siracusa ai fini dell'eventuale esercizio di tutti i poteri di competenza. (2-01816) «Zappulla».

«Siracusa, tutte le prove del sistema marcio». Cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd all'Antimafia, scrive il 14/10/2016 Mario Barresi su "La Sicilia". L'audizione di Princiotta all'Ars. Dalle inchieste sulle mazzette al Comune alla "news" sul sindaco Garozzo: «Indagato non solo per l'acqua». L'accusa sui contatti con il il clan e le foto compromettenti del consigliere arrestato per droga (in una c'è anche Renzi). L'autodifesa sul rapporto col mafioso: «Avevo 18 anni, ero una ragazzina». Il primo particolare - importante, ma ufficioso - è che Simona Princiotta è stata ritenuta «sostanzialmente molto credibile» da chi ieri a Palermo l'ha ascoltata per oltre due ore. Il secondo - altrettanto importante e ufficioso - è che il caso Siracusa finirà all'Antimafia nazionale. Ma cos'ha detto la "Mata Hari" del Pd siracusano alla commissione dell'Ars? Molte cose. Ma, più delle dichiarazioni a verbale, pesano le oltre 100 pagine di dossier. Nel quale a ogni parola corrisponde almeno una carta. Ed è questo, da quanto trapela, ad aver impressionato i suoi interlocutori. Un lungo elenco «di singoli episodi» che però «compongono un sistema condiviso e diffuso», secondo un autorevole componente della commissione. Princiotta dettaglia tutte le inchieste aperte sugli appalti del Comune: servizio idrico, asili nido, impianti sportivi, contributi alle società, manutenzioni, servizi sociali. E via mazzettando, con particolare attenzione «al budget del bilancio usato per comprare le associazioni». Per tutte le indagini la consigliera fornisce atti e in alcuni casi brogliacci delle sue ormai celeberrime intercettazioni "fai-da-te" («per gli audio rivolgetevi al procuratore di Siracusa», avrebbe detto). Ma Princiotta argomenta anche una tesi di fondo: l'amministrazione comunale è stata ed è al corrente di «tutto il marcio del sistema Siracusa». Indice puntato soprattutto sul sindaco Giancarlo Garozzo (che con la sua dichiarazione sulle «infiltrazioni criminali nel Pd» aveva accesso i riflettori dell'Antimafia), già sentito all'Ars lo scorso 22 settembre. E stavolta le parti, com'era prevedibile, s'invertono: consigliera accusatrice; sindaco accusato. Con una novità messa sul tavolo: Garozzo sarebbe «indagato non soltanto per la vicenda dell'acqua». Ma per altra ipotesi di reato fornita da Princiotta, «provata con certificato penale». Il sindaco viene più volte citato anche nell'appassionata auto-difesa della consigliera, incalzata dall'Antimafia su due punti. Il primo è il racconto del pentito Rosario Piccione: l'esponente del clan Bottaro-Attanasio, oggi a piede libero, ha rivelato di un suo legame sentimentale con la consigliera che avrebbe ospitato in casa un affiliato, Alfredo Franzò. Il secondo punto, messo a verbale dal sindaco Garozzo, riguarda contatti (anche tramite Facebook) della consigliera con Nando Di Paola, condannato nel processo sulle infiltrazioni mafiose all'Inda. «Le accuse del pentito sono senza riscontro, tant'è che Piccione è indagato per calunnia aggravata», dice Princiotta. Una «storia di pupi e di pupari», la definisce. «Ero già assessore nel 2008, perché questa storia viene fuori a orologeria soltanto quando tocco i fili che non dovevo toccare?». Perché è «un complotto per screditarmi», del quale indica, prove alla mano, «chi sono i mandanti». La consigliera smentisce la relazione con Piccione, «un pentito di scarso peso e credibilità, che ora fa il relatore ai convegni sulla giustizia ai quali un tempo c'erano Falcone e Borsellino». Del resto, precisa: «Era il 1994, avevo diciott'anni, ero una ragazzina. Per me era uno perbene, non sapevo che sarebbe diventato un mafioso». Ma è sul contatto con Di Paola che, dopo la difesa («per me è il padre di compagni di scuola dei miei figli», dice, presentando i certificati d'iscrizione) sferra l'attacco più duro al sindaco. Mostrando quella che definisce «la prova-regina del contatto di Garozzo con la famiglia Di Paola», dimostrabile «con atti, delibere e non solo». Garozzo viene tirato in ballo anche per la vicenda dell'ex consigliere del Pd, Tony Bonafede, arrestato dalla polizia con 20 chili di droga mentre si s'imbarcava sull'aliscafo Pozzallo-Malta. «Hanno provato ad attribuirlo a me - dice Princiotta all'Antimafia - ma lui era garozziano e renziano al cento per cento». Come prova, la consigliera avrebbe consegnato delle foto che ritraggono Bonafede e Garozzo: in una circostanza con l'ex sottosegretario Gino Foti; in un'altra, nel corso di una manifestazione pubblica, spunta pure Matteo Renzi. A sua insaputa. La consigliera chiede «il commissariamento urgente» del sindaco. In commissione le domandano se si sia mai rivolta al prefetto per chiedere il cosiddetto "accesso" propedeutico allo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Domanda non certo casuale, alla quale lei risponde con sincero smarrimento: «Sono stata investita di talmente tante cose che non pensavo la cosa fosse di mia pertinenza». La faccenda s'ingrossa. E non finisce qui. In attesa della trasmissione degli atti all'Antimafia nazionale, la prossima settimana all'Ars saranno sentiti il deputato nazionale Pippo Zappulla (unico sodale di Princiotta nel Pd siracusano) e il consigliere comunale Alberto Palestro, pesantemente tirato in ballo dalla consigliera. Che, alle pressanti domande su di lui, ha dovuto persino censurarsi: «Chiedete gli atti alla Procura...».

Tutti pazzi per Simona Princiotta: il caso, il fato, il passato, scrive Carmelo Maiorca, Mercoledì, 23 Novembre 2016, su "La Civetta press" da La Civetta di Minerva, 11 novembre 2016.

IL CASO - La consigliera comunale d’assalto con registratore incorporato Simona Princiotta, abita a Siracusa in contrada Pizzuta. E a volte è sicuramente costretta a sorbirsi la musica propagata dall’amplificazione dell’associazione Zuimama, che ha la propria sede a due passi da casa sua. Il caso vuole che Zuimama è l’associazione di promozione sociale affiliata ad Arciragazzi, denunciata tempo addietro da Princiotta per presunte irregolarità nella gestione di un capo estivo per bambini disagiati, dietro affidamento del Comune. Nell’inchiesta giudiziaria compaiono anche Pino Pennisi, storico presidente dell’Arci, e sua moglie Carmen Castelluccio, pure lei consigliere comunale ed ex segretaria provinciale del Pd. Certo ancora il caso, vuole che la casa della famiglia Pennisi-Castelluccio si trovi nell’area condominiale confinante con quella del residence nel quale c’è la casa di Simona Princiotta e famiglia. Siamo comunque in grado di escludere totalmente il pur minimo problema di vicinato all’origine della querelle, con querele incluse presentata da Carmen Castelluccio.

IL FATO - Più che di “casualità” possiamo invece parlare di “fato” – in senso classico e tragico/traggiriaturi - allorché in quel punto nevralgico di contrada Pizzuta, all’interno del medesimo residence in cui vive Princiotta risiede anche, con moglie e figli, Alfredo Franzò, titolare di un ristorante e di altre attività commerciali. Un vicino per il quale non si può esclamare la celebre citazione manzoniana “Carneade! Chi era costui?” Tutt’altro! Franzò nel mese di luglio del 2015 viene denunciato per violazione di domicilio da Simona Princiotta che lo accusa di essersi introdotto di notte nel cortile e nel giardino di pertinenza dell’immobile di sua proprietà; mentre il diretto interessato sostiene che lui, di giorno e non di notte, andò a recuperare il suo cane di nome Biscotto, introdottosi nel giardino dei vicini. Ecco, questa si avvicinerebbe a una classica lite condominiale. Senonché il nuovo vicino - della serie fatale “il passato che ritorna” - a Simona Princiotta l’avrebbe conosciuta in ben altra occasione una ventina di anni addietro, entrambi ventiquattrenni: Franzò, all’epoca “simpatizzante” di un clan mafioso siracusano, da latitante ricercato dalla legge sarebbe stato ospite nella casa dove lei abitava.

IL PASSATO - A chiederle la cortesia per l’amico sarebbe stato Rosario Piccione che in quel periodo avrebbe avuto una relazione sentimentale con la giovane Simona. Ex poliziotto affiliato allo stesso gruppo malavitoso (il clan Urso poi Bottaro-Attanasio) Piccione in seguito è diventato collaboratore di giustizia. L’episodio compare (tra le caterve di fatti da lui raccontati agli inquirenti che lo reputano in generale molto credibile) in un vecchio verbale giudiziario del 2002, pubblicato nel 2013 dal settimanale Il Diario. Va detto che Franzò nell’ambito delle vicende processuali che lo riguardano, è stato assolto dall’accusa di appartenenza ad associazione mafiosa. Di essere stato ospitato a casa della Princiotta venti anni fa, comunque lo conferma. Diversamente, la consigliera comunale (che per quella storia non è mai stata coinvolta in alcun procedimento giudiziario) nega, querela, parla di un complotto per le sue denunce contro la corruzione al Comune, che hanno innescato filoni d’indagini condotte dalla Procura della Repubblica. Un complotto che, se non ordito - fa intendere lei - conduce al sindaco Giancarlo Garozzo; che a sua volta lancia accuse d’infiltrazioni mafiose al Comune e inaugura le audizioni alle commissioni antimafia regionale e nazionale che stanno ascoltando diversi politici, e non solo, sul cosiddetto “caso Siracusa”. Nel frattempo è spuntato un altro vecchio affiliato al clan mafioso di cui sopra, Lorenzo Vasile, per un po’ collaboratore di giustizia pure lui, attualmente agli arresti domiciliari. Vasile avrebbe telefonato a Rosario Piccione (a quanto pare registrandosi a vicenda) per chiedergli in sostanza di lasciare in pace l’amica Simona. Vasile sarebbe andato a cercare Princiotta sotto la segreteria del deputato del Pd Pippo Zappulla, evidentemente a conoscenza delle straordinarie performance-conferenze stampa che periodicamente Zap e Princ eseguono a beneficio della stampa. L’intera faccenda sembra destinata ad andare avanti per un bel pezzo. Ne vedremo ancora delle belle e anche delle brutte.

Giorni di tensione a Siracusa. Il Comune più "indagato" d'Italia, scrive Massimiliano Torneo su "Live Sicilia”. Le vicende giudiziarie diventano terreno di scontro politico. La magistratura indaga e spulcia le carte degli affidamenti ritenuti “illegittimi” nel settore dei servizi sociali, asili nido e impianti sportivi, con ipotesi di reato che vanno dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata; dal falso ideologico da privato in atto pubblico, al falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale nello svolgimento della sua funzione. Per un ammontare di denaro pubblico di 6,3 milioni di euro. Nel frattempo, un'indagine parallela si concentra su presunte gare truccate, turbative d’asta e traffico di influenze illecite. I magistrati, riferendosi all'operato degli indagati, parlano di “promesse, collusioni e altri mezzi fraudolenti”. A ricevere un avviso di garanzia sono nomi eccellenti della politica locale: un assessore comunale, un ex capo di gabinetto del sindaco, tre consiglieri comunali, tre dirigenti del Comune e sei rappresentanti di associazioni destinatari degli affidamenti. La settimana che si è appena conclusa vale a Siracusa un triste primato: è uno dei Comuni più indagati d’Italia. L'inchiesta giudiziaria diventa terreno di scontro politico. Tre consiglieri comunali d’opposizione (Massimo Milazzo, Fabio Rodante e Salvo Sorbello) stanno lavorando a una mozione di sfiducia nei confronti del sindaco Giancarlo Garozzo Per ora sono in tre, ma puntano a raggiungere quota tredici per portare in aula discussione e voto. La reazione del sindaco non si è fatta attendere: ha convocato una conferenza stampa per venerdì prossimo: “Gli accadimenti che vedono indagate 12 persone, tra cui 3 consiglieri comunali, meritano una riflessione. Fermo restando il garantismo, rilevo che i capi di imputazione parlano di affidamenti diretti, di accrediti a strutture e di proroghe. Su tema asili nido e impianti sportivi, vorrei ricordare che è stata proprio la mia amministrazione a mettere definitivamente fine ad un sistema di proroghe di oltre 12 anni”. Parla, senza fare cenno però ai 3 dirigenti comunali e ai 12 avvisi di garanzia notificati ieri dalla Guardia di finanza di Siracusa, a conclusione delle indagini coordinate dal procuratore della Repubblica, Francesco Paolo Giordano, e dirette dal sostituto Marco Di Mauro. Garozzo si scaglia contro i portavoce dell’opposizione in città, il suo duellante al ballottaggio del 2012 Ezechia Reale e il consigliere comunale Salvo Sorbello, “già assessori in giunte di centrodestra tra il 2002 e il 2012”, accostandoli ai tre consiglieri indagati, e spostando altrove l’asse dello scandalo. In realtà, secondo quanto notificato dalla Guardia di finanza, “gli anni oggetto dell’indagine” vanno dal 2013 al 2015. E su chi appartenga a chi, riguardo ai consiglieri comunali, è un rebus per la maggior parte dei siracusani. Sull’altra inchiesta, quella che martedì scorso ha visto destinatari di avviso di garanzia il suo ex capo di gabinetto Giovanni Cafeo, e il suo attuale assessore ai Lavori pubblici Alfredo Foti, indagati per turbativa d’asta entrambi e il primo anche per traffico di influenze illecite, si era detto “colto di sorpresa. Nei prossimi giorni - aveva proseguito - sapremo su quali elementi si basano le accuse della Procura della Repubblica, sul cui lavoro ho sempre manifestato fiducia, ma l'augurio è che Alfredo Foti e Giovanni Cafeo possano dimostrare la loro estraneità ai fatti contestati”. “Faremo le nostre verifiche, approfondiremo i contenuti delle inchieste e indicheremo - spiega il sindaco - quelli che a noi appaiono i reali motivi delle ultime vicende in una conferenza stampa che la Giunta terrà il 24 giugno”. L’esame politico vero per il sindaco renziano potrebbe arrivare, però, dalla direzione provinciale del Pd con la già annunciata presenza del segretario regionale Fausto Raciti. Nel convocarla, il segretario provinciale Alessio Lo Giudice, alla domanda se ci fosse una questione morale nei dem siracusani, aveva risposto “C’è di sicuro una questione…politica che riguarda l’amministrazione Garozzo”. Lo Giudice ha già lasciato intuire che chiederà l’azzeramento della giunta.

Siracusa “la Greca” tra inchieste scandali, corruzione e ruberie, scrive Concetto Alota su "Libertà Sicilia". Siracusa era chiamata “la Greca”; più famosa per aver dato i natali al grande Archimede e per la sua lunga storia, la profonda e antica cultura, per il Teatro greco, per la fonte Aretusa e Ciane, per la struggente bellezza architettonica e il più bel tramonto del mondo, specie visto dalla Marina, per il circuito automobilistico nel Dopoguerra e per il Polo petrolchimico più grande d’Europa negli Anni Sessanta e Settanta, con ben 24 mila addetti, tra il diretto e l’indotto, e il reddito pro capite più alto del Meridione d’Italia. Insomma, era una città ricca, ordinata, civile e rispettosa dei diritti civili. Negli Anni Settanta prima i legami tra la politica e uomini della mafia palermitana, capitanati da Pippo Calò, per i lavori miliardari del porto di Siracusa e la ristrutturazione urbanistica dell’isola di Ortigia; per fortuna tutto fu soffocato con l’intervento di Graziano Verzotto che aveva capito che quell’operazione “confezionata” da gruppi a lui avverse poteva nuocere fortemente alla tranquilla comunità siracusana. Arriva il pretore di ferro Condorelli e si scoprono le prime magagne e gli intrallazzi sui rifiuti industrial smaltiti illegalmente anche dopo l’entrata in vigore della Legge Merli. Scoppia lo scandalo dell’Isab per accendere ancor di più le luci della ribalta in senso fortemente negativo, per essere il primo episodio di corruzione a più livelli, dove la classe politica locale in connubio con quella regionale e pezzi delle istituzioni a vario titolo incassarono una montagna di soldi in bustarelle, per consentire alla famiglia Garrone di poter costruire la raffineria più moderna d’Europa a Marina di Melilli in poco tempo; così cominciarono a girare tutte quelle notizie negative per l’immagine di un territorio che era considerato appartenere alla “provincia babba”, ma ora fortemente corrotta. E ancora, l’inchiesta della magistratura denominata “Mare Rosso”, che coinvolse il colosso della chimica italiana Enichem, che aveva già provocato il fenomeno dei bimbi nati malformati tra i silenzi e i connubi, e le tante discariche di rifiuti industriali velenosi insieme al mare inquinato a più non posso. Scatta l’inchiesta sui fanghi dell’Ias sospettati di essere “scaricati” in mare per risparmiare nello smaltimento, oltre a quelli già stoccati che inquinavano la falda e che costarono una montagna di soldi per essere rimossi. Ma quando sembrava che gli scandali di tale levatura avevano raggiunto l’apice della corruzione, ecco arrivare l’inchiesta legata al fallimento della Sai8 denominata “Oro Blu” per la gestione del servizio idrico, ereditato dalla Sogeas, che a sua volta era stata investita più volte dalle inchieste della magistratura, così come da mille polemiche politiche. L’inchiesta “Oro Blu” provocò arresti, con denunce e polemiche, e il sospetto di una bancarotta fraudolenta che sfociò a sua volta con il fascicolo giudiziario “Veleni alla Procura”, e l’altro subito dopo e che si trova ancora sotto il segreto istruttorio giudiziario, di cui si stanno occupando i magistrati del Tribunale di Messina per legittima suspicione, “Attacco alla Procura”, rimarcando, tra le atre cose, uno scontro tra due poteri dello Stato, quello politico, che in quell’occasione non voleva che i magistrati entrassero nei loro “fatti”, e quello giudiziario che rimarca il proprio diritto e dovere nell’indipendenza, secondo i dettami costituzionali. Poi ancora un altro scandalo. Scattano le indagini della Digos della squadra mobile della Questura di Siracusa sulle “Fantassunzioni”, nei riguardi di un gruppo di consiglieri comunali di Siracusa; uomini della politica locale che ora si trovano alla sbarra al cospetto, proprio in questi giorni, con l’ufficio del Giudice per le Udienze Preliminari del Tribunale di Siracusa. E ancora, lo scandalo per le “tematiche” collegate alla costruzione del nuovo quanto necessario Ospedale di Siracusa; fatti che furono scoperti all’interno dello scandalo dell’Expo di Milano; poi scoppiò l’indagine della guardia di finanza che sfociò con l’operazione, “Doctor House”, e ora la “Gettonopoli” al Vermexio, facendo ritornare, a suo dire e ben volentieri perché innamorato delle bellezze di Siracusa, Massimo Giletti, il popolare conduttore del programma “L’Arena”, che si occupò anche dell’inchiesta “Doctor House”. Infatti, dopo la denuncia del M5Stelle, è ritornato per riportare alla ribalta la “Gettonopoli” siracusana, che ha colpito per l’ennesima volta, a torto o a ragione e fino a prova contraria, la credibilità della città di Siracusa. La stessa cosa è stata fatta dall’inviata di “Striscia la Notizia”, Stefania Petyx e il suo bassotto, per chiedere al Sindaco di Siracusa Garozzo e al presidente del Consiglio comunale Sullo, delucidazioni in merito al “trucchetto dei gettoni d’oro”, e che secondo il M5Stelle, era stato “inventato” per favorire i capi gruppo e ad altri “risicò”. E tra uno scandalo e un altro di quelli sopra citati, anche quello dell’asfalto “ondulante” dell’autostrada Siracusa Gela all’altezza di Rosolini, dell’Open Land, della Pillirina, della Soprintendenza ai Beni Culturali, e che colpì la dirigente Basile, come della piscina della Sgarlata, entrambe scagionate dalla magistratura di merito perché non avevano commesso nessun reato; ma l’elenco potrebbe continuare. Per “Gettonopoli” le telecamere di Rai Uno della trasmissione “L’Arena”, condotta da Massimo Giletti, hanno raggiuto i consiglieri comunali proprio all’’uscita da una commissione consiliare, tra cui Tony Bonafede, Alberto Palestro e Salvo Cavarra, i quali hanno avuto modo di spiegare le ragioni che portarono a quella deliberazione che il M5Stelle ha denunciato, invece, come una violazione delle norme. La puntata con il servizio televisivo completo su tutta la vicenda andrà in onda domenica prossima su Rai Uno. Ancora tanta indignazione e rabbia per i tutti i telespettatori, ma soprattutto per i siracusani che si vedono ancora una volta additati come dei cittadini italiani abitanti di un luogo carico di malcostume, ruberie, corruzioni, e che offuscano ancora una volta, a torto o a ragione, la propria Siracusa. E se Palermo è la sintesi della Mafia nel Mondo, quale capitale della Sicilia, Siracusa potrebbe diventare di questo passo la sintesi del mal costume, della corruzione, come pure la “terra di nessuno” e fuori dalla legalità dello Stato libero e democratico italiano, dove ognuno può organizzare i propri loschi affari. 

Indagine della Procura di Messina contro quattro giornalisti, scrive Carmelo Maiorca, Lunedì 1 Maggio 2017 su "La Civetta Press". Il direttore della Civetta Franco Oddo, io, il direttore di Magma Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli accusati di calunnia e diffamazione nei confronti dei magistrati Rossi e Musco, in associazione a delinquere con l’ex on. Gino Foti e l’ex sindaco Aldo Salvo. La Civetta di Minerva, 21 aprile 2017. Dunque, io, il direttore de La Civetta Franco Oddo, e altri due giornalisti che si chiamano Salvatore La Rocca e Gianfranco Pensavalli dal 2013 siamo indagati, all’inizio dalla Procura di Messina, in un procedimento accomunati dallo stesso querelante: il magistrato Maurizio Musco. Oggetto delle querele, alcuni contenuti di articoli scritti da Oddo su La Civetta, di altri articoli pubblicati da Magma per quanto riguarda Pensavalli e La Rocca, e una vignetta apparsa su L’Isola dei Cani relativamente a me. E fin qui diciamo che per dei giornalisti si tratta di cose che capitano. Ad un certo punto quel fascicolo da Messina venne trasferito per competenza territoriale a Reggio Calabria, e il tempo è continuato a trascorrere senza particolari novità. Poi, qualche settimana fa, è stato notificato un nuovo procedimento, iscritto a registro di nuovo a Messina, nel quale ai quattro giornalisti di cui sopra sono stati aggiunti l’ex parlamentare Luigi Foti e l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo. Da quello che si evince dalla notifica siamo indagati, a vario titolo, per associazione a delinquere, calunnia e diffamazione a danno di Musco e dell’ex procuratore capo di Siracusa Ugo Rossi. Ho già raccontato questa vicenda sul settimanale regionale 100Nove e ho messo un post su facebook. La maggior parte delle persone che hanno letto la notizia hanno avuto una reazione divertita, qualcuno ha pensato si trattasse di uno scherzo de L’Isola dei Cani. Franco Oddo da parte sua si dice molto indignato, Pensavalli, che ho incontrato per la prima volta a marzo, è un po’ incazzato pure lui. La Rocca non so, perché non ci conosciamo. Mentre ci siamo ho informato il presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia Riccardo Arena di questo “curioso” procedimento. La presenza dei due attempati uomini politici, quella di Foti in particolare, assieme a 4 giornalisti mi/ci fa pensare che questo fascicolo giudiziario abbia a che fare con un bel faldone che, a sua volta, è transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria: quello relativo alla storiella del complotto, fra l’altro basato su una programmata campagna di stampa che sarebbe stata ordita quasi 6 anni fa da alcuni giornali per screditare i magistrati siracusani. Riguardo a quel dossier redatto da uno o, chissà, più carabinieri della sezione di polizia giudiziaria presso la procura di Siracusa - di cui alcuni giornali pubblicarono qualche stralcio -sin dal 2012 abbiamo scritto su La Civetta che la tesi della campagna di stampa contro Musco e Rossi è una balla. Strada facendo è diventata una sorta di “effetto collaterale” della burrascosa stagione di malagiustizia nel Siracusano che ha coinvolto e continua a coinvolgere, fra i protagonisti principali, alcuni – solo alcuni - magistrati e avvocati. Ai primi articoli pubblicati su Magma, seguì l’approfondita e documentata inchiesta di Franco Oddo e Marina De Michele. Aspetti di quell’inchiesta giornalistica – che ricordo ha valso agli autori il Premio Mario Francese - hanno trovato riscontro nelle aule giudiziarie. La galassia societaria realizzata dall’estro creativo dell’avvocato Piero Amara, e raccontata da La Civetta, è rispuntata di recente nel filone siciliano di un’inchiesta della procura di Roma partita dalle indagini sull’affaire denominato “Mafia Capitale”. L’ex procuratore Rossi è andato in pensione con una condanna confermata in Cassazione per abuso d’ufficio; per la stessa imputazione anche il sostituto procuratore Musco è stato ritenuto colpevole nel medesimo processo, e in un altro è stato condannato in primo grado per tentata concussione. Naturalmente Musco e Rossi, come qualsiasi altro cittadino che si ritenga diffamato da un articolo o da una vignetta, sono liberi di sporgere querele. Analogamente anche dei giornalisti possono ritenersi diffamati se accusati di avere partecipato a campagne di stampa preordinate e foraggiate per screditare qualcuno.

“Attacco alla Procura di Siracusa”, rispolverato il romanzo criminale che ora prende di mira 4 giornalisti e due politici della vecchia guardia, scrive Concetto Alota il 18 aprile 2017 su "Siracusa Live". Il giornalista siracusano Carmelo Maiorca ha annunciato, dalle colone dell’ultimo numero di 100NOVE in edicola, di essere trascinato in una procedura giudiziaria solo per aver scritto un articolo dal tracciato nettamente satirico e pubblicato sul settimanale “L’isola dei Cani”, da lui stesso diretto. Spiega chiaramente di essere indagato dal 2013 per quella vignetta satirica in un procedimento in cui comparivano anche Franco Oddo, direttore del quindicinale “La Civetta di Minerva”, Salvatore La Rocca già direttore del periodico Magma, e Gianfranco Pensavalli, cronista dello stesso settimanale, tutti denunciati dal sostituto procuratore della procura di Siracusa, Maurizio Musco. Ma ora la novità è rappresentata dal fatto che il Gip del tribunale di Messina, Maria Vermiglio, ha accolto la richiesta di proroga delle indagini, avanzata dal pubblico ministero di Messina Antonio Carchietti.  “Leggendo gli atti – scrive Maiorca su 100NOVE – ho appreso con mia sorpresa di essere indagato, oltre che con gli stessi giornalisti, anche con l’ex sindaco di Siracusa Aldo Salvo e l’ex sottosegretario di Stato, Luigi Foti, con il quale non abbiamo mai scambiato parola”. “Le indagini di questo nuovo filone sono scattate l’8 settembre del 2016 con ipotesi di reato di associazione per delinquere, calunnia e diffamazione in concorso a danno dell’ex capo della Procura di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto procuratore Maurizio Musco. Il 24 marzo – racconta ancora Maiorca nel suo articolo su 100NOVE – sono stato invitato a presentarmi per rendere interrogatorio a un ispettore delegato dal sostituto procuratore, nella sede della Polizia di Stato. Interrogatorio per il quale sin dal 2013 avevo dato la mia disponibilità ma che non era mai avvenuto. Passano pochi giorni ed ecco attivare la notifica del nuovo procedimento, dove, oltre a noi giornalisti, si sono aggiunti altri due indagati, Luigi Foti e Aldo Salvo e altri ipotesi di reato. Di certo il magistrato titolare di quest’indagine sta compiendo degli atti dovuti. Ma dovuto è anche il diritto alla difesa che coincide, in quest’occasione, con il diritto di cronaca e di critica”. Filone d’inchiesta che potrebbe essere collegato, a lume di naso, a quello originario del 2012 attivato dai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria della Procura di Siracusa. Si tratta di un “romanzo criminale” che appare e riappare come l’Araba Fenice. Nel settembre del 2012, con un fascicolo denominato “Attacco alla Procura”, prendeva corpo un’inchiesta giudiziaria molto delicata e a tratti inquietante. Indagini, che erano iniziate nel 2010, per fatti collegati e scaturiti con i fascicoli denominati “Veleni in Procura” e di cui conosciamo le cronache. La tempo, almeno oltre dieci persone sarebbero entrate sotto l’attenzione della Giustizia e che sarebbero stati denunciati a piede libero, con il fascicolo denominato “Attacco alla Procura”. A ben sentire, si tratterebbe di una strategia attuata da un “gruppo misto”, studiata a tavolino e indirizzata alla delegittimazione dell’allora procuratore capo della Repubblica di Siracusa Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, al fine di provocarne l’allontanamento dalla sede siracusana e bloccare quindi il corso di certe indagini che rischiavano di mettere in discussione il presunto colluso e consolidato sistema politico-imprenditoriale. Per fare questo i membri “dell’associazione spontanea” avrebbero stabilito che si sarebbero avvalsi di una serie di strumenti, tra cui una campagna stampa organizzata ad hoc, contro i due magistrati. Secondo le indiscrezioni, nel rapporto degli investigatori le contestazioni consegnate alla magistratura inquirente e le conseguenti accuse sarebbero gravissime. Ma cosa è successo veramente? Se lo sono chiesto a lungo i magistrati della Procura di Reggio Calabria che hanno l’esplosivo e delicato fascicolo denominato “Attacco alla Procura” di Siracusa in sofferenza sul tavolo, dopo che è transitato per il Tribunale di Messina per la legittima suspicione, a causa del coinvolgimento in altra inchiesta di un magistrato prima in forza a Siracusa, poiché si tratterebbe, secondo le indiscrezioni trapelate a suo tempo, di un attacco diretto contro i due magistrati, al potere giudiziario dello Stato. Ma quali sarebbero i fatti contestati a vario titolo a tutti gli intervenuti attori e registi di questo romanzo criminale in salsa greco-romana-siracusana? Si parlerebbe di associazione per delinquere, violenza, minaccia e calunnia al corpo amministrativo giudiziario, diffamazione, rivelazioni del segreto d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e tanto altro ancora; i magistrati inquirenti cercano inoltre di capire come può entrarci in quest’inchiesta un manipolo di uomini politici a più livelli d’importanza, avvocati, tanti deputati e senatori che all’epoca dei fatti avrebbero presentato una serie d’interrogazioni parlamentari, dove denunciarono delle presunte condizioni discutibili contro i due magistrati; ma anche tanti amici, editori e giornalisti, insieme ad oltre cento persone coinvolte nell’indagine a vario titolo, tutte informate dei fatti, o forse è giusto dire, in certe circostanze e il più delle volte tirati in ballo a loro insaputa. Di primo acchito sembra trattarsi di un processone, dove appare una superba regia con tanti interessati seguaci, che nella fase attuativa si sarebbe avvalsa della forza derivante da una fitta rete di conoscenze nei settori della magistratura, dell’avvocatura, della politica, degli imprenditori, di editori e giornalisti, per un ben specifico coinvolgimento strategico della stampa e dell’associazionismo in genere. Secondo le indiscrezioni e di quanto riportato dalla cronaca dei giornali all’epoca dei fati, tutto questo con il sospetto di un disegno criminoso ben congegnato e definito, dove i principali promotori avrebbero avvicinato (o cercato di avvicinare), parecchi membri del Parlamento, compreso i componenti della Commissione Nazionale Antimafia, che all’epoca dei fatti erano il presidente, senatore Giuseppe Pisanu, il suo vice, on. Benedetto Granata, detto Fabio, i componenti, senatore Francesco Ferrante, on. Andrea Orlando, on. Fracantonio Genovese, figlio del senatore Luigi Genovese e nipote delle più volte ministro messinese Nino Gullotti, senatore Giampiero D’Alia. Insomma, secondo le indiscrezioni, trapelate all’epoca dei fatti, sarebbero stati tirati in ballo da chi forse voleva il loro autorevole aiuto. Inoltre, sarebbero stati avvicinati dagli “organizzatori” della “crociata” contro i due magistrati dei consiglieri comunali siracusani per sollecitare iniziative parallele, richiedendo l’invio della Commissione Parlamentare Nazionale Antimafia contro i due Pm della Procura della Repubblica di Siracusa, e di altri personaggi coinvolti. Emergerebbero elementi secondo cui gli organizzatori avrebbero pianificato una strategia destabilizzante, che prevedeva nel simultaneo impiego strategico di molteplici strumenti di “guerra”, tra cui quello che prevedeva una campagna stampa mirata, e da realizzare attraverso una selezione di testate giornalistiche, di cui nomi gli investigatori trovarono le tracce durante una perquisizione per altri fatti collegati. Fascicolo d’indagine che è rimasto fermo per il trasferimento in altra sede dei due sostituiti procuratori della Repubblica di Reggio Calabria ma che ora avrebbe ripreso la corsa verso la decisione di merito dell’Ufficio del pubblico ministero e una parte del fascicolo ritrasferito alla Procura di Messina. Concetto Alota.

Siracusa. Denunciati ed intimiditi due giornalisti della "Civetta", scrive Giorgio Ruta il 13 febbraio 2012 su "Ossigeno". Hanno rivelato rapporti d’affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano. Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c’è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale ‘La Civetta di Minerva’ diretto da un giornalista con alle spalle quarant’anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul “Caso Catania”. Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un’altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da ‘La Civetta’. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell’avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l’avv. Amara e i suoi “soci”. L’inchiesta de "La Civetta" non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul “Caso Siracusa”. Dalla prima inchiesta apparsa su ‘La Civetta’ all’ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento “Partecipazione, rappresentatività, trasparenza” chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e  affigge in Tribunale un manifesto “a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini” per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti “di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano” e ai magistrati coinvolti “di essere loro stessi promotori dell’apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela”. Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l’ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c’è la società civile ad intervenire appoggiando ‘La Civetta’: dall’Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta. Il tintinnare delle sciabole si sente pure in Parlamento dove due deputati presentano due contrapposti documenti. Per primo, il 21 dicembre, interviene il Senatore pd Francesco Ferrante, origini siciliane. Il parlamentare chiede lumi al Ministero della Giustizia sui rapporti societari poco limpidi tra i soggetti elencati da Magma e da "La Civetta". La risposta politica avviene, il 18 gennaio, con un’interpellanza al Ministro della Giustizia presentata dall’on. Vincenzo D’Anna, di Popolo e Territorio, vicino a Nicola Cosentino. Il deputato campano chiede se il Ministro “intenda adottare tutte le azioni e i provvedimenti di propria competenza per assicurare l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura siracusana che a giudizio dell’interrogante è oggetto di una palese campagna a carattere diffamatorio”. Una guerra a viso aperto che sfocia in una bomba atomica. Dopo un articolo de ‘La Civetta’ del 16 dicembre, il 17, il giorno dopo, un altro giornale locale Diario Doc, diretto da Pino Guastella, pubblica, in un’edizione straordinaria, una notizia eclatante: “L’on. Foti e due giornalisti denunciati per estorsione”. I giornalisti in questione sono Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de La Civetta. Il politico in questione è l’ex sottosegretario Dc, Gino Foti, oggi in forza nel Pd. Ma soprattutto al centro – in questi giorni – di uno scandalo sull’affidamento del servizio idrico pubblico. L’onorevole è agli arresti domiciliari, assieme all’amministratore delegato della ditta che gestiva il servizio idrico a Siracusa, con l’accusa di tentata estorsione. La prima domanda che sorge è: cosa c’entrano i due giornalisti con l’ex parlamentare? Per Marina De Michele “non c’entriamo nulla con lui. Abbiamo avute sempre idee politiche diverse e sull’acqua, quando tutti erano per privatizzare, noi abbiamo sposato la scelta dell’acqua pubblica. Idea diversa rispetto a quella di Foti”. Da quanto si legge su Diario Doc 4 imprenditori avrebbero querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa. Nell’articolo si legge pure che: “Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato”. Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de ‘La Civetta’ si infuoca rispondendo all’accusa: “Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l’importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto”.  Ora la redazione ha una preoccupazione: “Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media” sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: “A Siracusa, in questo momento, c’è una emergenza democratica”.

La GdF inchioda i personaggi della nostra inchiesta sulla Procura, scrive Franco Oddo, Venerdì 7 Aprile 2017 su "La Civetta Press". Molte persone accusate di associazione a delinquere finalizzata all’evasione di tributi, per mezzo di operazioni inesistenti, e alcune delle società perquisite dalle Fiamme Gialle sono le stesse di cui La Civetta ha scritto nel lontano 2011. Subito dopo la nostra inchiesta sulla Procura della Repubblica di Siracusa (La Civetta di Minerva, 2 dicembre 2011), che ricostruiva una galassia di srl amministrate da familiari dell’avv. Piero Amara o da praticanti dei suoi tre studi legali di Augusta, Siracusa e Catania, in qualche caso dalle mogli dei praticanti, diciotto persone presentarono denuncia per diffamazione nei confronti del direttore e del vicedirettore del giornale. Il Gip di Messina, dott.ssa Daniela Urbani, archiviò sentenziando che non c’era stata alcuna diffamazione e che il giornalista aveva operato nei limiti del diritto di critica. Ebbene, molti di quei nomi e alcune di quelle società si ritrovano nell’operazione condotta ieri dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza e dal nucleo Gico di Messina in alcune città italiane in cui le srl hanno sede legale (Siracusa, Catania, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Ravenna, Milano, Varese, Trento), in alcuni uffici pubblici e nelle abitazioni degli amministratori. Il blitz, che ha impegnato molti uomini delle Fiamme Gialle, si è svolto contemporaneamente per evitare rapidi occultamenti. I militari, contando sull’effetto sorpresa, hanno acquisito fascicoli intesi a comprovare l’accusa, già formalizzata con avviso di garanzia a una trentina di persone, di associazione a delinquere per commettere frodi tributarie attraverso la fatturazione di operazioni mai realmente avvenute per un ammontare di milioni. A ricevere la cartolina verde sono stati gli avvocati Piero Amara (accusato anche di corruzione per atti d’ufficio) e Giuseppe Calafiore, ritenuti dagli investigatori i maitres à penser del sistema, e altri soggetti: Sebastiano Miano, Carlo Lena, Davide Venezia, Francesco Saraceno, Gianfranco Bessi, Pietro Balistreri, Giuseppe Garino, Francesco Saraceno, Marco Salonia, Ezio Bigotti, Giuseppa Aprile, Agata Di Stefano. Tra gli altri indagati anche Alessandro Ferraro, alias Sandro Napoli, al quale proprio nell’ultimo numero della Civetta, uscito oggi 7 aprile, abbiamo dedicato una pagina. Tra le società “visitate” dalla Guardia di Finanza, quelle di cui abbiamo scritto nell’inchiesta sono la Geostudi, P&G corporate, Energie Nuove, Salmeri, Gida, Parmenide e Dagi. La Gida, in particolare, in quell’arco temporale, amministrata dalla moglie dell’avv. Amara, aveva come soci il figlio dell’ex procuratore capo di Siracusa e il figlio di un magistrato della DDA di Catania. Le Fiamme Gialle hanno anche puntato l’attenzione sulla Cisma, la società che gestisce la discarica di Melilli, per il cui affaire sono scattati recentemente degli arresti. Sempre per presunte evasione fiscale e operazioni inesistenti, il Tribunale di Siracusa, sezione penale, ha interpellato di recente la Corte Costituzionale per districare una difformità tra norme italiane ed europee in merito ai tempi della prescrizione del reato. Imputati nel processo sono l’avv. Piero Amara (amministratore di fatto) e la moglie (amministratore di diritto) della Gida srl, e Alessandro Ferraro (amministratore di fatto) e Angelo Caruso (amministratore di diritto) della Comin srl. L’accusa: operazioni inesistenti che consentivano l'evasione delle imposte sui redditi (IRES e IRAP) e sul valore aggiunto (IVA). Essendo il reato risalente al 2007, per la normativa italiana scatta la prescrizione. Per la normativa comunitaria, in casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell'Unione europea oltre 50 mila euro, scattano tempi più lunghi (si andrebbe al 2020). I tributi evasi superano di gran lunga questo tetto.

Senato della Repubblica. Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-02682 (con carattere d'urgenza). Pubblicato il 28 febbraio 2012, nella seduta n. 681.

LANNUTTI - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:

numerosi articoli pubblicati da alcuni quotidiani siciliani - quali "Magma" e "La Civetta di Minerva" - ipotizzano legami consolidati tra esponenti della magistratura siracusana ed avvocati che esercitano la professione nella stessa città. Rapporti "incestuosi" di parentele, amicizie ed affari, in grado di inquinare la democrazia siciliana;

in data 13 febbraio 2012 viene pubblicato sul giornale on line "Ossigeno" un riassunto inquietante della vicenda intitolato «Denunciati e intimiditi due giornalisti della "Civetta"». Scrive Giorgio Ruta: "Hanno rivelato rapporti d'affari fra penalisti e magistrati. Interrogazioni parlamentari. Avvocati mobilitati, città in trambusto, i quotidiani non ne parlano". Si legge nel citato articolo: «Una procura sotto accusa, due giornalisti e un politico accusati di estorsione e una città divisa. Siamo a Siracusa e al centro di questa storia c'è un piccolo giornale distribuito nella provincia aretusea, con una tiratura di 1500 copie: il quindicinale La Civetta di Minerva diretto da un giornalista con alle spalle quarant'anni di giornalismo, Franco Oddo. Ripercorrendo questa storia tornano in mente gli articoli de I Siciliani di Fava sul "Caso Catania". Ma qui siamo a Siracusa e la storia è un'altra. Nelle redazioni di Siracusa e Catania gira un dossier sui rapporti tra alcuni magistrati siracusani e un avvocato. Il primo giornale a pubblicare i contenuti, a metà novembre, con una serie di inchieste, è Magma di Catania. Ma il giornale non è letto nel siracusano e la cosa non sembra suscitare molto clamore. Ma il 2 dicembre la notizia viene riprese e ampliata da La Civetta. È uno scandalo. Il giornale diretto da Franco Oddo, dopo una ricerca approfondita basata sulle visure camerali, mette in fila nomi, cognomi e società. Il quadro che viene fuori è questo: un noto avvocato siracusano, Piero Amara, o suoi stretti familiari, possiedono delle società. Fin qui niente di strano. Ma i soci del penalista sono nomi di spessore nella città siciliana. Ci sono: Attilio Toscano (figlio del dott. Giuseppe Toscano, già procuratore aggiunto alla procura di Siracusa), Edmondo Rossi (imprenditore, figlio del dott. Ugo Rossi, procuratore capo di Siracusa) e Salvatore Torrisi (figlio della terza moglie del dott. Rossi). E soprattutto Oddo scrive di collegamenti societari, tramite un ex praticante dell'avv. Amara, con il sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco. Nelle mani di questi uomini sono passati i processi più importanti e delicati di Siracusa. E spesso ad essere contrapposti sono proprio l'avv. Amara e i suoi "soci". L'inchiesta de La Civetta non finisce il 2 dicembre. Il 16, il 30 dicembre e il 13 gennaio il giornale pubblica ancora rivelazioni sul "Caso Siracusa". Dalla prima inchiesta apparsa su La Civetta all'ultima passano circa due mesi e nel frattempo succedono molte cose che servono a capire meglio un contesto che sa molto di trincee e fucili puntati. Un nutrito numero di avvocati, sotto la sigla Movimento "Partecipazione, rappresentatività, trasparenza" chiede agli organi competenti di verificarne la fondatezza delle notizie pubblicate e affigge in Tribunale un manifesto "a tutela dei magistrati seri e onesti, laboriosi e imparziali e a tutela degli stessi cittadini" per chiedere al Presidente della Repubblica, al Ministro e agli Organi competenti "di verificare la fondatezza delle notizie e di restituire alla Città e alla Giustizia la serenità e il decoro che meritano" e ai magistrati coinvolti "di essere loro stessi promotori dell'apertura di un fascicolo presso il CSM a loro tutela". Il manifesto starà ben poco sulla bacheca, qualcuno ha fretta di farlo sparire. Anche l'ANM di Catania esprime inquietudine. E poi c'è la società civile ad intervenire appoggiando La Civetta: dall'Arci agli ambientalisti, passando per una miriade di associazioni e partiti. E intanto i grandi media regionali non spendono una parola sul caso e gli altri periodici locali invece prendono una posizione diversa. Non credono a quanto scritto da Oddo e i suoi e mostrano sostegno alla Procura. La spaccatura nella stampa siracusana è netta»;

l'articolo, dopo aver segnalato che la questione ha assunto un rilievo politico a livello nazionale con la presentazione di atti di sindacato ispettivo, si sofferma sulla vicenda che vede indagati due giornalisti, Franco Oddo e Marina De Michele, rispettivamente direttore e vice direttore de "La Civetta di Minerva", per presunta estorsione nell'ambito di una vicenda legata all'affidamento del servizio idrico pubblico. Nel richiamato articolo si legge che alcuni imprenditori avrebbero ingiustamente querelato i due giornalisti per estorsione consumata, tentata estorsione e diffamazione a mezzo stampa e che: «"Una delle vicende riferite dalle parti offese si ricollega alla richiesta di contributo effettuata dalla signora Marina De Michele ad un noto imprenditore locale. Secondo la denuncia la signora Marina De Michele, a causa della disperazione della sua situazione economica, avrebbe utilizzato la minaccia della diffamazione qualora il contributo non fosse arrivato". Ma a credere a questa accusa sono in pochi. Chi conosce Marina la descrive come una bravissima professoressa stimata da tutti, alunni compresi, per la correttezza e la professionalità. La vicedirettrice de La Civetta si infuoca rispondendo all'accusa: "Io ho passato la maggior parte dei miei anni ad insegnare ai miei alunni l'importanza della legalità e poi mi dovrei macchiare di un reato così schifoso? La verità è che stiamo subendo un attacco meschino per quello che abbiamo correttamente scritto". Ora la redazione ha una preoccupazione: "Non vogliamo restare isolati. Abbiamo bisogno di essere appoggiati e che il caso che abbiamo denunciato venga affrontato anche dai grandi media" sottolinea Alessandra Privitera, collaboratrice de La Civetta. A preoccuparsi è pure Libera. Giusy Aprile, portavoce provinciale, non usa mezze misure: "A Siracusa, in questo momento, c'è una emergenza democratica"»;

considerato che:

a seguito di tali inchieste giornalistiche, risulta all'interrogante che il Ministro in indirizzo avrebbe disposto, nei giorni scorsi, un'inchiesta amministrativa nei confronti di magistrati in servizio o già in servizio alla Procura della Repubblica di Siracusa (dottori Musco, Campisi, Rossi e Toscano), per gravi fatti segnalati da numerosi articoli di stampa, interrogazioni parlamentari ed esposti; per lo svolgimento di tale inchiesta sarebbe stato delegato l'Ispettorato generale presso il Ministero della giustizia;

a quanto risulta all'interrogante, il nuovo Capo dell'Ispettorato generale, dottoressa Maria Stefania Di Tomassi, non solo non ha tempestivamente avviato l'inchiesta già formalmente disposta, ma avrebbe addirittura espressamente contestato le determinazioni già formalmente assunte dal Ministro in ordine ai magistrati nei confronti dei quali effettuare i doverosi accertamenti;

in particolare, a quanto risulta all'interrogante, il Capo dell'Ispettorato avrebbe, con propria nota indirizzata al Ministro, preteso la modifica dell'incarico di inchiesta al fine di ottenere l'esclusione dagli accertamenti della posizione di un magistrato, che sarebbe individuabile nel dottor Roberto Campisi, già Procuratore capo di Siracusa, nei cui confronti, invece, andrebbe doverosamente svolta l'inchiesta, come già stabilito dal Ministro sulla base di elementi circostanziati agli atti;

inoltre, a quanto risulta all'interrogante, tra il dottor Campisi e il Capo dell'Ispettorato esisterebbero stretti rapporti determinati dalla comune appartenenza e militanza alla medesima corrente della magistratura;

pertanto, per effetto di tale inammissibile contrasto, l'inchiesta amministrativa, già disposta e che presenta profili di estrema delicatezza e carattere di urgenza, in ragione della eccezionale risonanza pubblica delle vicende che ne formano oggetto, risulterebbe bloccata;

desta sconcerto che il Capo dell'Ispettorato, a pochi giorni dal suo insediamento, abbia già determinato un pericoloso precedente, che non risulta all'interrogante essersi mai verificato in passato, paralizzando un'inchiesta già disposta dal Ministro al solo evidente scopo di offrire una tutela preventiva ad una specifica posizione soggettiva,

si chiede di sapere:

se risulti vero quanto descritto dalle inchieste giornalistiche, che hanno messo a nudo rapporti incestuosi tra avvocati penalisti e magistrati nel Tribunale di Siracusa;

in quale modo e con quali criteri il Ministro in indirizzo intenda assicurare che l'inchiesta possa svolgersi senza indebite ingerenze da parte del Capo dell'Ispettorato, che sulla vicenda sembra abbia già manifestato un evidente pregiudizio di salvaguardia delle persone coinvolte;

quali iniziative urgenti intenda assumere al fine di garantire, sia in relazione alla vicenda in oggetto che per il futuro, comportamenti ispirati a correttezza ed imparzialità da parte del Capo dell'Ispettorato generale;

se, alla luce dei fatti esposti, ed attesa la particolare gravità di odiose ingerenze a tutela di "compagni di corrente", non ritenga urgente valutare la compatibilità della dottoressa Di Tomassi alla guida di un ufficio delicato nella gestione della giustizia, la cui attività richiede doti di particolare equilibrio ed imparzialità. 

CONDANNA DEFINITIVA A PM CHE CHIESE 5 MILIONI ALLA CIVETTA. Scrive Giuseppe Federico Mennella il 2 marzo 2017 su "Ossigeno". La Cassazione ha inflitto 18 mesi per abuso d’ufficio a Maurizio Musco. Processo nacque dopo inchiesta del giornale di Siracusa. Il 23 febbraio 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’ex sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco, a diciotto mesi di reclusione per abuso di ufficio, riconoscendogli il beneficio della sospensione condizionale della pena. La Cassazione ha confermato anche la condanna dell’ex procuratore capo di Siracusa (ora in pensione) Ugo Rossi a dodici mesi di reclusione. Il processo ebbe inizio dopo un’inchiesta giornalistica del quindicinale di Siracusa “La Civetta di Minerva”. Musco è il magistrato che, a novembre del 2016, con una lettera-diffida controfirmata dal suo avvocato, ha chiesto ai giornalisti Franco Oddo e Marina De Michele, direttore e vice direttrice del quindicinale La Civetta di Minerva, di versargli subito cinque milioni di euro a titolo di risarcimento danni per evitare una denuncia per diffamazione a mezzo stampa a causa degli articoli pubblicati sul suo conto. Richiesta rifiutata dai giornalisti che per tutta risposta hanno inviato le carte al CSM. Il periodico e i suoi giornalisti tra il 2011 e il 2012 sono stati gli autori di una grande inchiesta su alcune presunte irregolarità che coinvolgevano responsabilità di magistrati di Siracusa, su fatti noti come la vicenda dei “Veleni in Procura”. Una storia di intrecci non limpidi tra magistrati e avvocati, di funzioni giudiziarie deviate, di affari e malaffare. Dopo la pubblicazione degli articoli della “Civetta” alcuni parlamentari rivolsero delle interrogazioni al Governo. A marzo del 2012 il ministro della Giustizia, Paola Severino, mandò gli ispettori al Palazzo di Giustizia di Siracusa. Qualche mese dopo, in base alle risultanze dell’ispezione, chiese l’immediato trasferimento del vertice della Procura. A settembre 2012, in via cautelare, la sezione Disciplinare del Csm dispose il trasferimento d’ufficio del procuratore capo Ugo Rossi e del sostituto Maurizio Musco, in attesa che si svolgesse l’inchiesta disciplinare sul loro operato. Il CSM aprì una pratica sul dottor Musco, per non essersi astenuto su alcuni procedimenti. Al primo esame, il CSM lo ha assolto, ma poi la Corte di Cassazione ha ordinato di riaprire la pratica a suo carico. Il maxi risarcimento di cinque milioni di euro è stato chiesto da Musco pochi giorni prima che scadessero il termine di cinque anni entro i quali è possibile promuovere una causa civile per risarcimento danni, riaprendo così il termine di altri cinque anni per portare in giudizio Oddo e De Michele.

IL COMMENTO DI OSSIGENO – La condanna definitiva di Musco e Rossi giunge come una conferma, sia pure indiretta, della correttezza dell’operato dei giornalisti della “Civetta” e del valore pubblico delle informazioni da loro portate alla luce. Si spera che contribuisca a mettere fine alle azioni di rivalsa promosse pretestuosamente, in questi anni, contro di loro. Ossigeno si augura che la chiusura dei procedimenti giudiziari a carico dei magistrati con la conferma delle responsabilità accertate a loro carico permetta finalmente di riflettere a mente serena e in modo obiettivo sul ruolo svolto dal giornale di Siracusa, usando lo strumento dell’inchiesta giornalistica per informare i cittadini su vicende molto gravi di interesse pubblico e per promuovere gli accertamenti necessari per verificare il corretto funzionamento della macchina della giustizia. In altre parole, a riflettere sulla funzione di pubblica utilità che il giornalismo può svolgere rappresentando fatti e problemi di interesse pubblico e sottoponendo a controllo l’operato dei poteri e dei potenti. La vicenda mostra anche le difficoltà che i giornalisti incontrano quando svolgono questa funzione democratica e quale grande sostegno possono ricevere dalle associazioni dei cittadini. In questo senso, la vicenda della Civetta di Minerva è un caso di scuola da approfondire.

Il direttore della Civetta di Minerva, Franco Oddo, ha accolto la sentenza della Cassazione che conferma la condanna di Musco e Rossi quasi come un suggello della correttezza dell’operato e delle clamorose rivelazioni del suo piccolo giornale e ha ringraziato pubblicamente quanti, in questi anni, hanno aiutato lui e la vicedirettrice del giornale, Marina De Michele, a rompere il silenzio e l’isolamento, che è stato anche mediatico. Oddo ha ringraziato “primo fra tutti” il direttore di Ossigeno per l’Informazione, Alberto Spampinato, ricordando il sostegno ricevuto fin dall’inizio dall’Osservatorio e la presenza di Spampinato a Siracusa in una importante occasione che è valsa a creare un cordone di solidarietà civile attorno alla Civetta, “l’assemblea pubblica che si svolse all’Antico Mercato di Siracusa ed ebbe molta eco nella città”, proprio a ridosso della pubblicazione dell’inchiesta. Il direttore Franco Oddo ha ringraziato anche l’Ordine dei giornalisti, quello nazionale e quello regionale della Sicilia, “per aver sempre creduto nella professionalità dei cronisti della Civetta”. In particolare, Oddo ringrazia il presidente dell’Ordine della Sicilia, Riccardo Arena, per avere assegnato a lui e a Marina De Michele il Premio Mario Francese 2012, “quando – ha sottolineato – l’iter processuale che ci riguardava era aperto e farlo presentava qualche rischio”.

…DI CATANIA. Catania e il record di errori sospetti nei bilanci di aziende e negozi. Alla Camera di Commercio due terzi delle anomalie in Italia. L’indagine della Procura, scrive Sergio Rizzo il 4 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede a Catania. Succede ormai da anni, sempre allo stesso modo e sempre più o meno alle stesse imprese. Senza che nessuno però se ne sia mai accorto prima d’ora. Ma quando si è accesa per caso una lampadina è bastato verificare i dati delle ultime annualità per far emergere una situazione allucinante. Ed è partito un esposto alla Procura della Repubblica della città etnea. Che contiene numeri impressionanti. Perché i due terzi di tutte le anomalie relative alla presentazione dei bilanci delle società di capitali rilevate nel sistema informatico camerale si concentrano nella sola Camera di commercio di Catania. Nel 2010 sono 1.958 su 2.982, pari al 65,7%: ben 1.679 su 2.339 l’anno seguente (71,8%); 1.114 su 1.660 nel 2012 (67,1%); 906 su 1.423 nel 2013 (63,6%); 917 su ancora 1.423 nel 2014 (64,4%); 1.111 su 1.709 nel 2015. Persino dopo che l’esposto è arrivato ai giudici la cosa è proseguita imperterrita. Se è vero che nella prima metà del 2016 le anomalie sui bilanci alla Camera di commercio di Catania sono 379 su un totale nazionale di 649: il 58,4 per cento. Per capirci, a un tasso di errore delle altre Camere di commercio che oscilla fra lo 0 e lo 0,1%, alla Camera etnea il margine è arrivato in certi anni al 14 per cento. E c’è di più. Perché decine di quelle imprese per cui si registrano anomalie nel deposito dei bilanci, sono in odore di mafia. Senza poi considerare che le categorie più interessate dal singolare fenomeno risultano le più rischiose: dai costruttori al commercio di ortofrutta, passando per le ditta di trasporto. Abbastanza perché la cosa non sia stata presa sottogamba dai magistrati che se ne occupano. Tanto più considerando che la Procura di Catania ha aperto un’inchiesta più a largo raggio sull’attuale progetto di fusione delle Camere di commercio di Catania, Siracusa e Ragusa. Procedura gestita da un commissario ad acta, Alfio Pagliaro, che risulta lo stesso segretario generale della Camera di Catania dove si riscontrano tutte quelle strane anomalie nei bilanci delle società. I magistrati indagano sull’ipotesi di falso: vogliono accertare se alcune grosse aziende siano state a loro insaputa iscritte a qualcuna delle organizzazioni imprenditoriali che si contendono il potere nella futura grande Camera di commercio della Sicilia orientale, con lo scopo di far pendere la bilancia dalla propria parte quando si arriverà alla conta. C’è per esempio il caso di un’impresa con 650 dipendenti che si sarebbe ritrovata affiliata a un’associazione di trasportatori vicina alla Confcommercio. Tuttavia il filone di inchiesta sulle anomalie dei bilanci promette ben altre sorprese. Sarebbe stato già individuato uno schema operativo, che dalle imprese passerebbe attraverso il filtro di un ristretto gruppo di agenzie per arrivare fino ad alcuni impiegati della Camera di commercio addetti al caricamento dei dati nel sistema informatico. Sono loro che materialmente costruirebbero ad arte quelle anomalie per cui i bilanci delle società, pur figurando depositati nei termini, non comparirebbero nel sistema che dopo molto tempo. L’organizzazione è perfetta. Ma perché si fa una cosa del genere? La prima motivazione è semplice. Se un’azienda ha una struttura contabile interna che fa acqua non riuscirà a presentare il bilancio entro i limiti previsti. La data limite è quella del 31 luglio, superata la quale scatta una multa piuttosto salata, 1.020 euro per ogni amministratore. Che però nel caso di un’anomalia informatica ovviamente non si paga, soprattutto considerando che il giochetto è studiato facendo apparire regolare la presentazione dei documenti contabili. Tutti quei soldi, e sarebbero milioni di euro l’anno nel caso di Catania, non entrano nelle Cassa della Camera di commercio: lecito sospettare che esista una qualche contropartita, presumibilmente economica, per chi si adopera a costruire l’operazione. Il che non è un dettaglio. Difficile però credere che imprese catanesi in numero tanto rilevante non siano in grado di consegnare i loro bilanci in tempo. Ci devono essere quindi anche altre ragioni, oltre alla sciatteria contabile. Dicevamo che le aziende vittime di quelle anomalie sono in gran parte le stesse e appartengono a certi settori precisi. Per alcune di loro, quelle di costruzione, c’è in ballo la periodica partecipazione agli appalti pubblici, condizionata a una ben determinata situazione finanziaria che dai bilanci è facilmente rilevabile. Altre sono invece costantemente sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti, che spesso e volentieri scavano nelle banche dati. E questo può magari significare qualcosa...

"Noi, 15 magistrati con 42mila cause". Il presidente del Tar di Catania: organico ridotto e arretrati in aumento, scrive Luca Fazzo, Domenica 24/07/2016, su “Il Giornale”. Se anche, per qualche miracolo, ai Tar non arrivasse più neanche un ricorso, ci vorrebbero tre anni per smaltire l'arretrato: una montagna di 250mila processi pendenti davanti alla giustizia amministrativa italiana. Se la Banca Centrale Europea, che nei giorni scorsi ha collocato la giustizia italiana all'ultimo posto tra quelle del vecchio continente, avesse esaminato anche le statistiche dei processi davanti ai Tribunali amministrativi regionali, forse ci avrebbe inserito direttamente nelle classifiche del terzo mondo.

Come è possibile?

«In Italia - spiega Antonio Vinciguerra, presidente del Tar di Catania - esiste una struttura amministrativa sterminata tra amministrazioni dello Stato, enti locali e altri enti pubblici, che produce un contenzioso elevatissimo. A gestirlo sa quanti magistrati ci sono? Trecento, sulla carta. Se si potessero dividere le 242mila cause pendenti tra i magistrati in organico, raddoppiando gli attuali limiti di carico individuali ci vorrebbero più di tre anni per smaltire l'arretrato. In realtà i magistrati sono molti di meno di trecento, perché i pensionati non vengono sostituiti».

Forse informatizzando il processo si riuscirebbe ad alzare la produttività pro capite.

«L'obiettivo è quello. Ma il processo amministrativo digitale doveva entrare in vigore, secondo la normativa, al primo gennaio di quest'anno, ma è stato rinviato una prima volta al primo luglio e ora al primo gennaio del 2017. Intanto l'arretrato continua a salire. Come unico provvedimento si sono soppresse una lunga serie di sezioni distaccate, come quella di Catania che in realtà è un tribunale vero e proprio visto che copre cinque province su nove, con 2,6 milioni di abitanti e 42mila cause pendenti».

Come è possibile che un singolo tribunale riesca ad accumulare un arretrato simile?

«In effetti c'è solo un Tar che ha un numero di cause pendenti più alto di Catania, ed è quello di Roma dove ci sono 63mila cause arretrate. Certo, Roma è grande. Ma al Tar di Roma lavorano 50 magistrati. Noi invece dovremmo essere 25, in realtà siamo 16. Anzi, 15, perché l'ultimo arrivato lo hanno mandato provvisoriamente a Venezia. Ma a Venezia hanno 7.500 cause pendenti, cioè praticamente non hanno arretrati. Allora che senso ha mandare un giudice lì togliendolo a Catania? Ma paghiamo anche le conseguenze di una situazione logistica del tutto inadeguata. Avevamo trovato un nuova sede, avremmo risparmiato centomila euro all'anno sulla sede attuale. Ci hanno detto che il risparmio era troppo esiguo. La conseguenza è che siamo ancora nella vecchia sede, e continuiamo a pagare centomila euro in più».

Non sempre le decisioni dei Tar sono trasparenti. Si parla di conflitti di interessi, di frapporti preferenziali tra giudici e avvocati.

«Io ritengo fondamentale fornire garanzie di imparzialità che possano rassicurare i cittadini che si rivolgono ai Tar per ottenere giustizia. Per questo uno dei primi atti che ho compiuto dopo il mio insediamento come presidente della sede di Catania è stato di rivedere la composizione delle quattro sezioni interne, nel senso di garantire l'imparzialità non solo nell'immagine. Ho avuto cura di distribuire tra le sezioni i magistrati in modo che ciascuno di essi si trovi ad operare in una sezione in cui non siano presenti in modo costante amministrazioni dalle quali il giudice o i suoi familiari prossimi abbiano ricevuto incarichi retribuiti. Per questo provvedimento ho avuto qualche lamentela, ma sono convinto che è la strada giusta».

…DI PALERMO. I Beati Paoli», la Sicilia iniqua tra nobili crudeli e una setta segreta. Ritorna, edita da Sellerio, l’opera fluviale di Luigi Natoli: uscì a puntate tra il 1909 e il 1910. I giudizi di Umberto Eco e Leonardo Sciascia, scrive Paolo Di Stefano l'8 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Che cos’è questo strano oggetto narrativo che si intitola I Beati Paoli? È un romanzo-fiume, un romanzo d’appendice di quasi 1.300 pagine scritto da Luigi Natoli, fervente mazziniano palermitano, vissuto dal 1857 al 1941, che cominciò a collaborare per i giornali diciassettenne prima di diventare professore di Storia nei licei della sua città e affermato poligrafo, autore di una trentina di romanzi a carattere storico, di numerosi saggi e di opere teatrali. I Beati Paoli uscì in 239 puntate, con grande successo, sul «Giornale di Sicilia», tra il 1909 e il 1910, sotto lo pseudonimo inglese di William Galt. Il libro sarebbe apparso in prima edizione nel 1925 da Gutenberg, poi riproposto a dispense dall’editore milanese La Madonnina e nel 1955 ancora a puntate dal quotidiano «L’Ora» di Palermo. Fu l’editore Flaccovio a rilanciarlo nel 1971 con il vero nome dell’autore, il sottotitolo Grande romanzo storico siciliano, un’introduzione di Umberto Eco e una Nota dello studioso Rosario La Duca. Ora il testimone passa alla Sellerio, che lo ripubblica, in due volumi, con prefazione di Maurizio Barbato, il quale ricostruisce le vicende del caso editoriale e le discussioni che ne seguirono. Che cos’è dunque I Beati Paoli? Intanto è un bel romanzo di sapore dumasiano, appassionante, dal ritmo rapido nonostante la mole, diviso in quattro ampie parti di brevi capitoli (una ventina ciascuno): un romanzo di intrecci contorti e di storie parallele, di personaggi buoni e cattivi, di eroismi (pochi) e viltà (molte), di tradimenti, passioni, follie d’amore, equivoci, fughe, duelli, scorribande cavalleresche, rapimenti, gelosie furibonde, violenze, vendette, capovolgimenti scespiriani del destino. E con una setta segreta, i Beati Paoli. Siamo nella Sicilia che va dal 1698 al 1719, tra Palermo Messina e Catania, con rari sconfinamenti in terraferma (Torino, Genova, Roma sono solo evocate): è l’epoca in cui l’isola, con la pace di Utrecht (1713), viene ceduta dalla Spagna ai Savoia e poi contesa tra spagnoli di ritorno e impero austriaco, ed è il tempo eterno in cui si consumano le rivalità tra nobili locali, feudatari, principi, baroni, duchi, marchesi veri e presunti. L’edizione Sellerio de «I Beati Paoli» di Luigi Natoli, con prefazione di Maurizio Barbato, è composta di due volumi (pp. 1280, euro 25). La trama non è raccontabile, il lieto fine assicurato. I protagonisti sono molti, a cominciare dal cuore nero di don Raimondo Albamonte della Motta, che si sbarazza degli eredi del fratello maggiore Emanuele (morto in guerra) per far valere le sue ansie di potere; arriva a cedere sua moglie, donna Gabriella, al re per guadagnarsi i favori del sovrano; viene perseguitato da missive anonime dietro cui si nasconde una misteriosa e potentissima congrega che aspira a fare giustizia della corruzione imperante. Sono, appunto, i Beati Paoli, altro cuore nero del romanzo, che si oppongono ai delitti oscuri di don Raimondo senza farsi scrupolo di compiere nuovi feroci misfatti. È un libro sui sotterranei metaforici e fisici: nei cunicoli della città si incontra la setta segreta. Un libro sulla cecità del potere che sovrasta l’interesse comune e sull’oscurità della violenza che vorrebbe travolgere quel potere. Due poteri altrettanto nefandi che non risparmiano nulla pur di prevalere all’insaputa del popolo, che c’è ma non sa, non vede e non parla, e se sa viene coinvolto a fare l’interesse dell’una o dell’altra prepotenza, senza via di scampo, perché si ritorni all’ordine (o al disordine) stabilito. Ci sono anche i buoni, il figlio e il figliastro di Emanuele, la povera figlia di Raimondo, Violante, che a volte per troppa bontà o per troppa fierezza sbagliano, cadono, inciampano anche loro nell’orrore, si compromettono. Non ci sono cavalieri senza macchia e senza peccato. La parola giustizia ricorre in tutte le sue accezioni, anche perché ciascuno ha la sua da imporre all’altro, giusta o ingiusta che sia: «Non bisogna per amore di giustizia essere ingiusti…», dirà Blasco, figliastro del duca Emanuele. Ma il capo dei Beati Paoli non la pensa così: «Che cosa è un uomo dinanzi a un diritto violato? Che cosa una vita umana dinanzi alla giustizia che cammina diritta per la sua strada? Essa deve andare innanzi e stritolerà coloro che incontra». Ma dove sta la nobiltà d’animo se si sente l’esigenza di muoversi nell’ombra? Per caso, chiede Blasco, «voi non osate affrontare la luce, perché sentite vacillare la fede nella vostra giustizia?» Risposta: «Ah no! Vacilla soltanto la fede nella giustizia legale; anzi non vacilla, manca addirittura… L’ombra? È necessaria. È la nostra forza e la nostra sicurezza. La giustizia del re è amministrata da uomini che vedono in essa non un dovere, ma il salario». È la teoria tutta italiota in cui hanno spesso trovato «giustificazione» i delitti mafiosi e quelli brigatisti, ma anche il principio del «governo ladro» su cui spesso si regge il presunto diritto all’evasione fiscale. Il farsi giustizia da sé di fronte all’ingiustizia dello Stato. A proposito del successo che arrise a I Beati Paoli, lo storico La Duca ha scritto che il romanzo divenne «sillabario e testo sacro, tenuto al capezzale del pater familias che ne leggeva i diversi capitoli a parenti e vicini». Un libro che ha saputo non solo divertire e affascinare, ma anche «toccare le corde profonde dell’identità popolare», aggiunge Barbato. D’altra parte, come ha fatto notare Eco, ci sono le tinte collaudate del romanzo gotico, con il gusto fosco dell’occulto e del complotto. Si veda la fisiognomica dei ritratti. Il cattivo Raimondo viene descritto con il volto pallido, gli occhi lampeggianti, la bocca come una lunga ferita, le mascelle angolose. L’innocente fanciulla Pellegra ha movenze graziose e composte dalle «dolci curve»: «Il capo, ricco di capelli castani, avvolto in una specie di cuffia o berretto, si inchinava un po’ sull’omero destro, sopra il collo svelto e di classico disegno». Le metafore sono vivide e corpose: una brutta notizia può presentarsi come «un sasso che, cadendo improvviso nel fondo limaccioso di un pozzo, turbi la limpidezza dell’acqua facendo assommare la belletta». Gli ambienti si presentano spesso sinistri, con ombre avvolte nei mantelli ferme ad ogni angolo di strada e pronte a dileguarsi all’improvviso. I paesaggi sono tersi e luminosi oppure cupi, il tramonto fa morire il cielo d’oro in tinte prima rosee poi violacee. Lugubri forche, in piazza Marina, hanno braccia nere: «Essi videro con raccapriccio una forma umana pendente da un laccio, girare su se stessa, al soffio del vento». Barbato ricorda un giudizio lusinghiero — e probabilmente un po’ fuori misura — espresso su «Le Monde» dal critico francese Jean-Noël Schifano: «Insieme ai Promessi Sposi, a I Viceré, al Nome della rosa e alla Storia della Morante ecco, infine, tradotto con I Beati Paoli il quinto monumento storico della letteratura italiana contemporanea». Resterebbe da capire se i Beati Paoli sono un’entità oscura realmente esistita, magari, come sostiene qualcuno (Francesco Paolo Castiglione), come «una sorta di servizio segreto deviato nei torbidi del passaggio definitivo della Sicilia e del suo baronaggio al dominio spagnolo». Quanta base storica ci fosse nel libro di Natoli fu la domanda che animò il dibattito seguito all’edizione Flaccovio. D’altra parte, se il semiologo del Superuomo di massa aveva puntato la sua lettura inserendo I Beati Paoli nel solco europeo del «romanzo popolare» con la vittoria consolatoria del bene sul male, escludendo l’intenzione civile del romanzo storico, La Duca esaltava la realtà documentaria che intrama le vicende. Se per Eco si tratta di una tarda espressione ideologica di quel filone d’evasione che tende a pacificare i conflitti disinnescando ogni velleità rivoluzionaria popolare, per La Duca il libro di Natoli realizza una sintesi tra fonti storiche e tradizione popolare: quanto ai rapporti genetici con la mafia, va escluso, secondo lo studioso, che si possa tracciare un collegamento diretto, ma non c’è dubbio che in quella società segreta soffia uno spirito essenzialmente mafioso. Leonardo Sciascia, secondo il quale non può fare a meno di conoscere il romanzo di Natoli chi voglia capire che cosa significa «essere siciliani», ricorda un opuscolo del Marchese di Villabianca che dà origine, nella seconda metà del Settecento, alla leggenda dei Beati Paoli. Il Villabianca, che da bambino ha sentito parlare di quella setta, la riconduce ai Vendicosi, una congrega di tenebrosi giustizieri attestata in due cronache del XII secolo. Il diario di Villafranca avrebbe ispirato Natoli suggerendogli la «linea per così dire ideologica» di quel romanzo-fiume che da I Beati Paoli si riversa nei successivi Coriolano della Floresta e Calvello il bastardo: «E il ciclo — osserva Sciascia — si conclude quando i Beati Paoli sono ormai massoni e giacobini». L’avversione che il marchese nutre per la setta viene rovesciata dal Natoli in un consenso considerato da Sciascia «pieno e aperto» e dal quale deriva la popolarità dei suoi libri: «Coi romanzi di Natoli si può dire che arriviamo a scoprire la mafia come vera profonda inalterata costituzione». La mafia come «modo di essere».

Palermo, giustizia allo sbando. Pm preso a pugni in tribunale. Aggredito dopo una sentenza di omicidio dai familiari di due condannati, scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/07/2016, su “Il Giornale”. Pubblico ministero preso a pugni e steso dai parenti dei condannati, al termine di un processo. Familiari della vittima e avvocati di parte civile costretti a barricarsi in aula, per non fare la sua stessa fine. E giudici sequestrati, sigillati in camera di consiglio appena dopo la lettura della sentenza e fatti uscire solo una volta calmate le acque, sotto scorta, tipo gli arbitri quando lasciano lo stadio dopo una partita di calcio «calda». Non siamo in un piccolo tribunale di provincia, pochi giudici e ancor meno agenti a sorvegliare il regolare andamento delle udienze. Già, perché questa storia che sembra incredibile (e purtroppo non lo è) arriva dal Palazzo di Giustizia di Palermo. Sì, proprio uno dei luoghi più blindati d'Italia, dove si celebrano processi delicatissimi. Eppure. Eppure come a Palazzo di Giustizia di Milano, altro luogo blindatissimo, dove un anno e mezzo fa un imputato è entrato in aula con pistola ha ucciso tre persone - un avvocato, un imputato e un giudice -, ecco che la storia, sia pure con conseguenze decisamente meno gravi, si ripete. A riprova di una giustizia senza mezzi e con scarse tutele che si ritrova assediata persino dove viene amministrata. Nelle stesse aule in cui pronuncia sentenze in nome del popolo italiano. Nessun morto, per fortuna, a Palermo, tranne la dignità di una amministrazione della giustizia che suo malgrado si ritrova in balìa di criminali piccoli e grandi. Lo spettacolo degno di un film western è andato in scena venerdì, al termine di un processo per omicidio, in corte d'Assise. Un delitto, ha ricostruito il dibattimento, maturato negli ambienti dello spaccio di droga. Il pm, Maurizio Bonaccorso, aveva chiesto la condanna all'ergastolo per i due imputati, accusati di avere ammazzato nel 2012 un fruttivendolo trentaduenne, fatto fuori con un colpo di pistola alla testa e poi dato alle fiamme. I giudici della Corte d'Assise non avevano accolto la sua richiesta, ma avevano comunque comminato ai due imputati rispettivamente 30 e 27 anni. Il putiferio è scoppiato subito dopo la lettura della sentenza. I familiari dei condannati hanno cominciato a inveire, urlare, insultare. E uno di loro si è scagliato contro il pm che stava lasciando l'aula: un pugno in pieno volto. Steso. È scoppiato il caos. I carabinieri in aula c'erano, sono arrivati anche i rinforzi, una quindicina di militari in tutto. Gli agenti hanno soccorso il magistrato, ma al tempo stesso hanno messo in sicurezza gli altri bersagli dei familiari del condannato: la vedova, che li aveva accusati, i suoi avvocati. E poi naturalmente i giudici. Le parti si sono barricate in aula. Il collegio giudicante è tornato in camera di consiglio e si è chiuso dentro. I giudici hanno lasciato la loro «prigione» dopo qualche ora, sotto scorta. Incredibile. Incredibile ma purtroppo vero. Di «intimidazioni inaccettabili» parla il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. L'Anm tuona contro il «vile attacco all'autorità giudiziaria» e punta l'indice contro la mancanza di sicurezza nei tribunali: «È forte la preoccupazione per le inadeguate e insufficienti misure di sicurezza presenti negli uffici giudiziari». Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, chiede più sicurezza e ricorda i fatti di Milano: «Le strade del nostro Paese sono macchiate dal sangue dei magistrati. È inutile aver ricordato pochi giorni fa Paolo Borsellino se poi non si fa nulla».

"Falsa sparatoria allo Zen per avere un premio". Arrestati due poliziotti. L'auto dei poliziotti coinvolta nella finta sparatoria. Ai domiciliari un ispettore e un assistente capo della caserma Lungaro. Scagionato il rom che era stato accusato del raid, è rimasto in carcere per cinquanta giorni, scrive Salvo Palazzolo il 21 luglio 2016 su “La Repubblica”. Un poliziotto urla via radio: "Stiamo inseguendo una Hyundai Atos allo Zen 2, ci stanno sparando". La città si riempie di sirene, parte una colossale caccia all’uomo. E mezz’ora dopo viene arrestato un rom, un piccolo ladro di auto. Sedici marzo dell’anno scorso, un pomeriggio concitato. Il giorno di un grosso abbaglio. Quel giovane rimasto in carcere 50 giorni non aveva mai sparato contro gli agenti, perché nessuna sparatoria c’era mai stata. Era tutta una messinscena. E ieri mattina sono finiti agli arresti domiciliari un ispettore e un assistente capo che all’epoca erano in servizio all’armeria della caserma Lungaro. Sono i protagonisti dell’allarme lanciato via radio alla centrale operativa. Si tratta di Francesco Elia, 56 anni, e di Alessandra Salamone, 49. Sono pesanti le accuse che vengono contestate dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Dino Petralia e dal sostituto Maurizio Bonaccorso: calunnia, simulazione di reato, falso, procurato allarme, danneggiamento. Il gip Maria Pino non ha avuto dubbi sulla ricostruzione. E il giovane rom è stato scagionato definitivamente: quel pomeriggio, aveva appena rubato un’auto e pensava che tutte quelle volanti fossero per lui, ecco perché scappava. Eppure, i segni di una sparatoria sembravano esserci tutti. Una ferita di striscio sul braccio dell’ispettore Elia, un proiettile conficcato sul cofano dell’auto della polizia. Ma sin dall’inizio di tutta questa storia qualche dubbio era sorto al questore Guido Longo. Gli investigatori del commissariato San Lorenzo hanno analizzato le immagini della telecamera sistemata nel parcheggio del centro commerciale “Conca d’oro”, che riprende un tratto di strada fra via Scordia e via San Nicola. E la verità è cominciata ad emergere: alle 18.15, si vede l’auto della polizia che procede ad andatura regolare, e davanti non c’è alcuna Atos che scappa. Da quel punto, ci vogliono trenta secondi per arrivare all’angolo fra via San Nicola e via Rocky Marciano, dove scatta l’allarme via radio. Trenta secondi. E, invece, la comunicazione radio è rimasta registrata nel server della sala operativa alle 18.24. È quel buco di nove minuti ad aver portato ai domiciliari i due poliziotti. La Scientifica ha aggiunto dettagli importanti: il colpo sul cofano della volante sarebbe stato sparato da cinque metri, e non da quaranta, come invece aveva raccontato l’ispettore. Le indagini della squadra mobile, diretta da Rodolfo Ruperti, hanno completato il quadro. Nei mesi scorsi, Elia ha presentato un’istanza al ministero dell’Interno: chiedeva di essere riconosciuto "vittima del dovere", chiedeva anche un "equo indennizzo" per "causa di servizio". Una brutta storia.

Stato-mafia. E nonostante tutte le traversie subite dal giovane Ciancimino, che hanno finito per minarne la credibilità, l'architrave del processo resta la sua testimonianza (supportata da riscontri, secondo i pm, arrivati a prescindere dai dubbi sull'attendibilità del testimone) scrive “Mondo TV” il 6 Febbraio 2016. "Avevo una scheda sim con la quale lo chiamavo regolarmente - dice -". "Ho conosciuto Bernardo Provenzano nella mia infanzia, una presenza costante nella mia vita, fino alla morte di mio padre". Poi nel 2006, Ciancimino junior viene indagato per riciclaggio: e durante una perquisizione nella sua casa palermitana viene sequestrato anche il cellulare e la sim che aveva in memoria i numeri di telefono del signor Franco. Ciancimino e i rapporti con Giuseppe De Donno. Era il giugno 1990 presso la nostra abitazione in un residence di Mondello. Lui si divertiva a irritarlo. Lo incontrai spesso in Tribunale, dove andavo a prendere informazioni - racconta Ciancimino jr -. Massimo Ciancimino ha inoltre ricordato la scarsissima stima che il padre nutriva verso Riina: "Per lui, Riina era praticamente un ritardato, un doppiogiochista e un uomo aggressivo". Negli anni dal 1999 al 2002, quando Massimo strinse rapporti più confidenziali con suo padre, "questi dossier erano serviti per avvisare amici e politici su possibili inchieste nei confronti di persone riconducibili a mio padre". "De Donno - ha aggiunto - mi ha lasciato una utenza telefonica che avrei utilizzato per chiamarlo dopo il tentativo di convincere mio padre a ricevere i due carabinieri". Parla per quattro ore: dei suoi rapporti con Bernardo Provenzano, una sorta di zio affettuoso che lo rimproverava bonariamente, della figura del padre, don Vito Ciancimino, il sindaco del sacco edilizio di Palermo vicino ai Servizi e "intimo" del boss corleonese. "Provenzano si muoveva liberamente grazie a degli accordi che erano stati stretti in anni passati, me lo disse mio padre", racconta. Provenzano gli disse: "Riina è impazzito". Nella lista infatti c'erano altri politici e magistrati. La reazione alla strage di Capaci. Rispetto al passato, quando vantava, non sapendo di essere intercettato, di poter fare il bello e cattivo tempo nella Procura di Antonio Ingroia, ha perso smalto. Quelli per e da Provenzano "li gestivo io direttamente anche tra maggio e dicembre del 1992". Il signor Franco avrebbe in più occasioni fatto da consiglieri a Ciancimino per i suoi problemi giudiziari. "Riina - ha spiegato - veniva anche a casa nostra". Fu lui a dirmelo. "Per l'ennesima volta Massimo Ciancimino ha rilasciato dichiarazioni totalmente infondate e già smentite in modo radicale ed inoppugnabile nelle sedi processuali", commenta il legale dell'ex premier, Nicolò Ghedini. Documento che Ciancimino jr racconta poi di aver recuperato in casa a Roma, a San Sebastianello, conservato dentro un tomo. "Prima, fui io a consegnargli una busta di mio padre. Quando lui lesse quelle proposte, che considerò irricevibili, esclamò: "Il solito testa di minchia".

Cosa resta del processo del secolo, scrive Lara Sirignano su “Di Palermo” il 5 febbraio 2016.

La Trattativa fra lo smalto perduto di Massimo Ciancimino, un fortino senza più soldati e la noia di noi giornalisti che ci eravamo illusi di riscrivere la Storia. Il Bene, il Male e altre sciocchezze...Sembra passato un secolo. Lui che distillava verità a rate. Noi, lì, ad appuntarcele, terrorizzati di perderne un frammento. Loro disposti a giocarsi l’unità e la faccia della Procura, a passare sopra a contraddizioni e dubbi pur di trovar conferme a tesi già scritte. Lui, Massimo Ciancimino, definito da uno di loro, Antonio Ingroia, un’icona dell’antimafia. Noi, i giornalisti, una massa quasi indistinta di scribacchini pronti a sacrificare il buon senso e l’onestà intellettuale per avere una riga di verbale in più. Lui, noi, loro: protagonisti, comunque vada a finire, di una storia desolante. Sembra passato un secolo e invece sono trascorsi pochi anni, ma tutto è cambiato. Lui non è più lui. Gravato da condanne e indagini che ne hanno appannato l’immagine, all’atteso debutto davanti alla corte d’assise, è apparso stanco e affaticato. E nemmeno loro sono più loro: Antonio Ingroia, che nel processo del secolo cercava la volata per l’approdo a più gratificanti lidi politici, fa il manager per Crocetta e, dopo una breve tappa in Guatemala e il disastro delle urne, ha lasciato la toga. Paolo Guido, unico tra i pm storici del pool a non mettere la firma sulla fine dell’inchiesta, ne è uscito quando prendere le distanze da quello che passava per un tentativo di scrivere la Storia con la S maiuscola costava caro. Ne sanno qualcosa lo storico Salvatore Lupo e il giurista Giovanni Fiandaca, docenti universitari certo non sospettabili di vicinanza alla mafia, accusati dall’ex procuratore di Palermo Francesco Messineo di avere messo in pericolo l’incolumità dei magistrati del pool solo per avere criticato l’impianto dell’accusa. A presidiare il fortino dell’originario schieramento oggi è rimasto solo Nino Di Matteo che, certamente in buona fede, nel processo del secolo ci crede ancora. E, in qualche modo, siamo cambiati pure noi. Ora penne critiche, dopo anni di asservimento a una Procura che pure ha mutato fisionomia. “Tutto finisce, tutto passa, l’acqua scorre e il cuore dimentica”, scriveva Flaubert. E allora c’è da chiedersi: resta ancora qualcosa del processo trattativa? A giudicare dagli ultimi atti parrebbe che, per strada, se ne siano persi pezzi importanti. Un giudice, che non ha certo la fama d’essere garantista, tre mesi fa ha assolto uno dei personaggi chiave della storia: quel Calogero Mannino che dell’accordo tra la mafia e lo Stato sarebbe stato il primo motore. Un colpo pesantissimo per l’accusa, che il taumaturgico “aspettiamo di leggere le motivazioni” stavolta non lenisce. E poi c’è stato il coup de theatre di chi dell’inchiesta trattativa è forse il padre spirituale, Roberto Scarpinato, che da pm ipotizzò i cosiddetti sistemi criminali, e che, al momento di chiedere la condanna di Mario Mori nel processo per la mancata cattura del boss Provenzano, la trattativa l’ha fatta sparire. Contesto imprescindibile in cui maturò l’impunità del padrino corleonese nella ricostruzione di Ingroia e dei suoi, il patto scellerato esce di scena come non fosse mai esistito. Perché visione semplicistica e semplificata di accordi trasversali e progetti eversivi che l’ex magistrato del processo Andreotti, però, nell’aula di giustizia in cui, a breve, si decideranno le sorti di Mori, non è riuscito a fare entrare. La vera storia d’Italia d’un tratto appare dunque monca di parti vitali. E sembra calare mestamente il sipario su una rappresentazione che ha ormai pochi spettatori affezionati: i ragazzi delle Agende Rosse, in attesa, dal loggione del bunker dell’Ucciardone, di applaudire il Bene che sconfigge il Male.

Massimo Ciancimino su “Di Palermo” il 7 febbraio 2016: “Mi muove l’unica cosa che non si può comprare: la dignità”. Ho letto il pezzo di Lara Sirignano su dipalermo.it e mi corre l’obbligo di dire qualcosa in merito, di far capire, soprattutto, le mie odierne motivazioni, le priorità che mi muovono. Questo anche per il solo fine di poter fornire a voi lettori un punto di vista diverso rispetto a quello che molti si sono costruiti in questi anni. Da quando ho iniziato a rispondere ai magistrati, e ribadisco che la mia in nessun modo può essere definita collaborazione, non sono stato beneficiario, come spesso ho invece letto, di impunità di sorta né ho ottenuto restituzioni di fantomatici tesori vaganti. Perché era questo, per molti operatori dell’informazione, il mio unico vero fine. Ciò che invece mi muoveva, e continua a muovermi, è il desiderio di poter dare a mio figlio l’unica cosa che nessun tesoro può comprare: la dignità. Ben sette procure mi hanno indagato per riciclaggio, inchieste tutte chiuse, come l’ultima di Bologna appena notificatami, con la richiesta di archiviazione accolta dal gip. Non sono, né ambisco ad esserlo, un paladino dell’antimafia, lascio ad altri l’onore e l’onere di rappresentare l’antimafia siciliana nella sua massima espressione, anche istituzionale. Sono conscio di essere un buon padre, mi è stato concesso dalla mia ex compagna il privilegio di crescere mio figlio, una scelta nata dallo volontà dello stesso; saranno sempre il suo sostegno e il suo amore a darmi ancora la forza per andare avanti. Per il resto, ho solo risposto, e continuerò a farlo, alle domande dei magistrati, non mi ritengo detentore di verità assolute. Dico quello che so, quello che ho visto, faccio quello che ritengo sia il mio dovere in un Paese dalle labili memorie, dai facili “non ricordo” e dove uomini in divisa si avvalgono della facoltà non rispondere, premiando di fatto una cultura dove l’omertà continua a pagare. Cantava il buon Lucio Dalla che “l’impresa eccezionale è essere normale”. Io sono normale, ed è questa la mia impresa quotidiana.

Pippo Fava, i Mattarella e la mafia, scrive Alessandro D'Amato su "Next Quotidiano" l'1 Febbraio 2015. Da qualche giorno su internet girano gli estratti di uno scritto di Pippo Fava, fondatore de I Siciliani e ucciso dalla mafia, dal titolo “I cento padroni di Palermo”, in cui dipingeva Bernardo Mattarella più o meno come un uomo equivoco, e il figlio Piersanti più o meno come suo pari: Mattarella (Bernardo, ndr) non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Lo scritto risale al giugno 1983. Il figlio di Giuseppe (Pippo) Fava si chiama Claudio, ed è uno dei fondatori della Rete prima di passare ai Democratici di Sinistra e a Sinistra, Ecologia e Libertà. Claudio Fava però è anche sceneggiatore della fiction Il Capo dei Capi, dedicata a Totò Riina. Oggi abbiamo scoperto, grazie al Fatto Quotidiano, che nel 2008 l’attuale capo dello Stato, insieme ai nipoti Maria e Bernardo (figli del fratello Piersanti, ucciso da Cosa nostra il 6 gennaio del 1980, quando era presidente della Regione Siciliana) decise di fare causa alla Rti e alla Taodue, produttori della fiction Mediaset Il Capo dei Capi. Il motivo? Nella mini serie tv di Canale 5, alla figura di Bernardo Mattarella “si attribuiscono allo stesso amicizie o comunque frequentazioni mafiose che non hanno riscontro alcuno, ricorrendo ad artifici anche grossolani”. Come è finita la storia? “La diffamazione operata ai danni di Bernardo Mattarella – scrive il giudice – scaturisce dalla non veridicità dei fatti narrati, giacché non vi sono elementiper ritenere provato il rapporto di amicizia con Ciancimino, e non è veritiera la comunanza d'interessi politici giacché è, piuttosto, provata la militanza in correnti diverse della Dc e l’assenza di qualsiasi legame tra i due”. Alla fine i produttori tv sono stati condannati a risarcire con settemila euro a testa Sergio, Maria e Bernardo Mattarella. Ma la storia non finisce qui. Claudio Fava infatti attualmente è onorevole ed è iscritto al gruppo misto in quota al Partito Socialista Italiano (qui la sua scheda). Accidenti della storia: chi ha votato il Partito Socialista nell’elezione del capo dello Stato? Già, proprio Sergio Mattarella.

I cento padroni di Palermo, da “I Siciliani”, giugno 1983. Camminare a Palermo. Il viale bianco di sole. Le grandi nuvole che arrivano da Punta Raisi, la loro ombra corre sul viale più veloce delle auto. Il cielo sul mare è abbagliante, il cielo sulle montagne a sud, è nero di tempesta. Il gelato da Roney. Tre signore di mezza età stanno sulle poltroncine verdi, con le sopracciglia alte e le boccucce delle signore di Tolouse Lautrec, sedute al divano rosso. Fumano con boccate avide, l’una racconta e continuamente ride, scuote la cenere in aria, l’altra sorride melliflua, la terza annuisce. Sorbiscono granita di mandorla. Tre boccucce eguali come fossero state dipinte dalla stessa mano.  Camminare a Palermo. Il cuore del vecchio mercato a mezzogiorno. Almeno cinquemila persone in un groviglio di vicoli che affondano tutti verso la piazzetta. Cento bancarelle sormontate dai giganteschi ombrelloni rossi, pesce, verdura, carne, mele, noci, aragoste, i quarti insanguinati di vitello, i capretti sventrati che pendono dagli uncini, i banditori urlano tutti insieme, lottano così l’uno contro l’altro, in mezzo alla folla. Camminare a Palermo. Il circolo della stampa, con i soffitti bassi, il sentore e l’odore della catacomba, il buio, la luce verde del bigliardo senza giocatori, tre bizzarri individui che ti vengono incontro da tre direzioni diverse, si rassomigliano incredibilmente tutti e tre, saluti gentilmente e nello stesso momento tutti e tre ti salutano con l’identico sorriso, sono gli specchi che dagli angoli bui riflettono la tua immagine. Silenzio. Un aroma di caffè, un cameriere vecchissimo, allampanato che appare vacillando, da un angolo d’ombra all’altro, e scompare. Su un divano tre vecchi signori impassibili dinnanzi a un televisore in bianconero che pispiglia qualcosa. Uno dei signori ha il bastone col manico d’argento, le ghette, il panama bianco. Si alza levando dolcemente il bastone a mo’ di saluto: “Ho fatto tardi!”. Se ne va adagio, si volge solo un attimo con un mormorio. Non si capisce se abbia detto: “Debbo morire!”. Camminare a Palermo? Gli osceni edifici a dodici, quindici piani, che si affollano l’uno sull’altro, lungo la riva del canalone che scende dalla collina al mare, con un rivolo d’acqua putrida al centro, e giù in basso i tuguri dove si ammassano venti persone, a due metri da quel rigagnolo giallo. I bambini che giocano da una riva all’altra. Bambini così, anche cani così che corrono in mezzo ai bambini, li ho visti solo a Palma di Montechiaro. Anche il colore, anche il fetore di quel rigagnolo è lo stesso di quel liquame che scorre orribilmente fra le rupi di Palma. Tutto questo è retorica, lo so. A Palma di Montechiaro però tre bambini su dieci muoiono prima di arrivare all’età scolare. E da qualche parte, in questa immensa città, c’è qualcuno che sta discutendo quale sarà il destino di questi bambini di Palermo per i prossimi venti o trent’anni. E quale sarà il suo guadagno. Palermo è una delle città più belle d’Europa e certamente una delle più infelici. Forse più della stessa Napoli. Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le reggie favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c’è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell’isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un’altra razza: quelli sicani e noi invece siculi, quelli cartaginesi, saraceni, andalusi, napoletani; noi greci, romani, svevi, milanesi. I catanesi hanno proposto due capitali dell’isola per due popoli diversi, si tratta di uno sberleffo, ma nella realtà in cosa potranno mai essere rassomigliati (concetto dell’uomo o pensiero sulla vita) Verga e Tomasi di Lampedusa, oppure Vitaliano Brancati e Leonardo Sciascia? Pirandello, che stava in contemplazione a metà strada fra questi due concetti dell’essere, probabilmente dovette pensare quanto l’essere siciliano in definitiva fosse fantastico e improbabile. I siciliani non amano Palermo e Palermo lo sa perfettamente ma non se ne cura. I siciliani non amano Palermo poiché essa è la capitale che esige soltanto tributi e obbedienza, e in verità Palermo vuole questo soprattutto, come è giusto che sia il rapporto fra sudditi e sovrano. Il catanese, il siracusano, il messinese, il ragusano, si azzannano a vicenda, ma se qualcuno forestiero gli chiede la provenienza, dicono: Siciliano! E basta. Il palermitano dice: palermitano, che a parer suo è cosa inimitabile e sovrana. I Siciliani non amano Palermo. C’è qualcosa che impaurisce e respinge. Io ho visto per le strade di Catania auto sbucare di colpo, e uomini balzare fuori con le armi in pugno e cominciare a sparare addosso ad altri uomini, e chinarsi urlando a sparare il colpo di grazia alla nuca. Ho visto corpi insanguinati di ragazzi uccisi, giacere in mezzo alla strada e la gente che continuava ad andare, le auto a correre. Ho visto cortili fracassati dalle raffiche di mitra e dalle schegge delle bombe a mano, e colava dai muri e le polpette ancora fumanti sulla mensa. Ho visto madri avanzare piangendo verso i corpi degli uccisi, sostenute pietosamente da parenti che però avevano la sigaretta fumante in bocca. La morte a Palermo è diversa, la morte violenta. Più profonda, più arcana e fatale. Esige contemplazione: una fila di sedie tutt’intorno al corpo insanguinato, in mezzo alla strada, e ai parenti seduti immobili, in silenzio, a guardare. I ragazzini immobili e attenti. La morte è spettacolo da non perdere. La morte ha sempre una ragione d’essere. A Palermo essa va meditata e capita. Chi sono i padroni di Palermo? Coloro che hanno nel pugno il destino di questa grande, splendida e infelice capitale del Sud? E’ una domanda essenziale poiché essere padroni di Palermo non significa soltanto governare taluni giganteschi affari per migliaia di miliardi, ma per infinite, invisibili vie governare anche lo sviluppo politico dell’isola e quindi del Meridione: per esempio stabilire in quali banche debba essere depositato il pubblico denaro, e chi debba dirigere queste banche; per esempio indicare quali funzionari meritino carriera per propiziare e garantire giganteschi affari di vertice; e via via, sempre per esempio, spirali sempre più difficili e più alte e segrete, designare coloro i quali dovranno essere deputati, assessori, sottosegretari, ministri. Bisogna stare attenti. In Sicilia, e quindi naturalmente a Palermo, si verifica un fenomeno straordinario: e cioè che in Italia tutto quello che accade, nel bene e nel male, dipende dai partiti oramai despoti della vita nazionale, ma questo potere nel Sud si sgretola, degrada, corrompe, privatizza. Un uomo politico può diventare presidente o ministro, e la gente pensa che sia domineddio, ma nella realtà egli è diventato ministro o presidente per amministrare una situazione, una proposta, un compromesso che altri hanno discusso e deciso prima di lui e gli hanno semplicemente affidato. Altrove, a Torino, Milano, Bologna, persino a Napoli, un ministro può essere il padrone. Qui, non essere nessuno. Chi sono dunque i padroni di Palermo? Badate bene: i padroni, non il padrone, poiché a Palermo accade anche questo fenomeno straordinario, e cioè che non è ammesso il tiranno, il condottiero, colui il quale per carisma, per virtù propria di talento o violenza, possa emergere su tutti gli altri ed al quale tutti gli altri debbano rispetto e obbedienza. Se spunta un Cesare ci sono subito le Idi di marzo. Palermo rassomiglia alla Roma del basso impero con le congiure, i pretoriani, i Caligola che fanno senatori i loro cavalli, le clientele che fluttuano dall’uno all’altro vincente. Ma più ancora Palermo rassomiglia all’Atene della decadenza, con gli oligarchi, oratori, guerrieri, reggitori che in mezzo a loro non permisero mai venisse fuori un capo. Le virtù che contano a Palermo non sono quelle di un Pericle, ma piuttosto di un cardinale Mazzarino, di chi sappia intrigare, unire, collegare, non conoscere mai la vera identità dell’assassino e tuttavia da quell’assassinio trarre sicuro vantaggio, né mai essere in prima persona nell’affare da cento o mille miliardi, ma amabilmente avere la certezza di un dieci per cento, metà del quale da distribuire ad amici, confidenti, alleati e delicatamente anche a taluni avversari. Né Pericle, né Alcibiade. La storia moderna di Palermo, che è anche la storia politica del Sud e in gran parte anche della violenza che ciclicamente scuote la nazione, si potrebbe raccontare attraverso storie esemplari di alcuni uomini. Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere. Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiedevano un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta. Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo. Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò, quanto meno, a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola – le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo. Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioè gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse, gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato. Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere. La storia di Mattarella è davvero una storia esemplare all’interno del racconto sul potere a Palermo. Palermo non può avere un solo padrone, nemmeno un primus inter pares: se qualcuno tenta di esserlo viene distrutto in qualche modo, oppure più semplicemente ucciso. Naturalmente non accade mai che la decisione dell’assassinio sia presa dalla piccola società degli oligarchi, questo appartiene alla fantascienza mafiosa, tutti hanno il medesimo interesse ma in definitiva sono soltanto due o tre di loro, i più offesi o spietati, che prendono la decisione. Individuarli non è possibile mai: bisognerebbe prima identificare e catturare gli esecutori dell’assassinio; che costoro confessassero da chi hanno avuto mandato di uccidere, e questi mandanti a loro volta indicassero l’anonimo barone che ha commissionato il delitto. Una serie di ipotesi assolutamente impossibile che, tutte insieme, configurano appunto il perfetto delitto di mafia. Chi sono dunque i padroni di Palermo? I metodi di identificazione sono due: l’uno politico, l’altro finanziario, cioè anzitutto l’identificazione dei politici che attraverso leggi e azioni di governo determinano i grandi affari pubblici, compresi i sistemi di affidamento; e quindi la identificazione degli operatori che si aggiudicano tali grandi affari e ne diventano perciò i protagonisti. Attualmente, nella città di Palermo ci sono una ventina di grandi affari pubblici. Messi insieme formano un pacchetto di duemila-tremila miliardi. Scegliamone quattro, i più semplici da capire: il porto scogliera, l’appalto per la pubblica illuminazione, il risanamento del centro storico, l’appalto per la manutenzione stradale. Il porto-scogliera dovrebbe sorgere lungo quel tratto di litoranea fra la nazionale per Messina e il Foro Italico, cioè in quel tratto di spiaggia dove si scaricano le immondizie di mezza città e le acque luride delle fiumare, un tratto di mare che è divenuto una sola immensa fogna, oramai perduto per qualsiasi utilizzazione commerciale e turistica. Il problema è quello di bonificare la zona, evitando che essa diventi una sempre più micidiale concentrazione di immondizie putrefatte, di topi, mosche, cani randagi, zanzare, miasmi, epidemie. Il progetto è semplice: costruire in mare a qualche centinaio di metri dalla riva una scogliera artificiale, una specie di immensa barriera frangiflutti, in modo da creare all’interno, fra tale scogliera e la spiaggia, una specie di mare morto nel quale andranno a scaricarsi quotidianamente tutti i materiali da riporto dell’intera città, pietre, rottami, rifiuti, calcinacci. Nel giro di pochi anni il mare, o meglio quel putrido stagno, scomparirà per sempre e diventerà un immenso pianoro di terraferma. La proposta è che la ditta appaltatrice dei lavori, la Sailem, esegua i lavori gratuitamente, aggiudicandosi tuttavia la proprietà delle aree di risulta, cioè di quell’immenso pianoro che si sostituirà al mare. Naturalmente tutta area fabbricabile, nel cuore di Palermo, lungo il mare, in una zona che – eliminato l’inquinamento – potrà diventare prezioso luogo di insediamenti turistici, residenziali e alberghieri. Il tratto di litoranea interessato è lungo circa due chilometri, la scogliera sarà costruita a trecento metri dalla spiaggia, un’area dunque di circa sessantamila metri quadrati. Il prezzo delle aree fabbricabili nelle zone urbanistiche di eccellenza si aggira sulle cinquecentomila lire a metro quadrato. Fate i conti. L’appalto per la pubblica illuminazione, per centodieci miliardi. Esso non è avvenuto per pubblico concorso ma a licitazione privata. Con delibera della giunta presieduta dell’ex sindaco Martellucci, che attende solo la ratifica del consiglio comunale, è stato approvato il rinnovo dell’appalto alla ditta ICEM, di cui è grande manager l’ingegnere Parisi. La grande storia di Palermo è fatta di alcune grandi storie umane ma anche di tante piccole storie esemplari che si debbono mettere tutte insieme, l’una accanto all’altra, nel posto giusto. L’ingegnere Parisi è il presidente del Palermo calcio: pare abbia fatto egli stesso candida ammissione di non avere per il calcio alcuna passione o competenza. E tuttavia, soavemente invitato dagli ambienti politici della Dc ad assumere la gestione del Palermo calcio per ricondurlo in serie A, altrettanto soavemente egli accettò di rendere questo servizio alla città e agli uomini che la governano. Gli è costato due miliardi! Non sono stati spesi bene, ma non sono neanche molti. Il piano di risanamento del centro storico di Palermo. L’ultima preda! L’alleanza criminale fra politici e imprenditori ha infatti letteralmente divorato, sfregiato, saccheggiato oramai tutta l’immensa periferia della capitale, rovinandola per sempre. Il prezzo pagato dalla città è stato tragico. Almeno duemila assassinii: uomini giustiziati in mezzo alla strada, murati nei piloni di cemento degli stessi palazzi, gettati in mare con una pietra alle caviglie. Una pirateria di circa cinquantamila miliardi la cui spartizione ha consentito l’insorgere di almeno cinque nuovi tremendi focolai di potenza mafiosa che (per evoluzione criminale e capacità finanziaria) hanno potuto impadronirsi anche del contrabbando della droga, determinando un terrificante salto di qualità e di potenza dell’intera struttura criminale. L’unica area urbanistica residua, nella quale sono possibili operazioni urbanistiche, appunto l’ultima preda, è il centro storico di Palermo, cioè quella che fu la splendida, orgogliosa capitale della civiltà mediterranea e nella quale arabi e normanni profusero i tesori della loro architettura. Spettacolo di miseria e grandezza. Vicoli nei quali dilaga un’umanità urlante e feroce, palazzi di straordinaria bellezza che però cadono a pezzi, tuguri nei quali si intanano migliaia di sventurate e fameliche famiglie del sottoproletariato, cattedrali, reggie, teatri di ineguagliabile maestà, spazi fatiscenti dove si accumulano le immondizie di interi quartieri, migliaia di edifici pericolanti dai quali gli esseri umani sono stati stanati a forza come bestie. Il progetto di risanamento che sta per essere ultimato, deve salvare i grandi palazzi prima che crollino, cancellare migliaia di tuguri, programmare il restauro di centinaia di edifici ora abbandonati e la costruzione di migliaia di altri nelle aree di risulta. Un progetto gigantesco. Un affare che prevede un investimento pubblico di duemila miliardi, e perlomeno quindici/ventimila miliardi di investimenti e quindi profitti privati. Facile immaginare quale drammatica lotta si sia già scatenata in quella fantastica città mafiosa, invisibile all’occhio e tuttavia perfettamente compenetrata (una città sull’altra e dentro l’altra) a Palermo. Si tratta di capire chi si presenterà a chiedere gli appalti e come essi saranno dati, con quali facoltà e vantaggi. I grandi personaggi del potere si stanno squadrando e valutando, cercando di leggersi negli occhi per capire chi sarà alleato, concorrente o nemico. I catanesi che hanno un’ironia piuttosto ruvida, quasi sempre conclusa con una grande risata direbbero: “Si stanno curando in salute!”. I palermitani che sono più tristi e perciò anche più sottili nell’ironia, dicono: “Si stanno guardando lo scarto”, che nel terziglio è il momento in cui il giocatore solo contro gli altri due, va a riguardarsi le quattro carte di scarto che solo lui conosce, per fare la giocata decisiva. Gettare subitaneamente la scartina e brutalmente uscire di napoletana. Con ironia più esplicita, qualcuno a Palermo più semplicemente dice: “Duemila miliardi a chi sparerà per primo!”. Infine l’appalto per la manutenzione stradale. Anche tale appalto, per un importo di centotrenta miliardi, sarà rinnovato alla ditta LESCA di cui è protagonista e manager il conte Cassina. Ecco un’altra piccola storia per raccontare la grande storia di Palermo. Cassina è conte! I palermitani, la cui ironia spesso è così tagliente da sembrare cinismo, dicono ai catanesi: “Voi avete i cavalieri del lavoro, noi abbiamo i conti! C’è un abisso. Cassina è conte, è milanese ed è Gran Bali, per tutto il Sud, dei cavalieri del Santo Sepolcro, associazione di personaggi eccellenti i quali hanno diritto di paludarsi in cappa nera, feluca e spadino, e in tal guisa scortare il Papa nelle grandi cerimonie ufficiali. Al Gran Bali spetta il governo della loggia (si chiama così, come nella massoneria) e la designazione dei nuovi cavalieri. Della loggia di Palermo, negli ultimi anni, sono entrati a far parte questori, magistrati, professori di università, artisti, luminari della medicina e delle lettere, operatori economici, cavalieri del lavoro. Il conte Cassina li convoca, li governa e li affabula. Ecco, il conte Cassina è uno dei padroni di Palermo. E’ amabile, colto, intelligente, non ha la prepotenza mentale e la temerarietà dei cavalieri di Catania, per i quali non c’è impresa che non possa essere tentata e che non si abbia il diritto di tentare, ma la prudente saggezza di colui il quale vive in una capitale in cui c’è un limite a tutto, anche alla potenza dell’uomo. E’ un uomo che può invitare a cena ministri, prefetti, giudici e conversare affabilmente sul destino della Sicilia. Da buon milanese ha uno straordinario rispetto per il denaro e quindi è anche tenuamente avaro. Si dice che un cavaliere di Catania, invitando a cena nella sua villa prefetti e ministri, facesse galantemente trovare, sotto il tovagliolo, graziosi monili d’oro per le consorti dei convitati. Il conte Cassina si limita agli spaghetti, e per le gentili signore, una piccola orchidea. Un padrone di Palermo il quale sa perfettamente che non si deve mai essere l’unico padrone di Palermo, ma che bisogna convivere con gli altri e tutto sta semmai nel garbo con cui si è capaci di riconoscerli. E i politici. Anche nella politica la situazione è mutata. Il tiranno non esiste più. Mattarella tentò di imporre una regola morale a tutti, pensò di avere il carisma del capo. Morì. Prima di lui aveva tentato, con altro stile e altre convinzioni, Vito Ciancimino, certo il personaggio più famoso della democrazia cristiana e quindi della politica palermitana. In effetti ci fu un momento storico in cui parve il padrone di tutto, il solo e incontrastato governatore della volontà politica nella capitale dell’isola. Non ci fu affare, né opera pubblica, né appalto, né alleanza o compromesso che non fosse sua iniziativa o non si avvalesse del suo consenso. Lo distrussero. Comandava troppo. Però sopravvisse. Vito Ciancimino non era Piersanti Mattarella, egli era tanto astuto quanto quello era candido, egli era tanto attore quanto quello condottiero. Non avendo la vocazione di Alcibiade capì per tempo quanto meglio valesse essere Mazzarino, cioè paziente, silenzioso, ironico. Fra gli uomini politici italiani, rassomiglia più di ogni altro a Giulio Andreotti (nella speranza che nessuno dei due si offenda). Parlando di potere politico a Palermo si deve subito pensare a Vito Ciancimino, il geometra Ciancimino, come egli spavaldamente ama presentarsi; ecco, questa è un’altra piccola storia da raccontare dentro la grande storia di Palermo, e nemmeno tutta la storia dell’uomo, ma solo un minuscolo episodio del personaggio, perché si possa ancora più perfettamente capire Palermo. Vito Ciancimino crollò nell’ultima fase delle indagini dell’antimafia. Venne accusato, lui prima assessore all’urbanistica e poi sindaco, di aver lasciato sbranare Palermo dalla mafia. La democrazia cristiana ebbe paura. Non poteva certo partecipare al linciaggio perché sarebbe stato come mettere sotto accusa tutte le operazioni di potere che il partito aveva sollecitato e giustificato, una specie di suicidio; e però non poteva nemmeno difendere l’uomo perché le accuse erano troppo gravi, c’era il rischio di essere coinvolti e travolti. La democrazia cristiana non ha lo stoicismo tra le sue regole morali. Il suo principio è il silenzio estatico, la sua forza il tempo. Il silenzio avvolge, confonde, non consente approfondimenti, dibattiti. Il tempo ammorbidisce, logora, stanca, dilapida, suscita smarrimenti, la gente muore, la gente dimentica. Col tempo e nel silenzio svanì e si perse per sempre anche il come e il perché, vita e morte del bandito Giuliano. Figuratevi! Dinnanzi a Vito Ciancimino la Dc si tirò addosso un velo sepolcrale: lo deferì ai probiviri del partito perché stabilissero se poteva giustamente stare dentro il partito a testa alta o dovesse esser cacciato con ignominia. Tempo e silenzio. Finché vennero le elezioni politiche del 1979. Vito Ciancimino non poteva candidarsi poiché era nel limbo, ma aveva però quaranta/cinquantamila voti di preferenza sulla piazza di Palermo, un formidabile pacchetto elettorale che poteva manovrare a suo piacimento. Erano voti suoi, conquistati, allevati, guadagnati, difesi anno dopo anno, con mille amicizie, protezioni, minuscole alleanze, favori, benevolenze. Li aveva proprio nel portafogli, cosa sua, manovrando quei cinquantamila voti di preferenza, cioè spostandoli dall’un candidato all’altro, poteva determinare disfatte e trionfi. Per i leaders politici palermitani oltretutto non è importante solo essere eletti al parlamento, ma anche il numero delle preferenze, poiché queste stabiliscono gerarchie, ingigantiscono prestigio, candidano alle cariche ministeriali. Ora si racconta come nella fase pre-elettorale, il ministro Ruffini mandasse segnali di fumo al geometra Ciancimino per esprimere il suo gradimento a quei cinquantamila voti di preferenza, e come il Ciancimino stanco di essere tenuto alla gogna, facesse sapere che sì, quei cinquantamila voti sarebbero stati suoi, purché il ministro Ruffini l’avesse aiutato ad avere finalmente una sentenza assolutoria dai probiviri della Dc. E ancora si narra come il ministro Ruffini gli promettesse il suo leale appoggio in tal senso, organizzando un incontro con il segretario nazionale Piccoli a Roma: appuntamento a Roma alle sette del mattino, nella villa del segretario Piccoli. Vito Ciancimino arrivò in tassì, con una valigetta di cuoio piena di documenti che avrebbero dovuto comprovare la sua innocenza e comunque indurre ad una benigna valutazione il segretario nazionale della Dc. Erano i tempi della grande paura e del terrorismo trionfante. Gli uomini di vertice viaggiavano in autoblindo. La villa di Flaminio Piccoli era circondata dai carabinieri con i mitra puntati: si videro venire incontro questo sconosciuto, con gli occhietti neri da siciliano, i baffetti, e quella valigetta di cuoio. Sono il geometra Ciancimino, ho un appuntamento con l’onorevole Piccoli, in questa valigia ci sono carte personali… Documenti, perquisizione, verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato un tale, pretendendo di avere appuntamento con l’onorevole Piccoli, ha esibito documenti intestati al ragioniere Vito Ciancimino, di Palermo…In quell’istante scortato da motociclisti e auto della polizia, arrivò in auto blindata il ministro Ruffini. Così narrano. Carabinieri sull’attenti. Il ministro spiegò che poteva garantire lui per il signor Ciancimino, il quale effettivamente era atteso dall’onorevole Piccoli. Agli ordini eccellenza. I carabinieri sono sempre carabinieri: misero diligentemente a verbale. Quello che si dissero nello studio di Piccoli nessuno lo sa. Il candidato Ruffini ebbe centocinquantamila voti di preferenza. E venne il caso Sindona: lo scandalo, l’arresto di Spatola il quale era amico di Ciancimino e disse agli inquirenti d’essere andato una volta a cena con il ministro Ruffini, il quale a sua volta disse che non sapeva nemmeno chi fosse questo Spatola, glielo avevano presentato un giorno per caso, piacere, molto lieto e basta, e che comunque non conosceva quel tale Ciancimino di cui gli parlavano. Allora Ciancimino scrisse una lettera a mano, con un foglio di carta carbone sotto, per averne copia, “Caro Ruffini, leggo che dici di non conoscermi nemmeno. Sei un…!”. L’epiteto fu crasso e stentoreo. Piegò il foglio, senza nemmeno metterlo in busta e lo spedì per raccomandata espresso. Conservò nel portafogli quella copia, ogni tanto la tira fuori e la tiene appesa a due dita in faccia all’interlocutore. Ride: “Non mi conosce? C’è quel verbale dei carabinieri: alle ore sette del mattino si è presentato il ragioniere Vito Ciancimino. Il sopraggiunto ministro Ruffini, ecc., ecc… “. Chi sono i padroni politici di Palermo? Il ministro Ruffini, l’onorevole Lima, l’ex sindaco Valenzi? Certo! Forse ancora, da qualche parte, in qualche modo con qualche pacchetto di cinquantamila voti in tasca, Vito Ciancimino. Epperò anche infiniti altri. In realtà fino a non molto tempo fa, c’erano a Palermo i grandi, inviolabili boss politici. Giovanni Gioia era Luigi XIV. Tutto passava per il loro consenso. I grandi capi esistono ancora, ma sono stati esautorati, c’è stata la rivolta dei peones, sono almeno cento: ognuno di loro restando all’ombra del capo e rispettandone ufficialmente il potere si è costruito il suo piccolo feudo di potere, secondo competenza. Tutto quello che passa per il suo feudo paga, per taluni può essere soltanto la devota riconoscenza, per altri invece un tenue dieci per cento sul totale dell’affare. Anche il suo legittimo è pulito. Pensate a un galantuomo che deve avere un contributo o un mutuo da un miliardo: se lo fanno aspettare un anno ci rimette gli interessi bancari attivi quindi il 18%, e subisce l’impoverimento per svalutazione di un altro 14-15%. Con quella garbata tangente del dieci per cento, li ottiene subito secondo diritto. Ci guadagna! La figura giuridica sarebbe quella della cosiddetta servitù di passaggio, oppure in taluni casi, i più sofisticati (i giuristi mi perdonino l’audacia) dell’enfiteusi che è il diritto di godere di una cosa altrui, con l’obbligo di pagare periodicamente un canone. Solo che la cosa altrui, stavolta, è la cosa pubblica. Ma è un particolare ininfluente la cosa pubblica a Palermo, è la cosa dei cento padroni che possiedono Palermo. Palermo! Camminare per Palermo. Camminare sfiorando gli stupendi palazzi dove un giorno vissero svevi, normanni, emiri, angioini, ed ora anche le facciate stanno cadendo a pezzi, dietro queste facciate pavimenti e soffitti sono sfondati, le scale crollate. Camminare nei vicoli di Palermo assordati dal grido di centinaia di venditori, in mezzo ad una folla che sembra vagare con il moto pazzo delle formiche su un torsolo di mela. Camminare nelle stradine fetide e senza selciato, con le bancarelle fumanti attorno alle quali si aggruma la gente povera a mangiare gli scarti bolliti dei macelli. Camminare in mezzo ai tuguri di Palermo dove si intana la gente sradicata, cacciata via dalle case antiche che stavano per crollare. Tutto questo è folclore, lo so. Però, in questa grande capitale del Sud, migliaia di bambini vivono veramente dentro le tane come le bestie umane; e decine di migliaia di uomini vivono miserabilmente di espedienti, commerci infinitesimali, elemosine, ruberie; e centocinquanta esseri umani sono stati assassinati in un anno in mezzo alle strade, ed altri centocinquanta sono scomparsi, eliminati dalla lupara bianca. Tutto questo è retorico. Quando la verità è insultante si dice che essa è retorica, è sempre retorico tutto quello che non rientra nei limiti del possibile, trecento assassinii sono dunque retorica. Salire la scalinata del Palazzo delle Aquile e sapere che da qualche parte, in qualche stanza, venne perpetrata la spartizione di cinquantamila miliardi per la devastazione urbanistica di Palermo, e alcuni di quegli uomini furono o ancora saranno fra i governatori di questa città. In qualche stanza di questo palazzo c’è il nuovo sindaco, Elda Pucci, medico, cinquantenne, nubile, adamantina la quale dice: “L’ex sindaco Valenzi fu il mio maestro. Il modello al quale mi ispiro!”. Vincente oratoria. A loro è lasciato il compito difficile di governare nel modo più garbato possibile, elaborare i grandi sistemi quali che siano, garantire che la macchina funzioni. Abbiamo revisionato, cambiato i pezzi logori, guardate come corre.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.

Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.

Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.

Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».

L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.

Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga » spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica ».

Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.

"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.

I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.

Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...

Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.

Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.

58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".

Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...

"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".

Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?

"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".

Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?

"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".

Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?

"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".

Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.

"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".

La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?

"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".

L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?

"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".

L'omicidio Mattarella?

"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".

Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...

"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".

La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?

"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".

Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?

"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".

Ha conosciuto il Capitano Ultimo?

"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".

Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.

Da Riina all'inchiesta nissena. Chi è la signora dei beni confiscati, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Dura e pura. Spigolosa e intransigente. A volte scontrosa nei rapporti umani, anche con gli avvocati che ne contestavano spesso i metodi processuali. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Prima il brusio e i sospetti sugli incarichi assegnati dalla sezione Misure di prevenzione da lei presieduta, poi lo scandalo esploso nei giorni scorsi. Perché la Saguto adesso è accusata di avere gestito come se fosse un suo feudo un settore delicato come quello dei sequestri e delle confische dei beni mafiosi. Avrà tempo e modo di difendersi, ma la bomba è scoppiata. La luce propria si è spenta fino al punto che per riaccenderla, sempre secondo i pm nisseni, il magistrato avrebbe fatto filtrare, pochi mesi fa, la notizia che la mafia volesse ucciderla. Anche Livesicilia quella notizia la verificò e la scrisse, avendo saputo che i servizi segreti avevano rilanciato un pericolo segnalato un anno prima. Ora si scopre che, secondo i pm, dietro quell'allarme ci sarebbe stata la regia della Saguto che avrebbe cercato di rispondere alle polemiche che erano esplose attorno alla sua gestione dell'ufficio. Il magistrato, a fine 2013, era già finita su tutti i giornali perché il prefetto aveva deciso di rafforzarle la scorta. Lei stessa aveva preparato un dossier, come riportavano i quotidiani, per raccontare l'escalation di minacce subite assieme ai colleghi della sezione: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti. Tutto ciò accadeva meno di due anni fa, quando i mugugni sulle Misure di prevenzione erano già forti, eppure sembra che sia passato un secolo. Anche e soprattutto alla luce dell'inchiesta che l'ha travolta. Pesano come un macigno le ipotesi di corruzione e abuso d'ufficio. La gestione dei beni sarebbe divenuta per il magistrato un affare di famiglia visto che sono indagati pure il marito, il padre e il figlio. Nel decreto di sequestro compare anche l'ipotesi di autoriciclaggio forse legata all'anziano genitore. La Saguto oggi siede sul banco dei cattivi. Lo stesso su cui hanno trovato posto coloro che il giudice ha combattuto nel corso di una lunga carriera. Il suo nome è legato ad alcune pagine rimaste nella storia giudiziaria. Ad esempio, non ebbe timore nel 1993, a “sfidare” Totò Riina, quando si sentiva ancora forte l'odore acre del tritolo esploso a Capaci e in via D'Amelio. La Saguto era il giudice a latere - presidente Gioacchino Agnello - nel processo in corte d'assise per gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Durante una pausa le telecamere in aula restarono accese. E così i magistrati, che si erano ritirati, ascoltarono Riina mentre invitava il pentito Gaspare Mutolo a tornare ad essere il “Gasparino” di sempre. “Farai la fine di Matteo Lo Vecchio”, gli disse il padrino corleonese citando uno dei personaggi del libro “I Beati Paoli” che viene ritrovato impiccato a piazza della Vergogna. E così al rientro in aula la Saguto chiese al padrino corleonese: “Che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio, mi interessa”. “Ma non lo so c'è un libro che ne parla”. E la Saguto: “Quindi lei legge libri a metà”. Nessuno un ventennio dopo avrebbe immaginato di ritrovare la Saguto indagata per corruzione. Lo stesso giudice inflessibile che in molti hanno conosciuto quando da Giudice per le indagini preliminari firmava decine di ordini di arresto, oppure infliggeva pesanti condanne in Tribunale. Così come inflessibile è stata nel suo incarico alle Misure di Prevenzione sequestrando miliardi di beni tolti ai più importanti gruppi imprenditoriali palermitani. Tra questi, Niceta, Rappa, Virga. È alle Misure di prevenzione, però, che la stella antimafia della Saguto si oscura.

"Caso"’ Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci? Scrive Giulio Ambrosetti il 13 novembre 2015 su “La Voce di New York”. A raccontarci quest’incredibile storia è lo stesso Pino Maniaci, direttore di TeleJato. La convocazione del procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi, presso l’Antimafia nazionale di Rosy Bindi. Le domande di Claudio Fava. L’incredibile storia dei Cavallotti e dell’Italgas. E adesso occhi puntati sulla Sezione Fallimentare del Tribunale di Palermo. Vista la rilevanza del tema e l’incredibile portata delle novità che sembrano profilarsi all’orizzonte, pubblichiamo questa intervista a Pino Maniaci.

Ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei?

Dall’altra parte del telefono Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la Tv che ha scoperchiato il ‘verminaio’della Sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sorride amaro. Sì, anche se non l’abbiamo davanti, la sua voce, ironica e ferma, ci sembra venata da amarezza. Dice:

“Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Andiamo con ordine. Prima di occuparci di chi è ancora nel giro parliamo delle voci che qualcuno, ad arte, sta facendo circolare sul suo conto.

“Parla del fatto che vorrebbero arrestarmi?”, ci chiede ironico Maniaci.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto ‘notizie’ su di lei…

“La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

“Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non ‘entusiasmante’, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

“Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

“Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

“E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pino Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

“Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per ‘raccontare vent’anni di antimafia’, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi - con riferimento anche al mio operato - sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

“Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

“Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

“Mi denunciano per stolking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

“Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

“Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

“Pagavano il pizzo. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

“No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

“Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

“Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

“Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

“Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

“Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato promosso: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

“Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent'anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

“Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

Caso Saguto, trasferiti altri due magistrati indagati. Si tratta di Fabio Licata, che era vice di Saguto, e di Lorenzo Chiaromonte, indagati rispettivamente di concorso in corruzione e abuso d'ufficio. Lo storico Salvatore Lupo: "Diffidare dei magistrati che si circondano di folla plaudente", scrive “La Repubblica” il 10 novembre 2015. Dopo Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo sospesa dalle funzioni e indagata per corruzione, anche altri due magistrati che hanno lavorato in quella stessa sezione e che sono rimasti coinvolti nella stessa inchiesta si apprestano a lasciare il capoluogo siciliano. Si tratta di Fabio Licata, che era vice di Saguto, e di Lorenzo Chiaromonte, indagati rispettivamente di concorso in corruzione e abuso d'ufficio. Entrambi, dopo l'avvio della procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale da parte della Prima Commissione del Csm, avevano chiesto di essere destinati subito ad altra sede. E oggi dalla Commissione è arrivato il primo via libera alla loro richiesta. Per Licata - che è accusato di aver adottato provvedimenti per aumentare i compensi dell'ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Saguto e consulente di un amministratore giudiziario - il sì dei consiglieri ha riguardato Messina, l'unica sede tra quelle indicate fuori dal distretto giudiziario di Palermo. Una sorte che invece non è toccata a Chiaromonte trasferito a Marsala, forse per la contestazione meno grave che gli muovono i pm nisseni, quella di non essersi astenuto in una procedura nonostante ricorressero ragioni di opportunità. Perché il trasferimento dei due giudici -che davanti al Csm hanno negato gli addebiti- diventi effettivamente operativo occorrono altri due passaggi, ritenuti pacifici: il sì di un'altra Commissione, la Terza, e quello del plenum di Palazzo dei marescialli. Giovedì prossimo invece la Commissione procederà al deposito degli atti per Tommaso Virga, l'unico dei giudici coinvolti nell'inchiesta (per lui l'accusa è induzione indebita) a non aver chiesto il trasferimento "in prevenzione". Un passo che prelude alle imminenti conclusioni della Commissione, che tra dieci giorni deciderà se chiedere al plenum il trasferimento d'ufficio o l'archiviazione. La Commissione starebbe già maturando un orientamento favorevole all'archiviazione invece per il pm della Dda di Palermo Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto d'ufficio, perché secondo la procura di Caltanissetta avrebbe informato Licata e Chiaromonte della trasmissione da Palermo a Caltanissetta del fascicolo alla base dell'inchiesta. Davanti al Csm Licata ha negato di aver fornito alcun tipo di informazione, ricordando soltanto una riunione in procura in cui si parlò di quel procedimento. Una circostanza confermata oggi dal procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, ascoltato dalla Commissione. Sempre giovedì prossimo (ma è probabile uno slittamento) la Commissione potrebbe fare il punto sulla posizione del presidente della Sezione Misure di prevenzione del tribunale di Roma, Riccardo Muntoni, a cui Saguto sollecitò la nomina di suo marito quale coadiutore nelle amministrazioni giudiziarie; si tratta di decidere se avviare anche nei suoi confronti la procedura di trasferimento d'ufficio. Lo storico Lupo: "Diffidare dei magistrati che si circondano di folla plaudente". "Se le imprese della nostra regione sono così colluse con la mafia, allora trovare imprenditori puliti non è facile. E un patrimonio confiscato reso disponibile a persone che sono tecnici e magistrati crea una situazione da socialismo reale, per cui facilmente le imprese confiscate vanno in rovina e facilmente c'è chi se ne approfitta. Serviranno delle leggi rigide moralmente ed efficaci economicamente, e questo francamente non è facile". Lo ha detto lo storico Salvatore Lupo intervenendo alla conferenza "Le mafie e l'antimafia ieri e oggi. L'evoluzione di Cosa nostra e dell'Ndrangheta" organizzata dal centro Pio La Torre al cinema Rouge et noir di Palermo. "Bisogna diffidare - ha aggiunto Lupo rivolgendosi alla platea di studenti che avevano fatto delle domande sui beni confiscati e l'antimafia - di chi troppo insiste sul tasto retorico e dei magistrati che si circondano di folla plaudente. La folla plaudente non è il luogo dei magistrati". All'incontro sono intervenuti anche l'economista Franco Garufi e lo storico Enzo Ciconte, che ha contestato la scelta di Reggio Calabria come sede centrale dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati "fatta per ragioni politiche", ha detto. "C'è una confusa e crescente domanda di moralità - ha continuato Lupo - che non necessariamente imbarca soggetti morali in grado di combattere la mafia. Ne sono stati esempi, finora, l'onorevole Salvatore Cuffaro, ancora in carcere con l'accusa di avere favorito l'organizzazione mafiosa e che ha vinto la sua campagna elettorale al grido "la mafia fa schifo", o i magistrati che hanno provato a costruirsi una carriera, anche politica, con le inchieste sulla mafia. Altri esempi di questa contraddizione provengono dalla ricerca della fondazione Res coordinata da Rocco Sciarrone - ha aggiunto Lupo - dalla quale emerge che le ditte palermitane più colluse con cosa nostra hanno fatto parte di associazioni antiracket. Questo dimostra che non basta definirsi antimafia per essere al livello delle necessità di pulizia della nostra società. A 25 anni dalle stragi bisogna restituire la dialettica dei poteri reali, non esistono intoccabili".

Il mare si va chiudendo, cominciano le denunce, scrive Salvo Vitale su “Telejato il 13 novembre 2015. Lo sappiamo, dentro la magistratura ci sono secoli di sapienza giuridica, strade, stradine, svicolamenti, commi, codicilli, linee di difesa, articoli di legge e sentenze emesse cinquant’anni fa, che servono a far diventare il più innocente degli uomini un perfetto criminale e il più raffinato mafioso un perseguitato dalla legge, una brava persona. È di oggi la notizia che la prima commissione del CSM ha chiesto di archiviare la posizione del sostituto procuratore Dda Dario Scaletta, ovvero il braccio destro della Saguto, il quale non ha commesso niente di grave: che c’è di male se uno informa il suo diretto superiore che è sotto indagine e che ha il telefono sotto controllo? Dai, che fa, la poverina non lo doveva sapere? Tutto normale. Tanto per far vedere che invece qualcosa si muove, scende in campo l’Associazione nazionale magistrati che forse prima era distratta e solo adesso si decide ad aprire un procedimento disciplinare contro i magistrati indagati. Chiè? Chi c’è? Chi Successi? Veru? Ma unni sapevamu nienti. Allura viremu di fari cocchi cosa, ma iamuci araciu. Araciu. Pare che si stia mettendo ma posto anche la posizione di Tommaso Virga, che dichiara di non avere mai ricevuto procedimenti disciplinari contro la Saguto e pertanto che l’incarico a suo figlio non era uno scambio di favori, ma una libera iniziativa del magistrato delle misure di prevenzione, che già conosceva quant’era bravo Walter, perché gli aveva affidato i negozi Bagagli ed egli li aveva fatti quasi tutti chiudere. Una cosa invece oggi viene fuori tra i tanti scandali, ovvero il vergognoso ritardo di coloro che avrebbero dovuto fare gli inventari di ciò che era sequestrato e hanno fatto passare anche cinque anni, senza cominciare, se lo sono scordato, avevano altre cose da fare, bastava riscuotere qualcosa dall’azienda, on attesa di una dichiarazione di fallimento, che avrebbe risparmiato la fatica. Anche qua non ha parlato nessuno, oppresso dal sistema di terrore instaurato, con il contentino di qualche briciola, tante speranze, tante delusioni.  Sono ormai tantissime le persone che ogni giorno vengono a raccontarci i soprusi che hanno subito: l’ultima, ieri, ci ha fatto vedere una richiesta di sussidio avanzata alla Saguto dai suoi amici avvocati e la sprezzante risposta: poiché può permettersi due avvocati, l’istanza è respinta. I bambini possono morire di fame. Crudelia de Mon l’ha definita questa signora, cui è stato tolto il negozietto realizzato con i suoi solti. Ma a dimostrare che non c’eravamo fatti illusioni e che a poco a poco il mare si richiuderà anche sulle nostre teste, è di oggi la notizia, sparata da un network locale, che era pronto il mandato di cattura per Pino Maniaci e, senti senti, per mafia. Insomma, andando avanti così anche il papa dovrebbe essere un criminale, per non parlare del presidente della Repubblica, figlio, sappiamo tutti, di chi. Va be, aspettiamo a vedere se questa minchiata, concepita dalle teste sopraffine della Procura ha un fondamento, dopodiché pensate a portarmi tutti in carcere un pezzetto di bene confiscato alla mafia. Altre indagini sono in corso, perché i carabinieri, su disposizione della procura, ci chiedono le cassette delle trasmissioni dei giorni scorsi. Ma come? Essi che registrano e intercettano tutto, non potrebbero copiarsele? E per chiudere il cerchio è di oggi la notizia che anche il sottoscritto Salvo Vitale è sottoposto a indagine per avere scritto, mesi fa, quando tutto era in silenzio e parlavamo solo noi, un articolo, “I quotini”, nel quale si svelava il gigantesco sistema di potere e il magnamagna gestito dall’ufficio di Cappellano Seminara, per il quale erano in quota almeno una cinquantina di avvocati, il tutto in filo diretto con la Saguto. Ci saranno, ci non sempre, se ne può trovare in qualsiasi spazio del nostro telegiornale, parole, informazioni, giudizi, notizie, commenti che possono dare spazio a denunce. Lo sappiamo bene. Abbiamo il record mondiale di denunce, ma ci siamo ancora, in nome del diritto di dire il nostro pensiero, di informare sui fatti e di denunciare le malefatte sulla base di quanto scritto nell’art. 21 della Costituzione. Sappiamo anche che ci sono i fascisti di sempre, siano essi mafiosi, avvocati, inquinatori, politici, magistrati, uomini in divisa, che ci provano ogni giorno, convinti che valga ancora la vecchia regola mafiosa “cu è surdu, orbu e taci campa cent’anni mpaci”. Noi vogliamo campare cent’anni, ma parlando, guardando, filmando, denunciando e commentando, non tanto per piacere, ma perché si campa in pace se il malaffare non c’è. È allora che si sorride.

Articolo di Salvo Vitale. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Niceta, Virga, Cavallotti e gli altri. L'associazione "vittime della Saguto", scrive Riccardo Lo Verso Venerdì 30 Ottobre 2015 su “Live Sicilia”. Sono gli imprenditori a cui la sezione del Tribunale, un tempo presieduta da Silvana Saguto, ha sequestrato i patrimoni. Rappresenterebbero, secondo l'accusa, la faccia "sporca" dell'economia palermitana. Su loro iniziativa nasce "In-Difesa". Hanno scelto il nome “In- Difesa”, ma in cuor loro, anche se non lo dicono, avrebbero preferito chiamarsi, visti gli eventi recenti, “Associazione vittime della Saguto”. Molti sono accomunati dalla sorte di essere stati “proposti” per le misure di prevenzione e la convinzione, tutta da dimostrare, di essere rimasti schiacciati dal “sistema” scoperto dalla Procura di Caltanissetta. Sono gli imprenditori a cui la sezione del Tribunale un tempo presieduta da Silvana Saguto ha sequestrato i patrimoni. Rappresenterebbero, secondo l'accusa, anche questa tutta da dimostrare, la faccia “sporca” dell'economia palermitana. Quella che avrebbe fatto affari all'ombra della mafia. Il 6 ottobre hanno costituito l'associazione e hanno registrato il nome all'Agenzia delle Entrate. Stamani si sono dati appuntamento davanti al Palazzo di giustizia per partecipare alla manifestazione organizzata dal comitato cittadino “Decidiamolo insieme” che, grazie alle finestre dei social network, cerca di “creare partecipazione fra i cittadini”, come spiegano il presidente Fabio D'Anna e il vice, l'avvocato Alessandro Crociata. Lo slogan “fuori la Saguto dal Palazzo” ha mobilitato anche gli imprenditori che non si limitano ad attaccare “il sistema che ci ha tolto tutto”, così lo definiscono, ma ad offrire spunti per la legge di riforma della gestione dei beni sequestrati alla mafia che dal prossimo 9 novembre inizierà l'iter parlamentare. All'associazione, che non si occupa solo dei temi legati alle misure di prevenzione, si sono iscritti in venti, fra cui Massimo, Piero e Olimpia Niceta, sei componenti della famiglia Cavallotti, Francesco e Gianfranco Lena, Calcedonio Di Giovanni, Gaetano Virga. Basta scorrere l'elenco per scoprire nomi storici dell'imprenditoria palermitana finiti nelle pagine delle cronache giudiziarie. Oggi puntano il dito contro la Saguto, gli altri giudici della sezione e gli stessi investigatori. Perché, qualcuno lo sussurra e altri lo gridano, arrivano ad ipotizzare che i sequestri siano stati messi a segno per alimentare il sistema delle nomine e delle clientele venuto a galla con l'inchiesta di Caltanissetta. Ad onore del vero il meccanismo che porta al sequestro è molto più complesso. Il punto di partenza, stabilito dalla Cassazione, è che non serve “la prova di un reato di cui il soggetto è ritenuto responsabile, bensì il riconoscimento sulla base di indizi di una pericolosità sociale particolarmente qualificata, intesa come probabilità di commissione di ulteriori reati”. Non a caso nessuno degli iscritti all'associazione, che presto potrebbe diventare una onlus, ha subito una condanna penale. Le misure patrimoniali seguono per legge un binario diverso da quelle personali: le prove possono non bastare per condannare una persona al carcere, ma risultare sufficienti per colpirne il patrimonio. Sono il procuratore della Repubblica, il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia ad avviare le indagini che analizzano il tenore di vita, le disponibilità finanziarie, il patrimonio e l'attività economica del soggetto. Qualora dovessero emergere incongruenze - come la sproporzioni fra redditi dichiarati e investimenti e tenore di vita - viene proposta la misura di prevenzione ai Tribunali. Nel caso dei Niceta, ad esempio, sono stati i pubblici ministeri di Palermo (e in parte il questore di Trapani) a sostenere, partendo da alcuni pizzini scritti da Matteo Messina Denaro, che siano stati i rapporti con i mafiosi ad agevolarli nella scalata imprenditoriale. Per ultimo quelli con Francesco Guttadauro, nipote del latitante. Così come sono stati i pm a chiedere e ottenere il sequestro, passato dalla convalida del Gip, dei beni di Lena, tra cui l'Abbazia Santa Anastasia. L'imprenditore, considerato in affari con Bernardo Provenzano, è stato assolto con formula piena nei tre gradi del giudizio penale. Sempre dalla Procura è partita la richiesta di sequestrare in beni degli imprenditori Cavallotti di Belmonte Mezzagno. Discorso diverso, ad esempio, per i beni del monrealese Calcedonio Di Giovanni (tra cui decine di villette a Kartibubbo) o di Gaetano Virga, originario di Maria: è stata la Dia a proporre il sequestro. Gli imprenditori provano ad andare oltre la rabbia per il caso Saguto. In tanti dicono di volersi difendere dalle accuse non in piazza, ma in aula. Alcune cose, però, non riescono a mandarle giù. “Processateci. Diteci se siamo o meno come veniamo descritti dagli investigatori. Ma fatelo in fretta - spiegano Massimo e Piero Niceta -. Qualcuno però, se alle fine ci sarà data ragione, dovrebbe pagare per i danni provocati da amministratori giudiziari che non hanno competenza. Perché i nostri negozi, nell'attesa del giudizio, chiudono. C'è stato negato non solo il diritto alla proprietà, ma il diritto al lavoro”. Altra proposta arriva da Pietro Cavallotti: “Nominiamo un commissario, ma non allontanate il titolare dalle aziende. Controllateci a vista, ma continuate a farci lavorare”. Il nodo sui tempi dei processi è cruciale della nuova riforma. Sono già di per sé lunghi quelli previsti dalla legge attualmente in vigore: “Il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell'amministratore giudiziario. Nel caso di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte”. Si tratta di tempi che, troppo spesso - fra consulenze di entrambe le parti e audizioni dei pentiti - spesso non vengono rispettati.

Io sono la legge, scrive Salvo Vitale su “Telejato” l’11 novembre 2015. L’analisi di tutto quello che succede all’interno della magistratura dimostra che siamo davvero davanti a una casta che gode dell’impunità quasi totale, che, per casi di corruzione, aggiotaggio, errori in giudizio, sentenze visibilmente sbagliate, mistificazione della verità e tutto quanto capita nelle loro mani, il peggio che possa loro succedere è il trasferimento da un ufficio o da una sede all’altra, per continuare a delinquere. La cosa più grave è che il sistema di terrore che si è creato attorno intimidisce gli avvocati che avrebbero qualche voglia di far valere gli interessi dei loro assistiti, mentre molti altri avvocati si legano al carrozzone del magistrato di turno per avere qualche contentino con cui calmare il cliente offeso. La facilità con cui gli amministratori giudiziari hanno distrutto, messo in vendita, portato al fallimento intere aziende che lavoravano rispettando le norme è impressionante. Abbiamo sentito casi di svendita di immobili o di mezzi, di sequestri senza giustificazioni, di intimidazioni pervenute ai proprietari dei beni sequestrati, che lamentavano l’incapacità di amministrazione degli sciacalli mandati al loro posto, addirittura casi di disumana pietà in cui si respingeva la richiesta di madri che chiedevano un sussidio per i figli. Sulla lotta di correnti che dilania la magistratura, cercheremo di vederci chiaro, ma su tutto quello che sta succedendo e su tutte le storie che giornalmente ascoltiamo, siamo davvero allibiti “schifiati” della facilità con cui si affibbia la patente di mafioso a qualcuno e si procede al sequestro dei beni con veri e propri cambi di proprietà. La cosa più triste, incredibile, devastante, è che si perde tempo, si rinvia per anni e alla persona danneggiata non viene data la possibilità di far valere le proprie ragioni e la propria innocenza. Non ce la prendiamo, come già Berlusconi e i suoi sodali, coi magistrati, sia chiaro ancora una volta, ma con quelli che attraverso la toga si credono al di sopra di tutto e di tutti, con quelli che scrivono le leggi su misura, e che, come Burt Lancaster in un film famoso dicono: “Io sono la legge”. Oggi siamo arrivati al punto che i magistrati Licata e Saguto ipotizzavano di chiedere centomila euro a Telejato per danneggiamento dell’immagine. Forse non hanno mai visto le riprese di Pino Maniaci Nudo davanti alla distilleria. Non c’è niente da spremere.

IL CASO BENI CONFISCATI. Lo scandalo senza confini. Quell'intreccio tra prefetti, scrive Riccardo Lo Verso Lunedì 09 Novembre 2015 su “Live Sicilia”. Nel mondo delle amministrazioni giudiziarie spiccano le figure dei rappresentanti del governo nelle principali città siciliane. Dalla Cannizzo al prefetto di Catania Maria Guia Federico fino all'ex prefetto di Messina Scammacca. Compensi d'oro per l'amministrazione della discarica di Misterbianco. Si potrebbero definire “intrecci prefettizi”. Nulla di illecito, ma la cronaca ci dice che nel mondo delle amministrazioni giudiziarie spiccano le figure dei prefetti. Quello di Palermo, Francesca Cannizzo, è stata trasferita venerdì scorso dal Consiglio dei ministri. “Su sua espressa richiesta”, ha precisato una nota del ministero dell'Interno. Dalle carte giudiziarie della Procura di Caltanissetta è venuto fuori il suo rapporto di amicizia con Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, sospesa nei giorni scorsi dal Csm. Alla Saguto, che invocò l'aiuto di un amministratore giudiziario, la Cannizzo avrebbe chiesto un posto di lavoro per un parente dell'ex prefetto di Messina Stefano Scammacca. Il pensionato Scammacca è stato nominato da un altro prefetto, quello di Catania Maria Guia Federico che era stata sua vicaria, nel collegio di amministratori della discarica di contrada Valanghe d'Inverno, a Misterbianco, sequestrata all'imprenditore Domenico Proto. Scammacca riceve un compenso di 25 mila euro lordi al mese, 10.500 netti (stessa cifra assegnata agli altri due commissari, Riccardo Tenti e Maurizio Cassarino). Sulla gestione della discarica e la nomina dei commissari aveva sollevato più di una perplessità il deputato nazionale del Pd, Giuseppe Berretta. Il caso finì pure, nel marzo scorso, davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite che ruotano attorno allo smaltimento dei rifiuti. Il prefetto catanese spiegò che “la legge non prevede criteri di nomina dei commissari, quindi si affida a quella che non dico discrezionalità, ma bontà del prefetto, che ha individuato dei criteri che si è data da sola. Parliamo di persone fuori dalle valutazioni politiche, fuori da rapporti di tipo politico, di persone competenti, dal curriculum integerrimo e competenti nella specifica materia”. Il tema fu anche oggetto di un duro botta e risposta a mezzo stampa. La commissione prefettizia, così si firmava in una nota spedita ai giornali, precisò che i compensi lordi “sono stati liquidati al di sotto del minimo contemplato dalla normativa vigente”. Nel vuoto normativo che fa della discrezionalità un pilastro per le nomine degli amministratori, la figura dei prefetti è quella su cui è stata riposta parecchia fiducia. Ex prefetto, ad esempio è anche Giosuè Marino, che siede nel consiglio di amministrazione della clinica Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata per mafia all'imprenditore Michele Aiello. La sua nomina, assieme a quello di un altro ex, il magistrato Luigi Croce, e dell'avvocato Giovanni Chinnici fu decisa non dal Tribunale di Palermo, ma dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati un tempo gestita da Giuseppe Caruso, il prefetto che puntò il dito contro chi aveva sfruttato le amministrazioni giudiziarie per assicurarsi dei “vitalizi”. Le scelte di allora erano dettate da ragioni investigative piuttosto che da esigenze manageriali: servivano professionalità adatte per sanare, o meglio per smantellare una delicata questione di esuberi.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola.  È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.

Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero?  Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone. 

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.

Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.

Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.

L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.

È STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.

Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?  

IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso  della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”.  Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva.  Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:

La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale.  Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.”  La Italcementi  con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un  “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore.  Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori  catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento,  sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.

L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di  giudici delle misure di prevenzione Saguto,  Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti,  l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.

LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.

UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero   di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana   per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede.  Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento  suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio.  Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare.  Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare.  Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Chi confischerà ai confiscatori? Anche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato! Scrive Saverio Lodato su “Antimafia duemila”. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge. Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States. Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole. Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia. Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva…  prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…". Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro. Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove. Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace. Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita. Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria. Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno". E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola. Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo? O meglio, come intende metterla il Csm? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’accaduto.  Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo. Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi?  Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali? E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca? Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio. Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.

Ma con quelle accuse sulle spalle la Saguto può indossare la toga? Scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Troppi scandali, troppe intercettazioni, troppi favori, troppi privilegi. Con tutte le accuse formulate a suo carico dalla Procura di Caltanissetta, Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovrebbe fare un decisivo passo indietro: dovrebbe quantomeno autosospendersi dalla magistratura in attesa di chiarire definitivamente la sua posizione. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro... io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8.000 magistrati ne difendono uno”. Ecco la lezione imparata da Walter Virga, nei 35 anni vissuti accanto al padre Tommaso, oggi presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. Il giovane Virga, nominato amministratore giudiziario da Silvana Saguto, affida inconsapevolmente la sua certezza alle microspie piazzate nell'ambito dell'inchiesta che li vede tutti indagati. Il sistema aveva una base solidissima, la consapevolezza dell'impunità. Cane non morde cane. Nonostante le polemiche che divampavano sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, il castello sarebbe rimasto in piedi con tutti i privilegi e le agiatezze che aveva comportato. A partire dalla nomina del giovane avvocato alla guida di due dei più grossi patrimoni - Rappa e Bagagli - sequestrati in Sicilia e in Italia. Era Virga jr a ribadire che di sistema si trattava. “Lei non è un ingenua... lei fa parte di un sistema”, diceva riferendosi all'ex presidente. Un sistema sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto grazie al bollo della magistratura, dove l'accesso era consentito dal fatto che “abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico”. Avete letto bene: pizzo. Perché, aggiungeva il giovane amministratore giudiziario, “Avevamo risolto il problema alla nuora che era tranquilla”. Il riferimento era a Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, accolta a lavorare nello studio di Walter Virga che al padre Tommaso spiegava: “L'unica cosa complessa è che c'è da sistemare la stanza a Mariangela che faceva schifo e là, solo per il pavimento di Mariangela, stiamo spendendo mille euro, considera, però capisci bene, che è importante farlo”. Era “importante farlo” altrimenti non poteva entrare nel sistema costruito su ricche parcelle, assunzioni e regalie. E forse pure sulle mazzette. Il forse è d'obbligo perché il capitolo più delicato dell'inchiesta, quello sulla corruzione e sul riciclaggio di denaro, è ancora in progress. I finanzieri della Polizia tributaria stanno cercando riscontri sui passaggi di soldi accennati nei dialoghi intercettati. Le indagini faranno il loro corso. Bisogna essere garantisti. Sempre e comunque. Bisogna attendere i tre gradi di giudizio per stabilire se qualcuno sia davvero colpevole, figuriamoci ora che la vicenda giudiziaria è ancora allo stato embrionale. C'è un dato, però, già cristallizzato dai dialoghi di Silvana Saguto. Le sue parole fanno a pugni con la gestione trasparente e terza della giustizia che ci si attende da chiunque indossi la toga. L'immagine della magistratura palermitana ne esce massacrata. Lo sa bene il Csm che ha avviato le procedure per il trasferimento per incompatibilità ambientale della Saguto e degli altri magistrati indagati, compreso Tommaso Virga. Nel frattempo farà il suo corso anche il procedimento disciplinare. Il punto è che c'è una superiore ragione di opportunità. Il sistema giustizia non può attendere. La Saguto è stata trasferita in Corte d'assise, praticamente nel corridoio accanto a quello dai lei frequentato fino a un mese e mezzo fa. È in malattia. In ufficio non c'è ancora andata, tranne per una rapida apparizione che avrebbe creato non poco imbarazzo. Ha annunciato, a mezzo stampa, che chiederà di lasciare Palermo. Ma dovrebbe fare un ulteriore passo indietro, Silvana Saguto. L'autosospensione è l'unica strada. Anche nel suo interesse, per avere la possibilità di difendersi al meglio dalle ipotesi di accusa che presto diventeranno contestazioni. Con le accuse che gravano sulle sue spalle, indossare la toga oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati che ogni giorno, onestamente, amministrano la giustizia.

Scandalo dopo scandalo l'Antimafia è morta. E la società civile non si sente nemmeno tanto bene, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dalla politica al Palazzo di Giustizia, è crollata l'immagine dell'Antimafia come circolo per iniziati. E con essa il mito di una "società civile", contrapposta a una politica incivile, che all'occorrenza è servita per attingere a ideali albi dei moralizzatori. Non è solo il santo moloch dell'Antimafia con la “a” maiuscola a uscire a pezzi dallo stillicidio di puntate dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata a Palermo. Il santuario dell'antimafia di potere era già mezzo crollato negli ultimi tempi, le mura sbrecciate e le fondamenta minate dai fallimenti dell'antimafia politica e dalle vicissitudini giudiziarie dell'antimafia-lobby. Un altro mito, ancora più sfuggente, celebrato e farlocco, sembra cadere a pezzi dal desolante quadro offerto dalle notizie su tutto ciò che gira attorno alla gestione degli ingenti patrimoni mafiosi o presunti tali (quando i beni sono sequestrati e non ancora confiscati). Quel mito, cantato per anni da infaticabili aedi, si chiama società civile. E il quadro che emerge dall'indagine della procura di Caltanissetta, con accuse certo ancora tutte da provare, lo investe in pieno. Avvolgendo, o forse travolgendo, quelle categorie che hanno rappresentato in questi anni un ideale albo dei moralizzatori a cui attingere in supplenza di una politica sputtanata e in cerca di facce nuove. Nel coacervo che qualcuno tra gli stessi intercettati battezza “sistema” si sono mossi, con ruoli e responsabilità diverse, tanti pezzi di quella società civile, raccontata negli anni come contraltare virtuoso rispetto a una politica screditata. Magistrati, forze dell'ordine, professionisti e tutto l'affollato e variopinto indotto dell'eldorado dei beni confiscati, nessuno si era accorto di quel “sistema”, nessuno pare sia stato in grado di scorgere le storture che affollavano questo ricchissimo guazzabuglio. Dagli addetti alla scorta utilizzati per le commissioni ai colleghi magistrati, passando per l'esercito di addetti ai lavori, non escluso il mondo dell'associazionismo attivo in questi ambiti, nessuno, parrebbe, aveva intravisto attorno a Silvana Saguto qualcosa che non quadrava e che meritava di essere denunciato. E quando qualcuno s'è azzardato a indicare il re nudo, vedi il prefetto Caruso, il Palazzo a tutti i suoi livelli ha reagito come è noto. È in questo contesto che è maturato il passaggio di mano del bottino dell'economia mafiosa nelle mani della bella borghesia palermitana, secondo norme che meriterebbero per lo meno una riflessione critica. Nelle mani della società civile, appunto. Se ciò è avvenuto per certi aspetti contra legem dovranno essere i magistrati ad accertarlo. Di certo, la normativa, con i suoi buchi neri e le sua sfere di discrezionalità, non ha aiutato a evitare il peggio. Che non sta solo nei profili penali della vicenda, come detto, tutti da acclarare. Ma soprattutto nelle storie di figli e parenti sistemati, antica disciplina in cui la suddetta bella borghesia panormita sa eccellere come pochi. È scomoda questa storia di spese al supermarket non pagate. Scomoda perché sgretola un mito fragile, che non è solo quello dell'antimafia come “tuta mimetica” per altri interessi, ma è più in generale quello dell'esistenza di fantomatiche oasi incontaminate, dove invece si celano i vizi e le storture di altri vituperati palazzi. È scomoda ed enorme questa storia, ben più delle beghe tra conventicole che hanno animato nei mesi scorsi le cronache dei dolori dell'antimafia chiodata. È enorme e scomoda, e trova spazi forse non adeguati sulla grande stampa nazionale, dove paradossalmente è più indolore parlare di agende rosse e di passato remoto piuttosto che guardare in faccia il presente. Rassegnandosi all'idea che quello della “società civile” come concetto contrapposto a una sottintesa “incivile” politica è un mito con poche aderenze alla realtà. Quale punto di riferimento resta dunque ai siciliani? Da una parte una politica disastrosa e fallimentare. Dall'altra un'economia morente, dimenticata dalla politica e rappresentata da una classe dirigente che non è riuscita, quando ha avuto la possibilità di entrare nelle stanze dei bottoni, di invertire in modo apprezzabile la rotta. A tutto questo si aggiunge ora il disastro d'immagine della giustizia, travolta da uno scandalo di quelli che erodono anni di lavoro, credibilità e sacrifici di tanti. Non resta allora che sfuggire alla tentazione della generalizzazione. Quella stessa generalizzazione che ha santificato negli anni intere categorie, beneficiarie dello scudo dell'immagine fulgida di servitori dello Stato. Non tutto era bene allora, non tutto può essere male adesso. Metabolizzato l'inganno dell'antimafia come club per soli tesserati e della società civile come paradiso del senso civico, c'è solo d'augurarsi che il trauma di questi giorni accompagni i siciliani nell'era del discernimento, al di là delle etichette. Considerando la lotta alla mafia una priorità condivisa e non un circolo per iniziati.

Gli insulti ai figli di Borsellino del giudice dei beni confiscati "Lui squilibrato, lei cretina". Esclusiva. Ecco le frasi shock dell'ex presidente delle Misure di prevenzione dopo aver commemorato il magistrato ucciso, il 19 luglio scorso. L'intercettazione con un'amica. Sull'abbraccio con Mattarella diceva: "Manfredi si commuove, che figura è?". A una svolta l'indagine dei pm di Caltanissetta condotta dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 21 ottobre 2015. Il 19 luglio scorso, il giudice antimafia Silvana Saguto è la madrina della manifestazione "Le vele della legalità", pronuncia parole accorate per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Ma appena torna nella sua auto blindata, telefona a un'amica e sputa parole terribili contro i figli di Borsellino. Ce l'ha soprattutto con Manfredi, che il giorno prima ha abbracciato fra le lacrime il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al palazzo di giustizia di Palermo. Un abbraccio che ha commosso l'Italia. Ma non il giudice antimafia Silvana Saguto, che sbotta: "Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai". E insiste: "Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo". Eccole, le parole terribili che pronunciava uno dei giudici simbolo di Palermo, che ha sequestrato beni per milioni di euro e oggi è indagata dalla procura di Caltanissetta per aver costruito un sistema di raccomandazioni e favori attorno alla gestione dei patrimoni sottratti ai boss. Il giorno dell'anniversario della strage di via d'Amelio, Silvana Saguto era infastidita perché aveva aspettato due ore sotto il sole l'arrivo delle barche della legalità al porticciolo di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo. Ed era un fiume in piena contro la famiglia Borsellino. Tutte le sue parole sono rimaste impresse nelle intercettazioni fatte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Alla sorella Lucia, Silvana Saguto riservava altri insulti: "È cretina precisa".

Giudice antimafia Saguto intercettata sui Borsellino: “Manfredi? Squilibrato. Lucia? Cretina precisa”. L'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo - sulla quale indaga la procura di Caltanissetta - dopo avere partecipato alla manifestazione "Le vele della legalità", sale sull'auto blindata, telefona a un'amica e insulta il magistrato ucciso nel 1992. Sul figlio dice: "Ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa?", scrive Giuseppe Pipitone il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Manfredi Borsellino? “Uno squilibrato”. La sorella Lucia? “Cretina precisa”. È il 19 luglio 2015, anniversario numero 23 della strage di via d’Amelio, il massacro del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Silvana Saguto, una delle donne che a Palermo incarna il volto dell’antimafia fatta di numeri ed euro sottratti a Cosa nostra, sta partecipando – in qualità di madrina – alla manifestazione “Le vele della legalità”. Ricorda il sacrificio del magistrato assassinato, parla dell’antimafia dei sequestri, quella che dal 2010 rappresenta guidando la sezione misure di prevenzione del tribunale. Poi sale sulla sua auto blindata, telefona ad un’amica, e – come racconta Repubblica – si lascia andare ad una serie di insulti contro i figli di Borsellino. Inveisce soprattutto con Manfredi, oggi commissario di polizia, che 24 ore prima al palazzo di giustizia ha abbracciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra la commozione generale. “Ma poi, Manfredi Borsellino che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai”. Ma non solo. “Ma che – continua Saguto – dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo”. Sono i giorni del caso Crocetta, con il settimanale Espresso che ha pubblicato il testo dell’intercettazione (poi smentita dalla procura di Palermo, che indaga per calunnia e pubblicazione di notizie false) in cui il medico del governatore dice che Lucia Borsellino “va fatta saltare come il padre”. Ed è per questo che Manfredi Borsellino era intervenuto davanti al capo dello Stato, per difendere la sorella, che due settimane prima si era dimessa da assessore regionale alla sanità. Saguto però è un fiume in piena, e bolla Manfredi come “uno squilibrato, lo è stato sempre, lo era pure quand’era piccolo”. Lucia Borsellino, invece, per il magistrato è “cretina precisa”. Parole pesantissime quelle pronunciate da Saguto, che colpiscono al cuore la credibilità di una fetta ampia del mondo della cosiddetta antimafia. “Io e mia sorella Lucia siamo senza parole, non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria. Solo parlandone, rischiamo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito”, ha detto Manfredi, commentando le parole della Saguto. La donna “economicamente più importante di Palermo”, come la definì Gian Carlo Caselli, è infatti al centro di un’inchiesta della procura di Caltanissetta, che la ha iscritta nel registro degli indagati per corruzione, induzione e abuso d’ufficio: secondo l’accusa, aveva trasformato il mondo dei beni sequestrati a Cosa nostra in un suo personalissimo business, utilizzato a vantaggio della sua famiglia e di pochi fedelissimi del suo cerchio magico. Incarichi ad amministratori giudiziari amici (sempre gli stessi), nomine in cambio di lavori per il marito Lorenzo Caramma (anche lui indagato), il figlio e la fidanzata del figlio, regali chiesti e ottenuti, che spesso arrivavano proprio dalle aziende che lo Stato ha sottratto ai boss: come nel caso del supermercato Sgroi, dove Saguto aveva maturato un debito di oltre 18mila euro. È un sistema tentacolare quello che ruota attorno al magistrato, un sistema che quando finisce al centro di inchieste giornalistiche (come nel caso di Telejato, la minuscola emittente guidata da Pino Maniaci), prova a difendersi facendo quadrato. “Voglio fare qualcosa d’impatto, un incontro con i giovani che gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”, dice Carmelo Provenzano, professore dell’università Kore di Enna, al magistrato, attaccato due giorni prima dalla trasmissione Le Iene. Sono gli stessi giorni in cui – secondo la ricostruzione dei pm nisseni – un ufficiale della Dia avrebbe fatto circolare volontariamente una vecchissima informativa che parlava di un rischio attentato per la Saguto. L’ex zarina della sezione misure di prevenzione che, nonostante le polemiche, non accenna a diminuire di un grammo la sua pressione su amici e componenti del cerchio magico. È il 31 luglio quando Saguto chiama Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma, chiedendogli di trovare un incarico per il marito. Muntoni accetta di buon grado, e spiega alla collega che “i miei amministratori sono precettati a cercare qualcosa che vada bene per un bravo ingegnere di Palermo”. Sono solo le ultime intercettazioni raccolte dall’indagine. Mentre al Csm continua ad andare avanti la pratica per il trasferimento di sede di Saguto (che ha chiesto di essere spostata a Milano) e degli altri quattro magistrati coinvolti dall’inchiesta della procura di Caltanissetta, emerge infatti uno spaccato di come la toga messa a sentinella della “robba” sequestrata ai boss vivesse quotidianamente. L’auto blindata con la scorta, per esempio, veniva mandata in giro per le più banali commissioni domestiche, o utilizzata per andare al mare evitando il traffico. “È un inferno”, dice il prefetto Francesca Cannizzo al telefono. “Ce ne possiamo fregare dell’inferno se vieni con me, abbiamo la mia macchina, c’è la preferenziale”. Ed è proprio per la cena con il prefetto Cannizzo, che Saguto riceve in dono dall’amministratore giudiziario del complesso turistico Torre Artale sei chili di tonno. Un dono che punta ad attirarsi la benevolenza del magistrato e che riscuote alto gradimento. “Il prefetto – dice Saguto intercettata – era impazzita letteralmente una cosa così non l’ha mai mangiata”.

Poi non ci dobbiamo dimenticare, sempre a proposito della sezione Misure di Prevenzione antimafia, che l’anomalia non e solo palermitana, ma è generale. La mafia è una cosa seria, l'antimafia troppo spesso non lo è.

Il giudice Vincenzo Giglio è da oggi un pregiudicato, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" il 20 ottobre 2015. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l'ex Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio, e per l'ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli. La Suprema Corte ha dunque confermato quanto disposto dalla corte d'Appello di Milano che alcuni mesi fa aveva inflitto 4 anni e 5 mesi al primo e 8 anni e 3 mesi a Morelli nel processo milanese sulla cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. La Corte di Cassazione ha confermato anche la condanna a Raffaele Fermino (4 anni e 8 mesi di reclusione), al medico Vincenzo Giglio (cugino del giudice) a 7 anni di carcere, a Leonardo Valle a 8 anni e 6 mesi, a Francesco Lampada a 3 anni e 8 mesi, all'ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Annullate con rinvio a un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, le condanne a Maria Valle, condannata in Appello a 2 anni e 9 mesi di reclusione e Luciano Russo, Michele Noto e Michele di Dio, tre finanzieri assolti in primo grado, ma condannati in appello a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Sentenza definitiva nel procedimento che coinvolse l'ex consigliere regionale, Franco Morelli e il giudice Enzo Giglio. Entrambi vengono puniti per i propri rapporti con la cosca Lampada, operante nel milanese con un vero e proprio impero economico. Il coinvolgimento dei due creò grande scalpore: Giglio, in particolare, era visto come un insospettabile, esponente di Magistratura Democratica e presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria. Giglio venne ammanettato con delle accuse gravissime: nel corso di alcuni incontri, almeno cinque, avvenuti all'interno della propria centralissima abitazione a Reggio Calabria avrebbe fornito delle soffiate agli elementi di spicco del clan Lampada circa l'esistenza o meno di indagini giudiziarie sul conto degli affiliati. Discorso analogo per la presunta corruzione con Franco Morelli, cui Giglio avrebbe rivelato l'assenza di indagini sul conto del politico, preoccupato di possibili vicende giudiziarie che ne potessero frenare l'ascesa politica. Un'amicizia, quella tra Morelli e Giglio, che sarebbe stata premiata dagli incarichi regionali ottenuti dalla moglie del magistrato, Alessandra Sarlo. Per la nomina della Sarlo, peraltro, è pendente un processo separato che si celebra a Catanzaro. Incontri, quelli tra Giglio e i Lampada nella centralissima abitazione reggina del magistrato, che gli inquirenti riusciranno a documentare "in diretta", incrociando poi con le captazioni telefoniche acquisite. Per questo, dunque, la Corte d'Appello, analizzando le intercettazioni di Giulio Lampada parla nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di "frequentazione intensa della casa del giudice Giglio" da parte del presunto boss calabro-milanese. La sentenza parla inoltre di rapporto "assolutamente amichevole e confidenziale che intercorre tra Giulio Lampada e il giudice". Lampada si sarebbe anche rivolto al magistrato chiamandolo "Enzuccio bello". Un rapporto che si inquadrerebbe, dunque, nei vari tentativi fatti dai Lampada di ottenere informazioni riservate sullo stato delle indagini. Insomma, i Lampada sentivano il fiato della giustizia sul collo e si sarebbero attivati per capire cosa stesse accadendo: "Deve ritenersi accertato che i fratelli Lampada abbiano attivato una pluralità di canali informativi e fra questi anche il giudice Giglio. [...] Non può che apprezzarsi la qualità dell'informazione fornita dal magistrato che di fatto "anticipa" ai fratelli Lampada quello che sarà per loro l'esito dell'indagine "Meta", vale a dire l'archiviazione dell'accusa per associazione di stampo mafioso e la trasmissione a Milano della terza parte dell'informativa "Meta", quella cioè che in buona sostanza ipotizzava che i Lampada riciclassero per conto della famiglia Condello". Informazioni che, a detta dei giudici milanesi, sarebbero arrivati proprio da Enzo Giglio: "Il giudice Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, violando il tal caso un segreto proprio, ha rivelato ai Lampada che presso il suo ufficio non erano pendenti procedimenti a loro carico per l'applicazione di misure di prevenzione, specie quelle di carattere patrimoniale (confisca) cui i germani erano particolarmente sensibili". E sarebbero stati proprio i molteplici incontri nella casa reggina del magistrato i momenti in cui Giglio avrebbe spifferato notizie coperte dal segreto ai Lampada: "Emerge che il magistrato fornì ai Lampada, in occasione dei documentati incontri, la notizia che non vi era iscrizione per 416 bis presso la Procura di Reggio Calabria (informazione che, a prescindere dalla sua veridicità, era comunque illecita), che erano in corso accertamenti su eventuali condotte di riciclaggio poste in essere con "famiglie" calabresi (corrispondente alla terza parte dell'informativa "Meta") e che non vi erano proposte di misure di prevenzione presso la Sezione da lui presieduta. E' altresì certo che il magistrato fosse pienamente consapevole di offrire aiuto informativo ad appartenenti a un sodalizio mafioso e dunque, per la natura delle informazioni fornite, al sodalizio stesso". Nella catena "informativa", un ruolo lo avrebbe rivestito anche l'allora consigliere regionale di centrodestra, Franco Morelli, anch'egli coinvolto e condannato nel procedimento. Tanto che la sentenza d'appello parla di un "turbinio di rivelazioni e di segreti attinenti le indagini reggine e milanesi". Rapporti, quelli con Morelli, che introducono anche la contestazione di corruzione, per cui Giglio è stato condannato, il conferimento di un pubblico impiego alla moglie, Alessandra Sarlo: "L'imponente attività captativa attesta: che il magistrato ed i familiari (la moglie Sarlo e i cugini Giglio) si prodigano, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni regionali calabresi, in favore dei politici Luigi Fedele e Francesco Morelli; che il magistrato, subito dopo il successo elettorale dei due candidati, richiede con insistenza a Morelli una diversa sistemazione lavorativa pubblica per la moglie, Alessandra Sarlo (che versa in una situazione da lui definita di mobbing presso l'amministrazione di provenienza); che, allorquando emerge una problematica connessa a vicende giudiziarie che potrebbe compromettere la carriera politica (la collocazione in Giunta regionale di Scopelliti) e quindi il potere di Morelli, il magistrato, con palese deviazione dai propri doveri, gli fornisce notizie riservate in merito all'assenza di iscrizioni o comunque di indagini a suo carico per reati di mafia". E così Giglio comunicherebbe a Morelli l'assenza di indagini: un fax inviato da una cartoleria di Reggio Calabria a un tabaccheria di Catanzaro, che il politico avrebbe dovuto sventolare sotto il naso al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, affinchè questi intervenisse per far ottenere a Morelli il tanto agognato incarico nella Giunta Scopelliti. Un "sinallagma corrutivo" che per i magistrati milanesi si perfeziona nell'incontro del 18 aprile 2010. Ancora una volta nell'assai frequentata abitazione del giudice Giglio: "In quell'incontro le rispettive esigenze di Francesco Morelli e del magistrato, entrambe già emerse e manifestatesi, si incontrano e si coniugano, quella di Giglio relativa alla sistemazione della moglie Alessandra Sarlo e quella di Morelli di avere la "carta riabilitante". Riabilitazione che, a ben vedere, era anche una delle condizioni perché Morelli potesse attivarsi efficacemente in favore del coniuge del magistrato, anche perché erano ormai divenute urgenti – con l'avvento della nuova amministrazione regionale e quindi la prevista decadenza del distacco in comando di Alessandra Sarlo a seguito dello spoil system – le pretese di sistemazione della predetta". Una sentenza che, al pari di quella di primo grado, si basa su intercettazioni e incroci investigativi: "Gli eloquenti scambi (di sms tra Giglio e Morelli, ndr) comprovano che Morelli – che ha stretto un'alleanza con Fedele per garantirsi la nomina ventilata da Scopelliti ad Alemanno – indica Fedele al magistrato come colui che potrà tornare utile per procurare la sistemazione promessa alla Sarlo". E nel dibattimento, secondo i giudici, il magistrato Giglio mentirà (possibilità prevista dalla legge) per mascherare i propri rapporti con i Lampada: "La prova della menzogna attesta che Giglio sapeva perfettamente che Giulio (Lampada, ndr) non era solamente un imprenditore calabrese al nord, che si era rivolto per un consiglio [...] la negazione mendace rivela al contrario la piena consapevolezza da parte di chi ha mentito della non ostensibilità della verità, vale a dire che i Lampada, conosciuti come ndranghetisti, si erano rivolti a lui per avere informazioni sulla situazione delle indagini certamente a loro carico. [...] E Giglio Vincenzo non si scompone dinnanzi a tale richiesta che denuncia di per sé sola l'appartenenza al sodalizio mafioso di chi la formula. E' emblematico che il magistrato – al pari di politici, medici, altri magistrati, avvocati, finanzieri – continui a rapportarsi con Giulio nonostante sia già emerso (agli inizi del 2009) sulla stampa il sospetto della sua appartenenza alla 'ndrangheta. E' il segno che per tutti l'appartenenza alla 'ndrangheta dei Lampada, essendo a loro ben nota, non rappresentava una sorpresa né un'emergenza valutata come negativa e ostativa al mantenimento e alla prosecuzione del rapporto". Politica, imprenditoria, magistratura e 'ndrangheta. C'è tutto nella rete relazionale dei Giglio, dei Morelli, dei Lampada: "Il giudice Giglio e la moglie attivano tutte le conoscenze politiche – utilmente acquisite tramite i cugini Giglio, che a loro volta vantano e sfruttano la prestigiosa frequentazione del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione – funzionali al raggiungimento dell'obiettivo, essendo il magistrato disposto a rendere e pretendere favori". Ma i giudici della Corte d'Appello di Milano vanno oltre e, nel tratteggiare le motivazioni che starebbero alla basa del rapporto tra Giglio e i Lampada, mettono nero su bianco un piccolo trattato sulla definizione della "zona grigia": "Giulio Lampada appartiene alla 'ndrangheta "silente", quella con il volto "accettabile", non disposta a farsi riconoscere con segni eclatanti, quella frequentabile, che fa salve le apparenze, che si accompagna appunto a politici, giudici, medici appartenenti alle Forze dell'Ordine, che da tale frequentazione riceve vantaggi e li elargisce, quella 'ndrangheta caratterizzata da una "doppiezza" insidiosa che è quella stessa che a ben vedere esprime lo stesso magistrato Giglio, ineccepibile nella sua attività giudiziaria, pronto a organizzare con Morelli manifestazioni contro la 'ndrangheta, ma al contempo disponibile a favorire Giulio Lampada e il suo sodalizio". Ora la Cassazione ha messo il punto definitivo sul giudice Giglio, che, in maniera pressoché automatica, verrà radiato dalla magistratura.

Beni confiscati, le intercettazioni: "Il nostro pizzo? Il lavoro per la nuora della Saguto". Le parole di Walter Virga, amministratore giudiziario del patrimonio Rappa, e quelle della ex presidente della sezione Misure di prevenzione: così funzionava il "sistema Saguto", scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 20 ottobre 2015. È una confessione in diretta quella di Walter Virga. E, al contempo, un atto d’accusa. È una delle prove più importanti di tutta l’inchiesta della procura di Caltanissetta e del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. La mattina del 9 giugno, l’avvocato Virga lo descriveva così il "sistema Saguto", un sistema di nomine ai soliti noti, per amicizia e convenienza: "Da Acanto (uno degli ultimi sequestri fatti a Villabate, ndr) lavora l’archeologo amico di Angelo Ceraulo, è disoccupato". Il giovane Walter, figlio del giudice Tommaso Virga, ex componente del Csm, parlava anche della sua nomina ad amministratore del gruppo Rappa. "Io sono stato nominato in un periodo tale dove... è vero che non c’era il procedimento disciplinare (fa riferimento al fatto che suo padre era nella commissione disciplinare del Csm,ndr) ma secondo te io lavoro là e gli dico...?" Queste parole hanno portato sotto inchiesta anche il padre del giovane Virga. Che intanto, quel giorno di giugno, continuava nel suo sfogo contro il sistema Saguto. "Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole, a nutricarci la nuora qua". La Saguto aveva imposto la nuora avvocato, Mariangela Pantò, allo studio legale Virga. Il giovane Walter parlava anche di un altro componente del cerchio magico di Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano. Diceva: "Perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio che aveva il problema delle materie che si doveva passare; noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico". Uno sfogo importantissimo per l’inchiesta. Quel 9 giugno, qualcosa si era già rotto nel cerchio magico. Virga aveva deciso di allontanare la nuora della Saguto. Per le polemiche sui giornali, e non solo. L’avvocato si lamentava addirittura del trattamento ricevuto dal suo giudice di riferimento, nonostante quel maxi incarico da 800 milioni ricevuto con l’amministrazione Rappa. "Credo che Santangelo (un altro amministratore, ndr) abbia sei incarichi; mentre noi leccavamo il culo a Mariangela (...) meglio averne sei che non sono grandi e guadagnare 3.000 euro l’uno in meno al mese che avere un solo Rappa e guadagnare 3.000 in più". Virga raccontava anche di un colloquio avuto con la nuora della Saguto. Un altro colloquio emblematico. "Lei diceva: 'Uno se fa la lotta alla mafia, allora se lo deve aspettare... se ne deve fregare, mia suocera infatti lo dice sempre che ha fede in Dio e va avanti'". In quella occasione, Virga disse alla nuora del giudice: "'Guarda — gli ho detto — te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro. Quindi, come vedi, tutte queste polemiche (...) io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno'". Parole pesanti quelle dell’avvocato Walter Virga: "Noi facciamo un altro mestiere (...) sono due mondi diversi', gli ho detto. 'Giustamente il magistrato ci ha la fede, ci ha le cose e un apparato di 8.000 persone dietro che dicono che ha ragione, che è quello che sta succedendo alla Saguto... la Cassazione le ha detto: ah qui marito, nuora e figlio... le hanno detto, intanto risolvitelo e non facciamo niente'". Che è il contrario di quello che è accaduto, con l’inchiesta della procura nissena e della finanza. La decisione di Virga, di allontanare la nuora della Saguto, aveva fatto andare il giudice su tutte le furie. "Sono distrutta, incazzata — diceva al marito — non si può dire come gliela faccio pagare, non si deve presentare". Suo figlio Francesco era invece per una strategia diversa: "Lui dice che devo essere diplomatica, l’ha invitato qui stasera". La Saguto non si dava pace, quel giorno di giugno aggiunse anche un’altra frase diventata molto importante per l’inchiesta: "No, non gliela posso passare... non si buttano a mare le persone, si rischia insieme". Il 15 giugno, Virga si presenta nell’ufficio dalla Saguto, dove la finanza ha piazzato un’altra microspia. Dice: "Speriamo che si risolva tutto velocemente". La giudice non usa mezzi termini: "Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione". Virga insiste, cerca di non perdere l’incarico. Ma è inutile. La Saguto è categorica: "No, io penso di no, è meglio di no, visto che è andata in questo modo". Il cerchio magico dei favori reciproci con Virga (padre e figlio, secondo l’accusa) si era ormai rotto. Virga chiede di potere tenere una dipendente di Bagagli fino a dopo i saldi. Il giudice risponde in modo gelido: "Faccia un’istanza, valuterò successivamente". Così, a giugno, per Silvana Saguto il problema era trovare un altro posto alla nuora. "L’ha buttata fuori dallo studio — si sfogava con un ufficiale della Dia — da un minuto all’altro in mezzo alla strada". E chiosava: "E quello che abbiamo fatto per lui". L’ufficiale la rassicurava: "Vabbè tanto poi la sistemiamo ancora meglio, non ti preoccupare". La Saguto si sfogò anche con l’avvocato Cappellano: "Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento".

Giudice antimafia Saguto: laurea del figlio scritta dal prof che lei ha raccomandato al Cara di Mineo. Elio Caramma, professione chef, si è laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Che, però - secondo gli inquirenti - è stata redatta da Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, e amministratore giudiziario di fiducia dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Lui, al telefono, la ringrazia per la segnalazione del suo nome quale potenziale commissario del centro richiedenti asilo, scrive Giuseppe Pipitone il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “Beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del mercato e garanzia della legalità”. È solo il titolo di una tesi di laurea ma a rileggerlo adesso sembra quasi una beffa. Perché quella tesi di laurea in Economia appartiene ad Elio Caramma, di professione chef, ma soprattutto figlio di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è al centro di un’inchiesta che ha svelato un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nella gestione delle ricchezze sottratte ai boss. Ed è stata anche intercettata mentre definiva i figli di Borsellino “squilibrati e cretini”. Suo figlio, già citato nell’indagine per un incarico ottenuto in un lussuoso hotel di proprietà della famiglia dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’asso pigliatutto dell’amministrazione giudiziaria, si è addirittura laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Un titolo che, come spiega La Stampa, a Caramma viene suggerito dal vero autore di tutto l’elaborato, e cioè Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, amministratore giudiziario di fiducia della Saguto, uno dei componenti del cerchio magico della zarina dei beni confiscati. È Provenzano che scrive – secondo gli inquirenti – la tesi di laurea del figlio della Saguto, ed è sempre Provenzano che cerca di farsi raccomandare dal magistrato per un incarico al Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo finito al centro di Mafia Capitale e commissariato dallo scorso giugno. “Il 12 giugno Provenzano contatta la Saguto ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto di Palermo quale potenziale commissario del Cara di Mineo”, si legge nei brogliacci della guardia di finanza. Perché per l’incarico a Mineo, Saguto fa intervenire il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, sua grande amica. “Ti volevo dire che ieri, davanti a me, ha telefonato quella da Roma per chiedere i dati al prefetto”, dice ad un certo punto a Provenzano. Il professore gongola: “Mamma mia se è così, prima di festeggiare, un bacio in bocca ti do guarda. Sei una potenza”. Ma non solo. Perché Saguto era riuscita a trovare un lavoro al Cara di Mineo anche a suo marito Lorenzo Caramma, coinvolto con lei nell’inchiesta nissena, già titolare di una serie diincarichi concessi da altri amministratori giudiziari. Caramma aveva trovato l’accordo con Davide Franco, commercialista amministratore del centro richiedenti asilo di Mineo, che aveva “avuto il numero” del marito della Saguto da Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma. “E’ vero, ho chiesto all’ingegnere Lorenzo Caramma se fosse interessato a collaborare al Cara di Mineo. Tuttavia i primi di settembre abbiamo ritenuto opportuno interrompere questa ipotesi lavorativa con l’ingegnere dato che dai giornali apprendemmo dell’inchiesta di Caltanissetta. Lo abbiamo fatto per motivi di opportunità”, spiega il commercialista Franco. E mentre da una parte Saguto chiedeva al prefetto aiuto per trovare incarichi al Cara di Mineo, dall’altra contattava l’amministratore giudiziario Alessandro Scimeca per sollecitare assunzioni chieste dallo stesso prefetto. “Io – dice intercettata il 28 agosto – ti devo chiedere il favore per il prefetto: di quello là da assumere”. Sono invece propositi di vendetta quelli promessi dal magistrato nei confronti dell’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, magistrato ed ex componente togato del Csm. I due Virga sono finiti entrambi coinvolti dall’inchiesta nissena. Virga junior, infatti, era stato nominato amministratore giudiziario del gruppo Bagagli e delle aziende sequestrate alla famiglia Rappa: negozi, concessionarie d’auto di lusso, tv private, un tesoro da quasi un miliardo di euro. In cambio – secondo l’accusa – Virga aveva assunto Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nel suo studio legale. “Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”, commenta in un’intercettazione. Appena inizia a scoppiare lo scandalo, però, Virga preferisce “licenziare” la fidanzata del figlio della Saguto. La reazione del magistrato è rovente. “Sono distrutta, incazzata non si può dire come gliela faccio pagare, non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. Poi riceve Virga e gelida sentenzia: “Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione”.

La Magistratura impegnata (nella strenua difesa di se stessa), scrive Achille Saletti il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". E dedicare qualche riga, oltre che alla politica rapace, a una Magistratura che difende se stessa con un piglio degno di cause migliori? Anche in questo caso sembra di sparare sul pianista: lo scontro ai vertici di una delle procure italiane più importanti si è ridotta ad un buffetto dato con grande delicatezza ai due protagonisti dell’affaire. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano e Alfredo Robledo, sostituto della stessa Procura. Scontro di potere inaudito che ha fatto emergere dimenticanze, stranezze, stravaganze procedurali, insomma quell’insieme di comportamenti che nel retrobottega di un biscazziere, forse, sono normalità ma nel palazzo di vetro di una Procura, opacizzano anche quei colleghi che con serietà e dedizione si ostinano ad indossare il nobile abito di servitore dello Stato. Il Consiglio superiore della Magistratura ha sapientemente atteso la data di pensionamento di Bruti Liberati che, così facendo toglie le castagne dal fuoco. Per Robledo un bel trasferimento, nemmeno tanto lontano (Torino) e tutti giù per terra. Sempre in terra milanese, il giudice Ferdinando Esposito avrebbe abitato in un lussuoso appartamento pagato da amici. Trasferito anche lui a Torino, quasi che Torino fosse il rifugio degli scarti di Milano, o forse perché c’è l’alta velocità che permette di andare in 40 minuti e mantenere la residenza a Milano, chi lo sa? Vuoi mai che debbano dormire qualche notte fuori casa. Si chiude Milano e si apre Palermo: fatti noti e nemmeno sconosciuti tra chi aveva a che fare quotidianamente con confische e sequestri. Il magistrato che se ne occupava, la sapiente Saguto, si alimentava in un supermercato confiscato (da lei) senza pagare alcunché. Dispensava fraterni giudizi ai figli di uno dei magistrati che, tra i tanti, ha particolarmente onorato la professione pagando il prezzo della vita e chiudeva entrambi gli occhi su consulenze date al marito da curatori giudiziari da lei scelti. Sospesa in attesa di capirci qualche cosa? No, chiaramente, solamente trasferita. C’è insomma, sufficiente materiale da rendere la faccia del segretario della Associazione nazionale magistrati simile a quella di un ovale al cui interno campeggia un grande punto interrogativo. E questa, per alcuni, sarebbe la parte migliore del Paese e della Pubblica amministrazione. Parte che, se interessata a possibili riforme, si straccia le vesti prima ancora di comprendere in cosa consistano le riforme. Evidentemente a Rodolfo Sabelli, l’ipotetico punto interrogativo di cui sopra, questa Magistratura così feroce con se stessa piace assai perché si sente raramente alzare la voce affinché i suoi colleghi, quando coinvolti in situazioni poco limpide, prendano una sana aspettativa senza pretendere stipendio e incarichi in attesa degli auspicati chiarimenti. Poi, la ferocia si trova in altri settori della P.A quali quelli penitenziari che licenziano un’educatrice rea di avere un pensiero non esattamente ortodosso sulla Tav. Ma per gli educatori non c’è ordine, corporazione o altro che possa difenderli. Loro non sono considerati la parte migliore del Paese.

Franco La Torre: "C'è un'antimafia fatta da mafiosi ma non fermerà le persone oneste". Parla il figlio del segretario regionale del Pci ucciso nel 1982: "La politica ha delegato la lotta agli inquirenti, così sono nati gli intoccabili", scrive Giorgio Ruta su “la Repubblica” del 22 ottobre 2015.  "In quella telefonata forse la Saguto ha mostrato il suo vero volto". Franco La Torre, figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso a Palermo nel 1982, non fa giri di parole sulle frasi del giudice contro Manfredi e Lucia Borsellino. "La politica ha delegato la lotta alla mafia a magistrati e forze dell'ordine favorendo la nascita di eroi intoccabili".

La Torre, quello che viene fuori è un'antimafia utilizzata come copertura per interessi privati.

"Penso che l'antimafia spesso sia fatta dalla mafia stessa. Faccio un ragionamento. Chi ha interesse a trasformare l'antimafia in un affare? Conviene un'antimafia fatta dai mafiosi rispetto a quella portata avanti dalle persone perbene. Perché attraverso di essa ci si ripulisce l'immagine o si getta fango su quelli che si impegnano seriamente. E si può guadagnare anche qualche quattrino. Quando uno si presenta in un'amministrazione pubblica con un bel progetto culturale spesso si sente dire che non ci sono soldi, ma con una bella iniziativa antimafia qualche finanziamento ci scappa".

Il quadro che ha dipinto è lo stesso del caso Saguto?

"Sappiamo benissimo che se andiamo alla ricerca di coppole e lupare non ne troviamo di mafiosi, invece io ricordo la relazione di mio padre del 1976 in cui diceva che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti. Il caso della Saguto è classico, il magistrato si approfitta della sua posizione, non esita a contravvenire alla legge e, da quando si legge nelle intercettazioni, intimidisce delle persone. Questo è un atteggiamento mafioso".

Questa vicenda è un duro colpo al progetto di suo padre e alla legislazione che ha ideato per aggredire il patrimonio della criminalità organizzata?

"Si, senza dubbio. D'altronde i governi che si sono susseguiti fino ad oggi non hanno avuto la questione a cuore. Siamo in un paese bizzarro, dove da un lato c'è la più efficace legislazione antimafia, ma dall'altro la politica pensa che il problema sia della magistratura e delle forze dell'ordine. Siamo in un paese dove non ci si è accorto di quello che accadeva a Palermo. E in certi ambienti si sapeva bene quello che succedeva, anche perché in molti ci campavano con la Saguto".

Delegare responsabilità alla magistratura, crea eroi intoccabili dell'antimafia?

"Si, succede questo. È il rischio che si corre e che abbiamo corso".

Secondo lei, la Saguto è una mela marcia o è parte di un sistema?

"È una mela marcia rispetto alla sua categoria di appartenenza, ma è parte del sistema. Quel sistema che se ne frega, che pensa agli interessi personali, che pensa agli amici e ai familiari. Chi era dall'altra parte del telefono quando la Saguto insultava Manfredi e Lucia Borsellino non ha abbassato la cornetta. Anche questo è sistema".

Perché ci si accanisce contro i figli di Paolo Borsellino?

"Le mie sono ipotesi, non ho elementi per fare altro. Ma penso che in quella telefonata la Saguto abbia mostrato il suo vero volto, dopo aver fatto la parte a una manifestazione per commemorare il magistrato ucciso. Probabilmente, avrebbe parlato male anche di me, dopo aver ricordato mio padre".

Questa vicenda pone una questione sul fronte dell'antimafia. Bisogna ripartire da zero?

"Bisogna fermarsi a riflettere. Io faccio parte di Libera e da tempo diciamo che non vogliamo sapere nulla del termine antimafia. Noi abbiamo, per esempio, alzato il livello di attenzione. Quando venivo invitato a delle iniziative, io prima mi limitavo a capire che l'organizzatore non fosse un approfittatore. Oggi faccio molta più selezione".

C'è il rischio che nell'opinione pubblica passi il messaggio che l'antimafia è tutta uguale, che non si distingua tra chi si impegna in maniera seria e chi lo fa per interessi personali.

"È come la politica, come la classica frase "fanno tutti schifo". Noi spesso invertiamo l'effetto con la causa. Non è l'antimafia che fa schifo, sono i mafiosi che stanno rovinando l'antimafia. In questo modo si rischia di non essere più credibili. Ma chi pensa che così saranno fermate le persone per bene sbaglia".

Beni confiscati, favori e clientele. Quando vige la certezza dell'impunità, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Magistrati e amministratori giudiziari coinvolti nello scandalo sulle misure di prevenzione avevano creato uno schermo di complicità e connivenze. E così, senza temere di essere denunciati, gestivano le loro trame nel Palazzo di giustizia di Palermo. Ciò che sconforta è la certezza dell'impunità. I protagonisti dello scandalo sui beni confiscati non avevano alcun timore di essere denunciati. Attorno a loro avevano creato uno schermo di complicità e connivenze per cui tutto ciò che oggi viene svelato dalle intercettazioni rappresentava la normalità. Normale era organizzare un party a Villa Pajno per il compleanno di Silvana Saguto, con la preziosa collaborazione del prefetto Francesca Cannizzo che nella villa ha la residenza, privata ma istituzionale. Normale era che gli uomini di scorta del magistrato andassero in giro per la città con la blindata per ritirare vestiti in lavanderia, comprare salviette struccanti e accompagnare persone al mare. Normale era piazzare parenti negli studi degli amministratori giudiziari e segnalare amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. Sono tutti scatti di una certezza consolidata dell'impunità. In questi anni nessuno ha ritenuto opportuno alzare la mano per dire “non si fa”, dal più importante rappresentante del governo in città al fattorino che portava le cassette della frutta a casa della Saguto, passando per gli amministratori giudiziari e gli altri giudici della sezione Misure di prevenzione finiti sotto inchiesta assieme al loro ex presidente. Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte spendevano frasi del tipo: “A lei non gliene frega niente di fare carriera, che la sua carriera è finita qua; “Lei pensa alle sue cose personali. Ne sta facendo una malattia, ma è convinta di sfangarsela”. Sfoghi, a volte critiche, ma sempre e solo nel chiuso dell'ufficio della Saguto. Matteo Frasca, presidente della sezione palermitana dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe, si interroga sulla “esistenza, adeguatezza ed efficacia dei controlli”. Appunto, gli stessi indagati nelle conversazioni intercettate dicevano chiaramente che la situazione delle Misure di prevenzione era sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli di tanti colleghi che indossano la toga e hanno contribuito alla “normalizzazione” dell'anormalità. Nessuno in questi anni è intervenuto. Mai. E la vigilanza spettava alla stessa magistratura che oggi sventola il vessillo del rischio delegittimazione.

Figli, mogli, amici: i raccomandati vip della sezione beni confiscati. Le cimici svelano decine di segnalazioni, "sistemati" anche parenti di cancellieri, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica”. I raccomandati delle Misure di prevenzione erano davvero speciali. Amici del giudice Silvana Saguto e dei suoi figli. Ma anche amici dei loro amici. E che amici. Professionisti della città bene e rappresentanti delle istituzioni (a cominciare dal prefetto di Palermo). In tanti si rivolgevano all'influente presidente di sezione per piazzare qualcuno nelle aziende sequestrate ai boss. E anche su queste assunzioni stanno indagando gli ispettori del ministro della Giustizia. "L'ispezione si chiuderà nel giro di pochi giorni", fa sapere il Guardasigilli, Andrea Orlando. La settimana prossima, la prima commissione del Csm si riunirà in sessione straordinaria per il caso Saguto. Fra dieci giorni partiranno le audizioni dei giudici indagati. "Intanto, cominciamo con tuo figlio sicuramente ", diceva Silvana Saguto alla cancelliera dell'ufficio dei gip Tea Morvillo. E proseguirono pure con il fratello Sandro. Furono assunti nella tabaccheria sequestrata in via Torretta, ma finirono per fare solo pasticci. Dopo la scomparsa di 26 mila euro, l'amministratore firmò una lettera di licenziamento. Intervenne il giudice, convocando la cancelliera: "Non è che gli posso dire all'amministratore che non li licenzi - esordì - Quindi, io mi ritroverò con persone licenziate per giusta causa, che poi come ti assumo in un altro posto? (...) Tea ho le mani legate ". Ma trovarono una brillante soluzione: "Se loro si dimettono prima, io dico che non si procede". E i parenti del cancelliere non solo furono graziati, ma vennero subito rimessi in pista per un altro incarico. Pure in fretta. La microspia sistemata dagli investigatori del gruppo tutela spesa pubblica ha intercettato la Saguto mentre annuncia soddisfatta alla cancelliera che una sistemazione si è trovata per suo figlio: "Lo mettiamo da Niceta, in un posto che si libera, contabilità (...) se dovesse andare male da Niceta, nel frattempo troviamo altri posti". Aggiunse: "Per tuo fratello, ho parlato con il professore Provenzano". Anche i due figli dell'assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della Saguto, erano stati sistemati. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l'amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo. "Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli... sono dappertutto, non è possibile". La vicenda di Gianluca Grimaldi si è poi conclusa in modo drammatico, con due colpi di pistola sparati nella cava Buttitta di Trabia, anche questa in amministrazione giudiziaria, da un dipendente in mobilità. Dall'indagine della Procura emerge che pure Giuseppe Rizzo era un raccomandato. Diceva la Saguto: "C'ho messo Rizzo perché me l'ha... praticamente è amico di Nasca ". La guardia di finanza commenta nell'informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. La Saguto gli chiedeva "se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare ". Rizzo fece il nome del geometra Greco. Le intercettazioni allegate all'inchiesta di Caltanissetta sono piene zeppe di nomi di raccomandati. Nella lista dei segnalati è finita pure la moglie dell'ex direttore generale di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Valeria Aiello era arrivata alla Nuova Sport Car, una delle società sequestrate ai Rappa. "L'ha presa direttamente l'avvocato Virga", dicevano i suoi collaboratori. "Si deve prendere i soldi e apparentemente si può occupare proprio di qualche minchiata". Una collaboratrice di Virga protestava: "Ma lei è scecca totale". Un altro la riprendeva: "Ma ha le amicizie che contano". Persino i familiari della giudice antimafia avevano fatto le loro segnalazioni. Il figlio Francesco aveva indicato Fabio Torregrossa per un incarico di coadiutore nel sequestro Acanto. Il marito del giudice aveva invece raccomandato Roberto Tre Re per la stessa amministrazione. Non è finita. Silvana Saguto aveva piazzato il marito della sua cara amica Francesca Mesi, Giuseppe Tagliareni, con l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Che si lamentava, perché il neo assunto non era all'altezza. "Lui rimane lì, bellamente", diceva. "A volte gli manca la volontà, poi mi rendo conto che invece non è cosa sua". Raccomandati e incompetenti, a volte. La Saguto aveva puntato pure su un brillante avvocato, Antonio Ticali. "Ma tu l'amministrazione di Villa Giuditta la vuoi adesso o ti vuoi fare le ferie e aspettiamo settembre?". Lui scelse settembre. La giudice non obiettò, interessava solo che il legale l'aiutasse a trovare un posto per il figlio chef, a Milano.

Il prof. Carmelo Provenzano, l’homo novus, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Intercettazioni dalle quali si evince che è un suo pupillo devotissimo, che ha fatto la tesi di laurea al figlio di lei Elio, scapestrato e svogliato per ammissione della madre, che si è procurato per fargli avere tutti e otto i punti dei docenti per la laurea, che ha mandato, su spinta della Saguto un mellone al prefetto di Palermo Francesca Cannizzo per ingraziarsela e chiedere la sua forte intercessione onde ottenere la nomina di amministratore del centro Cara di Mineo, dove si parcheggiano da molti mesi circa 3000 migranti, per i quali lo stato paga 38 euro al giorno e la prefettura due euro e cinquanta a testa. Il giro ha funzionato così: Saguto ha fatto la segnalazione del nome di Provenzano alla Cannizzo, la quale ha fatto qualche telefonata a Roma ed ha ottenuto una risposta positiva. Pareva fatta, al punto che, telefonando alla Saguto Provenzano arriva a dirle: “Prima di festeggiare, un bacio sulla bocca ti dò.” Un giornale scrive che ha avuto tre incarichi di amministratore giudiziario, un altro sostiene che ha avuto incarichi e richieste di consulenze, da parte di amministratori legati alla Saguto. È possibile che sia stato il trait-d’union, la longa manus, il punto di collegamento, tra gli amministratori e la Saguto. Del resto era uno di quelli che organizzava e che teneva dotte relazioni al corso di formazione per amministratori giudiziari che ogni anno si tiene presso l’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, dove era presente tutta la corte della Saguto, come ho scritto altrove. Provenzano, quarantenne ricercatore universitario dell’Università Kore di Enna, quella di Crisafulli, laureato in economia e commercio è un esperto, a quanto pare, dalle sue pubblicazioni, soprattutto in lingua inglese, di problemi commerciali, di economia aziendale e di strategie economiche, se si preferisce, di marketing. La Saguto ha una grande stima del professore, afferma che insegna in tre università, ma in realtà, a parte qualche incarico a Palermo, il suo posto è a Enna. In un articolo  pubblicato pochi giorni prima che scoppiasse la bomba, su “La Repubblica”, che ormai è schierata con i lecchini del potere, si può leggere, nella pagina di Palermo, quasi nascosto e ripreso poi a pag. 15 un articolo del nostro studioso, dal titolo “La guerra sui  beni sequestrati”  in cui egli  dimostra di essere vicino, come del resto ci è stato confermato da una delle tante vittime dell’operato degli amministratori giudiziari, all’ufficio misure di prevenzione e cerca in tutti i modi di difendere l’operato di questo settore scrivendo un mucchio di scemenze, camuffate da qualche termine inglese, tanto per dimostrare una sapienza che non c’è. Intanto non si sa di che guerra si tratti, almeno che non si voglia chiamare guerra l’operato, senza alcuna limitazione e con molto arbitrio, di chi procede con disinvoltura al sequestro dei beni ritardando con rinvii continui il momento in cui il sequestrato dovrebbe far valere le sue ragioni e dimostrare l’estraneità al sodalizio mafioso. È una guerra che ha in partenza un vincitore, ovvero chi usa i poteri dello stato. In tal modo si assicura un permanente reddito all’amministratore nominato e al suo gruppo di amici, a spese dell’azienda sequestrata, sino a produrne il fallimento.  Provenzano si è inventato un termine, la psychological operation per dire che gli stakeholders, cioè i detentori di interessi leciti e illeciti, lavorano sotto sotto per causare tensioni, depressioni, difficoltà psicologiche di ogni tipo ai poveri amministratori giudiziari, che si trovano a giocare “una partita simile a quelle di calcio in terza categoria: la tensione si avverte con l’ingresso nel paese e chi sta sugli spalti è pronto a fare continue invasioni di campo”. Che cazzo vuol dire? A volere trovare un significato pare che si voglia dire che l’impresa sequestrata prima, vedi un po’ non aveva controlli, adesso sì, prima non era in regola, adesso sì, prima non pagava i dipendenti, adesso sì, anzi, questi cattivi sono loro a chiedere di essere pagati e messi in regola. Sarebbe lungo elencare tutti i casi di dipendenti ed ex dipendenti da amministrazioni giudiziarie che aspettano di essere messi in regola e di avere pagato numerose mensilità, ma figurarsi se dall’alto della sua sedia il dottor Provenzano può conoscere tanti di questi casi umani: il giudizio di questo leccatore dell’ultima ora è impietoso; sono tutti mafiosi o amici dei mafiosi. Addirittura scrive: “una serie di sanzioni e prescrizioni si abbatte contro l’amministrazione giudiziaria e contro l’azienda”. Te lo immagini? Il tribunale nomina il suo amministratore, che opera in stretta collaborazione con chi lo nomina, e invece, secondo il Provenzino diventa vittima del suo stesso ruolo. E dietro questa povera vittima inesorabile ci sta la solita mafia che invia numerosi clic dopo il sequestro agli operatori dentro e fuori l’impresa: “il sequestro è ingiusto, a brevissimo si risolverà la causa e tutto ritornerà al suo proprietario”, “il sequestro serve ad arricchire gli amministratori giudiziari e fa fallire l’azienda”, “la giustizia divina farà il suo corso”. In pratica i due amministratori giudiziari catanesi di cui qualche giorno fa abbiamo dato notizia, che incassavano 40 mila euro al mese a testa, sono dei poveracci, così come il bisogno di credere che possa esistere una giustizia che metta a posto le cose, sono tutte minchiate messe in giro da mafiosi, ma anche, guarda un po?!!! Da gente come quella di Telejato, che intralciano l’operato lineare e coraggioso della giustizia in una terra dove “fare impresa”, secondo alcuni settori deviati della magistratura e degli investigatori, significa scendere per forza a compromessi con la mafia. In realtà, caro Provenzano Carmelo, noi non abbiamo accesso alle colonne di La Repubblica, perché non lecchiamo. Ma ci permettiamo di dire, nel nostro piccolo, che non è così e che i tuoi amici amministratori giudiziari non sempre sono vittime del dovere, ma quasi sempre creano vittime a causa di una legislazione esistente solo in Italia, che andrebbe profondamente rivista. Vuoi vedere che, secondo te facciamo gli interessi non dei lavoratori, ma dei mafiosi, mentre tu che hai capito tutto fai gli interessi del miliardario Cappellano Seminara? È probabile che Provenzano si sia trovato in un gioco più grosso di lui e che abbia creduto che, in nome della legalità, dell’antimafia e della tutela dei rappresentanti della giustizia avrebbe potuto far carriera. Intanto apprendiamo che l’università di Enna ha aperto un’inchiesta sul nostro bravo prof. e sospettiamo che i suoi consigli agli amministratori non siano poi tanto qualificati, dal momento che quasi il 90% delle aziende sotto sequestro sono fallite.

“A Zà Silvana” e i suoi raccomandati. Personaggi in cerca d’autore, scrive Pino Maniaci su "Telejato". SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE. Lo fanno per ricambiare cortesie e favori attraverso l’assunzione di personale all’interno delle aziende sequestrate, dando incarichi di consulenza a propri familiari e continuando a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “a Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione. Ma tornando al dott. Rizzo risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato di Cappellano Seminara, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore dello stesso Cappellano Seminara, ed inoltre non si comprende come una persona nuova nell’ambito delle Misure di prevenzione venga nominato ad amministrare più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), quando a “Zà Silvana” ha sempre sostenuto che gli incarichi venivano affidati a professioni conosciuti e di fiducia. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione.

Quando l’antimafia diventa peggio della mafia, continua Pino Maniaci su "Telejato". LA TEMPESTA ABBATTUTASI SUL TRIBUNALE DI PALERMO, I PROCESSI INFINITI E LE VITTIME DI UN SISTEMA DI DUBBIA LEGALITÀ. SEQUESTRI PREVENTIVI FONDATI SU ERRORI, INTERPRETAZIONI DI LEGGE E APPLICAZIONE A USO E CONSUMO DELLA SAGUTO E COMPANY, PROCESSI CON TEMPI INFINITI E OMBRE SULL’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA DEI BENI SEQUESTRATI. È quello che si può definire il lato oscuro dell’antimafia, quello che fa male e colpisce al cuore di chi crede negli ideali di giustizia e legalità. Qualcosa di troppo grande per essere compreso dal comune cittadino che confida fedelmente nell’antimafia, appena percepito da chi ne vive le conseguenze, risaputo invece per chi è dentro al sistema malato e ne fa indirettamente parte. È l’antimafia che si macchia di corruzione e abusi d’ufficio, quella che ha fatto tremare Palermo e la sua struttura giudiziaria. “Tutti sapevano” è la mesta dichiarazione che più sconvolge, poiché significa “omertà”, che grandi eroi come i giudici Falcone e Borsellino hanno voluto combattere in una terra in cui “l’onore” vale più della propria dignità. C’è chi sa e non parla, difficile separare i moventi della paura e della consapevolezza di non poter far nulla contro un sistema tanto potente, e chi invece grida a gran voce. Ebbene, noi di Telejato l’abbiamo fatto, abbiamo gridato in tutte le sedi il malaffare di una certa antimafia; la nostra battaglia ci è costata aggressioni e minacce di morte. Siamo contro l’antimafia che è mafia, contro l’antimafia amministrata dalla Saguto che nelle pubbliche apparizioni professa legalità e poi, in privato, insulta la memoria e i figli di un magistrato come Borsellino che invece ha pagato con la propria vita la lotta alla mafia, un gesto che è veramente l’emblema della turpitudine etica e morale; e poi fa raccomandazioni, favoritismi e utilizza i beni dello Stato, tra i quali la scorta e le residenze prefettizie, come fossero di sua proprietà. Tra l’altro per alimentare il circuito che aveva creato, venivano segnalati per essere sequestrati beni e aziende di tanti imprenditori che, già condannati per concorso esterno in associazione mafiosa e già dopo aver subito e scontato condanne e sequestri si sono ritrovati a rispondere di nuovo delle stesse accuse senza giustificare in alcun modo se questi soggetti abbiamo in qualunque modo attualmente contatti con i veri mafiosi, che le forze dell’ordine locali conoscono perfettamente. E così si sequestrano beni e aziende a qualsiasi titolo venuti a contatto con la persona a cui sequestrare il patrimonio e con motivazioni assurde o inesistenti e prive di alcuna logica; si sequestrano aziende perché il soggetto proposto vi ha svolto attività di lavoro dipendente o perché propri familiari vi hanno prestato attività lavorativa, si sequestrano intere aziende anche se il soggetto proposto possiede una minima quota di partecipazione in quella società, si sequestrano beni, per esempio, che il soggetto proposto ha venduto anche più di vent’anni fà e si sequestrano beni a terze persone, su indicazione dell’Amministratore Giudiziario, sol perché quei beni sono stati presi in affitto dalla ditta sequestrata e così l’amministratore giudiziario non paga più l’affitto. È questa l’antimafia che amministra i beni per trarne guadagni spropositati e che si avvale di “parentelismi” e favori; è l’antimafia che sequestra in modalità preventiva, operata dalla DIA, al cui interno possiamo segnalare la presenza di funzionari al servizio non dello Stato e della giustizia ma della Saguto per accontentarla nella spartizione e assegnazione dei posti di lavoro agli amici. Tutto questo ha creato e crea un enorme disagio e dolore ad intere famiglie, un gioco senza fine composto di investigazioni mirate, di sequestri con motivazioni surreali, di proposte fatte ad un Tribunale la cui Presidente non faceva altro che avallare “sic et simpliciter” le assurde e anomale tesi della DIA, di udienze rimandate di mesi e mesi, di anni e anni. E intanto gli Amministratori Giudiziari ingrassano il sistema creato e gestito dalla Saguto e gli indagati rimangono sospesi in un limbo, e con essi i loro familiari, che a qualsiasi titolo vengono letteralmente cacciati fuori dai posti di lavoro senza stipendio e senza neppure la liquidazione spettante, perché a decidere (di solito sempre in senso negativo) era sempre lei, la regina del malaffare. Il sistema corrotto da lei creato con la complicità di funzionari della DIA, di cancellieri, di personale giudiziario, di prefetti, di giudici e di amministratori giudiziari guadagna e guadagna ancora di più se i tempi dei processi si distendono, complice la mancata urgenza di giustizia e un’organizzazione giudiziaria da Paese dittatoriale. Basti considerare che il Tribunale Misure di Prevenzione è l’organo che dispone il sequestro e allo stesso tempo l’organo giudicante. È come se chi svolge le indagini, ad esempio le Procure, allo stesso tempo possano giudicare senza necessità che la funzione di terzietà venga esercitata da un Tribunale, sul quale grava l’onere di valutare le prove offerte sia dall’accusa che dalla difesa. “Alla faccia della Giustizia”. Intanto ognuno fa i propri interessi, poco importa del prossimo. Qualcuno avrà sicuramente le sue fonti alternative, altri (la maggior parte) non potranno che tirare a campare in attesa di un verdetto che, se tutto và secondo i piani, arriverà quando tutti avranno le tasche piene. Comunque non possiamo che complimentarci per l’alto senso dello Stato dimostrato da Giudici, Prefetti, componenti del CSM, Sottosegretari, funzionari della DIA, Cancellieri…E poi quei singoli magistrati che in questi giorni, a titolo personale, esprimono il loro rammarico per il populismo che si stà creando contro la loro categoria, dovrebbero, per manifestare il disgusto di comportamenti disdicevoli di loro colleghi, intervenire presso la loro Associazione (ANM) per isolare pubblicamente tutti i soggetti coinvolti nell’inchiesta, senza se e senza ma. Per concludere noi avremmo una domanda da porre principalmente al signor Presidente del CSM Sergio Mattarella: “Ma la legge è uguale per tutti?”, perché non comprendiamo come mai tutte queste persone a vario titolo coinvolte, partendo da giudici e finendo a funzionari della DIA, si trovano ancora al loro posto e non vengono sospesi da tutte le funzioni pubbliche, perché è chiaro che indossare la toga e svolgere attività, con le accuse che gravano sulle loro spalle, oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati e funzionari che ogni giorno, onestamente, amministrano giustizia. È urgente, quanto meno, che a chi si sia macchiato di queste gravi accuse vengano sequestrati i beni.

Il "cerchio magico" di Silvana: "Io sono come Dio onnipotente". Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" dal magistrato sotto inchiesta, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” del 27 ottobre 2015. Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e naturalmente uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" nel cerchio magico di Silvana Saguto, tutti pronti a calpestare il proprio ruolo istituzionale pur di compiacere quel giudice che di sé diceva: "Io sono Dio onnipotente". Dalle mazzette di banconote alle cassette di fragole e lamponi, ma soprattutto il potere di "sistemare" amici, parenti e conoscenti nelle aziende sequestrate. Quali e a carico di chi saranno le condotte penalmente rilevanti lo dirà l'inchiesta della Procura di Caltanissetta, ma quello che emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali negli uffici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo è al contempo uno scenario di potere e di bassezze, una sconcertante "palude" dove di incrociano uomini delle istituzioni ed esponenti della buona borghesia palermitana. Tutti insieme, giudici, controllori e controllati. E persino i "prevenuti", cioè i titolari dei patrimoni sequestrati che continuavano ad avere rapporti con gli amministratori posti alla guida delle loro aziende. Perché, come diceva l'avvocato Walter Virga, il figlio del giudice Tommaso "premiato" con due amministrazioni giudiziarie miliardarie, "non è una questione di soldi nè di niente, è una questione di potere". L'investigatore che confezionava le proposte di sequestro di patrimoni, ad esempio, il pluridecorato colonnello Rosolino Nasca della Dia di Palermo, era uno dei più fidati "problem solver" della Saguto. "Silvana stai serena, ti dico io come fare. Non comparirà da nessuna parte, non emergerà nulla. Viene assunto da una terza parte, quindi lo sappiamo solo noi due e tuo marito, il quale non avrà rapporti con Rizzo, è una cosa scientifica. Devi stare tranquilla, soprattutto per telefono, sempre". Era l'8 luglio, si stava preparando il sequestro dell'impero dei boss Virga e il colonnello cercava di aggirare i problemi che, con la Saguto già nell'occhio del ciclone, impedivano di continuare ad assegnare incarichi al marito, l'ingegnere Lorenzo Caramma. Affidando quell'amministrazione giudiziaria ad una persona di fiducia del colonnello Nasca l'obiettivo sarebbe stato ugualmente raggiunto. "C'ho messo a Rizzo perché lo vuole Nasca - ammette la Saguto intercettata mentre parla con il collega romano Muntoni - ed è un sequestro sovrastimato dalla Dia. Su 30 aziende pochissime sono attive e i conti correnti sono tutti negativi". Il colonnello faceva quello che voleva. È lui che "rende attuali" vecchie minacce e informa i giornali per cercare di rimettere in piedi la credibilità della Saguto incrinata da articolo di giornali e dalla martellante campagna di Telejato. Anche di questo si occupava Nasca: neutralizzare la stampa sgradita. Per provare a "spegnere" la tv di Partinico (che per conservare le frequenze con il passaggio al digitale era entrata in un conzorzio con Telemed) si era rivolto a Walter Virga. Una preoccupazione condivisa con Francesca Cannizzo, il prefetto di Palermo, grande amica della Saguto. "Ma che tempi abbiamo per Telejato?" chiedeva la Cannizzo alla Saguto che rispondeva: "Quello dice: ha le ore contate ". Gli amici della Saguto erano ormai di casa in prefettura: dal professore Carmelo Provenzano (che carinamente mandava frutta, verdura e dolcini) all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. A lui, che -infastidito dalla campagna di Telejato aveva presentato in procura una denuncia di stalking - la Cannizzo propone la scorta: "Se ritieni, a livello di tutela io posso intervenire". Poi si dedica all'organizzazione della festa di 60 anni dell'amica Silvana a Villa Pajno: "Servono i flute, i piattini per la torta, postine e tovagliolini. Ci penso io".

I raccomandati della “Zà Silvana”: c’era pure il dott. Giuseppe Rizzo, scrive Pino Maniaci su “Telejato” del 26 ottobre 2015. SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI, E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE PER ASSUMERE PERSONALE ALL’INTERNO DELLE AZIENDE SEQUESTRATE. E lo fanno non per le loro competenze nell’ambito delle attività svolte dalla ditta amministrata, ma per ricambiare cortesie e favori, dando incarichi di consulenza a propri familiari e facendo ingrassare nuovi fornitori scelti tra familiari e amici, chiaramente dopo avere allontanato dalle aziende, con licenziamenti immotivati, tutti quei dipendenti che con le proprie capacità quella ditta hanno contribuito a far crescere e a dare lavoro a decine di lavoratori; mentre si preferisce continuare a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “A Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione da lei presieduto. Ma tornando al dott. Giuseppe Rizzo, dall’indagine della Procura di Caltanissetta emerge che pure lui era un raccomandato. Diceva a “Zà Silvana”: «C’ho messo Rizzo perché me l’ha… praticamente è amico di Nasca». La guardia di finanza commenta nell’informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. A “Zà Silvana” gli chiedeva “se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare”. Pure i due figli dell’assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della “Zà Silvana”, erano stati sistemati nelle aziende amministrate dal dott. Rizzo. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l’amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo: “Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli… sono dappertutto, non è possibile”. Inoltre risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore di Cappellano Seminara e Aulo Giganti. In effetti era evidente il coinvolgimento del dott. Giuseppe Rizzo nel sistema del malaffare creato, gestito e amministrato dalla “Zà Silvana” e dai suoi seguaci, perché lei stessa ha sempre dichiarato che le nomine degli amministratori giudiziari venivano conferiti a professionisti conosciuti e di fiducia, mentre il dott. Giuseppe Rizzo, commercialista e laureato anche lui all’università Kore di Enna, la stessa che ha regalato la laurea al figlio svogliato della “Zà Silvana”, era un emerito sconosciuto nell’ambito delle Misure di prevenzione, il cui presidente gli affida l’amministrazione di più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), non certo per professionalità dimostrata ma soltanto dietro raccomandazione del funzionario della DIA ten. col. Nasca, che probabilmente svolgeva le indagini di sequestro di patrimoni non per contrastare effettivamente l’illecita acquisizione di beni da parte della mafia ma per ingraziarsi a “Zà Silvana” e per piazzare i propri amici amministratori giudiziari, anche grazie ad una legislazione e ad un orientamento del Tribunale Misure di Prevenzione per cui il sospetto vale più delle prove offerte. Sulle cifre dei patrimoni sequestrati c’è un capitolo a parte visto che le stesse vengono gonfiate dalla DIA per sostenere davanti l’opinione pubblica e le istituzioni che quell’organismo svolge una enorme mole di lavoro. Chiediamo al sig. direttore della DIA: come vengono individuati i soggetti da sottoporre ad indagine patrimoniale? Quali sono i criteri utilizzati per l’aggressione ai patrimoni sospettati di essere stati acquisiti illegalmente? Ma forse più che il direttore della DIA a queste domande dovrebbe rispondere il ten. col. Nasca. Riteniamo che su questo punto vada fatta chiarezza e l’eventuale indagine dei soggetti coinvolti debba avvenire in modo trasparente e in maniera che tutti possano conoscere i metodi utilizzati dalla DIA per il contrasto alla criminalità. Perché in caso contrario è legittimo il sospetto (o meglio la conferma, dati i fatti emersi) che finora si sono sequestrati beni e aziende anche per colpire qualcuno in particolare o per alimentare ed ingrassare il sistema illegale di favoritismi creato all’interno della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo con l’aiuto e l’accordo di funzionari della DIA, che al posto di denunciare consigliano alla “Zà Silvana” e ai suoi amici di non parlare al telefono perché non è escluso che possano essere sotto controllo. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione. Sembra quasi che tutti questi soggetti coinvolti abbiamo avuto una malattia degenerativa che ha colpito e si è diffusa anche per la forza simbolica che ognuno di loro (giudici, funzionari della DIA, cancellieri, Amministratori giudiziari) aveva. E così che ci domandiamo: con chi abbiamo avuto a che fare? Sicuramente non con chi credevamo un integerrimo personaggio ma sicuramente con un disinvolto giocatore pronto a bluffare pur di vincere la sua partita personale. Tutti i lavoratori e tutti i cittadini onesti che credono nella giustizia vera sono indignati e stentano a credere che ancora tutti questi personaggi siano al loro posto dopo la pubblicazione di una parte di quelle intercettazioni inequivocabili, e tra l’altro qualcuno dei soggetti coinvolti ha pure il coraggio di esternare sulla stampa improbabili frasi a difesa del suo operato. Certo i processi si celebrano nelle aule giudiziarie, ma per molto meno un funzionario pubblico o un politico sarebbe finito quanto meno ai domiciliari con i propri beni sequestrati (vedi il caso di corruzione ANAS), altro che trasferimento ad altra sede, continuando a percepire lo stipendio e ad usufruire dei servizi di scorta e accompagnamento pagati da noi cittadini! Un’ultima domanda la vogliamo rivolgere al nuovo Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo dott. Montalbano e al Direttore dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati Prefetto Postiglione: Visto che le nomine degli Amministratori Giudiziari sono fiduciarie, ritenete di avere ancora fiducia in tutti questi Amministratori Giudiziari e Coadiutori coinvolti (Cappellano Seminara, Scimeca, Giganti, Rizzo) e gli altri nominati nelle intercettazioni finora rese pubbliche? Secondo il nostro parere e quello di tutta l’opinione pubblica, andrebbero tutti immediatamente rimossi dai loro incarichi, così come i Cancellieri, il personale giudiziario e i funzionari della DIA, a meno che chi dovrebbe rimuoverli non si trovi anche lui sotto ricatto.

Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.

Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.

Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.

QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss. 

Dio, Satana e il colonnello, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 28 ottobre 2015. ORMAI NON CE LA FACCIAMO PIÙ AD ANDARE DIETRO A TUTTE LE “MINCHIATE”, LE INTERCETTAZIONI CHE GIORNALMENTE VENGONO FUORI, LE DICHIARAZIONI, E LE CONDIZIONI PSICOLOGICHE DEI PROTAGONISTI DI QUESTA SQUALLIDA STORIA CHE HA MESSO IN VETRINA TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DENUNCIATO DA DUE ANNI A QUESTA PARTE. Per fortuna da Caltanissetta, dove Pino Maniaci era già stato ascoltato un anno e mezzo fa, hanno lavorato sodo e hanno scoperto una sorta di complotto che aveva le mani su tutto il sistema produttivo delle province di Trapani e Palermo, con diramazioni anche a Catania e ad Agrigento. Ieri ci sembrava che si era toccato il fondo: “Io sono come Dio onnipotente”, diceva la Saguto al suo Cappellino, ma da altre intercettazioni “ho sentito dire di Cappellano Seminara cose poco sotto di quello che può fare Satana in persona… ma siamo in un paese in cui quando non riesci ad incastrare uno non puoi dire che sei tu incapace di incastrarlo, devi dire che ci sono i poteri oscuri, le protezioni, i poteri forti”. Il Giornale di Sicilia, con la sua furbizia redazionale, ma che in realtà è poca correttezza deontologica, riporta quest’ultima dichiarazione, senza dire chi la dice, ma solo chi la riceve, ovvero il chiarissimo prof. Provenzano Carmelo. Con ogni probabilità si tratta del golden boy avvocatino Walter Virga. Dio… Satana, siamo agli estremi. Un potere illimitato dato dalla tremenda legge sulle misure di prevenzione, con la quale puoi sequestrare tutto a chi vuoi e affidarlo a chi vuoi, e un Rasputin siciliano, se vogliamo un cardinale Richelieu, il “consigliori”, la mente che indirizzava i vari movimenti del circuito della procura di Palermo, e che gestiva e gestisce il tutto come una sorta di burattinaio… Satana o poco sotto di lui, un ruolo che a suo tempo, nel suo delirio di potenza, si era attribuito Totò Riina. Lo strumento di Riina era l’omicidio, quello di Cappellano e della Saguto era lo spolpamento delle aziende, sino al fallimento. Elemento in comune era ed è invece il parassitismo, ovvero la volontà di assorbire voracemente i frutti del lavoro degli altri, senza rendersi conto che proprio la persistenza del lavoro può consentire la sopravvivenza della propria condizione. E adesso che il giocattolino è rotto Lorenzo Caramma si sente “umiliato” per avere fatto davanti a tutta Italia il ruolo del pupo, sistemato a Roma o a Palermo per qualche incarico, dietro spinta della moglie dea. Cappellano è invece “addolorato” perché la cosa non doveva venir fuori e la sanno tutti, mentre a Zà Silvana è ancora depressa e non va a lavorare, anche perché non gli conviene, dal momento che il ministro ha chiesto di sospenderla dall’incarico e dallo stipendio: qualche giornale parla addirittura di ricchezze portate all’estero, ma senza alcuna prova. Il problema della sopravvivenza economica del giudice è serio. E speriamo che non si arrivi davvero alla disperazione, come essa stessa ha detto qualche giorno fa, perché tutti ci farebbero sentire come i responsabili morali di quello che sta succedendo dopo la “rottura” del cerchio magico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, come abbiamo già detto, vuole il suo tempo: bisogna attentamente conoscere, considerare, valutare chi possa esserci in mezzo, che cosa si rischia se la Saguto parla, ascoltare, ingenerare nel proprio cervello una linea di giudizio e di lettura prima di arrivare, tra qualche anno, alla conclusione. E il prefetto Cannizzo? Per sua fortuna è una di quelle che parla poco. E il colonnello della Guardia di Finanza Nasca? Che cosa significava quella frase “è questione di ore” nei confronti di Telejato? Qualcosa è venuta fuori. Quando è stato introdotto il digitale terrestre sembrava che per Telejato fosse la fine: la legge prevedeva la creazione di gruppi, consorzi, nuclei di televisioni che avrebbero dovuto costituire il bouquet, cioè arrivare a un punteggio, stabilito su capitale sociale, attrezzature, personale delle varie televisioni. Telejato non aveva neanche un punto, quindi nessuno l’avrebbe richiesto. Sul tavolo dell’allora ministro Passera arrivarono 70 mila email a chiedere che Telejato fosse salvata e allora il ministro con una sua telefonata chiese a Tele-med, cioè la televisione dei fratelli Rappa, di metter dentro Telejato, che comunque rimase dentro solo con un piede, mentre l’altro era legato ad altro circuito internazionale. Nasca, dopo avere gonfiato il sequestro dei Rappa e averlo fatto affidare al giovane Virga, pensava di intervenire nei confronti di costui per chiudere Telemed e quindi Telejato. È triste constatare che un uomo al servizio dello Stato falsi i conti di quello che è stato deciso di porre sotto sequestro e si presti alle manovre sotterranee del giudice che ne ispirava le mosse. Le false attestazioni nell’esercizio delle proprie funzioni, sono cose contro cui la Finanza dovrebbe procedere, non invece atti che essa stessa porta avanti. Se Nasca rimarrà al suo posto, se qualcuno avrà il coraggio di inquisirlo, se i vertici (ma quali?) della stessa Guardia di Finanza, per tutelare l’immagine e la serietà non decideranno di adottare qualche decisione. Alla fine c’è una domanda inquietante: quanti altri ci sono dentro? Verranno tutti fuori o rimarranno a lavorare nell’ombra per rafforzare la ragnatela che hanno costruito attorno alla Sicilia?

Caramma, la revoca e l'equivoco. "Che fa, ti stanno arrestando", scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Le microspie svelano i retroscena della rinuncia all'incarico del marito di Silvana Saguto nella cava Buttitta, gestita da Gaetano Cappellano Seminara. Lorenzo Caramma si sentiva “umiliato”. Gaetano Cappellano Seminara, invece, era “addolorato”. Era stato caratterizzato dalle polemiche il passo indietro di Caramma, ingegnere e marito di Silvana Saguto, costretto a rinunciare all'incarico di coadiutore tecnico in una cava gestita dal principe degli amministratori giudiziari. Stando alle intercettazioni delle conversazioni della stessa Saguto si erano mossi il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli, e del Tribunale, Salvatore Di Vitale, per arrivare alla revoca dell'incarico di Caramma nella cava Buttitta di Trabia. “Diremo, per non dire che si dimette, - spiegava la Saguto - che cessa l'incarico, nel senso che non serve più la sua figura professionale”. Il fatto che Caramma non sarebbe più andato al lavoro ero stato comunicato in azienda con una email circolare. Pure questa finita agli atti dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta coordinata dall'aggiunto Lia Sava. “Lorenzo ha avuto telefonate di tutti i tipi”, diceva nel luglio scorso l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. “Cappellano - annotano i finanzieri - ribatteva che non era nei suoi pensieri e che per questo ha buttato fuori la persona che ha scritto l'email”. L'amministratore era addirittura pronto a fare un passo indietro, a lasciare le misure di prevenzione. Si era stancato “perché questa cosa è iniziata male ed è finita peggio”. Poco dopo l'avvocato chiamava Lorenzo Caramma: “... siccome ho sentito tua moglie e mi ha detto, ah, ma so che hai dato comunicazione, quindi io mi sono, dissi ma comunicazione in che senso, hai mandato la mail, io non le ho detto niente ma ti sto chiamando perché ho chiesto a questo cretino di chiedere scusa”. Caramma non l'aveva presa bene, perché “ho dovuto spegnere il telefono, perché mi sono arrivate cinquanta telefonate, ma che fa ti hanno denunciato, ti stanno arrestando, che cosa hai combinato”. Si era dovuto sorbire pure “le risatine dietro le telefonate”.

L'incarico e la paura della Saguto: "È un ragazzetto, non so come farà", scrive ancora Riccardo Lo Verso il 27 ottobre 2015. Lo scorso luglio la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sequestrò un patrimonio sterminato agli imprenditori Virga di Marineo. La nomina ad amministratore faceva gola a molti. La scelta preoccupava lo stesso magistrato travolto dallo scandalo. Si indaga anche sugli incarichi di Walter Virga in altri settori. "Gli daranno un incarico di quelli giganteschi", diceva un commercialista all'avvocato Walter Virga. Era il 2 luglio scorso. La voce correva nei corridoi del Tribunale di Palermo ed era arrivata alle orecchie di molti. Anche del commercialista. Un patrimonio sterminato sarebbe finito sotto la scure della sezione Misure di prevenzione e comprendeva "di tutto e di più, dalle case di cura, alle immobiliari alle cave". Il 6 luglio successivo agli imprenditori Virga di Marineo furono sequestrati beni per un miliardo e 600 milioni, tra cui 33 imprese di calcestruzzo, 700 tra case, ville e immobili, 80 rapporti bancari, 40 assicurativi e oltre 40 mezzi. Il collegio delle misure di prevenzione, presieduto da Silvana Saguto, scelse come amministratore giudiziario il commercialista Giuseppe Rizzo. Virga era rammaricato. Riteneva che un suo collaboratore, Alessio Cordova, fosse pronto per l'incarico: "... senti, ma secondo te questa qua non è andata, non tanto a me, ad Alessio, alla luce delle pressioni di quello la", oppure poteva essere una conseguenza "di quello che è successo". Lo sponsor di Rizzo, secondo i finanzieri, sarebbe stato l'ufficiale della Dia, Rosolino Nasca, mentre Virga non escludeva che la mancata scelta di Cordova fosse dovuta allo scontro aperto con la Saguto dopo che il giovane amministratore aveva allontanato dal suo studio Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli del magistrato. Il 17 luglio era la stessa Saguto a mostrarsi timorosa per la nomina di Rizzo. Aveva scelto "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". La scelta sarebbe ricaduta su Carmelo Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Le cose sarebbero andate in maniera diversa. Oggi Provenzano, professore alla Kore di Enna, è finito sotto inchiesta. Sarebbe stato l'organizzatore di quella che gli stessi indagati definiscono la "laurea farsa" di Emanuele Caramma, altro figlio della Saguto. Il 17 luglio i rapporti fra l'allora presidente delle Misure di prevenzione e Walter Virga erano ormai ai ferri corti. Virga non si rammaricava più per l'incarico sfuggito al suo collaboratore Cordova, piuttosto voleva fare un passo indietro. Fabio Licata, altro giudice delle Misure di prevenzione indagato, riferiva le parole pronunciate da Tommaso Virga, presidente di una sezione del Tribunale e padre del giovane amministratore giudiziario: "Io ci ho pensato, dice, mi dovete liberare Walter". Il figlio si sentiva sotto pressione, voleva rinunciare alle amministrazione di Rappa e Bagagli. La stessa Saguto era incredula: "Non lo capisco cioè Walter non lavorerà più col Tribunale. Cioè non si prende più curatele, non fa più l'avvocato? Perché lui qua è, fatti suoi sono... se può campare senza lavorare al Tribunale di Palermo, fatti suoi, perché come è questa sezione, così è un'altra, non è che Tommaso (Virga, ndr) è in questa sezione". Il riferimento era ad altri incarichi ricevuti dal giovane in altri settori dell'amministrazione della giustizia. Da qui i controlli della finanza alle sezioni delle Esecuzioni immobiliari e alla Fallimentare. Alla fine Virga avrebbe davvero rinunciato agli incarichi, ma solo quando l'inchiesta della procura di Caltanissetta era già avviata e lo scandalo esploso nelle stanze del palazzo di giustizia palermitano.

"Vulnus all'immagine della giurisdizione", "condotte gravemente scorrette plurime e continuate nel tempo", "commercializzazione della qualità di magistrato": sono durissimi i giudizi che il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo ha formulato sulle condotte dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, indagata a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio, scrive "Live Sicilia" il 28 ottobre 2015. Ieri il pg e il ministro hanno chiesto alla sezione disciplinare del Csm di sospendere, in via cautelare il magistrato, da funzioni e stipendio. Una decisione che il pg motiva in una richiesta di sette pagine dai toni molto pesanti. Le condotte illecite del magistrato "emergono con grado di sufficiente certezza, particolare gravità per le modalità in cui sono state poste in essere, per gli ingenti interessi economici sottostanti e per il notevole risalto mediatico conseguente", scrive il pg che sottolinea "l'allarme tra colleghi e operatori del diritto e lo sconcerto dei cittadini dinnanzi alla commercializzazione della qualità di magistrato e alla gestione disinvolta dei patrimonio dei beni di provenienza mafiosa". Comportamenti di tale gravità "da minare la credibilità indispensabile per svolgere con necessario prestigio le funzioni giurisdizionali". "I cittadini - conclude la richiesta - non possono essere giudicati da un magistrato venuto meno ai fondamentali doveri di correttezza e imparzialità".

LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”

"Lo smarrimento dei siciliani nella lettera di un avvocato che il palazzo di giustizia lo conosce bene: fanno più clamore i 20 mila euro di spese di Marino, tutte da dimostrare, che una gestione così sfrontatamente arrogante del potere. L’allarme dimenticato dell’ex prefetto Caruso. Alcune volte i magistrati dimostrano di non avere quella dignità e quella sensibilità che a parti opposte pretendono dai politici che solo perché raggiunti da un avviso di garanzia si autosospendono ovvero si dimettono dalla carica o dall'incarico ricevuto. Evidentemente l'ambizione, la vanità, l'arroganza e l'interesse privato a mantenere uno status symbol porta qualcuno a dimenticare che prima di tutto il "Magistrato" con la M maiuscola deve essere un fedele servitore dello Stato che non esercita il potere in quanto tale, anche a proprio beneficio e proprio vantaggio, ma esercita una professione che prima di tutto deve essere intesa quale servizio reso al cittadino e alla collettività. Il vantaggio economico, l'alleanza con i poteri forti dello Stato, le cene e i pranzi fini a se stessi per rinsaldare le alleanze e incrementare il proprio potere, il peculato, l'interesse privato, l'abuso di potere, l'induzione alla concussione, sono tutte fattispecie che confondono i cittadini e le persone oneste che si ritrovano smarriti, disorientati e increduli nell'apprendere giornalmente fatti che investono chi apparentemente sembra avere svolto un ruolo pubblico da vero paladino della legalità e della lotta alla mafia, quotidianamente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata. Scoprono, invece, che nel privato agisce da persona modesta, piena di difetti, che compie soprusi a danno di lavoratori alle proprie dipendenze che non possono opporsi alle ingiuste e insensate richieste del "capo", che chiede favori a chi ha fatto favori, raccomandazioni, trova lavoro a chi è raccomandato e dispensa incarichi a chi ne è meritevole non solo per personali capacità professionali dimostrate sul campo, ma a chi potrà essergli utile secondo fini di personali interessi utilitaristici. In questo mare di grande confusione e smarrimento, viene da chiedersi dove sono finite le associazioni come Libera, AddioPizzo, Fondazione Giuseppe Fava, Fondazione Progetto Legalità e tutte le altre che per molto meno sono prontissime a scendere in piazza per organizzare fiaccolate e cortei a sostegno di questo o quel personaggio che credono sia minacciato dal potere occulto della mafia, ma non assumono alcuna posizione rilevante dinnanzi a una così triste vicenda. Forse in Italia, curiosamente oggi, fa più clamore l'ingiusta accusa rivolta al primo cittadino di Roma capitale di avere "dilapidato" in diciassette mesi l'iperbolica somma di € 20.000 per pranzi, cene e spese personali, sempre che venga dimostrata la fondatezza dell'accusa, fino a pretenderne le dimissioni immediate, piuttosto che ribellarsi a una gestione così sfrontatamente arrogante del potere, manifestato ufficialmente dagli organi istituzionali nei confronti di quella parte delle ricchezze sottratte alla criminalità organizzata e sottoposta al controllo dello Stato. Uno Stato che ha voluto presto dimenticare il grido di dolore e di allarme sociale lanciato nelle sedi istituzionali competenti dall'ex Prefetto Caruso, circa diciassette mesi fa". Matteo Raimondi Avvocato a Palermo.

L’attacco a Cantone tra i magistrati divisi sul governo. Quegli applausi delle toghe a chi ancora critica il “collega” prestato all’Anticorruzione, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” il 25 ottobre 2015. L’affondo del segretario dell’Associazione magistrati, Maurizio Carbone, arriva quando parla della «degenerazione del correntismo», tra favoritismi nelle carriere dei giudici e spartizione delle poltrone. Ovviamente lui è contrario, però mette in guardia dal pericolo opposto: «l’individualismo che svilisce la funzione del nostro ruolo e del Csm, aumentando i condizionamenti esterni ancora più pericolosi di quelli interni». Sarebbe come liberarsi delle correnti per mettersi nelle mani dei partiti, che immaginano strani progetti di riforma dell’autogoverno. «Non è casuale - aggiunge - che oggi le maggiori critiche verso le correnti e il Consiglio superiore provengano da ambienti politici o da parte di chi ha intrapreso altri percorsi professionali che lo portano lontano dalla giurisdizione!». In molti capiscono che il riferimento è al collega Raffaele Cantone, e in molti applaudono; la polemica di fine estate del magistrato prestato all’Anticorruzione, contro le correnti e il Csm, ha lasciato il segno. Non solo ai vertici dell’Anm. E una certa insofferenza che si registra nei corridoi del congresso verso l’uomo scelto da Renzi come simbolo della lotta governativa al malaffare, è pure un portato dell’insofferenza verso i modi considerati poco rispettosi del presidente del Consiglio; come se si manifestasse per interposta persona. Da parte di molti, non di tutti. Perché divisioni e differenze emergono anche all’interno della magistratura, del suo sindacato e dell’organo di autogoverno, sul tema del rapporto con la politica. Luca Palamara, già presidente dell’Anm e oggi rappresentante al Csm per la corrente centrista di Unicost lo dice chiaro: «Non si possono affrontare tutte le fasi allo stesso modo, non tutti i governi solo uguali; non possiamo non prendere atto, ad esempio, dei passi avanti fatti nell’ultimo anni in materia di lotta alla corruzione». Sembra una presa di distanza dal suo successore alla guida del sindacato, Rodolfo Sabelli (compagno di corrente) e alla polemica innescata dalla frase «si pensa più alle intercettazione che alla lotta alla mafia». Un’analisi che, spiega Palamara, «non mi trova d’accordo; anche perché dobbiamo fare attenzione al pericolo dell’isolamento rispetto alla politica». Come dire che, finito l’anti-berlusconismo che accomunava magistrati e Pd, ora si rischia di restare soli, e subire le iniziative della politica senza riuscire a contare. In tempi di renzismo, sembra che tra i magistrati - come in Parlamento - il premier conquisti più consensi al centro che a sinistra. E così la corrente di Unicost, al Csm, si trova spesso al fianco dei «laici» di centrosinistra; anche per contrastare l’anomala convergenza che, da ultimo, s’è registrata su alcune nomine tra la sinistra giudiziaria di Area e il blocco (sempre compatto) che lega Magistratura indipendente e i «laici» di centro-destra. Adesso però c’è la «questione morale» esplosa con il «caso Palermo» (dove la maggior parte dei giudici coinvolti nelle indagini per corruzione aderisce a Mi) che potrebbe aiutare a scompaginare le alleanze. Non a caso Palamara batte sul tasto: «Serve una risposta forte e immediata». Ma prima di lui è stato proprio Carbone, di Area, a brandire l’argomento. Anche in risposta al ministro dell’Interno Alfano, che aveva invitato l’Anm a guardare al proprio interno prima di criticare il governo: «Si impone sempre maggiore attenzione e rigore per le condotte che ledono gravemente l’etica del magistrato, con l’esigenza di combattere ogni opacità». Applausi.

Beni confiscati, scontro Alfano-magistrati sul caso Palermo, scrive “la Repubblica” il 24 ottobre 2015. Il Csm: "Strumenti inadeguati per intervenire". Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini parla del caso Palermo al congresso Anm di Bari: "Occorrono nuove leggi e regolamenti, basta polemiche distruttive". "Credo che ci voglia coraggio e una certa faccia per attaccare questo governo. Invece dell'autocritica, per quanto successo a Palermo, arrivano gli attacchi. E' un modo ottimo per sviare l'attenzione ma nessuno si illuda che non ce ne siamo accorti". Il ministro degli Interni, Angelino Alfano risponde a muso duro alle critiche dell'Associazione nazionale magistrati e tira in ballo lo scandalo scoppiato alle Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Per Alfano, ci vuole coraggio a rivolgere critiche al Governo "nel momento in cui questo Governo ha fatto leggi importati, in cui il contrasto a Cosa Nostra va bene e nel momento in cui - ha detto - credo che tutta l'opinione pubblica nazionale si aspetti una profonda autocritica e parole molto forti per spiegare da parte della magistratura quello che è successo a Palermo". A Palermo, ha detto Alfano a margine di una convention di Ncd a Limatola (Benevento), "è successo un qualcosa che manda un messaggio devastante all'opinione pubblica che pensa che se così vengono gestiti i beni confiscati da coloro i quali devono contrastare la criminalità organizzata c'è qualcosa di molto grave che non quadra". Anche al Csm il "caso Saguto" continua a tenere banco. "A fronte di fatti gravissimi come quelli che vanno emergendo a Palermo nell'affidamento degli incarichi di amministrazione e gestione dei beni confiscati, conosciuti i quali il Consiglio si è attivato con rapidità e decisione, si manifesta per intero l'inadeguatezza di questo strumento di intervento del governo autonomo su talune patologie che si manifestano nell'esercizio della giurisdizione". Così nella sua relazione il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. "La portata applicativa dell'articolo 2 della legge sulle guarentigie e il relativo procedimento improntato ad un pur doveroso garantismo - ha detto - hanno vieppiù svuotato l'istituto. In talune circostanze, tale procedimento risulterebbe prezioso ed anzi essenziale proprio per garantire serenità negli uffici giudiziari ed autorevolezza della giurisdizione. Ribadisco - ha continuato - che occorre un intervento urgente sulla materia, sia per via legislativa che regolamentare; e ciò - ha concluso - ancorchè non mi sfugga la ristrettezza degli spazi riservati alla normazione secondaria". Anche il segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, ha parlato a Bari del caso Palermo, nel quale potrebbero essere coinvolti alcuni consiglieri del Csm: "Recenti vicende giudiziarie ripropongono drammaticamente l'attualità della questione morale e l'esigenza, mai trascurata, di combattere ogni opacità. Occorre in questi casi fermezza e rapidità - ribadisce - è l'unico modo per tutelare la dignità e la serenità di tutti i colleghi che lavorano quotidianamente negli uffici, soprattutto nelle zone di frontiera. E' l'unico modo per ricordare e onorare la memoria di chi ha pagato con la vita il proprio impegno nella lotta al crimine organizzato". "Bisogna distinguere tra la dinamica di un confronto, anche critico, e le polemiche distruttive a cui ci sottraiamo". Così il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, a margine del congresso delle toghe, replica alle dichiarazioni del ministro dell'Interno Angelino Alfano. "Spiace che si pensi che la magistratura voglia con le polemiche sottrarsi a un intervento sul caso Palermo. Non è assolutamente vero che con le polemiche ci si voglia sottrarre alla riflessione", aggiunge Sabelli. Sul "caso Palermo", sottolinea ancora il leader del sindacato delle toghe "il 23 settembre la sezione Anm Palermo ha diffuso un comunicato. Io ho affrontato il tema nella relazione di ieri, oggi lo ha fatto il segretario Carbone. Per noi chiarezza e trasparenza sono fondamentali perchè è tutta lì la costruzione della fiducia tra istituzioni e magistratura". Con Sabelli, interviene Matteo Frasca, presidente dell'Anm Palermo: "qualunque opacità - rileva - porta a ledere l'immagine della magistratura. Se è stato fatto scempio delle regole da parte di qualcuno, gli organi competenti sapranno fare chiarezza. Singoli episodi non potranno mai sporcare la professionalità della magistratura palermitana". Il presidente Sabelli, infine, ricorda gli esempi di Falcone e Borsellino, dopo che ieri, in conclusione del suo discorso di apertura al congresso, aveva ricordato il giudice Livatino e tutti i magistrati uccisi.

La giustizia a due velocità, scrive “Trentarighe”. Non saranno i tecnicismi ad aiutarci a capire perché il giudice Silvana Saguto continua a fare il giudice nonostante la mole di accuse che la sommerge. Non sarà il senso di civile prudenza a scacciare il pensiero malevolo di una corsia preferenziale, anzi di una comoda area di sosta, approntata ad hoc per l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, oggi in Corte di assise. Il problema c’è ed è disorientante per un’opinione pubblica sensibile e drammaticamente sensibilizzata dal surrogato di informazione liquida dei social network che tutto avvolge e poco contiene (c’è pure un gruppo su Facebook che vuole la Saguto fuori dalla magistratura). Come viandanti in marcia su strade diverse che viaggiano però verso la stessa metà, i cittadini-spettatori di questa inchiesta si dividono per molteplici correnti di pensiero – garantisti, manettari, arrabbiati, attendisti, agnostici del diritto – ma inevitabilmente si ritrovano tutti davanti alla stessa domanda: allo stato delle cose è proprio necessario che quel giudice rimanga dov’è? La sensazione è che il sistema di cautele che un’inchiesta giudiziaria impone all’individuo non togato, sia talvolta diverso da quello che riguarda un magistrato. Insomma, in uno scenario dove da un lato c’era la Saguto con la sua cerchia di amici, parenti, accoliti e divoratori di ventresca aggratis, e dall’altro l’umanità residua, c’è sete di uguaglianza. Niente esecuzioni né verdetti affrettati, ci mancherebbe altro. Solo una consapevolezza: l’ingiustizia è la prima minaccia alla giustizia.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona. 

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

Il disco rotto dell'Anm: "Politica ci delegittima". "Come Associazione magistrati, in questi anni ci siamo mantenuti fedeli alla missione indicata nei principi del nostro statuto: tutela dell'indipendenza, dell'autonomia, del prestigio e delle prerogative della magistratura e contributo di pensiero nella fase di elaborazione delle riforme legislative e nei progetti di innovazione. Lo abbiamo fatto con una passione pari al rispetto che proviamo per la nostra funzione anche quando essa ci ha indotto a rivolgere critiche forti ma sostenute da null'altro che dal desiderio di essere ascoltati, per sostenere una giustizia in grave affanno". Così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nella sua relazione di apertura del XXXII Congresso dell'Anm, a Bari il 23 ottobre 2015. Secondo Sabelli "un maturo sistema penale dovrebbe mirare anzitutto a realizzare il principio della durata ragionevole del processo, a recuperare l'efficacia del dibattimento, a restituire alle impugnazioni la loro funzione esclusiva di approfondimento e di verifica e a rendere pienamente alla Cassazione il suo ruolo di giudice della legittimità e la sua preziosa funzione di nomofilachia. La via intrapresa, purtroppo, va in altra direzione". Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati sottolinea come debba essere "introdotto un meccanismo di decisione anticipata sulle questioni di nullità e di competenza, accompagnato da termini più rigorosi per la loro eccezione. La rinnovazione dell'istruttoria per il caso di diversità del giudice andrebbe disciplinata in forma più aderente alle necessità realmente imposte dal principio di oralità. Va prevista la domiciliazione necessaria dell'imputato presso il difensore di fiducia, per non vanificare i benefici della notifica telematica. Il ruolo della Cassazione andrebbe definito in misura più rigida, sull'esempio dell'esperienza europea. Sono solo alcuni esempi. I rapporti fra magistratura e politica, oggi sono restituiti a una dinamica meno accesa nella forma ma più complessa. Il principio di indipendenza e autonomia dei giudici che nessuno in astratto mette in discussione, costituisce uno dei cardini degli equilibri istituzionali, ma l’indipendenza non si alimenta di ossequio formale ma di una cultura fondata sul rispetto. Sono i temi sui quali oggi si sviluppano tensioni nuove o si riaccendono altre antiche e mai davvero sopite, che alimentano delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario. Sul tema della prescrizione - prosegue Sabelli - è deludente il disegno in esame al Senato, che si limita timidamente a prevedere un aumento dei termini per le fasi di Appello e Cassazione, senza affrontare l’esigenza di una riforma strutturale dell’istituto, che ponga rimedio ai guasti prodotti dalla legge del dicembre 2005 e accolga i richiami che da tempo giungono dall’Europa, fino alla recente sentenza della Corte dell’Unione sulle frodi Iva". Insomma, il solito disco rotto dell'Anm.

Anm-faccia di bronzo sul caso della Saguto, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”. Per una volta uno può essere d’accordo persino con Angelino Alfano quando, rivolgendosi ai magistrati dell’Associazione nazionale magistrati, riuniti fino a domenica scorsa a Bari per il loro conclave, gli ha ricordato che ci vuole una bella faccia tosta a prendersela con la politica, che a loro dire vorrebbe spuntare le armi ai pubblici ministeri per combattere la corruzione, quando poi sul caso dei beni sequestrati alla mafia e amministrati in maniera familistica dall’apposita sezione del Tribunale di Palermo hanno tenuto un atteggiamento a dir poco morbido con i protagonisti negativi della “storiaccia”. Tutti rigorosamente magistrati progressisti. E nessuno finito neanche agli arresti domiciliari, pur con la mole di indizi e prove che è piovuta loro addosso. Ci sono intercettazioni che evidentemente producono effetti meno devastanti nelle vite delle persone, se gli intercettati hanno la toga. Ad esempio quella dello scorso 10 luglio, in cui la dottoressa Silvana Saguto (solamente ieri è arrivata dal Csm la richiesta di sospensione dalla carica e dallo stipendio) sembrava nervosissima a chi ne ascoltava le conversazioni con le microspie piazzate nel suo ufficio. Con lei un ufficiale della Dia che le consigliava di non parlare al telefono. E che per ora nessuno ha neppure identificato. E pensare che, in altre conversazioni captate e diffuse qualche giorno fa da numerosi siti di giornali palermitani, usciva fuori un ritratto di una donna che spendeva decine di migliaia di euro al mese, arrivando ad indebitarsi persino con un supermercato sequestrato ad un imprenditore in odore di mafia per una cifra vicina ai 20mila euro. Le accuse per la donna? Concorso in corruzione, induzione alla concussione, autoriciclaggio e abuso d’ufficio. I fatti? Incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. Tutto questo forse darà luogo ad un trasferimento d’ufficio se, bontà sua, il Consiglio superiore della magistratura, si darà una mossa in tal senso. Di manette facili neanche a parlarne. E neppure di arresti domiciliari. Per un cittadino qualunque sarebbe stata questa la regola? Al marito della giudice era andato, per la cronaca, una specie di subappalto da parte dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quello che fino a pochi giorni orsono gestiva la maggior parte degli incarichi conferiti dalla sezione di cui la Saguto era il presidente. Persino il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, esternò a suo tempo contro di lui davanti alla Commissione antimafia presieduta dalla Bindi rivelando che per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il Cda percepiva 150mila euro l’anno”. Ma sino a un paio di settimane fa a Palermo di questo verminaio tutti sapevano e parlavano, ma nessuno interveniva a livello giudiziario. Tantomeno con arresti spettacolo. Secondo i Pm, Cappellano Seminara, mantenuto dalla Saguto nelle cariche in cui già si trovava ad amministrare i beni di mafia, avrebbe dato all’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulenze negli anni per 750mila euro. L’avvocato avrebbe fatto anche assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, albergo a quattro stelle in pieno centro storico, controllato, per gli inquirenti, dallo stesso Cappellano Seminara tramite la società L.G. Consulting srl, riferibile alla madre e alla figlia. A Palermo, nell’allegra gestione dei beni di mafia, più della metà degli undicimila “asset” immobiliari e mobiliari sequestrati in tutta Italia per un valore stimato intorno ai 35 miliardi di euro, sono coinvolti altri due giudici: i Pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte. Il primo è accusato di rivelazione di segreto per aver fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione. Per il secondo si parla di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. Il Csm era “curato”, secondo l’accusa, da Tommaso Virga, che in passato ne fu membro. Il quale a propria volta aveva un figlio, Walter, nominato in seguito ad amministrare i beni sequestrati agli imprenditori Rappa e Bagagli. Bene, in un altro Paese uno scandalo del genere sarebbe stato ben peggiore nei propri riflessi mediatici. Ben più della consueta corruzione da mazzetta ai vigili in cui si sostanziano la maggior parte delle inchieste di Roma e Milano. Che un assessore prenda una mazzetta in una burocrazia come quella italiana è, purtroppo, “nelle cose”. Ma che dei giudici con stipendi da 100 o 150mila euro l’anno nominino familiari, amici e parenti con compensi a sei zeri per parassitare, più che amministrare, i beni sequestrati alla mafia, anziché renderli disponibili alla collettività che dalla mafia viene quotidianamente danneggiata e oppressa, a chi scrive sembra cosa infinitamente più grave.

Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".

QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.

Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell' anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un' Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l' effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l' aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l' azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l' affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell' esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell' elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.

E poi danno lezioni di legalità!

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Lo Voi «illegittimo», procura nel caos. Neppure 5 mesi a capo della procura di Palermo e per Francesco Lo Voi arriva la mannaia del Tar del Lazio, scrive "Il Giornale". Ad annullare, clamorosamente, la nomina fatta a dicembre da un Csm spaccato è stata la prima sezione quater, che ha accolto i ricorsi dei due contendenti più anziani di 9 anni: il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e quello di Messina Guido Lo Forte, già aggiunti nel capoluogo siciliano. Avevano denunciato il fatto che Lo Voi non avesse mai guidato, come loro, un ufficio giudiziario né una direzione distrettuale antimafia e ora i giudici amministrativi danno loro ragione. La scelta di Palazzo de' Marescialli, scrivono, è macchiata da «illogicità e irrazionalità», la motivazione è «insufficiente». E il Csm viene condannato a pagare 3 mila euro per le spese di giudizio. La nomina era stata bloccata dall'allora presidente Napolitano quando nel vecchio Csm in pole position c'era Lo Forte di Unicost mentre Lari era sostenuto dalle correnti di sinistra. E la scelta del nuovo Csm per un esponente di Magistratura Indipendente era stata letta a Palermo come una «normalizzazione» nella procura del processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. La sentenza del Tar è ora immediatamente esecutiva e i due ricorrenti potrebbero chiedere al Csm di fare una nuova nomina, ma sia Palazzo de' Marescialli che Lo Voi possono rivolgersi al Consiglio di Stato per una sospensiva. Per una strana coincidenza proprio poche ore prima della notizia dal Tar, la commissione competente del Csm faceva una mossa che riguarda sia Lari che Lo Forte. Il primo viene proposto come procuratore generale di Caltanissetta, l'altro viene «trombato» nella corsa alla procura generale di Milano, dove gli viene preferito Roberto Alfonso. In questa situazione, si può ipotizzare che Lari non insista per il vertice della procura di Palermo, mentre Lo Forte sarebbe ancor più motivato. Lo Voi, palermitano, 57 anni, 33 di carriera, era fuori ruolo come membro italiano a Eurojust, la superprocura europea, dopo essere stato togato al Csm molti anni fa. E proprio il peso dato a quest'incarico, facendolo preferire agli altri due candidati, viene contestato nella sentenza scritta da Giampiero Lo Presti. Accogliendo le ragioni esposte dall'avvocato Giuseppe Naccarato, il Tar contesta la mancanza di «adeguata motivazione delle ragioni concrete per le quali le competenze maturate nell'espletamento dell'incarico predetto siano state ritenute, nella prospettiva comparatistica, non soltanto idonee a compensare il deficit di pregresse esperienze direttive e semidirettive specialistiche, ma persino tali da determinare un giudizio complessivo di prevalenza attitudinale del dottor Lo Voi riguardo allo specifico ufficio». La sentenza non sembra lasciare molti margini e provoca al Csm grave imbarazzo, perché il collegio presieduto da Elio Orciuolo afferma che la valutazione è macchiata da un «vizio» inspiegabile. Che riguarda l'attività fuori ruolo, quella a Eurojust.

E poi danno lezioni di legalità!

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Eppure, ciononostante succede questo!

Magistrati e mafia...

Zamparini il 21 maggio 2015 all’Università. «La mafia? A volte penso sia stata inventata per dare uno stipendio a quelli che fanno antimafia... Io in Sicilia non ho mai trovato alcun impedimento. Le cose si possono fare anche qui. Mi sento inattaccabile, non sono corrotto e non ho mai corrotto nessuno -ha detto il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, durante un incontro con gli studenti dell’Università del capoluogo presso l’Aula Magna della Scuola Politecnica - La politica rappresentativa non esiste più, non esistono più i partiti. Ci hanno preso per il naso per cinquant’anni, io non sono ne’ di destra ne’ di sinistra. Farei premier papa Francesco, che è un dono del cielo. Io sono nato cattolico ma penso che tutte le religioni, dal Buddhismo all’Islam, sono buone se parlano d’amore», ha aggiunto Zamparini.

Magistrati ed espropri...

«Siamo in presenza di un esproprio di un'azienda da parte della magistratura, senza che la proprietà sia stata consultata e sia potuta intervenire. Da sostenitore della libera impresa, io non sono d'accordo». Queste le parole sull'Ilva del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a margine dell'assemblea annuale di Federacciai il 22 maggio 2015. «E' irrazionale e incomprensibile quanto è accaduto all'Ilva – ha detto Squinzi – nell'economia reale di un paese a forte specializzazione industriale la presenza di una solida produzione siderurgica è essenziale per rifornire il mercato interno e rispondere con i fatti ad una pretesa di marginalizzazione del nostro Paese nei nuovi assetti di un'economia sempre più globalizzata». Giudizio condiviso dal presidente di Federacciai Antonio Gozzi: «Abbiamo combattuto con forza fin dall'inizio la scelta dei commissariamenti - ha detto -, decisione che si è trasformata in un esproprio senza indennizzo» ai danni della proprietà Riva. “Sono da sempre stato contrario ai commissariamenti”, ha attaccato Gozzi. “Personalmente li considero un esproprio senza indennizzo. Credo che quella dell’Ilva di Taranto sia una macchia sulla reputazione del Paese“. Definizione, quella di “esproprio”, ripetuta poco dopo dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ha anche bollato come “irrazionale e incomprensibile” quanto accaduto all’Ilva. Ma l’amministratore delegato di Duferco non si è fermato qui e ha rincarato la dose affermando che “questo vulnus alla proprietà dell’azienda non ha portato risultati né sul fronte ambientale, né su quello industriale. Anzi. L’azienda versa in condizioni preoccupanti dal punto di vista produttivo e finanziario”. Secondo Gozzi “bisogna uscire da questa storia prima che sia troppo tardi, altrimenti si arriva a un punto di non ritorno”, ma “c’è poco tempo” perché il patrimonio iniziale di 2,5 miliardi dell’Ilva è “azzerato” dopo due anni di gestione commissariale: “Un tentativo disperato di fare cassa che ha portato a condotte commerciale che hanno provocato gravi perturbazioni sul mercato”.

Magistrati ed espropri mafiosi...

"Il tribunale di Palermo da pochi mesi ha una sezione dedicata alle misure di prevenzione. Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l'Italia". Lo ha detto il magistrato Silvana Saguto e riferito dall’Ansa, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nel corso dell'audizione, davanti alla Commissione Antimafia, che rientra nel filone d'inchiesta sui beni confiscati e per un approfondimento sulla vicenda Italgas e Gas Natural Italia Spa attualmente in amministrazione giudiziaria disposta dal tribunale di Palermo. "Il fenomeno mafioso in Sicilia - ha detto Saguto - non è più vasto rispetto ad altre località ma è molto più seguito e ha dato molti più risultati grazie all'azione di prevenzione. Il problema è la gestione delle imprese, mantenere vive le imprese, continuare a gestirle nel corso degli anni, a volte numerosi. Sono molte le difficoltà nel dover convertire una impresa che nasce "viziata", in settori che vanno dall' edilizia alla gestione dei servizi, con tutte le ricadute che questo comporta". Saguto ha riferito che la magistratura ha saputo dal pentito Angelo Siino di un "tavolo per la gestione degli appalti", che si stava spostando a livello nazionale, con la possibilità di gestire l'assegnazione delle varie gare pubbliche: "questo è tutt'ora il problema”.

Mafia:beni confiscati, Mattiello, puntata Iene impone reazione. Relatore riforma,auspicabile censura sul piano dell'opportunità, scrive l’Ansa”. La puntata delle Iene sulla gestione delle misure di prevenzione a Palermo "impone una reazione". A sostenerlo è il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia e relatore della riforma del Codice antimafia che riguarda le misure di prevenzione. "La Commissione Antimafia - dice Mattiello - ha avuto modo in più di una occasione di approfondire la situazione". E' stato infatti audito in vari momenti sia l'avvocato Cappellano Seminara, sia la presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto e sono stati acquisiti gli atti relativi agli affidamenti giudiziari. "Io stesso nell'ultima audizione della presidente Saguto, avvenuta il 28 Aprile - ricorda Mattiello - ho posto esplicitamente la questione del conflitto di interessi e della concentrazione degli incarichi. Per quel che mi risulta, la magistratura non ha ritenuto fino a qui di rilevare alcuna ipotesi di reato, tuttavia credo sia auspicabile una censura sul piano della opportunità di simili comportamenti, pur considerando l'enorme mole di lavoro svolto dal Tribunale misure di prevenzione di Palermo, che da solo gestisce circa il 45% del totale dei sequestri in Italia. Della censura di inopportunità è senz'altro titolare la Commissione Antimafia e trovo una sintonia tra questo mio auspicio e le coraggiose parole della presidente Bindi sul tema delle candidature "imbarazzanti": la qualità dello Stato non viene minata soltanto dalle condotte che costituiscono reati, ma anche da quelle condotte che alimentano la diffidenza dei cittadini". In questi giorni a Palermo si sta svolgendo un convegno promosso dal prof. Costantino Visconti: "spero che possa essere una occasione per prendere posizione. Sarà sicuramente una posizione autorevole", conclude Mattiello.

Il miracolo delle aziende sequestrate alla Mafia. Così si crea lavoro danneggiando i clan. Tremila dipendenti, nuovi assunti e bilanci in attivo. Le imprese sottratte ai clan e ai corrotti nella Capitale non falliscono come nel resto del Paese. Un esempio da esportare e da valorizzare che il governo ignora, scrive Giovanni Tizian su “L’espresso”. L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL. "L'hotel sequestrato alla 'ndrangheta al Gianicolo Tra i tavoli di Pizza Ciro non si respira più aria di camorra e gli affari vanno comunque bene, anche senza i quattrini del clan. Un caso isolato? Al Gianicolo il grand hotel costruito dalla 'ndrangheta in un ex convento di suore, pagato 13 miliardi di vecchie lire, è oggi un'eccellenza nel panorama spesso desolante dei beni sequestrati alle mafie. L'albergo macina utili, ha messo in regola i giovani dipendenti ben prima dell'entrata in vigore del job acts e il ristorante ha ottenuto una paginetta nella mitica guida Michelin. Anche la catena Pizza Ciro ha aumentato i dipendenti da quando lo Stato ha messo alla porta i camorristi. E poi c'è la coop rossa di Mafia Capitale, quella del braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi. La cooperativa dopo la retata è passata di mano ed è finita in custodia di amministratori giudiziari scelti dal tribunale di Roma. E i molti che avevano scomesso sul fallimento dell'azienda che con Buzzi fatturava 60 milioni di euro si sono dovuti ricredere. La coop 29 giugno, infatti, con i dirigenti nominati dai magistrati continua a vincere appalti garantendo così occupazione a 1.300 persone. Una scommessa vinta dal tribunale di Roma e soprattutto dalla sezione misure di prevenzione guidata da un giudice, Guglielmo Montoni, di grande esperienza nella lotta ai clan della Capitale. Quest'ufficio si è trovato a gestire la più grande azienda di Roma, prendendo in carico tutti quei lavoratori della imprese sotto sequestro. In tutto 3 mila dipendenti, paragonabile a un grosso stabilimento Fiat del Sud Italia. Ma il dato incredibile, e in controtendenza rispetto alla malagestione italiana delle società sequestrate, è che i ristoranti, le imprese edili, le cooperative gestite dagli amministratori del tribunale di Roma creano occupazione. Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende falliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione. Sono circa una trentina i nuovi contratti stipulati. Camerieri, direttori di sala, muratori. Delle 250 società sotto controllo del tribunale di piazzale Clodio solo dieci sono a rischio chiusura, le altre navigano in buone acque e alcune hanno persino aumentato gli utili del 35 per cento rispetto al periodo in cui i capi clan erano padroni. Una sfida difficile, piena di insidie, su cui pesa un trend nazionale negativo: nel 90 per cento dei casi le imprese passate in mano allo Stato sono destinate al fallimento. Il crollo di clienti e fatturato è un fatto fisiologico. I fornitori complici dei boss svaniscono, ma soprattutto aumentano i costi, perché quando si subentra alla mafia tante spese che prima non venivano neppure prese in considerazione iniziano a pesare sui conti. Gli imprenditori mafiosi infatti molte regole non le rispettavano e perciò avevano margini di guadagno più alti. Gli amministratori invece hanno sanato le posizioni in nero, fatturano ogni cosa e per occupare il suolo pubblico con i tavolini hanno chiesto le autorizzazioni. Sembra una banalità, ma gli uomini della cosca Contini fino a due anni fa titolari della catena Pizza Ciro, frequentata da vip e politici, non rispettavano alcuna regola. Non si erano fatti scrupoli nell'occupare abusivamente la strada antistante con i tavoli. Irregolarità che nessuno aveva segnalato. Ora che il locale di piazza della Maddalena non è più loro, i professionisti incaricati dal tribunale hanno chiesto l'autorizzazione al Comune e hanno segnalato alla procura una sorta di accanimento dei vigili che, ora sì, sono diventati scrupolosi nei controlli. Per mantenere in vita questi veri e propri gioielli dell'economia locale, è fondamentale affidarli a un nucleo di bravi amministratori giudiziari, i quali a loro volta vengono affiancati da una sorta di manager in grado di andare oltre i conti e gli equilibri di bilancio. Non solo, la strategia si basa anche su una rete costruita con protocolli firmati tra procura, tribunale, associazioni di categoria e banche. Il segreto per evitare il crollo dell'azienda sotto sequestro è agire immediatamente. Insomma, una volta messo alla porta il prestanome del boss, un minuto dopo devono entrare i nuovi amministratori. Se la sotituzione non avviene rapidamente, il ristorante, la pizzeria, l'azienda di costruzioni, perde clienti e appalti, e inizia quella discesa senza scampo che porta alla chiusura. L'esempio emblematico del fallimento è il Cafè de Paris, simbolo della dolce vita e oggi chiuso dopo la confisca. I turisti che passano davanti alle vetrine si fermano e osservano. Non capiscono quello scempio. Una malagestione che assomiglia tanto a una resa incondizionata delle istituzioni. In molti per esempio erano convinti che la cooperativa 29 giugno senza il padrone Salvatore Buzzi non avrebbe resistito a lungo senza le relazioni di cui godeva il capo di Mafia Capitale Massimo Carminati. E invece è ancora lì, con i suoi 1.300 dipendenti, due esperti nominati dal Tribunale e nuovi appalti conquistati. Il nuovo corso della 29 giugno per ora è una scommessa vinta. Così come lo è la catena di ristoranti e pizzerie Pizza Ciro. Tutti i venticinque locali sequestrati al clan Contini della camorra, sparsi per il centro di Roma, vanno a gonfie vele, hanno messo in regola i dipendenti e ne hanno persino assunto di nuovi. C'è poi il Grand hotel Gianicolo sequestrato alla 'ndrangheta dal tribunale di Reggio Calabria e affidato agli amministratori utilizzati dai giudici di Roma. Forse l'esperienza meglio riuscita nel panorama del patrimonio sotto custodia statale. Bilanci in attivo, nuovi dipendenti, un direttore capace e un giovane chef calabrese che ha scelto di affidarsi allo Stato ottenendo un contratto regolare che il clan gli ha sempre negato. E ora può mostrare agli amici con una punta d'orgoglio la pagina che la guida Michelin dedica al ristorante dell'albergo da cui si ammira il cupolone di San Pietro. C'è in questa guida dell'antimafia che funziona anche un altro storico locale di Roma, i Vascellari. Un tempo proprietà della camorra, oggi è gestito dal team del tribunale con ottimi risultati. Oltre ai beni mafiosi, ci sono quelli sottratti ai corrotti. Il Salaria sport village, il tempio dove la cricca Anemone-Balducci-Bertolaso si rilassava con massaggi “stellari”, è il fronte su cui il tribunale sta investendo molte energie. Il progetto per recuperare a pieno la struttura è ambizioso. L'ipotesi è affidarla a una multinazionale dello spettacolo così da trasformarlo in un polo della cultura oltre che dello sport. Secondo le prime indiscrezioni manca solo la firma per concludere l'accordo che obbligherebbe la società a investire somme milionarie sul centro sportivo. In pratica lo Stato, in cambio di garanzie di investimenti seri, ha concesso l'affitto della struttura che altrimenti resterebbe nel limbo della macchina giudiziaria con il rischio più che concreto di non aprire mai più. Da questa buona gestione il primo a guadagnarci è proprio lo Stato che così non vede svanire nel nulla i costi indiretti dei singoli procedimenti di sequestro. Attività che impegna magistrati e detective anche per un anno e mezzo a cui vanno sommate le parcelle per gli amministratori. E dopo il sequestro ci sono le bollette da pagare e la manutenzione da effettuare. Per questo se viene messo a reddito nel minor tempo possibile l'amministrazione si libera di costi che nel tempo pesano molto sui conti pubblici. Il sistema virtuoso messo a punto dovrebbe essere valorizzato dal governo. Tuttavia, c'è un decreto approvato che va nella direzione opposta. Il provvedimento equipara gli amministratori giudiziari ai curatori fallimentari, con la premessa che il lavoro dei primi è molto più semplice e per questo i loro stipendi dovranno essere ridotti. La norma non è stata accolta benissimo nei tribunali. In particolare a Roma dove tre cancellieri e cinque giudici, che di rado vanno in ferie, negli ultimi 12 mesi hanno assegnato 60 beni alla comunità romana. E per farlo si sono affidati a un gruppo di 30 amministratori giudiziari competenti, più simili a manager che a burocrati, che hanno compiuto il piccolo miracolo".

L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi su  “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.

Aziende e amministratori giudiziari, in attesa di una querela facciamo qualche domanda alla D.I.A., scrive Pino Maniaci su "TeleJato". “Io lo posso dire aboliamo la Dia”, dice Gratteri criticando il soprannumero di dirigenti, uffici e segreterie, mentre gli stessi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Sono queste le proposte che avrebbe fatto se fosse arrivato al dicastero della giustizia. “Nessuno ha il coraggio di farlo, i politici mi chiamano e mi dicono: ‘Se lo facciamo ci danno dei mafiosi’. Allora lo dico io. Non possiamo pensare che non si possa chiudere un tribunale inutile. Non possiamo lasciare il 35 per cento di magistrati in più alla procura di Palermo. O si ha il coraggio di mandare a regime il ministero della giustizia oppure non cambierà mai nulla. . Non possiamo sperperare le energie”. La critica è diretta soprattutto agli interventi poco incisivi del passato: “Io sono d’accordo anche nel fare tagli, ma negli ultimi governi sono stati fatti solo quelli lineari del 5 per cento. Oggi guida la commissione che deve redigere norme e procedure per combattere la criminalità organizzata e annuncia le proposte che verranno fatte nei prossimi mesi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Ma vogliamo risparmiare davvero? Allora chiudiamo la Dia (Direzione investigativa antimafia). Parlo io: risparmiamo in dirigenti e segreterie e affitti e facciamoli tornare sul territorio. Aboliamo il Dap: sapete quanto guadagna un dirigente? 20mila euro”. Ed è proprio lì che, secondo Gratteri, bisogna intervenire. Queste le parole di Gratteri cioè di un magistrato in prima linea che fa’ i conti dello sperpero di ingenti capitali tra forze di polizia in surplus, che non servono a nulla se non a vivere di immagine di comunicati stampa e sparare minchiate di numeri nei vari sequestri di ingenti capitali; ma anche per far si che amministratori giudiziari e periti vengono pagati con le cifre fittizie dei lanci di agenzie. Partendo da questo presupposto vogliamo parlare di quello che succede nel nostro territorio, avendo sempre il coraggio di assumerci le responsabilità e sperando in una querela che finalmente apra uno squarcio di verità su quello che è diventato il business dell’antimafia fittizia e parolaia, buona per fare affari sulle spalle di mafiosi ma anche di cittadini onesti, sperperando e rubando soldi alla comunità tutta. Abbiamo parlato di giudici e amministratori giudiziari voraci, ladri che commettono illegalità diffuse che vengono denunciate agli organi competenti che per convenienza (e vorremmo capire che tipo di convenienza o connivenza) non danno seguito alle segnalazioni fatte da cittadini inermi di fronte a tribunali blindati, che non rispondono nemmeno alle domande di giornalisti che non sono leccaculo. Partiamo dal fatto e ci rivolgiamo alla Dia e speriamo che abbia il coraggio di risponderci, anche se fosse il caso con un mandato di cattura. La nostra Italia o ha investigatori che sanno lavorare o come viene molto spesso fuori dalle notizie di cronaca si prestano a fiancheggiare tribunali dove si trovano magistrati; e non siamo solo noi a dire che sono delle mele marce a cui piace visibilità e i “picciuli”. Prima domanda: oggi con i mezzi a disposizione quanto ci vuole a risalire ad una transazione di denaro? Con la tracciabilità e i potenti mezzi che disponete, perché prima sequestrate un’azienda e poi cercate di capire di chi è la proprietà? Prestate il fianco a far mangiare e arricchire amministratori giudiziari e loro collaboratori, che sono figli di magistrati, di cancellieri e cosi via? C’è un’organizzazione parallela che si spaccia per antimafia e che invece fa’ affari alla stessa maniera dei mafiosi? È questa l’Italia della legalità, della giustizia, della legge uguale per tutti? C’è da ridere se si va’ a sequestrare un impianto di carburante che un onesto cittadino ha comprato ben 16 anni fa’ in maniera regolare, e avete pure il coraggio di farvi consegnare i soldi che ha in tasca continuando a ridergli in faccia. Costate 70 milioni di euro al mese per pagare super stipendi a chi non sa’ nemmeno fare un’indagine seria? Allora chiudiamo la Dia anche perché non sa lavorare; inoltre, ci sono troppe forze di polizia superflue ed inutili che vivono solo di immagine di lanci di agenzie e di sperpero di denaro pubblico. Cara Dia, perché non indagate come un’ amministratore giudiziario possa guadagnare più di sette milioni di euro l’anno? Di chi è amico? Chi lo sostiene? Chi lo foraggia? Chi ci lavora dietro? E quante illegalità ha commesso, tanto da rischiare il giudizio per truffa aggravata e rimanere ancora in carica? Un rappresentante dello Stato deve aspettare eventualmente i tre gradi di giudizio? O per etica morale e dignità di un tribunale deve essere cacciato a pedate in culo? Perché le nomine come amministratori coadiuvatori etc etc vengono fatte anche a figli di cancellieri del tribunale come Grimaldi o come Cannarozzo, sempre gli stessi e sempre olio per tutte le insalate? Perché c’è un’ albo di 4000 pretendenti amministratori, ma vengono nominati sempre i soliti dieci? Sono bravi? Gli piacciono i picciuili? E sempre gli stessi portano al fallimento le aziende sequestrate. C’è pure chi se li vende o rimane all’interno dopo la confisca come amministratore dell’azienda? E l’albo nazionale previsto per legge è un’ optional? Perché sparate sempre cifre iperboliche non conformi alla realtà dei beni sequestrati? Usate i parametri catastali, o il valore di mercato che vi inventate? E sapete poi che i periti vengono pagati sulle cifre da voi esposte? Credo che di materiale per denunciarmi, arrestarmi o investigare, se decidete di fare le cose seriamente ce ne sia abbastanza; ma le nostre domande non finiscono qui: ne abbiamo anche di riserva, insieme alle carte e alle prove che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Noi speriamo che la sezione misure di prevenzione di Palermo e gli ingenti capitali che amministra siano oggetto di attenzione da parte dei ministeri e della politica di competenza, perché la legge, così com’è, troppo allegra e troppo fantasiosa, colpisce i mafiosi; e lì saremo sempre al vostro fianco, ma colpisce anche le persone per bene. E come una volta mi ha detto un magistrato in prima linea della procura di Palermo, noi i beni prima li sequestriamo e poi vediamo di chi sono non funziona, non funziona, funziona solo per fare arricchire altri manciatari che rappresentano lo stato. Per chiudere, Gratteri è un pazzo? Il prefetto Caruso è un pazzo? Noi pensiamo di no, ma pensiamo invece che la Dia lavori male molto male. Siamo pronti come abbiamo già fatto al tribunale di Caltanissetta e in commissione nazionale antimafia ad essere uditi . Aspettiamo risposte.

Proprio mentre si sta facendo luce sul malaffare che ruota attorno al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione (vedi i servizi delle Iene e di Telejato, Marco Salfi), proprio quando viene fuori il coinvolgimento della Saguto nell'affidamento fin troppo allegro degli incarichi a pochi amministratori giudiziari, esce fuori la notizia che la mafia, non si sa come, vorrebbe uccidere la Saguto.

La mafia vuole uccidere la Saguto. È il giudice che sequestra i beni, scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Allarme attentato. Una nota dei Servizi segreti mette in guardia il presidente che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Uno "scambio di favori" fra clan gelesi e palermitani. A rischio ci sarebbe anche un altro magistrato. Potenziate le misure di sicurezza. Le notizie sono tanto frammentarie quanto inquietanti: la mafia vuole uccidere Silvana Saguto, il giudice che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Come se non bastasse, c'è un altro dato che rende lo scenario ancora più preoccupante: per eliminare il magistrato, che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani. Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato. Indiscrezioni vogliono che si tratti di Renato Di Natale, oggi procuratore capo di Agrigento, ma in passato a Caltanissetta dove ha coordinato le inchieste che hanno decimato il clan Emmanuello. C'era Di Natale alla testa dei pm che davano la caccia a Daniele Emmanuello. La latitanza del capomafia finì nel sangue, morto nel 2007 nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia in provincia di Enna. Con i suoi fratelli aveva organizzato uno dei clan più potenti della Sicilia sud-orientale, in grado di dialogare con i boss di Palermo. L'allarme è suonato per la prima volta l'anno scorso, ma due mesi fa è stata una nota dei Servizi segreti a fare scattare il piano di sicurezza straordinario per la Saguto. Per proteggere il giudice sono arrivati più uomini di scorta, le è stata assegnata una nuova macchina, messa a disposizione dal ministero dell'Interno, con il livello massimo di blindatura, e l'esercito vigila sotto la sua abitazione. Il progetto di morte - si parla di un attentato le cui modalità restano top secret - ad opera del clan gelese sarebbe stato sventato mesi fa grazie ad alcuni arresti. Ed era un progetto già entrato nella fase operativa, visto che gli esecutori avevano eseguito dei sopralluoghi in città. La nota dell'intelligence, però, avrebbe proiettato nel presente il rischio attentato, probabilmente alla luce di alcune conversazioni captate dalle microspie. Le stangate patrimoniali hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza di alcuni clan palermitani. Perché decidere di affidarsi agli uomini al soldo degli Emmanuello? Forse a Palermo non era stata trovata l'intesa tra i boss su chi dovesse entrare in azione o forse sapevano di essere sotto osservazione. Avrebbero così preferito affidarsi a killer che, venendo da fuori città, avrebbero destato meno sospetti. Ma quale famiglia mafiosa palermitana voleva eliminare il giudice? Impossibile fare delle ipotesi, visto che i sequestri delle Misure di prevenzione hanno colpito a tappeto tutti i mandamenti mafiosi. Troppi interessi economici - dalle piccole attività alle grandi imprese - sono stati intaccati della sezione Misure di prevenzione. Senza soldi la mafia non è più in grado di garantire assistenza alle famiglie dei detenuti, pagare gli stipendi dei picciotti, assoldare nuove leve. Insomma senza soldi, Cosa nostra non può né rinnovarsi, né garantire quella catena di mutuo soccorso e assistenza che ne rappresenta il punto di forza. Da quando c'è la Saguto alla guida della sezione del Tribunale, sono stati oltre 400 i provvedimenti avviati. Molti su input della Procura ma tantissimi su iniziativa degli stessi giudici. Sono saltate le connivenze, molto spesso le cointeressenze, fra pezzi dell'imprenditoria e le famiglie mafiose. Un lavoro scomodo che qualcuno vorrebbe spegnere con un gesto eclatante.

Questa mafia bifronte. I patrimoni di Cosa Nostra. I beni tolti ai boss, aumenta il numero dei gestori di tesori immensi, scrive Leopoldo Gargano su "Il Giornale di Sicilia". Ha iniziato la sua carriera facendo da uditore giudiziario con Giovanni Falcone e adesso ha 34 anni di sequestri e confische antimafia alle spalle. Una vita spesa a togliere denaro ai boss ed ai loro complici, quella di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale. Proprio come sosteneva Falcone, che della lotta ai patrimoni mafiosi aveva fatto un punto fermo del suo lavoro. «Follow the money», diceva il giudice ucciso a Capaci, frase abusatissima ma sostanzialmente vera. Bisogna seguire il denaro per scoprire i misteri di Cosa nostra e dopo averlo seguito, possibilmente bisogna toglierlo alla mafia e restituirlo ai cittadini. E in questi anni di beni e denari, strappati ai mafiosi ce ne sono stati tanti. Dall' ottobre 2010 ad oggi, questo il periodo della gestione Saguto dell'ufficio, sono stati avviati 451 nuovi procedimenti patrimoniali e ne sono stati definiti 401. Ancora pendenti, dunque in attesa di confisca definitiva o di restituzione, ne risultano 257. La stima sui milioni di euro bloccati, tra immobili, aziende, terreni e conti correnti, è molto più difficile. Il valore dei beni sequestrati varia da personaggio a personaggio, impossibile fare una media. Ma per capire di che cifre parliamo, basta citare i due sequestri più grossi degli ultimi mesi. Quello ai danni degli eredi Rappa, un colpo da 800 milioni di euro, e il provvedimento a carico del ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto, ex deputato Biancofiore all' Ars e collaboratore del mago dei soldi Giovanni Sucato, a cui è stato bloccato un tesoro da 750 milioni di euro. Ma chi amministra questo enorme patrimonio che da solo potrebbe fruttare quanto una legge finanziaria dello Stato? È uno dei punti di maggior criticità, secondo il punto di vista di alcuni osservatori. Troppo denaro, troppe aziende concentrate nelle mani di pochi professionisti superfortunati che si spartiscono, praticamente senza reale concorrenza di mercato, una torta gigantesca. Il presidente Saguto preferisce non intervenire sulla questione, sostiene di non volere in alcun modo alimentare polemiche. Ma i suoi uffici comunicano un dato. In quattro anni e mezzo, sono stati nominati poco più di cento nuovi amministratori giudiziari, che mai in passato avevano lavorato con la sezione. Una media di 25 ogni anno. Facendo un po' di conti dunque, ognuno gestisce non più di quattro procedimenti. E nuove nomine sono state fatte pochi giorni fa, giovani commercialisti e avvocati che hanno iniziato la carriera di amministratori di patrimoni considerati «sporchi», fino a prova contraria. E poi c'è la questione delle questioni. Le aziende sequestrate sono destinate a chiudere in poco tempo, il loro destino è il fallimento. Questa l'obiezione ripetuta un po' ovunque, lo slogan letto sui cartelli portati in piazza da operai licenziati. È così? Dagli stessi uffici al piano terra del nuovo tribunale, viene fornito un dato. Ovvero un numero: l'1. C'è una sola azienda che ha chiuso i battenti per fallimento. Ed è la sala Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana, un tempo gestito dal clan di Nino Rotolo. Lo Stato si era trasformato in croupier ma ha avuto scarsa fortuna e la società è naufragata. Ma non è finita qui. Perché proprio il mese scorso è stato ceduto il ramo di azienda e l' attività è stata rilevata da un imprenditore che riaprirà la sala, riassumendo parte dei vecchi dipendenti. Alcuni erano stati rimossi perché considerati troppo vicini ai vecchi titolari mafiosi. Le aziende in difficoltà sono invece tante, causa anche la crisi che ha devastato la già gracile economia siciliana, ma inutile nascondere che non è solo questo. Quando comanda il boss, spesso i fornitori sono molto più morbidi, gli impiegati sono in nero e costano di meno e la concorrenza fa un passo indietro. Per legge però i debiti fatti sotto amministrazione giudiziaria sono garantiti dall' Erario, mentre per quelli accumulati in precedenza, e dunque da saldare, c' è il disegno di legge presentato da Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che dovrebbe essere risolutivo. Inutile usare eufemismi. Quando arrivano gli amministratori il discorso cambia. Intorno si crea una sorta di ostracismo, le banche sono propense a chiudere i conti ed i clienti fuggono. Come nel caso del ragioniere Acanto. Gestiva la contabilità di circa 400 aziende, 390 delle quali dopo il sequestro si sono volatilizzate in meno di una settimana. Ma gli sono rimaste fedeli. Il ragioniere ha aperto un nuovo studio e tutte le imprese sono tornate da lui.

La signora Saguto in una intervista al Giornale di Sicilia replica alle accuse sulla sua gestione: tutto falso, scrive Telejato. Siamo al botta e risposta. Ma non in un dibattito a viso aperto, in un procedimento giudiziario per diffamazione, nei riguardi della redazione di Telejato, che potrebbe essere fatto senza problemi, poiché la magistratura e i suoi componenti hanno in mano tutti gli strumenti per inquisire, giudicare, condannare. Un procedimento giudiziario potrebbe portare alla luce tante cose che è preferibile tenere nascoste, che è meglio secretare per allontanare la presenza della stampa e delle telecamere. Il botta e risposta avviene in modo più sottile, proprio grazie alla possibilità di poter disporre in qualsiasi momento di giornalisti compiacenti, di porgitori di microfono, di cantori d’ufficio delle opere, delle meraviglie e del grande contributo nella lotta contro la mafia che una singola persona è stata capace di portare avanti nella conduzione dell’ufficio misure di prevenzione di Palermo. E così, dopo i due servizi delle Iene sul comportamento e sull’operato disastroso degli amministratori giudiziari di Palermo, sui fallimenti del 90% delle imprese sequestrate, sul cumulo impressionante di cariche e nomine nelle mani di pochi amministratori giudiziari, ecco che la regina di cui parliamo, la dott.ssa Saguto, per mostrare che si tratta solo di fumo e di notizie sbagliate, alza il telefono, chiama un giornalista del solito Giornale di Sicilia, questa volta si tratta di Leopoldo Gargano, e si fa fare un’intervista nella quale dichiara che nei suoi 34 anni di servizio ha avviato 451 sequestri, che di questi 275 sono in attesa di confisca definitiva, che non è vero che gli amministratori sono sempre gli stessi, ma che sono più di cento i “quotini”, pardon, gli amministratori giudiziari nominati, alcuni dei quali di nuovissima nomina, che non è vero che i beni sequestrati sono amministrati male e falliscono, ma che ne è fallito uno solo , la sala Bingo Las Vegas di Nino Rotolo, dal momento che ai palermitani non piaceva che lo stato si fosse trasformato in croupier, ma che anche questa sala al più presto riaprirà. È vero, ci sono difficoltà c’è la crisi, il boss comandava con metodi non legali, le banche non fanno credito agli amministratori, i clienti fuggono, ma tutto si sistema piano piano. Quindi tranquilli, tutte menzogne di gente che non si rende conto di fare un favore alla mafia nel momento in cui se la prende con questa eroina e regina dell’antimafia, erede del messaggio di Falcone, che è quello di colpire la mafia nei suoi patrimoni. Non è il caso di dire che, a giudicare da quanto si dice attorno, sia la Commissione Antimafia, sia la stampa, sia gli stessi vertici giudiziari di Palermo e Caltanissetta stanno cercando di alzare il velo sui tanti misteri e sulle distorsioni e anomalie che ruotano attorno all’ufficio misure di prevenzione, evidenziando l’assoluta urgenza di nuove normative che regolino il complicato settore della gestione dei beni mafiosi. Staremo a vedere se tutto, come al solito non sarà archiviato. La Saguto, nella sua sapiente strategia di controllo del tutto, cerca di metterci una pezza, o, come diciamo in siciliano, di “mettersi u ferru arrieri a porta”. Da tempo denunciamo tutto ciò, ma da tempo il potere finge di non sentire e non vuole procedere: tutto va bene, abbiamo scherzato, tanti omaggi, dott.ssa Saguto, dio salvi la Regina.

I Quotini. Il Cerchio magico che ruota intorno agli amministratori giudiziari, tutti in quota, nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare..., scrive Salvo Vitale su "Telejato". Avere visto allo stadio di Palermo, in tribuna d’onore, la sig.ra Silvana Saguto, il sig. Cappellano Seminara e il sig. Aulo Giganti, ospiti di Zamparini, ha fatto suonare una serie di campanellini d’allarme. Che, malgrado il muro d’impenetrabilità che circonda l’argomento, hanno trovato qualche conferma. L’inghippo che sta sotto questo affare è grosso , tutti suggeriscono di “levarci mano”, tanto non si potrà cambiare, perché il sistema di potere che è stato organizzato attorno ai beni confiscati è capace di resistere a qualsiasi attacco. C’è chi dice che dietro ci sta la massoneria, si parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto. Queste e altre maldicenze non mettono in discussione un principio: esiste un cerchio magico tra i personaggi che abbiamo citato, tant’è che sono sempre gli stessi , gestiscono imperi economici e hanno trovato vitalizi, affari e ricchezze, senza che nessuno parli e denunci con chiarezza. Sono i nuovi padroni della città. Hanno scoperto come vivere parassitariamente alle spalle degli altri, secondo lo stesso schema e lo stesso principio usato dai mafiosi, sfruttando i proventi dell’accumulazione mafiosa, nel momento in cui questa ha scelto, sperando di poter “farla franca”, cioè di sfuggire ai fulmini del controllo istituzionale, di darsi all’imprenditoria, soprattutto nel settore dell’edilizia. La strada della denuncia nei loro confronti e nei confronti del magistrato delle misure di prevenzione che li nomina è in genere sconsigliata dagli avvocati, sia perché pure essi devono campare, sia perché inasprirebbe le sanzioni repressive, mentre essi devono dimostrare di sapere portare a casa del cliente qualche risultato, sia perché non ci sarebbe più nessuna possibilità di lavoro né per il cliente sotto indagine né per i propri eredi, dal momento che non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede, ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati. Qualcuno ha parlato di “mafia dell’antimafia”: non è esatto spacciare per antimafia l’esercizio di un potere fatto a fini repressivi. La repressione ha un senso quando sotto c’è il dolo, ma l’altra parte del dolo, quello di chi esercita la repressione, eufemisticamente chiamata “prevenzione”, diventa molto spesso prevaricazione e sopruso, specie se sotto c’è un disegno e un circuito affaristico da tutelare. Il circuito lo abbiamo individuato: è fatto dai vari Dara, Cappellano Seminara, Gigante, Turchio, Benanti, Sanfilippo, Aiello, Virga e da una serie di “collaboratori”, avvocati e dipendenti che vi girano attorno, girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: così, se uno di essi compie otto mesi di lavoro, retribuito da 3 a 5 mila euro, ha diritto alla disoccupazione, scaduta la quale sarà assunto da un altro avvocato del giro, per un altro incarico. A Palermo, negli ambienti giudiziari li chiamano “quotini”, nel senso che ognuno versa una quota al sommo re dei “giustizieri”, a colui che regge le fila della Cappella. A vederli, i collaboratori sono tutti avvocaticchi, i “nominati”, cioè gli assunti per espletare incarichi di sorveglianza, sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati. Calcolando missioni, spese di viaggio gonfiate, fatture a rimborso ecc, si arriva a impressionanti cifre. Si veda il caso dei negozi di Niceta, che, al momento del sequestro avevano un fatturato di 20 milioni, che, con la crisi avevano dimezzato la cifra, ma riuscivano a mantenerla, anche in gestione giudiziaria: è stato calcolato un budget spese di 500.000 euro l’anno, di cui, almeno 200 nelle tasche dell’amministratore capo Gigante: lui stesso ha detto che in fondo non è una grande cifra, è pari al 5%, cioè a un vero e proprio pizzo. Anche gli emolumenti dei suoi collaboratori, che non fanno assolutamente niente, se non un saltuario atto di presenza, magari per rifornirsi il guardaroba, sono sbalorditivi: tutto naturalmente grava sui mancati pagamenti per le commesse d’acquisto, sulla chiusura di alcuni punti vendita, che, per una falsa concezione dell’economia, comporterebbero risparmio, e su contratti di solidarietà con i quali si obbligano i dipendenti ad accettare una riduzione del 20% dello stipendio. Onde evitare licenziamenti in grande numero, che susciterebbero clamore mediatico e proteste, oltre che suscitare malumori per le norme che regolano l’amministrazione dei beni sotto sequestro, si spostano i dipendenti del punto chiuso in un altro che ancora resiste e che comunque è già sufficientemente coperto dal personale. E intanto, visto che i fornitori, non avendo più le garanzie di una volta, si rifiutano di fornire merce, gli scaffali si svuotano, gli inizi di stagione, che in genere comportano molte vendite, non partono, sono finiti gli sconti, che hanno portato , con il 70%, perdite e fine rapporti di lavoro. Da questa disperazione, vengono fuori altri risvolti: perché alla Conca D’oro di Zamparini al negozio di Zara, oltre 2000 mq. è stato concesso di non pagare affitto per due anni, mentre Niceta paga 20 mila euro al mese di spazio? C’è forse un sottile disegno che vuole favorire l’imprenditoria straniera e bloccare qualsiasi forma di lavoro in Sicilia, con l’accusa che tutta l’economia palermitana è mafiosa? E se c’è questo, cosa c’è sotto di questo?

Il “Re” è nudo. Come nella favola di Hans Christian Andersen l'incantesimo sembra si stia spezzando, il re è nudo,  scrive Marco Salfi su "Telejato". Parliamo di un Re che paradossalmente ha molti tratti in comune con quello delle fiabe per bambini dello scrittore Danese. Si tratta infatti del sovrano degli amministratori giudiziari, diciamo per usare un eufemismo che è il più quotato a Palermo. I dati della camera di commercio parlano chiaro e non mentono a differenza di quanto a riferito nell’intervista rilasciata a Matteo Viviani. Ma andiamo con ordine. Telejato da più di tre anni sta portando avanti un inchiesta sugli amministratori giudiziari e il sistema a tratti marcio che si è sviluppato intorno alle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’abbiamo di recente ribattezzata “La mafia dell’antimafia” e in merito alle vicende scoperte e denunciate dalla nostra emittente, da diverso tempo abbiamo chiesto di essere ascoltati dalla commissione nazionale antimafia che più volte si è occupata del tema, ascoltando solo la campana della presidente della prima sezione misure di prevenzione de tribunale di Palermo, la dottoressa Silvana Saguto. Si tratta di un giro d’affari di svariati miliardi nelle mani di pochissimi e sotto la responsabilità di uno dei due giudici a latere del fu maxi processo. Le vicende che si intrecciano in queste storie sono diverse e vanno dalla mala amministrazione di patrimoni acclarati mafiosi, a presunti sequestri arbitrari di beni che in alcuni casi hanno portato pure all’amministrazione controllata di grandi aziende come l’Italgas. La speranza è che dopo il passaggio delle Iene non si spengano i riflettori e che la commissione nazionale antimafia e gli organi della magistratura competenti possano far luce su questa vicenda, tenendo conto anche delle tante denunce fatte non solo dalla nostra emittente, ma anche dal prefetto Caruso, che più volte è stato ascoltato in merito, proprio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Forse finalmente qualcosa sta cambiando e auspichiamo che associazioni che a volte si sono comportate da “professioniste dell’antimafia” possano inserire seriamente questi temi nelle loro agende, in maniera laica, lontane quindi da logiche che poco hanno a che fare con la lotta e il contrasto  alla criminalità organizzata. L’antimafia non è un business.

Le Iene intervistano Cappellano Seminara, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Parliamo di Cappellano Seminara, un personaggio che ormai i nostri telespettatori conoscono bene, da noi definito “u re”, ovvero il signore degli amministratori, al quale sono stati dati una sessantina di incarichi da parte della Procura di Palermo, ufficio misure di prevenzione, diretto dalla dott.ssa Saguto. Di questi tempi Cappellano si fa vedere anche con un altro bell’esemplare della razza degli amministratori giudiziari, l’avv. Aulo Gigante, anche lui nel cuore della Saguto e attuale amministratore dell’impero dei Niceta, ormai ridotto allo sfascio. I due si conoscono sin dai tempi in cui a Cappellano venne affidata l’amministrazione giudiziaria del Gruppo Aiello a Cappellano Seminara, e l’avvocato Gabriele Aulo Gigante era il legale rappresentante del Gruppo. Poiché Cappellano Aveva già molte amministrazioni, tirò fuori dal cappello il nome di Andrea Dara, un oscuro revisore dei conti, al quale, tramite i suoi contatti privilegiati con l’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riuscì a fare dare la nomina di amministratore giudiziario, restando egli nell’ombra a muovere i fili delle imprese sequestrate. Dara intorno al 2007 ebbe una serie di contrasti e divergenze con Gigante, che diede le dimissioni, e si scrollò anche della tutela di Cappellano, il quale, nel timore che Dara stesso potesse coinvolgerlo nel dissesto in cui il Gruppo Aiello stava precipitando, prese le distanze e iniziò un contenzioso per il recupero di parcelle per amministrazione della Clinica S. Teresa. La richiesta iniziale era di circa € 1.200.000. Due anni fa Dara, come amministratore, è stato condannato a pagare € 1.000.000 allo stesso Cappellano. Bazzeccole. E nessuno pensi che Dara li abbia tirati fuori dalla sua tasca. In altre occasioni vi abbiamo parlato di come il Cappellano controlla un “cerchio magico” dei “quotini”, ovvero di avvocati, figli di magistrati ecc. in qualche modo legati a lui, nella sua quota”, ai quali vengono dati incarichi vari dal tribunale o da parte di lui stesso. Per darvi una mezza idea del personaggio vi diremo che, dove Cappellano ha realizzato il suo miglior capolavoro è nella Legal.gest.consulting srl, in sigla LGConsulting srl, che risulta di proprietà della figlia Cappellano Carlotta, la quale ha versato 100 euro di quote nominali per diventarne azionista, ma solo del 5%, mentre il padre Gaetano ne ha versati 9.900, proprietario perciò al 95% e ne è amministratrice unica la madre Seminara Elda, nata nel 1932 e quindi di 82 anni. Si tratta di un albergo che mette il Cappellano in concorrenza con se stesso, perché amministratore giudiziario dell’hotel Palazzo Brunaccini. Nel 2011 la Legal gest cede la gestione dei servizi alberghieri ad un’altra società, la Turism project srl, della quale il 100% delle quote sociali è della Legal gest consulting srl, socio unico, cioè lo stesso Cappellano Seminara, il quale è amministratore giudiziario di un altro gruppo alberghiero, la ghs hotel Ponte spa. Tutto questo è quel che si sa sino al 2011, dopodichè, non si sa con quale motivazione, le nomine degli amministratori e delle aziende loro affidate sono diventate segreti d’ufficio. Adesso, dopo il bel servizio sulle imprese Cavallotti e sull’altro bel campione delle amministrazioni giudiziarie che è Modica de Moach, i simpatici ragazzi delle Iene ci riprovano con Cappellano. Quello che hanno combinato lo sapremo in questi giorni e, dopo che andrà in onda, speriamo di darvi tutto il servizio, dal momento che la nostra collaborazione è stata preziosa per la sua realizzazione. Ecco una feroce satira con cui Telejato ha bollato l’immarcescibile amministratore giudiziario:

Seminara Cappellano è un gran figlio di bu….ano…,

quando allunga un po’ la mano egli prende a tutto spiano,

Parcheggiato all’Arenella tiene un gran catamarano

sequestrato a un mafioso siciliano e palermitano,

ci va sopra e va lontano, si diverte a tutto spiano,

Beni ne ha affidati tanti, di mafiosi e pur di santi,

fa fallire tutti quanti, frega soldi e non va avanti.

Porta tutti al fallimento, solo allora egli è contento.

State attenti a Cappellano, non girate il deretano

è capace di strapparvi tutti i peli intorno all’ano.

Tutti dicon che è un co…cciuto, quelli che l’han conosciuto,

tutti eccetto la dott.ssa Saputo.

Cappellano Seminara, “il re” è rinviato a giudizio dalla procura di Roma, scrive "Telejato". L’elenco dei beni sequestrati ed affidati a Gaetano Cappellano Seminara coinvolge una cinquantina di aziende già confiscate ( di quelle sequestrate non si sa nulla), ed offre uno spaccato di come l’attenzione dei mafiosi sia particolarmente rivolta al settore edilizio e immobiliare, ma non disdegna di occuparsi di altri campi, come quello delle forniture mediche, del turismo, dei trasporti, della plastica, delle reti idriche, del metano, dei lavori della pubblica amministrazione. Buona parte dei beni in oggetto si trovano nel circondario di Bagheria, dove Seminara ha uno studio e dove l’imprenditoria siciliana legata a Bernardo Provenzano ha trovato un fertile terreno per investire denaro. A Bagheria c’è Villa Teresa, una delle cliniche più attrezzate, costruita con i soldi di Michelangelo Aiello,il più ricco imprenditore siciliano, con investimenti collaterali di Bernardo Provenzano e con la protezione politica di Totò Cuffaro, oltre che con la complicità della Regione Sicilia, che ha assicurato pagamenti esorbitanti di pagelle mediche. Comunque Villa Teresa è stata affidata a un altro di questi campioni, Dara, al quale l’incarico è stato revocato dopo lunghi anni di cattiva amministrazione. Non faremo l’elenco dei circa 60 beni affidati al nostro grande amministratore, forse il più grande, il re degli amministratori giudiziari. Titolare di uno studio legale nel quale, per sua ammissione, lavorano oltre trenta dipendenti. Si può dire che buona parte dell’imprenditoria palermitana sia finita sotto le sue grinfie, perchè la dott.ssa Silvana Saguto, che dirige il settore delle misure di prevenzione, è assolutamente convinta che nessuno sia migliore di lui. In quest’orgia di affari, ne è capitato uno che si è rivelato la classica buccia di banana su cui il Cappellano è scivolato. Si tratta della discarica di Bucarest, ritenuta la più grande d’Europa, sulla quale aveva messo le mani Vito Ciancimino e poi il figlio Massimo, che ne gestivano una parte, poi confiscata e affidata al solito Cappellano. Quando uno dei proprietari si ritirò e bisognava rinnovare il Consiglio di amministrazione, Cappellano pagò un lavavetri per acquistare, come prestanome una quota importante ed entrare nel consiglio di amministrazione, per poi diventarne presidente, giochetto che gli è riuscito numerose volte. Questa volta il gioco è stato smascherato. Infatti, grazie alle grandi intuizioni del Procuratore Capo di Roma Pignatone, già del tribunale di Palermo, e quindi collega della dott.ssa Saguto. Valenti, che già da 5 anni ha smesso di occuparsi della discarica rumena, di cui era socio, è stato arrestato per “tentativo di riciclaggio” dei soldi della discarica rumena. Tutto ciò malgrado il GUP di Palermo nel 2013 si fosse dichiarato incompetente per territorio e avesse dichiarato l’estraneità del Valente rispetto ai fatti di cui era accusato. Il Valente, che ha denunciato anche un tentativo ricattatorio di alcuni sindaci di importanti città italiane (si parla di Roma e, in particolare di Napoli e del suo sindaco De Magistris, il quale avrebbe speso oltre 10 milioni di euro per intercettarlo e spiare i suoi movimenti, con la richiesta di farsi carico del deposito dei rifiuti della città. Un arresto per “tentativo di riciclaggio” è il massimo cui possa ricorrere la giurisprudenza: non il reato, ma il tentativo di farlo, prima che sia stato fatto. Ecco perché le misure di prevenzione. Prevenire è meglio che curare. Ma Valenti, a questo punto, ha sporto denuncia contro l’operato di Cappellano Seminara, il quale si ritrova oggi inquisito, per truffa aggravata, non solo in Romania, ma anche in Italia, esattamente dalla Procura di Roma, dove dovrà presentarsi il 22 ottobre, perché rinviato a giudizio, dopo tre archiviazioni della stessa inchiesta, sulle quali è facile ipotizzare l’intervento dei magistrati di cui ci siamo occupati. Sembra che la quarta volta il GUP non abbia potuto fare a meno di procedere. Tra gli accusatori di Seminara c’è anche il principale gestore della discarica rumena, un certo Dombrowsky, il quale apparteneva ai servizi segreti rumeni quando era ancora dittatore Jarusewsky . Costui ha chiesto 50 milioni all’ufficio diretto dalla dott.ssa Saguto, come acconto per una ulteriore richiesta di rimborso danni per la cattiva gestione della discarica fatta da Seminara, almeno nella parte che gli competeva. E così Seminara, nel prossimo ottobre, farà un viaggetto a Roma, non sappiamo se per raccontare altre balle, mentre la dott.sa Saguto dovrà cominciare seriamente a pensare dove trovare i primi 50 milioni di euro chiesti da Dombrowsky, in attesa che non le si presentino altri conti. Gli suggeriamo di fare una misura di confisca dei beni proprio nei confronti del suo pupillo, Cappellano, il quale di beni confiscati ne avrà messo da parte parecchi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset e’ entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.

Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.

Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.

Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).

Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le relative fattispecie criminose sono tutte accomunate da alcuni elementi:

reati propri del pubblico ufficiale

accordo con il privato

dazione di denaro od altre utilità

Quindi, la corruzione è categoria generale, descrittiva dei seguenti reati:

art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione

art. 319 c.p. - Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio

art. 319 ter c.p. - Corruzione in atti giudiziari

art. 320 c.p. - Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio

art. 321 c.p. - Pene per il corruttore

In base all'art. 319 codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni. È definita questa corruzione propria ed è la forma più grave di corruzione poiché danneggia l'interesse della pubblica amministrazione a una gestione che rispetti i criteri di buon andamento e imparzialità (art.97 cost). Di questo reato (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, art. 319 c.p.) può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa. In base alla definizione dell'art. 357 c.p. è pubblico ufficiale anche colui che esercita una funzione legislativa. È priva di fondamento la tesi secondo cui nell'esercizio di un'attività amministrativa discrezionale, ed in particolare della pubblica funzione legislativa, non può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, nemmeno qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore. Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal quarto comma dell'art. 122 della Costituzione secondo cui i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.

In base all'art. 318 codice penale il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Questa forma di corruzione viene definita corruzione impropria antecedente poiché l'oggetto della prestazione che il pubblico ufficiale offre in cambio del denaro o dell'altra utilità che gli viene data o promessa, è un atto proprio dell'ufficio e la promessa o la dazione gli vengono fatti prima che egli compia l'atto. Il disvalore della condotta è sicuramente minore poiché pur nella violazione dei beni giuridici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione non ci sono atti che ledano gli interessi della stessa, come avveniva invece nella corruzione propria con ritardi o omissione di atti dovuti ovvero con il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. Il pubblico ufficiale non sarà imparziale avendo accettato una retribuzione non dovuta e venendo meno all'espresso divieto che gli pone la legge e pertanto sarà punito.

La legge 13 gennaio 2003, n. 3 ha istituito nell'ordinamento italiano l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione. L'articolo 68, comma 6, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, ha successivamente soppresso l’Alto Commissario. Con DPCM del 5 agosto 2008 le relative funzioni sono state attribuite al Dipartimento per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione che ha istituito il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. L'Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), unità del Consiglio d'Europa a Strasburgo che monitora la corruzione, il 30 giugno 2007. GRECO è stato fondato nel 1999 da 17 paesi europei, oggi ne conta 49, e include anche paesi non europei. L'ultima valutazione di GRECO sullo stato della corruzione in Italia è stato pubblicato in marzo 2012, ed è disponibile in inglese e francese.

Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.

Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.

Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari)  ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano. I tratti caratteristici di questa fattispecie di reato sono:

la stabilità dell’accordo, ossia l’esistenza di un vincolo associativo destinato a perdurare nel tempo anche dopo la commissione dei singoli reati specifici che attuano il programma dell’associazione. La stabilità del vincolo associativo dà al delitto in esame la tipica natura del reato permanente;

l'esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. La commissione di un solo delitto non integra la fattispecie in esame.

Parte della dottrina e della giurisprudenza richiede inoltre l’esistenza di un terzo requisito, vale a dire il fatto che l’associazione sia dotata di una "organizzazione", anche minima, ma adeguata rispetto al fine da raggiungere. Sul punto però non v'è uniformità di vedute: secondo taluno in dottrina non è necessaria alcuna organizzazione; secondo altri, invece, è indispensabile una struttura ben delineata "gerarchicamente" organizzata. Infine, soprattutto in giurisprudenza, si è sostenuto talvolta che è sufficiente una struttura "rudimentale". L'associazione per delinquere va ricondotta nella categoria dei reati a concorso necessario e presenta delle affinità con il concorso di persone nel reato (definito eventuale, poiché integra la fattispecie monosoggettiva); ciononostante i due istituti vanno tenuti nettamente separati. Infatti, mentre nel concorso di persone due o più soggetti s'incontrano e occasionalmente si accordano per la commissione di uno o più reati ben determinati dopo la realizzazione dei quali l'accordo si scioglie, nell'associazione per delinquere, invece, tre o più soggetti si accordano allo scopo di dar vita a un'entità stabile e duratura diretta alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti per cui dopo la commissione di uno o più reati attuativi del programma di delinquenza i membri dell'associazione restano uniti per l'ulteriore attuazione del programma dell'associazione. Diretta conseguenza di ciò è che l'associazione per delinquere è punibile, teoricamente (non è questo il caso di trattare problemi di carattere probatorio), per il solo fatto dell'accordo, con un'eccezione rispetto alle ordinarie norme penali.

Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

Gli obiettivi sono:

il compimento di delitti;

acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;

concessioni;

autorizzazioni;

appalti o altri servizi pubblici;

procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;

limitare il libero esercizio del diritto di voto;

procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Ciò nonostante si può star tranquilli che in Italia nulla succede se chi delinque sono quelle istituzioni che dettano legge ed operano i controlli.

Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.

Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni. 

Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del  dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Copiano all’esame, nei guai 12 avvocati salernitani, scrive "Salerno Notizie". Inchiesta sulla prova scritta del 2011 – 2012 per l’abilitazione professionale. La soluzione del compito fu presa da un sito internet, secondo l’accusa che ha portato sotto inchiesta 12 avvocati salernitani destinatari di un avviso di conclusione delle indagini . A darne notizia il quotidiano La Città oggi in edicola. La questione è seguita dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali a quello proposto dal sito internet dal quale sarebbe stato copiato il compito. Il tema – scrive La Città - era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio.

Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Che tra gli esaminandi di ogni categoria vi sia una quota che provi a “copiare” è storia vecchia, ma stavolta la tentazione di truccare la selezione è costata cara a dodici avvocati, finiti sotto inchiesta e destinatari di un avviso di conclusione delle indagini firmato pochi giorni fa dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Nel mirino c’è la sessione 2011/2012 per l’abilitazione alla professione forense e in particolare la prova scritta che nel dicembre di quattro anni fa si svolse nel campus universitario. Una prova finita da subito al centro delle polemiche perché alcuni candidati lamentarono un sistema di controllo d’impronta poliziesca, con l’utilizzo persino di metal detector. Eppure nemmeno quella sorveglianza così rigorosa bastò a evitare che qualcuno riuscisse a utilizzare in aula telefoni di ultima generazione e si collegasse al web per copiare un tema che nel frattempo era stato inserito sul sito Altalex, specializzato in argomenti giuridici. La commissione però se ne accorse. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali in tutto e per tutto all’elaborato circolato su internet. Il tema era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio. La correzione si svolse a Lecce, in ossequio al principio di incrocio tra le sedi che era stato introdotto per evitare il rischio di collusioni tra esaminandi ed esaminatori. Lì furono annullati i compiti copiati e da lì partì pure la segnalazione alla Procura, che dopo quasi tre anni e mezzo ha chiuso l’inchiesta. Nel frattempo quei giovani praticanti sono divenuti avvocati, superando l’esame negli anni successivi e specializzandosi chi nel diritto civile e chi in quello penale. Ora rischiano di dover affrontare un processo con l’accusa di violazione delle norme sul diritto d’autore, e hanno venti giorni di tempo per chiedere al magistrato di essere ascoltati e fornire la propria versione. «Valuteremo se richiedere l’interrogatorio» commenta l’avvocato Antonio Zecca, secondo il quale la vicenda impone ancora un approfondimento, innanzitutto sulla “paternità” del testo pubblicato sul web. «È mia opinione che il tema non sia stato redatto da chi lo ha firmato – spiega – ma che questi lo abbia preso a sua volta da altri testi e si sia limitato a divulgarlo». Qualcuno ha poi diffuso la notizia che lo svolgimento della traccia era on line e in dodici, secondo l’accusa, lo hanno copiato tal quale pensando così di assicurarsi il superamento dell’esame. Furono invece bocciati (come accadde in quell’anno al 51 per cento dei candidati) e ora si trovano sottoposti a un procedimento penale.

Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare». Più che una difesa, quello di Americo Montera è un contrattacco. E tanto per essere chiaro il presidente dell’Ordine degli avvocati getta subito la “palla” nel campo degli inquirenti: «Certo è stranissimo che si sia potuto copiare – osserva – visto che la prova si svolge sotto la stretta sorveglianza di una commissione di cui fanno parte anche magistrati». La sessione finita nel mirino è quella 2011/2012: agli scritti del dicembre 2011 parteciparono oltre 1250 candidati e in dodici sono ora sotto inchiesta con l’accusa di avere violato le norme sul diritto d’autore, copiando lo svolgimento di una traccia dal sito internet Altalex. Nei giorni scorsi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva e rischiano di dover affrontare un processo, sebbene nel frattempo siano divenuti avvocato superando gli esami degli anni successivi. Tre anni fa la loro prova fu invece annullata, la commissione di Catania che corresse gli scritti si accorse di quei compiti ciclostilati e decretò le bocciature. Ne nacque prima un contenzioso amministrativo, perché qualcuno presentò ricorso al Tar, e poi una denuncia penale che ha dato origine all’inchiesta. E dire che proprio quell’anno gli esami erano già finiti al centro delle polemiche per presunti eccessi nelle misure di vigilanza, giunte per la prima volta all’utilizzo del metal detector. A volerlo fu il presidente di commissione Andrea Di Lieto, avvocato e docente universitario, che ora apprende con sorpresa dell’esistenza di un procedimento penale: «Non ne avevamo saputo nulla – spiega – e d’altronde, non correggendo noi gli elaborati non potevamo renderci conto che ve ne fossero di uguali». Neanche i numeri delle bocciature avevano destato sospetti, perché statistiche alla mano i compiti annullati per irregolarità erano stati al di sotto della media. Però il sospetto che l’uso degli smartphone potesse inquinare la selezione lo avevano avuto: «Per questo pensammo ai metal detector – ricorda Di Lieto – ma dei sei che avevamo richiesto ne arrivarono solo tre. Li utilizzammo a rotazione sui vari varchi e ottenemmo la consegna volontaria di cento telefoni. Però controllare tutti era impossibile».

Eppure secondo il docente il potenziamento della vigilanza è soprattutto una questione di volontà ministeriale: «Di più si può fare, ma aumentando i costi e allungando i tempi, impiegando più personale e strumenti sofisticati. Altrimenti, se non si attivano tutte le procedure in astratto prevedibili, si deve ritenere fisiologico che una parte dei candidati non sia corretta. Accade ovunque e vale per tutte le categorie». Qualche modo per stringere la vite dei controlli ci sarebbe, magari prendendo a prestito gli strumenti da concorsi come quello per l’ingresso in magistratura «dove i libri devono essere consegnati nei giorni prima, in modo che la commissione possa visionarli». Ma su un irrigidimento della sorveglianza non tutti sono d’accordo, a cominciare dal presidente Montera che da quindici anni è alla guida dell’avvocatura salernitana. «Il nostro – sottolinea – è solo un esame per l’abilitazione professionale, cosa diversa dai concorsi che danno accesso a un posto di lavoro. E poi anche questa inchiesta... Non ne conosco i dettagli ma sulle ipotesi di plagio bisogna andarci cauti. Francamente? Mi pare si stia un po’ esagerando».

Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”. La Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi. Un centinaio di elaborati troppo simili per poter parlare di semplice coincidenza. La Commissione esaminatrice di Trento, che nel dicembre 2007 ha corretto le prove scritte degli aspiranti avvocati lucani per l’esame di abilitazione professionale, decide per questo motivo di annullarle in quanto «copiate in tutto o in parte da altri lavori», segnalando poi l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza: ne è scaturita un’inchiesta che ha portato a 110 avvisi di garanzia per gli esaminandi. La vicenda è emersa nel luglio 2008, con la pubblicazione dei risultati delle prove che si sono svolte a dicembre dell’anno precedente: l’esame prevede la redazione di due «pareri» (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolto a Potenza con una Commissione composta da avvocati del Distretto. Gli elaborati, come da prassi, vengono poi inviati per la correzione a una Commissione esterna, stabilita attraverso un sorteggio. Nel 2007 è toccato a Trento, «così come per i tre anni precedenti - ha spiegato uno degli esaminandi - e abbiamo l’impressione che i commissari si siano accaniti contro di noi». Al termine delle correzioni un centinaio di elaborati sono stati annullati: non sarebbe stato però un unico testo quello copiato, ma tre diversi che hanno «ispirato» altrettanti gruppi di esaminandi lucani. La Commissione non si è però fermata alla bocciatura, ma ha segnalato l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha aperto un’inchiesta per capire se, ed eventualmente come, le tracce sono state «passate» agli aspiranti avvocati. Il tutto è proseguito fino ai giorni scorsi, quando il pm di Potenza, Sergio Marotta, ha inviato 110 avvisi di garanzia e di conclusione delle indagini. Per il momento nessuno ha voluto commentare l’accaduto: l’Ordine degli avvocati di Potenza preferisce ricevere una comunicazione ufficiale dalla Procura prima di prendere una posizione e decidere eventuali provvedimenti disciplinari. La vicenda però ha avuto un effetto immediato, forse casuale, già nella sessione successiva, nel dicembre 2008, quando la sede per lo svolgimento della prova scritta è stata trasferita da un quartiere centrale di Potenza a una zona periferica e isolata della città. Dove, per altro, i cellulari hanno pochissimo campo.

Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise". I compiti svolti da molti concorrenti sarebbero identici, cioè copiati. Il caso è finito nelle mani della Procura di Campobasso che ha iscritto sul registro degli indagati 38 persone, tutti concorrenti, quasi tutti molisani. Sono accusati del reato di attribuzione a sé di elaborati altrui in materia di concorsi pubblici. Sono stati già ascoltati dai giudici. Ma presto potrebbero essere contestati altri reati. Il presidente della commissione esaminatrice, l'avvocato Lucio Epifanio, difende l'operato dei commissari e ribadisce che tutto si è svolto nel rispetto delle leggi.

Ci sono molti giovani molisani fra gli indagati dello scandalo dei temi copiati all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, scrive "Primo Numero". Dopo la comunicazione di chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore di Campobasso Rossana Venditti, emergono nuovi particolari sul caso dei temi copiati durante l’esame dell’anno 2007. Secondo l’accusa infatti, i 38 aspiranti avvocati ora indagati, avrebbero copiato in parte o nella totalità le tre prove previste, vale a dire un atto giuridico e due pareri legali. Secondo quanto emerso, la commissione giudicante, composta dalla Corte d’Appello di Trieste, avrebbe riscontrato temi uguali e divisi in sottogruppi. In alcuni casi il testo giuridico sembra sia stato copiato per filo e per segno. Il magistrato Venditti attende ora la scadenza dei 20 giorni durante i quali gli indagati potranno farsi interrogare o potranno presentare memorie giuridiche. Scaduto quel termine è molto probabile il rinvio a giudizio.

Copiano esame per diventare avvocati: 5 termolesi nei guai, continua "Primo Numero". Ci sono anche cinque ragazzi di Termoli e uno di Montenero di Bisaccia tra i 20 indagati dalla Procura di Campobasso per aver copiato l’esame per diventare avvocati. Passaggi importanti del tema di diritto civile e di diritto penale sono identici nei 20 elaborati che sono stati annullati dalla Commissione esaminatrice. Stanno per scadere i 20 giorni di tempo per essere ascoltati dal Pm. Stesse parole, punteggiatura identica, intere frasi copiate. La Procura di Campobasso non ha dubbi: 20 candidati molisani che hanno partecipato al concorso per avvocati nel dicembre del 2007 hanno copiato, e per questo ora sono indagati "per aver attribuito a se stessi elaborati altrui in materia di concorsi pubblici". Tra di loro ci sono anche cinque termolesi tra i 30 e i 33 anni, tre ragazzi e due ragazze e un giovane di Montenero di Bisaccia. Sono difesi dagli avvocati Antonio De Michele e Oreste Campopiano. In questi giorni, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, alla chetichella si stanno recando dal pm di Campobasso Rossana Venditti, chi a farsi interrogare chi a presentare memorie difensive. Sono accusati di aver copiato passaggi importanti sia del tema di diritto civile che di quello di diritto penale. Ora si dovrà capire chi è il vero autore degli elaborati e chi invece ha copiato anche se non sarà facile. I temi infatti non sono stati scaricati da internet come invece si era detto in precedenza. Ma c’è stato qualcuno che ha redatto gli elaborati e tutti gli altri invece si sono semplicemente limitati a svolgere il ruolo comprimario di amanuensi. Le prove erano state annullate a tutti i candidati con temi uguali dalla commissione esaminatrice della Corte di Appello di Trieste, sorteggiata per la correzione degli elaborati molisani. I membri della stessa poi avevano provveduto a mandare tutti gli atti alla Procura della Repubblica di Campobasso.

Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Laudemus sanctum Ivonem, qui fuit advocatus sed non latro. O res mirabilis!». Per decenni, quelle righette carogna contenute nel breviario dei parroci in ricordo di Sant' Ivo alla Sapienza, «avvocato ma non ladro», hanno fatto ridere e irritare intere generazioni di penalisti e civilisti. Una foltissima schiera di giovani legali, però, se l'è tirata. L'ha scoperto la Guardia di Finanza di Catanzaro che sta smistando 2.295 avvisi di garanzia ad altrettanti laureati in legge che, scesi in massa da tutte le lande italiche fino a Catanzaro per passare l'esame di Stato e diventare avvocati a fine '97, hanno fatto (o res mirabilis!) esattamente lo stesso identico compito. Esame per avvocato, compiti tutti uguali Truffa scoperta a Catanzaro: su 2.301 partecipanti solo sei non avevano copiato Riga per riga, parola per parola, virgola per virgola: 2.295 temi in fotocopia su 2.301 partecipanti. Fate i conti: a non avere avuto già il tema in tasca erano in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di truffatori. Riassunto per i non addetti. Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per accumulare esperienza e «imparare il mestiere», farsi timbrare via via dai cancellieri un libretto sul quale viene accertata l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare l'esame di Stato, che viene indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d'appello. Esame non facile. Basti dire che sulla prova scritta (che prevede tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) o sulla successiva prova orale si schianta in media oltre la metà dei concorrenti. Con qualche ecatombe qua e là, soprattutto al Nord, segnata da picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Sarà l'aria buona, sarà il profumo del bergamotto, sarà la percentuale di ferro nell' acqua, ma non c'è allievo che, messo davanti al foglio protocollo o assiso davanti a una commissione, non riesca a tirar fuori il meglio di sé. Basti leggere le tabelle dei promossi e dei bocciati agli esami di maturità pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Promossi: 98,84%. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti hanno fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico «Fiorentino», tutti i 207 dello scientifico «Siciliani», tutti i 209 dell'Itis «Scalfaro» e così via: 19 istituti su 34 senza un trombato. Fantastico il rendimento alle magistrali «Cassiodoro»: sono usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. Va da sé che la voglia di respirare queste brezze salutari, benefiche anche per gli aspiranti avvocati (se è vero che nel 1995, per prendere un anno a caso, venne promosso oltre il 90 per cento dei candidati, è cresciuta di anno in anno, a mano a mano che la fama di Catanzaro risaliva la Penisola, dilagava tra le colline dell'Astigiano, si incuneava nelle valli della Carnia, allagava le piane mantovane. Ma come superare l'handicap della legge, che stabilisce che tu possa fare l' esame a Trento oppure a Palermo soltanto se risulti residente lì da almeno 6 mesi, durante i quali devi aver fatto parte di uno studio legale del posto e aver fatto timbrare il tuo libretto di pratica negli uffici giudiziari locali? Un bel problema. Irrisolvibile se gli avvocati catanzaresi, che per bontà d' animo e disponibilità verso la gioventù non hanno eguali al mondo, non avessero via via accolto nei loro studi mandrie annuali di laureati in legge provenienti da Roma (14%), Torino (6%), Milano (3%), Genova (3%) e così via. Giovani comunisti umbri, leghisti lombardi, forzisti veneti, diessini liguri, postfascisti laziali, popolari friulani. Magari accomunati nella feroce contestazione verso il «lassismo» meridionale, ma compatti nel cercare di prender parte alla spartizione della torta. E che torta! Pensate solo che nel ' 95 i partecipanti in corsa a Catanzaro furono esattamente quanti quelli di Milano e il doppio di quelli di Torino. E che nel '97, l'anno finito nel mirino dei sostituti procuratori Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (una padovana che fra un mese dovrebbe lei pure passare a un'altra sede), riuscirono a superare l'esame, in tutta intera l'Italia, circa 8.000 procuratori legali. Ai quali, se non fosse saltato tutto per la scoperta della truffa, si sarebbero aggiunte altre duemila «pagliette» promosse nel solo capoluogo calabrese. Una su cinque. Meglio di una fiera dell'agricoltura o del passaggio del Festivalbar era, per Catanzaro, l'appuntamento annuale con l'esame. I 260 posti nei 5 alberghi cittadini venivan prenotati con mesi d'anticipo, nascevano qua e là «pensioni» improvvisate per accogliere le torme di pellegrini giudiziari, riaprivano in pieno inverno i villaggi sulla costa che talora offrivano il pacchetto completo: camera, colazione, cena e minibus per portare gli ospiti direttamente alla sede dell' esame dove erano attesi dalla commissione: avvocati, magistrati di corte d'appello, giudici di cassazione, professori universitari. Il tutto senza che i vertici del Palazzo di Giustizia locale, tra cui c'era ad esempio l' attuale «governatore» regionale forzista Giuseppe Chiaravalloti, sentissero mai puzza di bruciato. Finché, un bel giorno ai primi del 1998, grazie probabilmente a una soffiata anonima di chi non ne poteva più dell'andazzo, non viene fuori che una ventina di compiti svolti in dicembre dai candidati riuniti al liceo classico «Galuppi» erano identici. Calligrafie diverse, ovvio. Ma i testi parevano fotocopiati: pagina dopo pagina, riga dopo riga. In marzo, il ministero chiede informazioni. La Commissione d'esame, tenetevi forte, risponde che «non è corretto fare riferimento a gravi irregolarità» ma «soltanto» (testuale: soltanto...) a «comportamenti improvvidi quanto sciocchi di candidati che, al postutto si ritorcono a loro danno, avendo provveduto questa Commissione all' annullamento degli elaborati identici». Cosa abbiano scoperto in realtà, setacciando uno per uno tutti i temi, i due magistrati autori dell' inchiesta e i finanzieri che con il capitano Fulvio Marabotto si sono dovuti sciroppare il noiosissimo confronto tra i 2.301 temi trovando infine quei sei sparuti «fessi» che non avevano copiato l' abbiamo raccontato. Come abbiano fatto tutti quegli aspiranti «uomini di legge» a infognarsi in una faccenda così zozza senza che alcuno sentisse poi il bisogno di andare dal giudice lo racconteranno loro stessi nei prossimi interrogatori. A noi resterà, comunque, un piccolo rovello: superato lo scritto, come se la sarebbero cavata con l'esame orale di deontologia? Potete scommetterci: sarebbe stato un trionfo.

Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva irrogato ad un avvocato la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (articolo 5 del vigente Codice deontologico forense), di lealtà e correttezza (articolo 6 Codice deontologico forense) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (articolo 56 Codice deontologico forense). L’avvocato era accusato di essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule di un Hotel, mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame. Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avvocato aveva proposto ricorso per Cassazione in quattro motivi, lamentando:

1) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli articoli 340 e 494 del codice penale;

2) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine, poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale;

3) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico;

4) la misura eccessiva e sproporzionata della sanzione in rapporto al comportamento ascrittogli.

Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ritiene che non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del giudizio.

Quanto al secondo (sulla composizione del collegio del Consiglio territoriale dell’Ordine), deve considerarsi che la decisione del Consiglio nazionale forense appare aver tratto, dalla natura amministrativa delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e del correlativo procedimento (Cassazione, SU 20360/07, 23240/05), coerente corollario in merito alla validità di deliberazione, che, in rapporto alla circostanza dedotta, non risulta specificamente censurata con riguardo all’osservanza del quorum prescritto.

Il terzo motivo (sulla prova dell’illecito), secondo la Cassazione, si rivela, poi, inammissibile, giacché il ricorrente riporta in termini essenzialmente generici il contenuto delle prove testimoniali che sostiene ingiustificatamente non ammesse dal giudice disciplinare; mentre le uniche circostanze concrete in proposito riferite (in merito alle giustificazioni fornite al personale di vigilanza sulla sua presenza nel luogo dell’esame) non risultano decisivamente contraddire il tenore dell’incolpazione attribuitagli.

Pertanto, la Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo incidente sulla misura della sanzione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).

UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.

Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.

Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.

La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.

Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".

"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.

Da quale pulpito vien la predica?

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.

Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

La storia di Laura, studentessa escort a Palermo. Il racconto della ragazza universitaria di Bonagia che ha scelto di prostituirsi. “Sono di famiglia umile… sono figlia di nessuno, mi sentivo una nullità sociale. I moralisti pensino quello che vogliono, io con questa vita ho svoltato”, scrive  Mari Albanese su “Loraquotidiano”. L’abbiamo incontrata ieri, giovane e bellissima, vestita come una ragazzina qualunque: scarpe da tennis e felpa. Laura ha accettato di raccontarci la sua vita, anzi, ne è stata persino fiera, e ha parlato per oltre due ore per rivendicare quella che lei definisce “la dignità di una scelta anomala”: quella di prostituirsi. La ragazza in jeans che guadagna seimila euro al mese facendo la escort a Palermo è una studentessa universitaria di Scienze politiche, ha 24 anni e non nasconde le sue umili origini: nata a Bonagia è la primogenita di una famiglia che fatica ad arrivare alla fine del mese. “Sono figlia di nessuno, mi sentivo una nullità sociale, ho sempre saputo che anche dopo la laurea sarei rimasta un fantasma nella società: per le ragazze come me le opportunità di farcela sono davvero poche”. Per questo, quando nella sua vita si è presentato un professionista facoltoso di mezza età che le ha prospettato la possibilità di una vita diversa, lei ha accettato e lo racconta con un termine da letteratura romantica: “Ho ceduto”. Da allora l’esistenza di Laura è totalmente cambiata. I suoi clienti sono pochi e fidati, un giro di professionisti che lei chiama “fedelissimi” e che le hanno affittato un appartamento dove avvengono gli incontri a pagamento. Laura ci mostra gli abiti da lavoro, succinti, e soprattutto le scarpe che usa quando va in giro con i suoi ”amici”: tacchi altissimi che di giorno non usa mai. Poi elenca le tariffe con naturalezza: trecento euro per un’intera notte, più quelli che lei definisce “regali”: vestiti griffati, borse, telefonini, accessori di lusso. E naturalmente pranzi, cene e viaggi a cinque stelle. Dopo due anni di ”mestiere”, che non ha mai intaccato la vita universitaria, la ragazza di Bonagia oggi si definisce soddisfatta della sua scelta e giura che la doppia vita non le pesa: di giorno continua a lavorare in un esercizio commerciale, il pomeriggio lo passa a studiare, e la sera si incontra con i clienti, raccontando ai genitori a volte che esce con amici, altre che ha turni serali. Nessuno, in famiglia, sospetta. “Ormai frequento luoghi che non avrei mai potuto conoscere e mi circondo di persone colte e raffinate, niente di tutto questo era per me facilmente raggiungibile”. I rapporti con i clienti li descrive come “piacevoli e perfino affettuosi”, anche se confessa che solo in un rapporto d’amore potrebbe veramente lasciarsi andare e finalmente baciare: “Una cosa che mi manca molto”. Quando le abbiamo chiesto se non le pesa vendere il proprio corpo in cambio di denaro, ha risposto sorridente: “Lo sapevo che saremmo arrivati a questa domanda: è una domanda da moralisti, io sto bene e sono soddisfatta di quello che faccio, possiedo cose che farebbero invidia a chiunque, e chi dice il contrario è un ipocrita. Chi vuole, mi giudichi male, ma nessuno può scegliere per me”. Alla fine, però, quella sicurezza che la studentessa ha ostentato per tutta la durata dell’intervista, sembra incrinarsi: ci chiede spesso di spegnere la telecamera per asciugare le lacrime. Perché piangi? ”Non lo so, raccontare la mia scelta mi emoziona”.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato.

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere:

«Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.  

Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. 

Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. 

I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. 

Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. 

E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  

Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. 

Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. 

Ero io. 

Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. 

Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. 

Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. 

Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. 

Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. 

Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. 

Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. 

Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. 

Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, 

“io non ho commesso alcun reato, 

io non sono colpevole di alcunché, 

io sono innocente, 

io sono assolutamente innocente”. 

Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. 

E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. 

Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. 

Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. 

Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. 

Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  

Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. 

Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. 

So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. 

Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. 

È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. 

È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. 

Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. 

Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  

Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  

Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. 

Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. 

Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. 

Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  

È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  

Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  

Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  

Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. 

Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. 

Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. 

Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. 

Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. 

Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.  

E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

NOI DELL’ASSOCIAZIONE ONLUS CAPITANO ULTIMO ABBIAMO UN MODUS OPERANDI CHE SPESSO FUNGE DA RICETTACOLO PER SEGNALAZIONI E VARI SFOGHI PERSONALI". Nella Tan”O” dell’Antiracket. La Trilogia (I parte). "Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare", A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Ed in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7), in particolare all’art. 1 comma 1 e 2 che recitano espressamente:

1. Presso ogni Prefettura – U.T.G. è istituito l’elenco provinciale delle Associazioni e delle Fondazioni Antiracket ed Antiusura;

2. Possono essere iscritte nell’elenco di cui al comma 1, le Associazioni, anche non riconosciute, le Fondazioni e i comitati di cui all’articolo 13, comma 2, della legge 23 febbraio 1999, n. 4, e le Associazioni e le Fondazioni Antiracket ed Antiusura, aventi tra gli scopi sociali, risultanti dall’Atto Costitutivo, quello principale di prestare assistenza e solidarietà a soggetti danneggiati da attività estorsive. Dunque, è nostra premura dirlo e scriverlo per puntualizzare ed informare i disinformati che, nonostante sia un nostro diritto iscriverci presso l’elenco Provinciale delle Associazioni, a decorrere da un anno dalla nascita della nostra associazione non è nei nostri intenti inserirci in un elenco Prefettizio. Il motivo? È semplice ed è sempre quello che abbiamo detto e scritto fino a ora, e che continueremo a dire e scrivere, ovvero che tale scelta, l’iscrizione in termini di legge è utile solo ed esclusivamente per far accedere al fondo vittime del racket chi denuncia. Difatti, a tal riguardo la legge permette all’interessato (la vittima) di presentare direttamente domanda per la concessione dell’indennizzo mediante apposito modulo da presentare presso la Prefettura di residenza o, col consenso di questi –che è facoltativo- di avvalersi dell’associazione di categoria o ordine professionale di appartenenza. Ma può anche avvalersi delle associazioni istituite al fine di tutelare (parola a parer nostro molto ambigua, perché si parla solo di tutela economica) le vittime del racket iscritte in un apposito albo prefettizio. Pertanto, il nostro compito -sempre a parer nostro- non è quello di istruire pratiche di “finanziamento”, bensì quello di affiancare lungo tutto il “percorso – calvario” che una vittima affronta dopo una richiesta in queste circostanze. Il nostro dovere sociale -dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo- è di trasformare una vittima in un denunciante; il resto burocratico e Istituzionale spetta agli organi preposti. “Noi” siamo del parere che un’Associazione che si definisce Anti-Racket non debba mai e poi mai maneggiare o beneficiare di soldi pubblici. Lo ribadiamo a gran voce affermando che se i soldi non sono messi al servizio di chi realmente necessita di liquidità per salvaguardare la sua persona e la sua azienda da atti ignobili, diventano strumento terzo e non prioritario e fondamentale per la Sua Persona, quella della vittima – denunciante. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo abbiamo un modus operandi che spesso funge da ricettacolo per segnalazioni e vari sfoghi personali. Vi citiamo uno su tutti, vittima, e poi con noi denunciante, in uno dei territori più “caldi” della male estorsiva: il Sig. F. G. C., dopo aver fatto richiesta d’aiuto a un’Associazione Antiracket d’“Elite” presente sul suo territorio, maledisse il giorno in cui denunciò le “N’drine Calabresi”, Lo fece poiché trovò innanzi a lui quel muro di gomma che rimbalzava il suo aiuto. Ebbene, quel muro si chiamava, e si chiama tuttora, ricerca di beni da confiscare e contributi vari per poterlo assistere. Altri ci dicono addirittura che alcune Associazioni, per il caso del Sig. F. G. C., non si sono volute costituire Parte Civile nei processi per il sol fatto che gli imputati non possedevano beni da confiscare e quindi da poter beneficiare. Per noi tutto questo è assurdo, non vi è Onore. Sentiamo parlare più volte di legalità, di invogliare alla denuncia chi subisce. Ma è un dato incontrovertibile che denunciare oggi equivale ad una condanna a morte. E non ci riferiamo a quella fisica, della persona, ma alla morte dell’azienda, costruita col sudore e col sacrificio, perché, e tutti lo sanno bene, che i primi a “darsela a gambe” -in ordine cronologico- sono i fornitori, la clientela, i conoscenti, gli amici, i parenti e infine lo Stato. Noi abbiamo capito e compreso che la Politica/Stato, con determinati atteggiamenti, con le disgrazie altrui ne fa un cavallo di battaglia per i propri obiettivi. Sul territorio nazionale, ma in particolare quello della provincia di Foggia, ci sono abbastanza Associazioni Antiracket da poter soddisfare le esigenze di un denunciante. È bene ricordare, specie a chi del presenzialismo ne fa un dovere irrinunciabile senza però mettersi in gioco e stare tra la gente, che l’operato di un’Associazione Antiracket lo si percepisce sul campo, con la presenza costante e preventiva nei confronti dei commercianti e dei cittadini, anche se non associati. Questo per Noi è un atto dovuto a salvaguardia del Bene Comune, della Legalità. Non basta accompagnare la vittima all’ufficio preposto per la denuncia quando ormai a parer nostro non c’è più nulla da salvare. È giusto parlarne, specie se a farlo sono realtà associative che perseguono la Legalità, ma poi ci vuole il “polso duro e credibile” di un’Associazione Antiracket che mette sul campo azioni e modelli risolutori, non propositivi: di quelli ce ne sono già tanti e tutti sorvolati dalle Vittime del Racket, dell’usura, dei Soprusi. Noi dell’Associazione Onlus Capitano Ultimo ci chiediamo, non per polemica ma per precisa e corretta informazione, come può un’Associazione Antiracket sostenere delle campagne onerose e di sensibilizzazione contro il fenomeno estorsivo promuovendo e sensibilizzando e soprattutto invogliando il cittadino nel non acquistare prodotti da chi non espone quel bollino blu, quasi a testimonianza che chi non aderisce paga il pizzo? La nostra decisa irreversibile e corretta risposta è semplicemente “ASSURDO”. Lo affermiamo giacché in tutto questo non vi è contropartita. Ma volete comprendere che inserendo il commerciante nella cosiddetta “lista nera” quelle attività commerciali, dai cittadini, vengono –e non verrebbero- viste come disoneste e complici, e non come vittime terrorizzate da una giustificata paura nel non esporsi? Noi lo abbiamo capito perché abbiamo parlato con tanti commercianti che purtroppo convivono con questa assurda situazione, lo abbiamo compreso parlando con la gente che evita quelle attività, cittadini impauriti di comperare merce che credono che parte dei proventi delle vendite vada nelle mani del racket. Tutto questo, malgrado gli sforzi profusi da chi come noi cerca la Legalità anche con la corretta informazione, non produce una campagna riparatrice alla riabilitazione morale del commerciante. Veda egregio dott. Tano Grasso, la gente si aiuta, non si affossa per loro scelte risultate sbagliate nell’aver acconsentito ad una richiesta di “pizzo”, spesso terrorizzate da malavitosi che con una pistola puntata alle tempie la costringe a sborsare soldi lavorati onestamente. Lei lo sa molto bene e ci meravigliamo come può affermare che «I commercianti non collaborano, Foggia sottomessa alla “Società”». Lei c’è passato, ha avuto il coraggio di denunciare in tempi che le associazioni antiracket erano inesistenti. Ha avuto coraggio e ne prendiamo atto. Ma oggi il coraggio lo deve profondere e non indurre con proclami lesivi per un territorio che fa fatica a fidarsi di chi si fa chiamare “Antiracket” e poi si muove solo se ha fondi a disposizione. Il ricattato –e Lei lo sa molto bene- da vittima, per cavilli forensi, diventa perseguitato da chi lo deve proteggere, lo è per aver inconsciamente, in quel preciso istante, quello dell’estorsione, salvaguardato se stesso e la propria famiglia da atti ignobili e da un pericolo immediato, pagando il pizzo senza avvisare le Forze di Polizia. Non a caso il legislatore ha pensato bene di creare una legge chiamata Stato di Necessità -art. 54 c.p.-, proprio a tutela di quelle persone che sbagliano sapendo di sbagliare, o meglio, mentono sapendo di mentire. Per noi tutto questo è sconcertante. L’estorto ricade in un ricatto morale velato, nonostante sia vittima del cosiddetto “Pizzo”. E anziché aiutarlo, che fa la giurisprudenza e le sue machiavelliche applicazioni? Lo isola, lasciandolo solo più che mai, sperando di indurlo alla denuncia. Tutto questo come si chiama? Per noi è RICATTO, come a dire (anzi a fare) ti lascio in mutande senza via di scampo per farti denunciare. Ed ancora, perché di carne al fuoco ce n’è così tanta che un barbecue non basterebbe per sfamare quei lupacchiotti bramosi di apparire vicino a quel “Grasso che cola e cala i suoi anatemi”, Noi ci chiediamo come le Associazioni possano accaparrarsi strutture sottoposte a sequestro per reati di Mafia aggiudicandosele senza un bando pubblico? Noi ci chiediamo con tutti questi beni e questo denaro pubblico come mai nessuno di questi “Colossi” dell’Antimafia ha utilizzato un solo euro per la salvaguardia personale di chi denuncia? Oggi al vertice della Regione Puglia c’è un magistrato che conosce bene il fenomeno estorsivo e del sopruso: speriamo che abbia lungimiranza nell’ascoltare più cori, diversamente dal suo predecessore che ha lasciato campo libero a chi oggi non ha sortito risultati, solo assegnazioni di soldi e strutture pubbliche. Il “Nostro Modello Antiracket e anti Soprusi” (che nessuno ha voluto visionare, o meglio non prendere in considerazione, visto che le due “Marie” il nostro plico lo hanno ricevuto e tenuto in un cassetto in Corso Giuseppe Garibaldi, 56) è stato studiato e messo a punto da uomini di legge e di Stato, immedesimandosi nella vittima di estorsione, affinando quei temi primari che un denunciante richiede nel momento devastante della richiesta estorsiva e nella meditazione che lo porta alla denuncia e di conseguenza di riporre la fiducia in terze persone. Noi lo abbiamo fatto; peccato che non apparteniamo a nessuna Associazione d’Elite Nazionale, ma siamo semplici umili e straccioni con le idee altruiste e pertanto non meritevoli di tanta attenzione, ma semplicemente di una insana incuranza mascheratasi dietro una non appartenenza (per scelta) ad una lista Prefettizia, la quale secondo il principio di associazionismo vigente in Italia non vi è nessun obbligo di legge che ne impone l’iscrizione, ma non per questo emarginati a prescindere e consapevoli di agire contro i propri interessi. Vi sono politici, come spesso avviene in campagna elettorale, che acclamano la tanto agognata legalità e sicurezza, per poi accorgersi, nel confrontarsi lontano da resse acclamanti, che di legalità e trasparenza nessuno vuol sentirne parlare se non con proclami propagandistici tra folle teleguidate per unanimi consensi. E i fatti? Sul campo cosa fanno? Niente di niente! Noi dell’Associazione -nostro malgrado e analizzando bene la non voglia di cambiamento che i potenti della Capitanata ostentano o meglio giacciono tranquilli fra le braccia di Morfeo- siamo consapevoli di aver dato il massimo a chiunque si sia rivolto -a noi-. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo seppur andando contro corrente, spesso incappando in una ottusità Istituzionale e Politica alquanto disarmante che non lascia apertura a soluzioni che potrebbero realmente essere di sostegno per quanti, indotti a sfidare la criminalità organizzata, ci mettono faccia cuore e vita, oltre che pericoli familiari, i più cari tanto per intenderci. Una nota, anzi una precisazione è doverosa: ci siamo chiesti più volte il motivo che ha spinto dapprima, Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto Maria Luisa Latella e poi Sua (ancora n.p.) Eccellenza Maria Tirone, entrambe Prefetti di Foggia, a non darci mai udienza pur sapendo quanto impegno e quanto di buono abbiamo fatto e costruito nel limite delle nostre possibilità sul territorio. Ma non basta. In quel Palazzo ci si fida e ci si deve fidare di quelle Associazioni definite “Autorevoli e Ministeriali”, o meglio deve dar credito al pourparler degli amici degli amici, senza interrogare gli interessati. In altre parole, cambia il capo ma rimangono i subalterni che indicano le vie maestre, i “fidati”, i confidenti, chi è buono e chi è cattivo. Allora, Le diciamo in tutta franchezza che a Foggia e in Italia se l’andazzo è questo non cambierà mai nulla. Sono i dati che lo dicono, non noi. Al denunciante occorre PROTEZIONE PERSONALE e vi assicuriamo che i mezzi e le leggi per farlo ci sono: basta volerlo. Noi lo diciamo sempre, fino allo sfinimento. In Italia le leggi ci sono e sono fatte anche molto bene, e non solo nel limitarsi ad accompagnare alla denuncia chi si ribella al racket, quasi a testimoniare che la persona offesa sia un portatore di handicap non in grado di andare da solo in una Caserma o in Questura per esporre una denuncia. Poi se qualcuno dei “potenti” fa orecchie da mercante solo perché noi non garantiamo voti e favoritismi o avanzamenti di carriera a nessuno, beh…, il marciume, la purulenza, l’infezione della società ha sconfitto le sue difese. Noi siamo pronti a lottare per i nostri ideali di giustizia, quella sana, quella povera di denaro ma ricca di idee propositive, proattive e funzionali. Dalla nostra parte ci conforta il fatto di avere numerose richieste per aperture di nostre sedi in altre province italiane, come Messina e Bagnara Calabra (RC). Ne abbiamo avute molte altre da svariate Amministrazioni Comunali, perlopiù campane, che non badano alla poltrona ma al bene collettivo. Siamo certi che nel territorio Italiano troveremo un Prefetto, una “Eccellenza”, che ci accolga non per chi siamo ma che ci identifica per ciò che facciamo. Però non si dica che l’Associazione Onlus Capitano Ultimo non sia stata presente e non lo è sul territorio di Capitanata. È sola dalle istituzioni ma è al fianco del cittadino indifeso. Chi ha avuto il nostro appoggio ci ha sempre lodato per la nostra professionalità e competenza, e soprattutto per il nostro aiuto incondizionato e gratuito. Pertanto, la classe politica governante in Capitanata si assuma le sue di responsabilità nei confronti dei cittadini, lo faccia come garante di trasparenza, di legalità, del buon lavoro. E sappiate che la Capitanata è un bene di tutti, non un bacino di voti e di avanzamenti di carriera per sfamare la Vostra bramosia di potere. Ci riferiamo anche a Lei dott. Michele Emiliano, neo eletto Presidente della Regione Puglia, il Sindaco di Puglia, “venuto fra noi” in terra di Capitanata come il Messia portatore di ripristino della sicurezza, di trasparenza e di legalità, per sentirci dire che è sua intenzione aprire uno sportello Antiracket F.A.I. nella cittadina di San Severo, quasi a dirci implicitamente (voi non contate un c…) beh…! Le ricordiamo, Sindaco di Puglia, che il giorno 24 Ottobre 2014 “Noi” eravamo in tribunale a Foggia per un importante Processo che riguardava la nostra Comunità, che è anche sua, e lei e il “Suo” Sindaco del Comune di cui ricopre il ruolo di Assessore alla Sicurezza (San Severo) dove eravate? Non certo al fianco delle vittime, quegli imprenditori che hanno subito l’onta e il male dell’estorsione e i suoi distruttivi effetti. Probabilmente eravate in giro per la Puglia e la Provincia di Foggia con i vostri rispettivi ruoli ormai acquisiti, ad aprire le acque e chiedere consensi, dato che erano prossime le elezioni cui Lei ha vinto. Noi ci definiamo umili al servizio di umili. Con ciò non possiamo e ci rifiutiamo di essere al servizio di Caste programmatrici a discapito della collettività, inermi allo strapotere dei Palazzi. Il Colonnello Ultimo in prima persona, e lo rivendichiamo con sano e sincero orgoglio, ci ha fatto prendere visione di cosa sia l’umiltà e di cosa significhi essere al servizio del Popolo, ma soprattutto ci ha insegnato a saper dire “Rinuncio”. Pertanto, fiduciosi di aver a Tutti fatto cosa corretta e gradita, sperando di non aver offeso nessuno, cogliamo l’occasione di augurare a Tutti il nostro più sincero augurio di una pronto risveglio di Legalità in una terra dove vige subdolamente in modo latente lo strapotere Politico/Mafioso. Non a caso Istituzionalmente e Ufficialmente lo dissero sia Sua Eccellenza il Questore di Foggia e Sua (e non nostra) Eccellenza il Prefetto di Foggia Maria Luisa Latella dinanzi una recentissima Commissione di Governo. Noi ci siamo!!!

''OGGIGIORNO LA SITUAZIONE DELLE ASSOCIAZIONI ANTIRACKET IN CAPITANATA VE LA RACCONTIAMO NOI, NUDA E CRUDA, SAPENDO DI SUSCITARE NON POCHE POLEMICHE''. Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia’(2^) A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. Rieccoci con il sequel della prima parte della trilogia “Nella Tano”O” dell’Antiracket” pubblicato in data 15 Giugno 2015. Se avessimo dovuto attribuire un titolo alla prima parte, indubbiamente sarebbe stato “FUCK BLACKLIST”. Oggigiorno la situazione delle associazioni antiracket in Capitanata ve la raccontiamo noi, nuda e cruda, sapendo di suscitare non poche polemiche. Noi a differenza dei cronisti sordi e ciechi per volontà, la verità la pubblichiamo, pronti ad affermare e a dimostrare in qualsiasi contesto quanto da noi esposto. Cosa differenzia un’associazione antiracket da una dell’antimafia o da una semplice associazione? Innanzitutto che nel proprio statuto è sancito che combatte i soprusi ed ogni forma di criminalità organizzata. Poi, citando il motto di Cetto La Qualunque, “Na’ beata minchia!” È sotto gli occhi di tutti che in questi anni gli attuali “signori antimafia” hanno avuto l’esclusiva di sedere alla destra dei potenti. Un monopolio per il sol fatto che erano in pochi, riferendoci al territorio di Capitanata. Questi si sono arrogati il diritto di partecipare a tavole rotonde e tavoli tecnici che riguardavano temi come mafia e sicurezza, quasi avessero in mano un progetto per il bene comune. Il FAI –Federazione Antiracket Italiana- ha fatto il suo ingresso in Foggia da pochi mesi, portando un nome importantissimo. Lo ha fatto dopo anni di corteggiamento con l’intento di unire i commercianti affinché abbracciassero la causa. Alla fine il matrimonio si è consumato, ma ad oggi rischia di rimanere solo un grande amore. Il motivo è semplice, intuibile e più volte esposto da chi chiede aiuto: se dal matrimonio non nasce un’idea funzionale che non si limiti al solo bollino blu, il parto non avverrà mai. Anzi, oltre ad abortire, rischia di implodere mettendo a rischio quegli commercianti che vi hanno riposto fiducia. Con ciò, e lo diciamo con onestà intellettuale e pieno rispetto delle persone citate, c’è da chiedersi se i famigliari di Panunzio siano contenti degli strumenti contro la lotta al racket messi in campo dal FAI. E dire che prima della nostra nascita, per una forma di reverenza, noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo fatto richiesta di un incontro con l’associazione Antiracket Vieste. Come detto per far conoscere la nostra volontà di collaborare insieme sul territorio. Altro contatto, e direttamente con la sede centrale del FAI, quella di Napoli, lo inoltrammo chiedendo un appuntamento diretto con il sig. Tano Grasso, appuntamento mai accordato. Ed infine contattammo direttamente il figlio di Giovanni Panunzio per rendergli noto che era nostra intenzione accomunare il nome di suo padre al nostro. Sapete perché? Per noi Giovanni Panunzio è Giovanni Panunzio, come Francesco Marcone è Francesco Marcone, uomini capaci di dare la vita per non sottomettere i loro ideali di libertà, giustizia e piena legalità. Ma le ragioni del suo diniego il sig. Grasso forse un giorno ce le renderà in tutta franchezza. Noi ci siamo! Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo un modo di “fare antiracket” di per se innovativo: chi ha avuto l’opportunità di conoscere il nostro modello ci detto, -e lo hanno detto tutti- «Modello davvero stupefacente, innovativo, fuori dagli schemi dei soliti piani e modelli proposti. Siete avanti di 20 anni, mentre noi siamo ancorati a chi e cosa vuol essere al di sopra. Ci penseremo…» Quel “…ci penseremo” oggi non l’ha ancora fatto, forse indotto da chi lo controlla. Nel nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” la vittima è tutelata in pieno, oltre che essere provvista di strumenti per essere immediatamente preservata. Ma il punto cardine del nostro Modello, che ci differenzia dagli altri è che in tribunale noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo andiamo con loro e vi rimaniamo. Stiamo al loro fianco, a quelli che denunciano, ma non come parte civile, bensì come persone informate dei fatti. Mentre voi del FAI, di Libera, di tutte quelle associazioni antiracket presenti sul territorio nazionale, ad ora non avete mai fatto questa scelta. Ecco la differenza che, a parer nostro, è fondamentale per sedere a tavoli tecnici. E se un giorno sarete in tribunale al fianco del denunciate, rischiando come noi in prima persona, allora chapeau. Se avete fatto caso all’ultimo video-proclama di Tano Grasso, Presidente onorario del FAI, riportato sull’articolo pubblicato da ilmattinodifoggia.it in data 09/06/2015 “Tano Grasso: «Commercianti foggiani omertosi»” è palese che in mano sia lui, sia l’associazione che rappresenta, non hanno nessun progetto volto all’abbattimento del fenomeno omertoso, non hanno un piano con strategie per far sì che un estorto non risolva i problemi da solo godendo delle dovute coperture in termini di “soffiate”, che sottolineiamo sono quelle che danno il via per una indagine di polizia giudiziaria. A rafforzare questa nostra affermazione, ci sono anche considerazioni e affermazioni pubblicate nell’articolo “Foggia, una città presa a schiaffi” da ilmattinodifoggia.it in data 14/06/2015 sul blog Controverso, dove si dice che «Tano Grasso incontra la stampa. Cosa dice? C’è omertà, i commercianti danno del tu ai mafiosi (ma chi sono i mafiosi? A chi si riferisce? Chi dà del tu a chi?), non bisogna andare nei negozi di chi non denuncia – come se fosse stata già consegnata ai cittadini una mappa – basta invocare l’intervento dello Stato – quello c’è -, Foggia è la città peggio messa in tutta la Puglia, sarà sempre sottomessa alla “Società'”…». Insomma, una sequela di proclami rafforzando quelli precedenti, dove Grasso invitava i cittadini a non comperare laddove il pizzo era pagato. Lui, Tano Grasso, si è soffermato (secondo il diritto di critica degli autori del testo,ndr) nel far passare il concetto che un commerciante qualora subisca un atto intimidatorio e lo non denunci, va inesorabilmente lasciato solo, invitando i cittadini a non comprare merce nella sua attività. Una specie di boicottaggio, cui noi siamo allibiti al solo ascolto di queste parole “indefinibili…”. Lo rimarchiamo: questo concetto è più che sbagliato perché vuol dire che, noi compresi, non siamo capaci di garantire quella dovuta rassicurazione agli operatori commerciali nell’affidarsi a noi associazioni. E questo la dice lunga sul lavoro da fare sul campo e intorno ai tavoli. Purtroppo la società attuale, quella che si definisce perbenista, legale, rassicuratrice, scelta, bada più alla leadership venendo meno ad un confronto per unire gli intenti. Questo è un atteggiamento che favorisce la criminalità. Come abbiamo sempre sottolineato, a noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo non interessa il riconoscimento di aver prodotto una denuncia, ma quello di mettere in campo un sistema che porti a più denunce. Lo diciamo a prescindere dall’associazione che si fa promotrice del progetto, perché per noi sono tutte uguali, purché si raggiunga l’obiettivo. Se poi ci mettiamo ad analizzare il video-proclama possiamo anche ipotizzare un certo nervosismo del soggetto che parlava (..) Tutti i foggiani sanno che tra Tano Grasso e il Sindaco Franco Landella non c’è feeling. Tutti ricorderanno di quel gesto sconsiderato da parte del Presidente onorario del FAI e di Sua (e non nostra) Eccellenza Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, i quali pur sapendo di essere alla mercé di telecamere non si fecero scrupoli di estromettere l’attuale Sindaco di Foggia in una delle tante sfilate o meglio come le amano chiamare, passeggiate per la legalità. Un gesto che fece passare un messaggio sbagliato nei confronti di Landella, come a dire non degno di partecipazione. A quel tempo, nel dicembre 2012, Franco Landella era consigliere comunale, lontano da proclami elettorali. E se anche si ipotizzava una sua volontà a farla, diteci voi qual è quel politico che non sin fa campagna elettorale 365 giorni l’anno, 24 ore su 24? Eh..? Allora…? Siate più pragmatici e onesti, e vedrete che lo specchio rifletterà un’immagine più bella. Tuttavia, a quel diniego Franco Landella non la mandò a dire. Anzi, come è nel suo stile, rispose immediatamente e direttamente, paventando una sua auto-sospensione dall’assise comunale foggiana. Eccovi le sue parole riportate fedelmente: «Che senso ha continuare a rappresentare la città in cui sei nato, cresciuto e che ami in un consiglio comunale che il Prefetto di Foggia rinnega come istituzione degna di essere al fianco dei cittadini che lo hanno eletto in una qualsivoglia manifestazione promossa per sostenere le ragioni della legalità contro il sopruso del malaffare? Che ragione ha dare ancora un senso ad una rappresentanza politica che viene scacciata, perché ritenuta malevola, da consessi democratici in cui dovrebbe trovare legittima espressione?». Mettiamo in chiaro un punto: noi non siamo schierati con l’uno o altro politico, non siamo politicamente di nessun partito, movimento, lista, ecc… Siamo con chi vuole legalità, giustizia, libertà, con chi aiuta. Dal canto nostro abbiamo imparato, perché ci è stato insegnato, che “L’efficienza delle associazioni Antiracket non si misura in base ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla canonizzazione di toghe e divise”. L’attività delle Associazioni Antiracket, Antiusura a Anti Soprusi, non si misura in base alla visibilità mediatica, né tantomeno in base alle denunce presentate o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte a vantaggio di truffatori e, ancor più grave, sempre bene attenti a non toccare i poteri forti, come per esempio le banche e chi le rappresenta in cerchie istituzionali e politiche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica Regionale o Provinciale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antiracket non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di qualcuno. La capacità delle Associazioni, nel caso Antiracket, è legata alla loro competenza e al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire, e tutto senza fare politica. Il loro compito è informare forze dell’ordine, inquirenti, chi deve rappresentare in tribunale il denunciante, è assistere l’estorto, e perciò il denunciante, nella stesura degli atti. Quindi, l’associazione Antiracket inevitabilmente diventa soggetto informato dei fatti. Con ciò, e lo ripetiamo apertamente, le denunce le presentano le vittime, o presunte tali, e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allontanare a questo punto della vicenda, come avviene, purtroppo. Noi pensiamo che la vittima di sopraffazione e violenza non ha bisogno di pubblicità. Per questo noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo ci mettiamo la faccia, perché ogni forma di reato è e verrà sottoposta alle forze dell’ordine o direttamente alle Procure della Repubblica del territorio dove si è perpetrato il reato. E lo facciamo anche se in quest’ultimo periodo non mancano le lamentele di un ipotetico abbandono da parte dello Stato, e questo non bisogna ometterlo. Inoltre, Noi non siamo affiliati, associati, aggregati, seguaci, aderenti, fate un po’ voi giacché ce ne avete dette di tutti i colori e di più, a nessuno e quindi non riceviamo nulla da qualcuno e qualcosa. Né abbiamo un ritorno di immagine, né copertura delle spese. Del resto che volontariato è se poi si è finanziati e quindi diventa una professione? Il nostro grido va ai Media, a tutti quelli che informano e comunicano, ai quali diciamo di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche che catturano l’attenzione dei lettori, e non solo, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni Anti…. che vanno per la maggiore chi vengono pagate e chi votano e come mai aprono sportelli Antiracket in città. Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare; più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né tantomeno di mistificatori. L’abito non fa il monaco. Lo veste e lo accomuna a qualcosa. La legalità non va promossa solo nella forma, va coltivata anche nella sostanza. È sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di Ufficiali e giornalisti e il sornione atteggiamento degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica quella contemporanea, anche scomoda ai potenti di turno, e rapportandola al passato e proiettandola al futuro, non è cosa facile e umilmente affrontabile, in particolare per non reiterare vecchi errori. Il tutto perché la massa è indotta con solerzia dai poteri forti e loro seguaci a dimenticare o non conoscere. Questa è sociologia storica. Questo accade perché la maggior parte di noi cittadini non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso. In 16 mesi di attività intensa sul campo, Noi dell’Associazione Antiracket Capitano Ultimo abbiamo potuto riscontrare un totale disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto metterci il tappeto rosso sul nostro percorso. Ma abbiamo solo percepito invidie, timori e paure da parte di qualcuno “minacciato” nel veder minato un campo ormai monopolizzato e ben collaudato. No, non siamo esuberanti; i fatti ci danno ragione. E lo ripeteremo fino allo sfinimento quando diciamo che dopo sei mesi dal nostro insediamento in Capitanata ci sono giunte ben 135 notizie criminis: questi sono fatti di una battaglia civile in nome della legalità e non parole. Capitano Ultimo disse “Questa battaglia si perde solo se non si fa”. Notizie criminis giunte sia dalla provincia di Foggia, sia, e ne sono molte di più, da quelle campane, calabre, siciliane, terre molto più “calde” di questa e che hanno anche altre associazioni Antiracket che evidentemente sono “allineate” al modus operandi del FAI. Tuttavia, visti gli eventi criminali che si sono succeduti e ripetuti sul territorio, e nonostante la “venuta o scesa qualsivoglia definirla” della Commissione Parlamentare Antimafia, per tutta risposta nella stessa giornata venivano scarcerati boss di grido della criminalità locale. Questo per noi vuol dire prendersi gioco delle persone che combattono coi denti e con la vita determinati atteggiamenti sociali. Da qui, ed è amaro dirlo, nasce la rassegnazione di tanti operatori di polizia “avviliti” da tali atteggiamenti superficiali, spesso messi alla gogna quasi fosse colpa loro che le cose non cambiano. Noi non smetteremo mai di dire che le leggi in Italia ci sono e sono fatte anche molto bene, basta saperle far applicare ed avere il coraggio a costo della Poltrona, senza cavilli che inficino il buon funzionamento della giustizia. Una guerra la si combatte uniti. Pertanto, l’Associazione Antiracket Capitano Ultimo chiede a mezzo stampa, a tutte quelle realtà sul Territorio Nazionale e ci riferiamo ad Amministrazioni Comunali, Procure, Prefetture, Comandi Provinciali dei Carabinieri e Questure, Noi se interpellati, saremo ben lieti di dare il nostro contributo attivo sul campo per un’attività seria e concreta contro il fenomeno criminale; Noi daremo la massima disponibilità a patto che ci sia la reale voglia di cambiamento. Vede, Sua Eccellenza il Prefetto di Foggia dr.ssa Maria Tirone, capiamo la diffidenza che abbiamo suscitato, ma 13 mesi per chi l’ha preceduta e 6 mesi per lei sono tanti per non aver preso cognizione di quanto fatto sul territorio, perlomeno in termini di sostanza. Quantomeno poteva riceverci come da sua competenza. Non faccia come Sua (e non nostra) Eccellenza dr.ssa Maria Luisa Latella, allora Prefetto di Foggia, che ad una richiesta di audizione presso il suo ufficio, ci dirottò presso il Comando Provinciale dei Carabinieri. Noi avevamo chiesto un incontro con un organo di Governo sul territorio e non con un organo di Polizia Giudiziaria. A lei Prefetto Tirone è stato consegnato il nostro “Modello Antiracket e Anti Soprusi” e non ci ha fatto sapere nulla, neanche un no. Come siamo certi che da altre realtà associative che si definiscono Antiracket, non ha uno stralcio di modello fattivo sul campo, solo proposte “intavolate” innanzi a microfoni e telecamere. Noi da Umili fra gli Umili diciamo passi anche questa. Ci dispiace dirlo per non peccare di presunzione, ma il nostro nome è una garanzia alla Legalità che lei e chi prima di lei non ha saputo dargli dovuta attenzione. Noi ci siamo!!!

"PER IL NOSTRO PIANO O MODELLO TERRITORIALE DI FARE ANTIRACKET OCCORRONO ZERO EURO PER LA SUA REALIZZAZIONE. SI SIGNORI, ZERO EURO. " Nella Tan”O” dell’Antiracket – La Trilogia – (III). A cura dell'associazione Antiracket Capitano Ultimo su “Stato Quotidiano”. "Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro". “E…Marije dorm…!!!” Scriviamo facendo appello all’art. 18, all’art. 21 e all’art. 28 della Costituzione della Repubblica Italiana. E in riferimento al Decreto del Ministero dell’Interno del 24 Ottobre 2007, n. 220, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (GU n. 276 del 27-1 -20 7). Questa volta ci limitiamo ad un piccolo articolo, sperando di arrivare diritto al punto. Siamo giunti alla parte finale della trilogia dove, nostro malgrado, abbiamo espresso con la “verità di cronaca” che ci contraddistingue ciò che abbiamo da dire, da far conoscere, da rendere pubblico. Nonostante tutto ci teniamo a precisare che non siamo depositari della verità. Pertanto, siamo aperti ad ogni qualsivoglia smentita in merito. Come detto, nel miglior modo possibile, ci siamo limitati nel far comprendere a tutti voi il mondo ovattato che le persone “importanti” vogliono farvi credere nell’azione di contrasto al malaffare. In realtà quelle azioni non fanno un bel niente e non sono così rischiose da fa saltare le loro poltrone dorate. Noi abbiamo presentato il nostro modo di fare antiracket ovunque ci siamo rapportati e a persone cosiddette “importanti”, individui che ricoprono cariche funzionali, di Governo, Comunali e Ministeriali, sia nel circondario della Capitanata e da qualche tempo anche oltre il distretto foggiano. Lo abbiamo con umiltà, in prima persona, ponendo in primo luogo la mission del “nostro fare” associazione. Vedete -per chi non ancora l’avesse compreso- il nostro programma ha alla base il sociale, l’aiuto reciproco nel supportare una vittima di un sopruso, ha nel proprio pacchetto la salvaguardia e la sicurezza di chi per ragioni di estorsione ed usura varca la soglia di una caserma per denunciare il suo aguzzino, ha nel proprio fagotto la sicurezza di ogni cittadino, oltre la creazione di posti di lavoro. Ve lo abbiamo detto in tutti i modi, in tutte le salse –se preferite comparare le parole al cibo, sempre ben apprezzato nei salotti dove i tavoli sono utilizzati convivialmente piuttosto che per decidere-. Il Modello Antiracket e Anti Soprusi che utilizziamo lo abbiamo creato e partorito Noi dell’Associazione Onlus Antiracket Capitano Ultimo. Lo hanno fatto, per dirlo in parole povere, dei perfetti sconosciuti e quindi incapaci di avere quella lungimiranza intellettuale che solo i “Grandi” possono avere. Sconosciuti che conoscono il mondo malavitoso perché lo contrastano da anni, sconosciuti che indossano divise, sconosciuti civili volenterosi e addestrati a tal fine, sconosciuti forensi, sconosciuti psicologi, sconosciuti agenti governativi. Pur non ricevendo risposte da Voi, gente delle locali istituzioni, noi una risposta ce la siamo data: se il nostro piano o modello –scegliete voi la forma migliore- di sicurezza avesse preso piede, le Associazioni “supposte” d’Élite, come avrebbero giustificato anni e anni di contributi Statali ed Europei elargiti a loro favore per non aver fatto nulla di concreto alla lotta contro i soprusi e la criminalità in genere e soprattutto alle estorsioni? Un dato è certo ed è sotto gli occhi di tutti e, da qualche tempo, nelle riflessioni si sindaci eletti in liste civiche piuttosto che nei partiti politici: chi ha avuto tanto dalle amministrazioni pubbliche, soldi e strutture in primis, ad oggi non ha fatto nulla, e quel poco che è riuscito a fare non è servito a risolvere il problema e neanche ad arginarlo. Come è anche vero che mai nessuno di questi luminari ha partorito (con i fondi ricevuti) un sistema di protezione individuale di chi denuncia una estorsione. Le carte parlano, basta consultarle. Da articoli di giornali di stampa campana, e nello specifico partenopea, nel “Il Fatto Quotidiano” e precisamente nell’articolo “Associazioni Antiracket i conti non tornano”, si evince chiaramente che la Corte dei Conti di Napoli ha indagato un’associazione Nazionale, cosiddetta d’élite, per aver mal distribuito ai loro associati un importo di circa 3,5 milioni di euro. Per farla breve, le associazioni che facevano e fanno capo a quella d’élite non sono state trattate tutte nello stesso modo, differenziandole in quelle di serie A e quelle di serie B. Ovviamente questa disparità ha generato nelle piccole associazioni un malcontento che ha portato alla denuncia dell’Associazione “Madre”. Ma il dato che salta agli occhi –ed è un bel flash…- è l’importo di 3,5 milioni di euro che questi hanno ricevuto, soldi che non hanno sortito azioni, soldi per non fare nulla. Se vi diciamo che noi con la metà di un quarto di quella cifra avremmo potuto far tanto; la dimostrazione sta nel nostro modello di fare antiracket. Ciononostante, per fortuna per alcuni ma anche malauguratamente per taluni, chi pone il visto per queste iniziative di sicurezza sono i Prefetti, i quali si susseguono. Lo fanno nelle poltrone, e dove arrivano trovano i galoppini del posto che li ragguagliano su chi evitare, perché rompi scatole, e su chi ascoltare, perché amico dell’amico. Un circolo (anche un circo…) vizioso o virtuoso – secondo i punti di vista…- ben visibile poiché chi siede a quei tavoli cosiddetti tecnici su sicurezza e legalità, e ci chiediamo con quale diritto ci si arroga di questo privilegio, son le stesse persone che intrecciano rapporti amicali più che amichevoli, come a far comprendere che il rapporto è più stretto, pur essendo i due termini sinonimi di entrambe. Per quanto ci riguarda siamo orgogliosi di essere premiati in altri contesti territoriali, come nel casertano, dove abbiamo ricevuto un riconoscimento sulla legalità. Siamo fieri che in Sicilia, ed esattamente nella città di Messina, la Confcommercio addivenendo a un protocollo d’intesa con Noi, ci ha dato disponibilità di aprire un nostro ufficio all’interno della struttura. Siamo soddisfatti che a Bagnara Calabra, in Calabria, presto apriremo un’altra sede della nostra Associazione. Mentre ci fa specie che il Nostro territorio, quello della Capitanata, di noi se ne “fotte” altamente, mentre gli altri ci accolgono come innovatori di un sistema di fare antiracket risultato negli anni inerme, amorfo, in parole povere, morto. Di tutto questo siamo rammaricati, delusi e nel contempo consapevoli che altri poteri coprono quelli dediti alla libertà di scelta. Scusate se abbiamo usato il termine “fotte”, “scusate il francesismo”, ma il termine è appropriato per la gente cui recapitiamo il messaggio. Ma, scusate, per ottenere un incontro con Prefetto c’è bisogno che a Foggia in via Giuseppe Garibaldi 56 qualcuno faccia rumore, perché Marije dorm? Eppure la cura che doveva somministrare alocale, rimanendo in tema con la sua omonima provincia di Foggia non era debilitante, ma dimagrante per la mala. Alcuni, in certi territori italiani, dicono che in certe istituzioni ci sono le Lady di Ferro. Sono fortunati giacché nel nostro, come ci risulta, due lady ci sono state e che più della latta non hanno. Impressioni…? Mah…. Con questo articolo, se non lo specifichiamo, possiamo indurre qualcuno a capire che noi ci lamentiamo perché non abbiamo ricevuto alcun fondo statale. Non è così e lo ribadiamo pubblicamente e a gran voce. Noi precisiamo che per il nostro piano o modello territoriale di fare antiracket occorrono ZERO euro per la sua realizzazione. Si signori, ZERO euro. Allora capite perché a qualcuno stiamo sulle palle? Perché non siamo come Loro, noi i soldi non li vogliamo. Ri-scusate il “francesismo”, ma la chiarezza, spesso, ha bisogno di termini comprensibili da chi ci snobba. Noi ci siamo!!!

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano -parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».