Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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LA SICILIA

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

PALERMO E LA SICILIA

QUALE MAFIA?

I PARTE

 

PALERMO E LA SICILIA

II PARTE

 

TUTTO SU PALERMO E LA SICILIA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

 

I PALERMITANI ED I SICILIANI

SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!

 

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Palermitani ed i Siciliani non avrebbero mai voluto leggere. 

(*Su Messina c'è un libro dedicato)

di Antonio Giangrande

 

 

 

 

SOMMARIO I PARTE

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.

LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.

GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.

ANTIMAFIOSO SI NASCE O SI DIVENTA?

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…

GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

 

SOMMARIO II PARTE

 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

A PALERMO, TRA NUOVI PROCURATORI E VIADOTTI NUOVI CROLLATI: ARIA NUOVA O QUASI!

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAFIA VECCHIA E NUOVA……

L'ANTIMAFIA DELLE BUFALE?

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

MARCELLO DELL’UTRI. LA VERA STORIA.

LA SICILIA DEGLI SPRECHI.

SPRECHI ESATTORIALI.

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

GIOVANNI FALCONE "ROVINAVA L'ITALIA".

MATTEO MESSINA DENARO: LATITANTE DI STATO?

MAFIA DEMOCRATICA.

MARCO BOVA, I PM E GLI ATTI D'INDAGINE SECRETATI TROVATI IN CASA DELL'INDAGATO.

GIANNI IENNA, MAFIOSO PER FORZA.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

MAFIA E FALLIMENTI. AZIENDE SANE IN MANO AI TRIBUNALI. GESTIONE CRIMINALE?

IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?

MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.

LEZIONE DI MAFIA.

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

MAFIA. SCARANTINO. TORTURATO PER MENTIRE.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

IL VENTO DELLA SECESSIONE GRADITO A COSA NOSTRA ED ALLA MASSONERIA DEVIATA.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

TRATTATIVA STATO-MAFIA. PROCESSO ALLO STATO.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

USURA E MAGISTRATURA.

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

MAFIOSO A CHI?

ANCHE I GIORNALISTI RUBANO?

PARTINICO. QUANDO I LEGALITARI VIOLANO LA LEGGE.

IL PROBLEMA DELLE CATTIVE FREQUENTAZIONI.

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. DELL'UTRI: LA MAFIE E’ POTERE.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

CIANCIMINO: FIGLIO DEL MAFIOSO CHE NON SI FA I CAZZI SUOI.

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'.

PALERMO: MAFIA E POLITICA.

BRUNO CONTRADA E MARIO MORI.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

UNA NUOVA VERITA' SULLE STRAGI MAFIOSE.

IL DIRITTO CHE SI ROVESCIA E GLI INNOCENTI IN CARCERE.

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO.

MAGISTRATI PARTIGIANI.

CASO DE MAGISTRIS: ULTIMA FERMATA, VIA D'AMELIO.

MISTERI DI STATO. MISTERI DI CASA (O COSA) NOSTRA.

C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA: PALERMO, I GIUDICI CANNIBALI.

CASO MAURO DE MAURO.

STORIE DI INGIUSTIZIA.

STORIE DI SPRECHI ED ABUSI.

CONCORSI TRUCCATI.

MALASANITA' E TRUFFE.

PARLIAMO DI AGRIGENTO

TANGENTI E FAVORI.

ACQUA PAZZA.

AGRIGENTO: GLI STAKANOVISTI DELLE COMMISSIONI.

AGRIGENTO: LA CAPITALE DELL'ASSENTEISMO.

AGRIGENTO ED I SUOI EROI: ROSARIO LIVATINO.

AGRIGENTO E LA MASSONERIA.

MAFIA E MASSONERIA.

MAFIA E CHIESA.

LAMPEDUSA, L'ISOLA DEGLI ABUSI.

PORTO EMPEDOCLE. MAI DIRE MAFIA, MAFIOSI E MAFIOSITA'.

PARLIAMO DI CALTANISSETTA

GIUSTIZIA PER MIRKO RUSSO.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

GELA COME TARANTO. MORTE ANNUNCIATA?

CALTANISSETTA MASSONE.

CALTANISSETTA MAFIOSA.

CALTANISSETTA. LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. DI CHI CI SI PUO' FIDARE?

DIPLOMIFICIO.

MAGISTROPOLI. EDI PINATTO: 8 ANNI PER SCRIVERE LE MOTIVAZIONI.

PARLIAMO DI CATANIA

IL RACKET TOGATO. L’OMBRA DEL MONOPOLIO NELLE DIFESE D’UFFICIO.

IL CALCIO TRUCCATO.

NICOLE DI PIETRO E LORIS ANDREA STIVAL: STORIE DI MALASANITA’ E DI MALAGIUSTIZIA?

LA VICENDA MAJORANA.

ABUSI DI POLIZIA. LA STORIA DI PAOLO RINO TORRE.

LA NEGLIGENZA DEI PM. MARIANNA MANDUCA E LE ALTRE O GLI ALTRI.

MAGISTROPOLI. PROCESSO AI MAGISTRATI.

CONCORSI TRUCCATI. PATOLOGICO? NO, FISIOLOGICO!

INTERROGAZIONE PARLAMENTARE CONTRO LA COMMISSIONE DI ESAME DI AVVOCATO.

CATANIA MASSONE.

CATANIA MAFIOSA.

MALAGIUSTIZIA ED IMPUNITA’.

MAGISTROPOLI.

QUANDO I BUONI TRADISCONO. LA VICENDA DI VALENTINA SALAMONE.

FISCO E SPRECHI, OSSIA MALAMMINISTRAZIONE.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO.

CATANIA, 850 MILIONI DI EURO SPRECATI.

CATANIA: COMUNE AL DISSESTO, MA I DIRIGENTI RICEVONO PREMIO DI UN MILIONE.

CATANIA È TUTTA UN BUCO.

TRUFFOPOLI. TRUFFA AL SERVIZIO SANITARIO, SCOPERTI 21MILA PAZIENTI "MORTI".

PARLIAMO DI ENNA

MAFIOPOLI.

ENNA: MAFIA E MASSONERIA.

MALAGIUSTIZIA.

PARLIAMO DI RAGUSA

LA “SVIZZERA” OMERTOSA DELLA SICILIA.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GIOVANNI GUARASCIO. MORIRE DI DEBITI O DI ASTE TRUCCATE?

MAFIOPOLI

MAGISTROPOLI

MODICA. PARADISO DEGLI ASSENTEISTI.

PARLIAMO DI SIRACUSA

MALAGIUSTIZIA.

LA MASSONERIA A SIRACUSA.

MASSONERIA E MAFIA.

LA STORIA DELLA MAFIA SIRACUSANA.

GIUSTIZIA: IN CHE MANI SIAMO MESSI.

PARLIAMO DI TRAPANI

LA GUERRA DEI VESCOVI.

PIU' ADDETTI CHE VISITATORI, MA IL MUSEO RESTA CHIUSO.

IL PARADOSSO DELLA BUROCRAZIA. LAVORARE UN MINUTO A SETTIMANA.

TRAPANI, BOSS E MASSONI.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? DENISE PIPITONE E PIERA MAGGIO. VITTIME DI UNO STATO MALATO.

STORIE DI INGIUSTIZIA. GIUSEPPE GULOTTA, INNOCENTE IN CARCERE. UNO DEI TANTI.

STORIE DI MALA AMMINISTRAZIONE.

CAMPOBELLO DI MAZARA. LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. 

CALATAFIMI: MAI DIRE ANTICORRUZIONE.

 

 

 

 

II PARTE

 

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri.

Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM.

Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico.

Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon.it e su Lulu.com o su Createspace.com.

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che  i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio.

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che  questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

Giustizia per Marianna, uccisa dopo 12 denunce, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Marianna Manduca aveva 32 anni quando, il 3 ottobre 2007, il suo ex marito Saverio Nolfo la ammazzò con dodici coltellate. Dodici come le denunce che la ragazza aveva presentato alla Procura di Caltagirone, senza che nessuno prendesse sul serio le minacce e le aggressioni, perfino pubbliche, che subiva. Accadde a Palagonia, nel Catanese, e pochi giorni dopo Marianna avrebbe vinto la lunga battaglia giudiziaria per l’affidamento dei tre figli. L’uomo sconta una condanna a vent’anni, ma finora la vittima non aveva mai avuto vera giustizia, né in vita né in morte. Ora forse un inizio di giustizia c’è. Il 12 settembre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del cugino di Marianna, tutore dei suoi figli, che vivono con lui e la sua famiglia nelle Marche. In base a questa sentenza, la Corte di Appello di Messina non potrà più respingere per scadenza dei termini la richiesta di risarcimento ai tre ragazzi per la “negligenza inescusabile” dei pubblici ministeri che avrebbero dovuto prendere in esame le denunce della madre. Per i giudici messinesi, l’istanza andava presentata entro due anni dalla morte di Marianna. La Cassazione li costringerà a ragionare: la scadenza dei termini va calcolata «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», cioè dal giorno in cui un adulto è stato nominato loro tutore, cosa avvenuta solo nel dicembre 2010. Il rifiuto di ammettere la richiesta di indennizzo era stato solo l’ultimo affronto della giustizia di questo paese a Marianna Manduca e alla sua memoria. Prima c’era stata l’inerzia di fronte alle sue denunce, e prima ancora l’incredibile decisione di affidare i bambini al padre, nullatenente e tossicodipendente ma capace – dopo avere di fatto sequestrato i figli e impedito per mesi alla madre di vederli – di plagiarli fino a indurli a mostrarsi ostili a Marianna nelle udienze in cui si discuteva la loro sorte. La giustizia ci cascò: quando stava finalmente per rimediare, arrivarono le pugnalate di Saverio Nolfo. Alla ragazza non era bastato il coraggio di lasciare il marito dopo anni di violenze. La sua storia (raccontata da Amore criminale su Raitre e visibile su YouTube) ricalca le tante lette e ascoltate troppe volte: un amore ingenuo, l’errore di cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, l’inizio dell’incubo, la vergogna e il terrore di ribellarsi: «Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante». Sono parole di Marianna. Poi Marianna la paura seppe vincerla, ma non le bastò. L’invito giusto e ovvio che viene sempre rivolto alle donne nella sua situazione – smettete di subire, affidatevi alle istituzioni – lei lo accolse ma le istituzioni la presero a botte come il marito. Ora che finalmente la Cassazione ha cambiato il corso di questa storia, sarebbe bello che la Corte di Appello di Messina e la Presidenza del Consiglio – nei cui confronti è stata avanzata la richiesta di risarcimento per gli orfani – si arrendessero al buon senso e la dessero vinta, senza il minimo ostruzionismo, a chi si prende cura di quei ragazzi. In nome di Marianna Manduca, sette anni fa vittima di femminicidio.

La Cassazione: «Dai pm negligenza inescusabile. Ora lo Stato risarcisca i figli di Marianna», scrive “La Sicilia”. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce di donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. La vicenda si riferisce all’omicidio di Marianna Manduca - uccisa il 3 ottobre del 2007 con dodici coltellate a Palagonia – vittima delle furia del marito nonostante essa l’avesse già denunciato dodici volte alla Procura di Caltagirone le intenzioni omicide dell’ex marito Saverio Nolfo. La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce. La Cassazione ha insomma accolto la richiesta del legale dei tre adolescenti, l’ex pm antimafia Aurelio Galasso. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (che è un cugino della loro mamma che vive nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore. La Corte di Appello ora deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. La aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre bambini alla mamma dopo la separazione. L’omicida accoltellò non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ha difesa.

Marianna Manduca, geometra di 32 anni di Pagonia, Catania aveva denunciato suo marito Saverio Nolfo ben 12 volte per percosse e minacce, tutte avvenute in pubblico, ma l'autorità giudiziaria non ha mai preso provvedimenti. Poi 12 coltellate hanno posto fine alla vita della donna, scrive Michele Pinoto su “Vivere Senigallia”. Ora i suoi tre figli, di 3, 5 e 6 anni, sono affidati ad una famiglia senigalliese. La storia di Marianna Manduca ha dell'incredibile. Dopo la separazione dal marito, Saverio Nolfo, 36 anni, tossicodipendente, è iniziato un vero e proprio inferno. Nolfo l'ha picchiata più e più volte, tanto che la donna ha presentato ai carabinieri ben 12 denuncie. Il presidente del tribunale ha in un primo momento affidato i tre figli della coppia al marito,  nonostante fosse nullatenente e tossicodipendente mentre Marianna aveva un lavoro fisso. Dopo una difficile e lunga battaglia legale la donna è riuscita a riprendere i bambini in via temporanea. A pochi giorni dalla sentenza che le avrebbe affidato i figli in via definitiva e le avrebbe quindi permesso di trasferirsi lontano, a Milano dove aveva dei parenti, il marito la tampona con l'auto, per costringerla a fermarsi, poi accoltella il padre della donna ed infine la uccide con 12 coltellate. "Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato. Non appena sarà nominato il nuovo Ministro Guardasigilli chiederemo un ispezione ministeriale per sapere chi non ha svolto il proprio dovere e per intraprendere un'azione giudiziaria". Per rendersi conto dell'incubo vissuto dalla donna possiamo leggere alcune delle sue parole: "Ho riferito circostanze precise in merito all'ultima vile aggressione (non saprei definirla diversamente) perpetrata nei miei confronti culminata addirittura a colpi di sedia. Aggressione, che mi ha costretto ad abbandonare la residenza familiare per evitare ben più gravi conseguenze. In quella occasione i sanitari della guardia medica mi refertarono acchimosi in tutto il corpo. Ancora oggi porto i segni di tale aggressione. Purtroppo però quella non è stata l'unica volta che ho subito violenze. Mi ha sempre minacciato di morte se avessi raccontato a chiunque quello che mi faceva e a causa di ciò ho sempre temuto per la mia incolumità e per quella dei miei figli. Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante. Non ho mai raccontato prima di ora questi gravissimi episodi solo ed esclusivamente per paura ed anche perché mio marito minacciava ritorsioni contro i miei figli". Dopo l'omicidio Nolfo è stato arrestato ed i tre bambini sono stati affidati a Carmelo Calì, cugino di Marianna e residente a Senigallia. "Quando siamo andati a prendere i bambini, nell'ottobre del 2007, pochi giorni dopo l'omicidio di mia cugina, è stata necessaria la scorta delle forze dell'ordine, tale era il clima a Pagonia. Oggi i bambini stanno bene a casa mia, insieme ai miei due figli. Vorrei ringraziare il Comune di Senigallia per il sostegno: non è facile mantenere 5 figli, in particolare l'assessore Volpini e il dirigente Mandolini". La necessità di una scorta fa pensare che in questa storia non sia estranea la mafia, tanto che Calì ha anche oggi, a Senigallia, ha paura di ritorsioni.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro.

Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo. 

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

Vuoi fare successo? Inventati una Gomorra! Uno scrittore fallito inventa un reportage su Scampia. E, sparando "ca...te senza pietà" arriverà alla gloria. La geniale parodia di Roberto Saviano fatta da Francesco Mari, scrive Nicola Mirenzi su “Il Giornale”. Francesco Mari, La ragazza di Scampia, Fazi, 2014. Altro che il vero. È lo spruzzo di realtà, specie se criminale, che scala le classifiche, diventa bestseller e assalto ai botteghini. Ecco la messinscena che Francesco Mari fa a pezzettini con il suo romanzo d’esordio, La ragazza di Scampia (Fazi Editore, 256 pp, 16 euro), prendendosi gioco dei prodigi dello storytelling camorristico nazionale, dove la scena di Napoli è sempre acchitata per compiacere l’occhio di chi guarda, desideroso di confermarsi nell’idea che “i napoletani abitano dentro un noir a cielo aperto”. Il protagonista, Franco, tardo trentenne funzionario del comune, ha una vita noiosa. Il momento di più alta eccitazione della giornata lo raggiunge quando si ficca le cuffie dell’iPod nelle orecchie andando in ufficio. “Niente Radiohead e niente Anthony and the Johnsons da queste parti. Niente nomi giusti e gusti ricercati, di chi di musica ne capisce. Qui si attinge l’illuminazione a botte di Madonna, Jennifer Lopez e Céline Dion”. Poi c’è la depressione del lavoro: “Otto ore quotidiane di ufficio in cui faccio questo: niente”. Per arrivare alla ciliegina sulla torta delle le donne: ““È quasi un anno che non scopo, Vale!”, Chi cazzo se ne frega della crisi economica, la disoccupazione, i problemi preadolescenziali di tuo figlio”. Un monologo interiore che si conclude sempre con la stessa resa: un bacio sulle guance. Franco però scrive. Rimugina la rivincita. Il piano è convincere un editore cool di Milano, uno di quelli che ti fanno svoltare da un giorno all’altro, di pubblicare un libro. S’inventa così di sana pianta un Reportage dall’inferno di Scampia (e dove, senno?). “Come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, ho imbracciato la mia arma e ho cominciato a sparare cazzate senza pietà”. Un cantante neo-melodico che svela i segreti dei clan. Il gruppo rap impegnato nel sociale. Una donna-coraggio che perde il fratello e decide di parlare senza paura di morire ammazzata: “I killer che mi verranno a fare fuori li aspetterò qua, a casa mia”. È una storia afrodisiaca. Combacia alla perfezione con l’ideologia del romanzo criminale. Il mafia-reality-show. L’editore si convince d’aver scovato il nuovo Saviano. Firma il contratto. Pianifica di far uscire il libro insieme a un film. “Faranno il botto”, presagisce. Sale su su sino al settimo cielo. Da dove non scenderà neanche quando scopre che è tutta una sceneggiata. Era la Napoli che voleva farsi raccontare. La racconterà. “Vera, falsa, che importanza ha?”.  A sfottere godiamo: siam settentrionali.

A PALERMO, TRA NUOVI PROCURATORI E VIADOTTI NUOVI CROLLATI: ARIA NUOVA O QUASI!

Lo Voi procuratore a Palermo, critiche sulla scelta del Csm. Presa di posizione di Libera e della corrente Area sulla nomina del magistrato. Fava; "Stupore per l'assenza di incarichi direttivi", scrive “La Repubblica”. Franco Lo Voi. L'onda lunga delle divisioni interne alla magistratura sulla scelta di Franco Lo Voi a capo della procura di Palermo arriva il giorno dopo: "Ancora una volta, con il voto di Magistratura Indipendente, vince il candidato meno titolato, lontano dagli uffici giudiziari ma anche dalle indagini da tanto tempo: ancora una volta una scelta radicalmente incoerente con le tante parole pronunciate in campagna elettorale". Commenta così il coordinamento di Area, il cartello delle toghe di sinistra, la nomina da parte del Csm di Lo Voi al vertice della procura, passata con i voti di Magistratura Indipendente (la corrente più moderata dei giudici), di tutti i componenti laici e del primo presidente e del Pg della Cassazione. Secondo Area gli altri due concorrenti, Sergio Lari e Guido Lo Forte  "avevano profili obiettivamente e nettamente superiori" a Lo Voi: "entrambi con incarichi di procuratore aggiunto a Palermo, attualmente procuratori distrettuali, rispettivamente a Caltanissetta e Messina. Da sempre, entrambi, impegnati nella lotta alla mafia siciliana". Senza voler "togliere alcunchè" al nuovo procuratore, "è innegabile che è stato scelto il candidato più giovane, malgrado mai aggiunto a Palermo, malgrado mai procuratore della Repubblica, malgrado attualmente fuori ruolo da alcuni anni e per un incarico scelto dalla politica". In questa vicenda c'è anche un aspetto "inedito" su cui Area richiama l'attenzione: "la convergenza dei laici di tutte le forze politiche"," quasi che la politica avesse di fatto voluto scegliere il procuratore; e senza che vi fosse quello sforzo sino all'ultimo perorato dai consiglieri di Area per ottenere una nomina condivisa". Sul significato di questo scenario "tutti dovrebbero riflettere". Anche l'associazione Libera ha deciso di prendere pubblicamente posizione sulla scelta di Lo Voi: "Pur nel pieno rispetto del nuovo procuratore di Palermo, a cui vanno gli auguri di buon lavoro, del suo valore e della sua esperienza professionale non si può non rilevare come una magistratura divisa sugli stessi criteri di valutazione abbia finito per penalizzare candidature piu congrue sotto il profilo specifico delle competenze e delle professionalità richieste per guidare la procura di palermo, così fortemente impegnata in delicate e complesse indagini antimafia". "Auspicavamo, tramite una unanimità nel voto, - prosegue Libera - un messaggio forte e chiaro del Csm sulla lotta alla mafia oggi nel Paese e un altrettanto forte sostegno a tutti i magistrati della procura di Palermo. Quanto è accaduto, nonostante i tentativi fatti di individuare soluzioni più condivise, - conclude l'associazione - sottolinea l'urgenza di definire in maniera più rigorosa e puntuale i criteri di valutazione di scelta per ruoli così delicati e importanti". Fa sentire la sua voce anche Claudio Fava, vice presidente della commissione parlamentare Antimafia: "Siamo certi che il lavoro dei sostituti di Palermo proseguirà con il consueto e determinato impegno, e ci aspettiamo che il nuovo procuratore Lo Voi, a cui vanno i nostri auguri di buon lavoro, saprà garantire sostegno concreto a tutti i filoni d'indagine su cui quella Procura è impegnata", dice Fava. "Resta però lo stupore per la scelta del Csm che ha voluto indicare, per l'incarico più esposto e sensibile d'Italia, un magistrato che non ha mai ricoperto alcun incarico direttivo e ha molti anni di anzianità in meno degli altri due titolatissimi concorrenti, Lo Forte e Lari", prosegue Fava. "Ci auguriamo che nessuno voglia adesso interpretare questa nomina come un segno di discontinuità rispetto al lavoro svolto dalla Procura di Palermo: quel lavoro, prezioso per l'amministrazione della giustizia e per la memoria collettiva del paese, va custodito e accompagnato. A cominciare dal processo in corso sulla trattativa tra Stato e mafia", ha concluso Fava.

Palermo. Paolo Flores d’Arcais: nomina Francesco Lo Voi “ciclopicamente scandalosa”, scrive “Blitz Quotidiano”.  La decisione del Consiglio superiore della Magistratura di nominare Francesco Lo Voi capo della Procura della Repubblica di Palermo ha provocato la reazione di Paolo Flores d’Arcais, che, su Micromega, ha scritto: “Di fronte al carattere ciclopicamente scandaloso della scelta fatta dall’organo che dovrebbe assicurare l’autogoverno dei magistrati (sic!) i membri togati che hanno votato in ottemperanza ai criteri che tutti solennemente proclamano, dovrebbero trovare l’elementare coraggio di dimettersi in massa, unico modo per porre di fronte all’opinione pubblica la drammaticità di una situazione che oltretutto mette irresponsabilmente ad ulteriore repentaglio la vita dei magistrati che a Palermo la mafia la combattono davvero. Perché è stato scritto infinite volte, e ripetuto in infinite commemorazioni ufficiali e solennissime, che isolare Falcone e Borsellino che la combattevano è stato per la mafia il segnale che si poteva colpirli”. L’articolo è intitolato “In lutto per la Giustizia”. Sul sito di Micromega l’articolo di Paolo Flores d’Arcais è unito, sotto il titolo “La devastante decisione del Csm a Palermo” a quello di Marco Travaglio sul Fatto intitolato “La giustizia del gattopardo”. Per la giustizia in Italia, sostiene Paolo Flores d’Arcais, “questi sono giorni di lutto. ça Procura di Palermo è stata commissariata dal PUP (Partito Unico della Politica). Tutti i membri “laici” del Csm (tutti! Compreso quello votato, con evidente leggerezza, dal M5S, sugli altri di “sinistra” non stendiamo neppure un velo pietoso, ormai “sinistra” è sinonimo di inciucio e altri patti del Nazareno) al Csm hanno votato compatti per [Francesco] Lo Voi, privo dei requisiti solitamente indicati per un incarico dirigenziale del genere, allo scopo di impedire che due magistrati da anni diversamente impegnati contro la mafia, Lo Forte e Lari, potessero prevalere (quella di Lo Forte era la nomina praticamente ovvia, se il Csm applicasse i criteri sbandierati in ogni documento, cerimonia solenne, monito presidenziale)”. Scrive Paolo Flores d’Arcais che “i due tratti salienti della carriera del neo-procuratore Lo Voi sono il rifiuto di firmare l’appello con cui tutti magistrati antimafia chiesero, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’allontanamento del procuratore Giammanco, indimenticabile nemico di Falcone, e la nomina a un importante incarico europeo (Eurojust) da parte del governo Berlusconi. Mentre il curriculum anti-mafia (e non solo) di Lo Forte è impressionante, e assai cospicuo anche quello di Lari: ragioni inoppugnabili per NON nominarli, da parte di un establishment che NON vuole la lotta alla mafia proprio quando di tale lotta si riempie vieppiù la bocca”. La conclusione di Paolo Flores d’Arcais è cupa: “Sarebbe consolante poter scrivere che comunque ci sarà un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica, nelle grandi testate “indipendenti” che in altri momenti e per molto meno (or non è guari, non decenni fa) chiamavano a mobilitarsi in piazza, tra i colleghi dei magistrati così ingiuriosamente privati di quanto i criteri stessi proclamati dal Csm doveva loro conferire. Non accadrà nulla, probabilmente, complice anche il clima natalizio, festoso di mega-applausi per gli etici comandamenti in salsa catodica ma vilmente indigente di indignazione quando nella realtà i valori più elementari della nostra Costituzione vengono calpestati. E il sonno dell’indignazione genera mostri”.

Palermo, la nomina di Lo Voi una ventata d’aria fresca, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. La nomina di Franco Lo Voi a procuratore di Palermo ha scatenato, come era facilmente prevedibile, accese polemiche. Gli aficionados del processo sulla Trattativa, capeggiati dai miliziani de Il Fatto Quotidiano, hanno parlato di nomina viziata dalla politica che ha voluto “commissariare” la procura di Palermo. Una sorte di “vendetta” a freddo del Palazzo contro quei magistrati che hanno osato portare sul banco degli imputati pezzi importanti dello Stato. Chiamando, addirittura, a testimoniare il presidente della Repubblica. Secondo la vulgata manettara e trattativista per poter ricoprire il ruolo di procuratore capo a Palermo bisognava: – essere stati amici di Giovanni Falcone; – aver giurato obbedienza al dogma della Trattativa; – aver diretto uffici giudiziari; – non essere “giovane”. Requisiti imprescindibili di cui Lo Voi non era in possesso. Ed infatti: Alfredo Morvillo, procuratore di Termini Imerese, aveva smentito che Lo Voi e suo cognato fossero amici. Sulla non obbedienza al dogma della Trattativa le avvisaglie ci sarebbero state quando, dopo la strage di via d’Amelio, Lo Voi non firmò il documento contro Pietro Giammanco, il procuratore che aveva isolato Paolo Borsellino e quando, come sostituto pg, si rifiutò di rappresentare l’accusa al processo Andreotti. Per quanto riguarda la pregressa direzione di uffici, a differenza dei procuratori di Messina, Guido Lo Forte, e di Caltanissetta, Sergio Lari, Lo Voi non aveva mai diretto né organizzato un ufficio giudiziario,  non era mai stato né capo né aggiunto. Lo Voi ha – solo – 57 anni. Tralasciando i primi due “requisiti”, mi soffermerò sui rimanenti. Che, in effetti, possono suscitare perplessità. Andiamo con ordine. Laddove le norme sull’Ordinamento giudiziario prevedono che «le attitudini per il conferimento di incarichi direttivi sono riscontrate nella capacità di organizzare, programmare e gestire le risorse in rapporto alla necessità dell’ufficio» il Csm ha operato, per Lo Voi, una valutazione complessiva ed estensiva. Valutando in senso non recessivo il periodo prestato ad Eurojust. Valutazione legittima rientrando nell’amplissima discrezionalità di cui gode il Consiglio. Come, per altro, recentemente affermato da Napolitano. Che però crea un precedente specifico: i magistrati che hanno avuto una carriera “parallela” fuori ruolo presso organismi internazionali, ministeri, Csm (Lo Voi è stato anche membro togato al Consiglio nel 2006) non sarebbero svantaggiati quando concorrono per incarichi di prestigio rispetto ai lori colleghi che hanno invece scritto sentenze per tutta la vita. Anzi. Sul parametro anagrafico il discorso è più complesso. Per il posto di procuratore di Palermo tutti e tre i candidati erano magistrati alla settima valutazione di professionalità. Il massimo dunque. Il problema è capire quanta importanza dare al fattore anagrafico in senso “stretto”, cioè alla lettura della carta d’identità tout-court. I magistrati italiani, lo ricordo, erano quelli che andavano in pensione più tardi di tutti. Prima della riforma Madia a 75 anni. Gli uffici giudiziari di questo Paese sono retti quasi esclusivamente da ultra sessantenni. Cosa che ne fa un unicum nel mondo civilizzato. Senza fare paragoni esterofili, si pensi agli Stati Uniti dove il presidente della Corte Suprema, John Glover Roberts Jr., quando venne nominato aveva appena 50 anni, l’anomalia italiana è evidente. Il discorso dell’anzianità come criterio di scelta vale, a dire il vero, per tutta la Pubblica amministrazione. Nel comparto sicurezza e difesa, ad esempio, la scelta del comandante di Forza Armata ricade, tra i pari grado, sull’ufficiale più anziano. Il messaggio che passa in questi casi è che la nomina non sia strettamente connessa alle capacita professionali ma sia invece un “riconoscimento” a fine carriera per il servizio prestato. Il governo Renzi ha impedito – finalmente – che chi è in quiescenza nella pubblica amministrazione possa continuare a rimanere tranquillamente in servizio, svolgendo incarichi direttivi o non, con l’escamotage del richiamo o del trattenimento. C’è, però, in Italia una categoria – trasversale – di persone incapaci di staccarsi e di fermarsi, smaniose di tornare a recitare la loro parte nel teatro del mondo. Persone che faticano a comprendere quando giunge il momento di uscire di scena. Una nuova fase della vita da intendere non come una malinconica emarginazione ma come una gioia. A cui bisognerebbe pensare per tempo. E non la mattina dell’ultimo giorno di lavoro. Mi vengono, a questo punto, in mente le polemiche dei mesi scorsi suscitate dalla modifica Madia dell’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni. Vissuta come una dramma. La querelle sulla nomina del nuovo procuratore di Palermo, azzardo dunque una chiave di lettura diversa e più “terrena” rispetto a quella complottista dei seguaci della Trattativa, può essere anche il frutto di questo approccio individualistico. Per Lari è Lo Forte, diciamolo chiaramente, era l’ultima possibilità. Il treno è passato. Fra quattro anni, infatti, saranno già in pensione e non potranno più concorrere per il posto di procuratore a Palermo, per un magistrato del Sud il coronamento di una carriera, in caso Lo Voi – ci auguriamo di no per lui – non venisse confermato nell’incarico.

Verità e bugie sulla nomina di Lo Voi a procuratore di Palermo. Parla Massimo Bordin, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. Nell’analizzare la nomina di Lo Voi alla guida dell’ufficio giudiziario di Palermo, il giornalista esperto di giustizia parla di sconfitta dei fautori del processo sulla “Trattativa”...Una scelta per molti versi sorprendente, che smentisce le previsioni e rompe tradizionali equilibri. Così può essere letta la nomina, compiuta dal Consiglio superiore della magistratura, di Francesco Lo Voi alla guida della Procura di Palermo. Con 13 voti, il rappresentante italiano in Eurojust è stato preferito al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari, che ha ricevuto 7 consensi, e al suo omologo di Messina Guido Lo Forte che ne ha ottenuti 5. A creare scalpore è la ripartizione delle adesioni espresse dai componenti di Palazzo dei Marescialli. A favore di Lari e Lo Forte si sono espressi rispettivamente i gruppi togati di Area-Magistratura democratica e Unità per la Costituzione. Le due correnti più rappresentative della magistratura associata hanno mantenuto una posizione intransigente senza riuscire ad allargare il consenso sui propri candidati. Così si è creato il terreno propizio per un esito inedito. Attorno alla figura proposta della corrente togata minoritaria e conservatrice di Magistratura indipendente si sono schierati in modo compatto tutti i consiglieri laici, designati dal Parlamento. Comprese le personalità individuate dal Partito democratico. Per capire i risvolti di una scelta destinata a incidere sull’organo di auto-governo dei giudici e sull’attività di un dei più delicati uffici giudiziari del nostro paese, Formiche.net si è rivolta a Massimo Bordin, giornalista e voce storica di Radio Radicale soprattutto per la rassegna informativa del mattino “Stampa e Regime", oltre che acuto osservatore del pianeta giustizia. Consapevole che nella storia del CSM vi sono state decisioni poco felici a partire dalla bocciatura di Giovanni Falcone al ruolo di capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo nel gennaioo 1988, la firma del Foglio e di Panorama evidenzia un paradosso: “La nomina di Lo Voi è stata vista dai settori della stampa vicini alle tesi dei pubblici ministeri protagonisti dell’indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia come la cartina di tornasole di un giudizio sul processo in corso nel capoluogo siciliano”. A suo parere si tratta di un’aberrazione. Perché, osserva Bordin, il Consiglio superiore della magistratura non può duplicare una corte giudicante: “E chiunque venga designato procuratore capo può influire ben poco sulle udienze e sulle strategie portate avanti dai pm in aula”. Il giornalista spiega che i fautori dell’impianto accusatorio del processo sul “negoziato tra apparati istituzionali e boss di Cosa nostra” hanno indicato uno dei candidati alla guida della Procura come l’uomo giusto: “Affermando che una scelta contraria avrebbe sconfessato l’iniziativa della magistratura di Palermo”. Ma nessuno dei tre, ricorda l’ex direttore di Radio Radicale, ha esercitato un ruolo nel processo sulla “Trattativa”. “Tanto meno Lo Forte, che nel corso di una lunga esperienza negli uffici giudiziari della città siciliana ha rivestito funzioni di rilievo in più di una stagione. E con procuratori diversi. Fin dai tempi di Gaetano Costa, passando per Pietro Giammanco protagonista di un aspro conflitto con Paolo Borsellino, fino a Gian Carlo Caselli. È difficile dire pertanto che Lo Forte presenti una forte caratterizzazione di ‘politica giudiziaria’”. Riguardo alle capacità dei tre magistrati, Bordin rimarca come neanche Marco Travaglio abbia avanzato obiezioni. E rileva che Lo Voi ha condotto processi per mafia, mentre a Eurojust ha lavorato sulle connessioni internazionali delle organizzazioni criminali. Ai suoi occhi l’elemento chiave per la nomina va individuato nel peso delle correnti interne al Consiglio superiore: “Il criterio dei rapporti di forza tra le varie componenti della magistratura associata resta dominante. Chi è fuori dalle correnti non ha mai ricevuto un buon trattamento a Palazzo dei Marescialli, come rivela la vicenda Falcone”. Il loro ruolo rimane cruciale nella vita delle toghe. E non è stato scalfito dal preannuncio di cambiamento del meccanismo di elezione del CSM, fatto dal governo a fine agosto in occasione della presentazione delle linee-guida di riforma del pianeta giustizia. Mutamento che finora non ha trovato riscontro in un progetto di legge. Nella riunione di Palazzo dei Marescialli, però, i membri scelti dal Parlamento hanno tutti votato a favore di Lo Voi: “È un tema rilevante, che provocherà polemiche sulla presunta volontà della politica nel boicottare Lo Forte. Alcuni arriveranno a parlare di ennesimo frutto del Patto del Nazareno. Ma inviterei a riflettere sul fatto che i consiglieri ‘laici’ sono espressione dei partiti fino a un certo punto. E possono compiere scelte autonome. Anche sul senso del processo relativo alla ‘Trattativa’”. Ciò che è accaduto tra le mura del CSM, precisa il giornalista, costituisce l’ennesimo insuccesso della difesa teorica di quel processo: “È sufficiente leggere le sconfessioni provenienti da personalità progressiste come Giovanni Pellegrino, Marcelle Padovani, Giovanni Fiandaca, Salvatore Lupo. Un’altra battaglia persa, e fatta perdere all’incolpevole Lo Forte”.

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Palermo-Agrigento, viadotto crolla in una settimana. Renzi: "Il responsabile pagherà". L'inaugurazione il 23 dicembre, a Capodanno metà carreggiata sprofondata: la statale interrotta per un chilometro. Il premier:: "Ho chiesto conto all'Anas". Il ministro Lupi accusa "chi ha costruito l'opera, chi non ha controllato e chi ha dato via libera alle auto". Inchiesta per crollo colposo. Scrive Mario Pintagora su “la Repubblica”. "Il viadotto Scorciavacche 2, sulla Palermo-Agrigento, inaugurato lo scorso 23 dicembre e costato 13 milioni, è crollato. Solo per una fortunata coincidenza non si è fatto male nessuno, ma questo non cambia di una virgola le colpe dei colpevoli. Ho chiesto ad Anas il nome del responsabile: è finito il tempo degli errori che non hanno mai un padre. Pagheranno tutto". Lo scrive su Facebook il premier Matteo Renzi, in merito al crollo della variante "Scorciavacche", un nuovo tratto di un chilometro della strada statale 121 nell'ambito dei lavori di ammodernamento dell'itinerario Palermo-Lercara Friddi. L'annuncio del giro di vite segue di pochi minuti un analogo messaggio lanciato sempre dal premier su Twitter: "Viadotto Scorciavacche, Palermo. Inaugurato il 23 dicembre, crolla in 10 giorni. Ho chiesto a Anas il nome del responsabile. Pagherà tutto. #finitalafesta". Interviene anche il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Per lui "il crollo del viadotto sulla Palermo-Agrigento, è un fatto inaudito e inaccettabile. Ho immediatamente chiesto all'Anas - dice Lupi - una relazione dettagliata sull'appalto, sui lavori e anche sulla commissione di collaudo". Prosegue il ministro dei Trasporti: "C'è chi l'ha costruito male, chi non ha controllato che i lavori fossero fatti a dovere e chi ha dato il via libera alla circolazione". Ora "ogni negligenza p irresponsabilità in tutto questo non verrà assolutamente giustificata". È il viadotto "Scorciavacche 2", sulla Palermo-Agrigento, quello venuto giù provocando l'ira del premier e del suo collega di governo. Come scritto stamattina da Repubblica nell'edizione siciliana, metà della carreggiata è sprofondata e la restante parte presenta una profonda spaccatura. Per fortuna nessun mezzo transitava quando è avvenuto il collasso del selciato. E' scattata la chiusura al traffico della statale 121 "Catanese", nel tratto compreso tra il chilometro 226 e il chilometro 227, nei pressi di Mezzojuso. Le auto vengono deviate sulla strada provinciale 55. L'Anas ha subito contestato al contraente generale cui è affidata l'esecuzione dell'opera il difetto di esecuzione, disponendo l'installazione di un sistema di monitoraggio di tutte le strutture su cui si regge la strada e ordinando il ripristino della carreggiata nel più breve tempo possibile. I lavori sono stati realizzati dalla Bolognetta Scpa, un raggruppamento di imprese tra Cmc di Ravenna, Tecnis e Ccc. La Tecnis è l'azienda che dovrebbe costruire, fra l'altro, l'anello ferroviario di Palermo. Alla guida del contraente generale il capo progetto Pierfrancesco Paglini, coadiuvato da Davide Tironi, dal direttore tecnico Giuseppe Buzzanca e da una squadra di professionisti. Dal canto suo l'Anas precisa che il cedimento non ha riguardato il viadotto ma il "tratto di rilevato di accesso all'opera". "Il 30 dicembre - si legge in una nota - il personale tecnico Anas intervenuto sul posto, avendo accertato un avvallamento del piano stradale, decise di procedere in via cautelativa e preventiva alla chiusura della strada tra il km 226,040 e il km 227,040, in località Mezzojuso, in provincia di Palermo, ripristinando la deviazione sulla SP 55 bis". "Nel pomeriggio del 30 dicembre, sulla base di quanto accertato dai tecnici della società  -  ha dichiarato il Presidente dell'Anas, Pietro Ciucci - e tenuto conto del possibile evolversi del movimento del corpo stradale che avrebbe potuto determinare il collasso del rilevato, ho immediatamente disposto la chiusura preventiva e cautelare della variante. Ciò ha evitato ogni eventuale rischio per gli utenti." L'Anas ha aperto un'inchiesta per accertare le eventuali responsabilità della ditta costruttrice e del direttore dei lavori, che aveva autorizzato l'agibilità provvisoria, "riservandosi di avviare nei loro confronti un'azione legale". Nei giorni successivi al cedimento del piano viabile sostiene l'Anas, la ditta si è attivata con i primi interventi di ripristino, visto che la messa in sicurezza era stata già eseguita nei giorni precedenti al manifestarsi del cedimento. Tutti gli interventi di ripristino sono a carico della ditta costruttrice, senza alcun onere per l'Anas. Arriva anche la replica della ditta costruttrice: "Si è verificato un cedimento del corpo stradale in rilevato, per una tratta di circa 40-50 metri, che ha indotto il Contraente Generale a riportare il 29 dicembre scorso il traffico sulla SP 55, anch’essa attualmente strada di cantiere ed oggetto di lavori in corso di esecuzione. Il cedimento della sovrastruttura stradale è riconducibile ad un cedimento del terreno di fondazione del corpo stradale con innesco di uno scivolamento verso valle di parte del rilevato, si tratta quindi di movimento di roto-traslazione. Nessuno dei sopracitati fenomeni, cedimento in fondazione e scivolamento verso valle, interessa le nuove opere costituite dai viadotti “Scorciavacche1” e “Scorciavacche2”. La procura di Termini ha sequestrato l'area e ha aperto un'inchiesta per crollo colposo. Domani sarà affidata una consulenza tecnica per porre alcuni quesiti ai periti. Sulla vicenda interviene anche il leader della Lega Nord Matteo Salvini, anch'egli con un tweet: "Qualcuno dovrebbe pagare".  L'apertura della variante "Scorciavacche", costata all'Anas 13 milioni di euro, era avvenuta il 23 dicembre, in anticipo di tre mesi rispetto ai tempi previsti, con il pubblico plauso del presidente dell'Anas, Pietro Ciucci: "È un passo avanti importante verso la realizzazione dell'intero itinerario, che è strategico per l'intera Isola, perché costituisce l'unico collegamento diretto tra le province di Palermo e Agrigento".

Viadotto crollato, la magistratura sequestra gli atti. Il procuratore di Termini Imerese Alfredo Morvillo dispone la requisizione degli atti relativi all'appalto. In corso le prime verifiche tecniche, continua “la Repubblica”. La procura di Termini Imerese, che coordina l'inchiesta sul crollo del viadotto Scorciavacche, sulla Statale Palermo-Agrigento, avvenuto a pochi giorni dalla sua inaugurazione, disporrà oggi il sequestro "di tutta la documentazione relativa ai lavori". Lo annuncia il procuratore capo Alfredo Morvillo, che si occupa della vicenda in prima persona. "Quanto accaduto è un fatto molto grave - dice Morvillo - Adesso bisogna vedere cosa è successo, ma per ora possiamo fare solo ipotesi". Al premier Matteo Renzi, che ieri in un tweet ha chiesto il nome del responsabile, il procuratore Morvillo (fratello di Francesca Morvillo, morta con Giovanni Falcone nella strage di Capaci), dice: "Noi assicuriamo, come Autorità giudiziaria, che la nostra parte di competenza è già in movimento. Abbiamo già disposto il sequestro dell'area e oggi ci accingiamo a quelle attività di indagine indispensabili, dal punto di vista documentale, con il sequestro dei documenti sulla realizzazione dell'opera pubblica". E spiega: "Ci accingiamo al sequestro di tutta la documentazione e faremo degli accertamenti tecnici sul posto, con un collegio di esperti che nomineremo a breve". Era stato consegnato in anticipo di diversi mesi rispetto alla data prevista per il suo completamento, ma è crollato dopo appena una decina di giorni dall'apertura. Si tratta del viadotto Scorciavacche, lungo lo scorrimento Palermo-Agrigento, venuto giù a Capodanno all'altezza del comune di Mezzojuso ad una quarantina di chilometri dal capoluogo siciliano. Fortunatamente il cedimento non ha causato vittime né feriti, in una strada che ha già lasciato sull'asfalto negli anni molte vite, grazie al fatto che come sottolineato dall'Anas, l'area era già stata interdetta alle auto subito dopo i primi segnali di cedimento. Appena 6 mesi fa un altro crollo aveva riguardato la statale 626, in provincia di Agrigento, con quattro automobilisti che si salvarono miracolosamente dal cedimento della sopraelevata sulla quale stavano passando. Intanto, mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi, via Twitter chiede il nome del responsabile di quanto accaduto a Capodanno sulla Palermo-Agrigento, la procura di Termini Imerese ha aperto un'inchiesta. Fino a questo momento non ci sono iscritti nel registro degli indagati, ma i primi avvisi di garanzia potrebbero scattare già a breve. "Dobbiamo fare delle verifiche preliminari - dice ancora Morvillo - per eseguire degli accertamenti tecnici. Se si tratta di atti irripetibili allora, a garanzia delle persone interessate, dovranno scattare gli avvisi di garanzia. Se invece si tratta di attività tecniche suscettibili di essere ripetute, non abbiamo bisogno di fare scattare i meccanismi previsti per atti irripetibili. Quando si tratta di atti irrepetibili, la legge prevede che l'interessato deve essere garantito. Altrimenti non scattano i meccanismi e non abbiamo bisogno di iscrivere nessuno e notificare avvisi di garanzia". La procura indagherà in particolare sui materiali utilizzati dalle ditte che hanno lavorato al lotto 2A delle opere che riguardano 34 km di asfalto, da Bolognetta fino ai pressi di Palermo. Nel mirino dei magistrati sono le imprese che hanno eseguito i lavori. "Per ora stiamo facendo degli accertamenti preliminari di carattere tecnico, a partire dal sequestro dell'area dei lavori - dice ancora Morvillo all'Adnkronos - Ci siamo mossi subito e adesso dobbiamo individuare un collegio di periti a cui affidare l'incarico di verificare le cause di questo crollo, da un punto di vista geologico, ma anche i criteri costruttivi, al fine di individuare eventuali reati penali. Il primo passo è individuare il collegio di periti a cui affidare l'incarico. Bisogna accertare le cause del crollo, se sono cause naturali, nelle quali non si individua una responsabilità a carico di nessuno, e poi bisognerà vedere da un punto di amministrativo come è la situazione. Se ci sono cause addebitabili a comportamenti di negligenza, imperizia e imprudenza nascerà un procedimenti penale. Per noi è preliminare un accertamento tecnico. I tecnici ci devono dire perché questa strada è crollata, partiamo da lì. Dobbiamo acquisire tutta la documentazione relativa agli appalti e ai collaudi e a tutti gli aspetti che possono essere di rilievo in questa vicenda. Se c'è stato qualcuno che ha attestato che i lavori erano stati seguiti secondo i criteri previsti dal capitolato". Morvillo spiega ancora che "c'è da fare far una verifica documentale sia sul posto che una verifica tecnica. Il che avverrà, e questo lo possiamo assicurare, nel più breve tempo possibile. Il tempo materiale di sequestrare tutta la documentazione e individuare il collegio di periti all'altezza della situazione". Morvillo non sa ancora da chi sarà composto il collegio di tecnici esperti: "Intanto contatteremo l'Università per avere delle risposte rassicuranti. Dobbiamo vedere con l'Università e poi nell'ambito dei professionisti privati. Cercheremo di acquisire preliminarmente la notizia su quali sono le persone in grado di svolgere questo incarico e rispondere in maniera adeguata". Sembra che il viadotto non sia ancora neppure stato collaudato: "Fra le cose che dobbiamo acquisire c'è la documentazione e pure il collaudo, che come patrimonio conoscitivo è un momento importante, ci dice se l'opera è in grado di funzionare - spiega ancora Morvillo - La prima cosa che si va a guardare è il collaudo, per vedere se c'è qualcosa che non va. Dobbiamo muoverci sia dal punto di vista documentale che tecnico con sopralluoghi per fare accertamenti specifici per vedere se è stato lo smottamento del terreno e se la zona è stata studiata. Ci sono tanti aspetti che ci devono illustrare i tecnici. Intanto ci siamo messi subito al lavoro".

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

MAFIA VECCHIA E NUOVA……

Mafia, il pentito Spatuzza: “Ho ucciso 40 persone, chiedo perdono”, scrive “La Stampa”. Durante un’udienza nel carcere di Milano: «Abbiamo fatto cose orribili». Ha ripercorso in aula la pianificazione di alcuni degli attentati compiuti da Cosa Nostra che insanguinarono l’Italia nei primi anni ’90, come la strage di via Palestro a Milano, le cui vittime furono «incidenti di percorso», chiedendo «perdono» per la «quarantina di omicidi» commessi come killer al servizio dei boss palermitani Filippo e Giuseppe Graviano. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza oggi è stato ascoltato in video collegamento dal carcere nel corso dell’udienza del processo a carico di Marcello Tutino, il presunto basista della strage di via Palestro del 27 luglio 1993, in cui morirono cinque persone e altre 12 rimasero ferite per l’esplosione di un’autobomba davanti al Padiglione di arte contemporanea di Milano. «Abbiamo fatto cose orribili - ha spiegato Spatuzza, citato come teste dal pm milanese Paolo Storari - accusare Marcello Tutino è doloroso ma per me è un onore essere qui a testimoniare». Rispondendo a una domanda del giudice Guido Piffer, presidente della prima Corte d’Assise di Milano, sui motivi della sua decisione di diventare un pentito, Spatuzza ha spiegato di aver deciso di collaborare «per fare giustizia». «Ora quando vado a letto mi sento onesto e in pace perché tutto quello che posso fare per la legge lo sto facendo - ha aggiunto - poi mi metto nelle mani di Dio. Ho partecipato a cose mostruose e abbiamo venduto l’anima a Satana, mi sto liberando del male che portavo dentro». Il testimone ha spiegato quindi che continuerà sempre a «chiedere perdono» per le vittime delle stragi di mafia tra cui «due piccoli angeli», le sorelline Nencioni, morte nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze. Secondo quanto ha riferito Spatuzza, le vittime della strage di via Palestro furono quindi «incidenti di percorso» perché «l’obiettivo erano i monumenti, non le vite». Il killer, principale accusatore di Tutino, rispondendo alle domande del pm ha ricostruito la progettazione delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, e dell’attentato di via Fauro a Roma contro il presentatore Maurizio Costanzo, che «aveva preso posizione contro Cosa Nostra». Si è soffermato anche sulla pianificazione del fallito attentato dinamitardo allo Stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994. «Abbiamo mescolato all’esplosivo tondini di ferro - ha raccontato Spatuzza - perché ci hanno detto che avremmo dovuto fare più male possibile. La direttiva era quella di uccidere oltre 100 carabinieri». Spatuzza ha poi confermato le sue dichiarazioni sul ruolo che i fratelli Vittorio e Marcello Tutino avrebbero svolto nella strage di via Palestro. «Siamo cresciuti insieme - ha raccontato -, cristianamente li considero ancora miei fratelli, con cui ho condiviso delle scelte sbagliate». Stando alla ricostruzione di Spatuzza, Marcello Tutino, imputato per strage, sarebbe stato scelto come basista «perché conosceva Milano». Avrebbe avuto così la possibilità di «riabilitarsi» di fronte a Cosa Nostra dopo che aveva fatto sparire un carico di sigarette a Palermo intascandosi i soldi.  L’uomo, dopo essere andato in Stazione Centrale a prendere Spatuzza (poi rientrato a Roma e non presente alla strage), avrebbe rubato in zona Bovisa la Fiat Uno saltata in aria alle 23 di quel giorno. A guidare l’auto fino a via Palestro e a innescare l’esplosione sarebbe stato il fratello dell’imputato, Vittorio. «Doveva accendere la miccia ma aveva paura di fallire perché era la prima volta che lo faceva - ha concluso -, così abbiamo lasciato una miccia più lunga per dargli il tempo di allontanarsi».

Vi dico chi sono i nuovi boss". Il primo verbale del pentito Zarcone, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Il primo verbale dell'ex capomafia di Bagheria, Antonino Zarcone, è datato 29 settembre 2014. Parla di pizzo, armi, summit e dell'asse con i boss palermitani. Pizzo, armi, summit e contatti costanti con i boss palermitani. Il primo verbale di Antonino Zarcone è datato 29 settembre. La sua collaborazione con la giustizia è iniziata una manciata di giorni fa. Diciotto pagine, per lo più omissate, dalle quali emerge con chiarezza lo spessore del collaboratore di giustizia di Bagheria. Le sue dichiarazioni confermano che anche la Cosa nostra palermitana ne sarà travolta. Il capomafia vuota il sacco perché, dice, vuole un futuro diverso, per se stesso e per chi gli sta vicino. Vuole liberarsi del peso che porta dentro. Il suo racconto comincia con la conferma di avere avuto “un ruolo direttivo nel mandamento di Bagheria nel 2011”. Nella popolosa cittadina alle porte di Palermo comandava un triumvirato: “La co-reggenza fra me, Messicati Vitale Antonio e Di Salvo Giacinto consisteva in una divisione di ruoli”. Il suo era particolarmente delicato: “Io ero incaricato dei rapporti con i palermitani, Messicati Vitale si occupava dei contatti con i mandamenti fuori Palermo (Misilmeri etc) e Di Salvo delle estorsioni e dei lavori all'interno della famiglia di Bagheria. Il vero capo, però, era Nicola Greco che si relazionava con Di Salvo Giacinto”. Le citazioni, dunque, confermerebbero il ruolo apicale che i carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo hanno attribuito a ciascuno dei personaggi tirati in ballo da Zarcone. Sono tutti in carcere, tranne Messicati Vitale, tornato libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo essere stato arrestato a Bali. Zarcone fa alcuni cenni sulle estorsioni subite da due imprenditori edili: “Io autorizzai Pietro Liga a portare avanti la richiesta estorsiva ma poi, non avendo notizie, chiesi a Daniele Lauria informazioni e appresi che l'imprenditore era nelle sue mani e che aveva già pagato il pizzo a Pietro Liga”. E qui spunta il primo contatto con la mafia palermitana, visto che Lauria viene considerato affiliato alla famiglia di Palermo Centro, mandamento di Porta Nuova. Pizzo e tragedie. Perché “Liga negò l'attività estorsiva, camuffandola con un prestito personale. Riferì allora a Lauria che l'imprenditore non era a posto e questi chiuse l'estorsione, tramite Paolo Suleman, a 4 mila euro all'anno. Suleman, però, non portò il denaro e successivamente tramite Michele Armanno si ottennero 4000 mila euro per la messa a posto. Ancora dopo la responsabilità della messa posto transitò nelle mani di Franco Lombardo”. Ed ecco altri due nomi pesanti della mafia palermitana: Armanno è considerato il capo mandamento di Pagliarelli, ai cui ordini rispondeva lo stesso Suleman, indicato al vertice della famiglia di corso Calatafimi. La seconda estorsione di cui parla Zarcone “fu chiusa con 30 mila euro per la messa a posto e 8 mila euro di mediazione per Vincenzo Urso. I soldi mi furono recapitati in più tranches, prima 8 mila euro, poi dieci mila, successivamente altri dieci mila. I soldi della messa a posto confluirono nella cassa di Bagheria e furono utilizzati per il mantenimento dei familiari di Pino Scaduto, all'epoca detenuto”. Con Scaduto, un tempo capomafia di Bagheria, si apre l'elenco di personaggi sui quali Zarcone risponde in maniera secca. Una girandola di nomi:“Salvatore Giuseppe Bruno era vicino a Sergio Flamia (anche lui oggi è un collaboratore di giustizia ndr) ed era a sua disposizione anche se con lui non ha avuto rapporti diretti. Bruno si occupava di sale giochi e gli interessi in tale settore erano curati da Flamia”; “Cirrincione Michele è interno a Cosa nostra, famiglia di Villabate, a disposizione di Lauricella Salvatore, nel settore delle estorsioni”; “Gagliano Vincenzo era vicino a Sergio Flamia e il Flamia era solito utilizzare il supermercato del Gagliano per incontri. Il Gagliano si metteva a disposizione anche con me per organizzare appuntamenti sia miei che di Di Salvo”; “Girgenti Silvestro è un mio caro amico. Ho usufruito del suo locale per effettuare degli appuntamenti. Non ho mai incaricato Girgenti di commettere reati”; “Umberto Guagliardo è un ragazzo a disposizione di Franco Lombardo... nel settore dei furti, delle rapine, delle estorsioni”.; “Rosario La Mantia è un personaggio vicino a Cosa nostra già ai tempi di Pino Scaduto. È riuscito a ottenere, attraverso l'imposizione di Pino Scaduto e Pietro Granà, un lavoro in un cantiere. Ha gestito anche una parte in una vicenda estorsiva. Non ha avuto un ruolo formale in Cosa nostra anche sera vicino a molti elementi al vertice dell'organizzazione”; "Pietro Liga non è uomo d'onore anche se fa parte di Cosa nostra con compito di esattore del pizzo”; “Franco Lombardo fu affiliato da me, Gino Di Salvo e Tonino Messicati Vitale. Il suo padrino fu Gino Di Salvo”; “Su Driss Mozdahir riferisco che si occupava di furti e rapine ed era usato dalla famiglia mafiosa per controllare il territorio e comunicare i movimenti delle forze dell'ordine”; “Salvatore Lauricella è un uomo d'onore della famiglia di Villabate, molto legato a Messicati Vitale. Si occupava di estorsioni e fungeva da tramite per contati con uomini d'onore di Palermo”. Infine cita due personaggi, anche questi considerati legati al clan di Bagheria e già in cella. Dichiarazioni che aprono ulteriori spunti di riflessione. I mafiosi hanno continuato ad incontrarsi senza soluzione di continuità: “Vincenzo Graniti è a me molto vicino e l'ho utilizzato per accompagnarmi agli incontri di mafia in quanto non attenzionato dalle forze di polizia. Ho incaricato Graniti di custodire delle armi per mio conto, che questi ha poi riconsegnato a Sergio Flamia. Tali armi erano più che altro pistole (circa 10) che ho reperito per il tramite di Messicati Vitale Antonino e Pietro Lo Coco”. I boss bagheresi non solo si incontravano, ma erano pronti a sparare. E poi conferma che gli equilibri e le gerarchie dei clan mafiosi vengono decise dall'alto: “Di Salvo Giacinto, dopo l'arresto di Pino Scaduto, ha comunicato di essere stato incaricato di gestire la famiglia di Bagheria, coordinandosi con Giovanni Trapani di Ficarazzi. Con lui mi sono coordinato successivamente e Di Salvo ha sempre tenuto la cassa del mandamento”. Qualcuno, dunque, aveva deciso che Di Salvo doveva diventare il nuoco capo della famiglai di Bagheria.

La mafia in Sicilia, la nuova mappa: le famiglie, i clan, i mandamenti per Provincia, scrive Paolo Borrometi su “La Spia”. In attesa di “acciuffare” il super latitante Matteo Messina Denaro, il quadro che viene fuori della mafia in Sicilia è che la stessa sia “viva e vegeta” e vada combattuta, giorno per giorno. Anzi “la strategia silente che ha caratterizzato gli ultimi anni Cosa Nostra sembra finita. Bisogna dunque prepararsi a contrastare possibile derive di scontro”. È la Direzione investigativa antimafia a sottolinearlo nella relazione al Parlamento. La Direzione investigativa antimafia rileva “segnali che, sembrano propendere verso derive di scontro ancora da decifrare”. La mafia trasforma gli assetti e ”appare protesa a recuperare il proprio predominio sul territorio”. Centinaia di clan e famiglie mafiose sparse lungo il territorio nazionale si spartiscono la grande torta dei più pericolosi affari illeciti: lucrano sugli appalti pubblici, organizzano traffici di stupefacenti, incassano tangenti da commercianti e imprenditori intimiditi o minacciati. La grande criminalità organizzata (sia essa Cosa Nostra‘ndrangheta o camorra) continua a macinare enormi profitti a discapito di crescita, sviluppo e libertà individuali. Servendosi talvolta anche delle infiltrazioni nella pubblica amministrazione.

La mappa delle “famiglie” e dei clan per singola provincia

PALERMO – Per quanto riguarda la “Provincia delle Province”, la Dia afferma che «Cosa Nostra è tuttora alla ricerca di nuovi equilibri e appare protesa a recuperare il predominio sul territorio». In questo senso si rivela che «a fronte del basso profilo adottato da tempo per eludere l’attenzione investigativa» si sta verificando ora «un innalzamento del livello di ‘sfida’» anche «attraverso ripetuti atti intimidatori e minacce nei confronti di esponenti della magistratura siciliana e delle istituzioni locali, nonché di rappresentanti di organizzazioni pubbliche e private impegnati, a vario titolo, nella lotta antimafia». Nella provincia di Palermo il territorio continua ad essere suddiviso in 15 mandamenti, 8 dei quali in città, e 80 famiglie, di cui 34 in centro. A Palermo risulta, nell’ultimo periodo, che le famiglie, anche di diversi mandamenti, abbiano abbandonato le proprie rivalità, sull’altare degli interessi comuni. La città di Palermo rappresenta il centro di smistamento e di rifornimento per l’intera regione. Per la Direzione Investigativa Antimafia, la necessità di Cosa Nostra di proiettarsi fuori regione ha indotto l’intera organizzazione a concorrere con altri gruppi criminali, come la ‘ndrangheta, camorra o Sacra corona unita per trovare appoggi fondamentali. Al primo posto, per guadagni “facili”, rimane il traffico di droga ma l’attività estorsiva è sempre molto praticata in provincia.

AGRIGENTO –Cosa Nostra agrigentina conserva un ruolo importantissimo nella gerarchia siciliana anche in virtù dei consolidati rapporti  con le famiglie mafiose presenti all’estero, come il ramo canadese della famiglia Rizzuto. La ripartizione in mandamenti e famiglie di fine 2013 rispecchia quella già emersa nel primo semestre dello stesso anno.

TRAPANI – Il “regno” del boss Matteo Messina Denaro. Secondo la Dia a Trapani Cosa Nostra mantiene un assetto stabile, confermando la struttura verticistica con impostazioni strategiche unitarie e una suddivisione del territorio in 4 mandamenti, di cui fanno parte 17 famiglie. Settori d’interesse di Cosa Nostra trapanese sono in particolare il traffico di stupefacenti e di armi, l’infiltrazione nel sistema degli appalti pubblici, la grande distribuzione agroalimentare, gli insediamenti turistico-alberghieri e le energie alternative.

CALTANISSETTA – Nell’area Nissena si continua a registrare la connivenza tra Cosa Nostra e la Stidda. I gruppi criminali mafiosi si distribuiscono in 4 mandamenti. Le principali fonti di approviggionamento sono le estorsioni e l’usura, ma persistono lo spaccio ed il traffico di sostanze stupefacenti attraverso personaggi e canali attivi in altri territori.

ENNA – Enna, secondo il rapporto della Dia, non ha “personaggi carismatici in libertà”, così “si continua a sentire l’influsso di gruppi mafiosi di altre province, soprattutto catanesi e nisseni, che da sempre, colmano il vuoto di potere nel capoluogo.

CATANIA –Catania città e provincia è, probabilmente, fra le situazioni più complesse. La realtà si registra come poliedrica, per l’elevato grado di instabilità che caratterizza la maggior parte dei gruppi mafiosi, in particolare nel capoluogo. I sodalizi criminali in sostanza si mostrano restii ad accettare un inquadramento gerarchico. La mappa dei clan continua ad essere la medesima. Da una parte ci sono il clan Santapaola-ErcolanoMazzeo e Laudani, dall’altra il clan Cappello-Bonaccorsi, che controlla in linea di massima, i reduci dei clan Sciuto, Pillera e Cursoti.

SIRACUSA – A Siracusa, così come riferito in precedenza per Enna, Cosa Nostra risente dell’influenza dei clan di altre province, in particolare quella esercitata da potenti referenti dell’organizzazione criminale catanese. La recente scoperta di armi nella disponibilità dei clan e recenti fatti di sangue, inoltre, lasciano ritenere che i rapporti tra i gruppi mafiosi possa degenerare verso una manifesta belligeranza.

RAGUSA – “Nello scenario criminale – si legge nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia – Vittoria costituisce un territorio sul quale si misurano famiglie di diverso spessore criminale, quali promanazioni dei clan di Catania e Caltanissetta. È stata confermata la piena operatività del clan PISCOPO, protagonista di sistematiche estorsioni in danno degli imprenditori agricoli, costretti a subire una illecita concorrenza e un’abusiva attività di vigilanza”. E poi ancora: “Forti sono gli influssi criminali – si legge – esercitati dai sodalizi nisseni, con particolare riguardo a quelli della vicina Gela. Le organizzazioni delinquenziali della città sarebbero riuscite a conservare un alto grado di autonomia operativa”. Poi si parla delle estorsioni. “Il fenomeno estortivo colpisce le attività commerciali e prevalentemente le aziende agricole, settore economico trainante insieme a quello della pastorizia”.

MESSINA – In ultimo troviamo  il territorio di Messina che, come nel caso di Enna e Siracusa, subisce l’influenza sia dei gruppi mafiosi di Palermo che di Catania. Messina, però, vive una doppia presenza mafiosa, per la vicinanza alla Calabria che genera l’influsso della ‘ndrangheta, che si manifesta, in particolare nell’aggregato urbano del capoluogo, attraverso la gestione di attività illecite e l’infiltrazione in quelle lecite. In questo caso i maggiori proventi dei gruppi criminali provengono da estorsioni e infiltrazione negli appalti, nonché dalla gestione degli stupefacenti.

Il generale Mori dovrà ricominciare ad aspettare giustizia. Il nuovo papello si chiama “protocollo farfalla”, scrive Emanuele Boffi su “Tempi”. Quando partecipò all’incontro di Tempi, l’ex capo dei servizi segreti l’aveva detto: «Il più grave errore della mia vita è stato arrestare Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal ’94 che sono sotto processo, mediatico e giudiziario». Nel settembre 2012 il generale Mario Mori partecipò a un incontro organizzato da Tempi, “Aspettando giustizia”. E la giustizia arrivò nel luglio 2013 quando la IV sezione penale del tribunale di Palermo assolse lui e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, per aver impedito la cattura del boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995. Con quell’assoluzione si concluse un processo durato cinque anni e cento udienze, la maggior parte delle quali Mori visse in aula. Da “servitore dello Stato”, quale si è sempre definito, l’ex capo dei nostri servizi segreti ha sempre sentito come proprio dovere essere presente in tribunale. Rare, invece, sono state le sue apparizioni in tv e sui giornali. In quei cinque anni non ha fatto il giro delle sette chiese dei talk show politici, ha centellinato le sue interviste, ha evitato le apparizioni in pubblico. Quando lo fece – come nel caso dell’incontro di Tempi – intervenne sempre in modo pacato, poggiando le sue parole su dati di fatto, non su “ricostruzioni”. Fu in quella occasione che, con amara ironia, Mori disse: «Io ho fatto tanti errori nella mia vita, ma quello più grande l’ho commesso quando un giorno i militari da me diretti hanno arrestato Totò Riina. E questo non mi è mai stato perdonato perché è dal 1994 che io sono sotto processo, mediatico e giudiziario. Scatenando l’ira dei miei avvocati ho rifiutato la prescrizione perché io non mi voglio difendere dal processo, ma nel processo e come uomo delle istituzioni non voglio rifiutare questa giustizia, anche se a volte è malagiustizia». Ora l’ex capo del Sisde dovrà ricominciare ad “aspettare giustizia”. Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha chiesto di riaprire la fase dibattimentale avendo raccolto nuovi elementi probatori a carico degli ex alti ufficiali. La nuova suggestione riguarda il cosiddetto “protocollo farfalla”, un accordo segreto stipulato nel 2003-04 tra gli uomini dei servizi segreti e il Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) per gestire le informazioni rilasciate dai mafiosi detenuti in regime di 41 bis. In cambio di queste, fa intendere la procura, sarebbero stati fatti favori e rilasciate somme di denaro ai padrini. Da parte sua, il generale non ha commentato la nuova mossa della procura, mantenendo lo stile che fino ad ora ha contraddistinto la sua condotta processuale: «Ho grande rispetto per lo Stato e le sue istituzioni – ha detto –. A differenza di altri non voglio dare spettacolo, mi difenderò nelle aule di tribunale». Si vedrà. E si vedrà quanto ancora dovrà aspettare il generale per “avere giustizia”. Intanto, però, ha ricominciato a suonare la banda che conosciamo e così il nuovo papello, il “protocollo farfalla”, è diventato il centro gravitazionale attorno cui far ruotare tutti i misteri italiani. Ovviamente c’entrano i servizi segreti deviati, la massoneria, la P2, la trattativa Stato-Mafia, le stragi del ’92-’93 e scusateci se abbiamo dimenticato qualcosa. Secondo Scarpinato, Mori avrebbe «sistematicamente disatteso» i suoi «doveri istituzionali» e cioè di informare la magistratura delle sue mosse. È proprio il motivo che disse Mori nell’incontro di Tempi e che qui volgarizziamo: poiché ho arrestato io Riina e non loro, ora me la fanno pagare. E aggiungiamo: forse il generale aveva anche le sue buone ragioni per portare avanti certe iniziative all’oscuro di tutti. Non era forse il capo dei servizi “segreti”? Non era stata forse una fuga di notizie a impedirgli la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro? Ma c’è ancora qualcosa da aggiungere. In aula, Scarpinato ha ripercorso la carriera di Mori a partire dagli anni Settanta. Dico: dagli anni Settanta. Come hanno detto i legali di Mori dopo la richiesta del pg: «È un tentativo di rivisitare la storia d’Italia». L’ennesimo tentativo che, in nome della “trasparenza” («fare luce», dicono) vorrebbe che i servizi e il segreto di Stato, semplicemente, non siano più tali, ma sottoposti al «controllo di legalità» da parte di un giudice: l’unico, l’illuminato, a sapere cosa andava fatto in quella determinata situazione. E così, intorno alla “rivisitazione” della storia italiana germogliano copiosi conti in banca, carriere politiche, giudiziarie e persino cinematografiche di chi si proclama aedo e unico cantore di quella “riscrittura”. Ma bisogna sempre ricordare che il metodo più astuto per occultare qualcosa non è nasconderlo. Ma è lasciarlo sotto gli occhi di tutti, inondando la scena di una luce accecante.

Qui l'articolo riportato da "Menti Informatiche: Mori, Farfalla e il segreto di Berlusconi sulle carceri di Valeria Pacelli su “Il Fatto Quotidiano”. Mentre i magistrati non erano stati informati, ho ragione di pensare che sia stato ben informato il presidente del Consiglio dell’epo – ca, Silvio Berlusconi”. Pochi giorni fa, il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava aggiungeva un dettaglio su quella che lui stesso ha definito la “Gladio nelle carceri”, ossia l’accordo tra servizi (Sisde) e direzione delle carceri (Dap) per gestire le informazioni fornite da alcuni mafiosi. I nomi dei boss che hanno parlato con gli 007 sono finiti nel Protocollo Farfalla, che in realtà è stato trovato anni fa, nel 2006, durante una perquisizione al Sisde, disposta dai pm romani Maria Monteleone e Erminio Amelio che stavano indagano su Salvatore Leopardi, il magistrato di Palermo finito sotto inchiesta per aver rivelato le informazioni di un pentito al Sisde. Nell’ambito di questo processo vengono sentiti alcuni 007, proprio per capire il circuito delle informazioni, ed è in questa fase che forse si concentrano i sospetti del vice presidente della commissione Antimafia: perché a confermare il segreto di Stato, opposto da uno 007 che avrebbe potuto chiarire questo aspetto, è stato proprio il governo Berlusconi il 7 marzo 2011. PER CAPIRE QUESTA STORIA, bisogna fare un passo indietro, ripercorrere le fasi del processo a Leopardi (ancora in corso in primo grado) e ricostruire il contesto. Quando i pm romani trovano il protocollo Farfalla infatti è il 2006, anno di insediamento del II governo Prodi che resta in carica fino all’8 maggio 2008, quando ritorna Berlusconi. Con Prodi vengono rinnovati i vertici dei servizi segreti: al posto di Nicolò Pollari al Sismi viene chiamato l’ammiraglio Bruno Branciforte; mentre al Sisde lascia Mario Mori, direttore dal 2001, sostituito da Franco Gabrielli. Gli inquirenti di Piazzale Clodio indagavano dopo le rivelazioni di Antonio Cutolo, condannato all’ergastolo e detenuto nel carcere di Sulmona. Cutolo, detto Tonino ‘mulletta , sosteneva di avere dettagli per arrestare Edoardo Contini, considerato il vertice dell’omonimo clan camorristico, e di aver fornito alcune informazioni a due agenti della polizia penitenziaria che a loro volta avrebbero riferito al direttore del carcere abruzzese, all’epoca Giacinto Siciliano. Questi avrebbe informato il capo del servizio ispettivo del Dap di quegli anni, appunto Leopardi, che a sua volta riferì al Sisde. Questa “catena di Sant’Antonio” è costata a Leopardi e ad altri l’accusa di falsità ideologica e omessa denuncia di reato, ma il processo non è ancora conclusa. In fase dibattimentale, tra gli 007 convocati c’era il colonnello dell’Aisi (ex Sisde) Raffaele Del Sole, che non ha mai risposto ai magistrati, anche grazie a Berlusconi. Il 7 marzo 2011, infatti, l’ex premier ha confermato il segreto di Stato sulle informazioni che i magistrati volevano ottenere da Del Sole. Per i pm ciò incideva profondamente sulla possibilità di pervenire a una piena ricostruzione delle condotte contestate agli imputati, oltre violare l’ar – ticolo 39 comma 11 della legge 124 del 3 agosto 2007 (riforma dei servizi) che stabilisce che in “in nessun caso possono essere oggetto di segreto di stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di strage, associazione per delinquere e devastazione o saccheggio”. Principio già affermato dall’articolo 204 del codice di procedura penale. E nel caso del processo Leopardi si stava lavorando proprio su personaggi gravitanti negli ambienti camorristici. Il 24 novembre 2011, la VI sezione del tribunale di Roma chiude la questione e stabilisce che il giudizio poteva “proseguire a prescindere, almeno per ora, dalla legittimità del confermato segreto di Stato”. La scelta di non far testimoniare lo 007 potrebbe quindi porre un ulteriore ostacolo al chiarimento almeno di un aspetto di quelli che erano i rapporti tra i servizi e i pentiti e che trova conferma nel Protocollo Farfalla. DOPO AVERLO TROVATO, i pm hanno iniziato una serie di interrogatori. Sono stati sentiti sia Tinebra, all’epoca alla guida del Dap, sia Leopardi, che sono anche i due pm che chiesero l’archivia – zione, poi ottenuta, di Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Tinebra, sentito dai pm, smentisce la circostanza e nega di sapere dell’accordo, mentre l’ex capo del Sisde Mario Mori avrebbe minimizzato spiegando che si trattava di un progetto per gestire le informazioni, che però non si era mai concretizzato. Dopo questi interrogatori, i magistrati romani presentano un ordine di esibizione al Dap ma di quel protocollo non c’è traccia. Così mandano a processo Leopardi e altri per una sola vicenda, e la faccenda si chiude senza il deposito delle carte del Sisde, compreso il Protocollo Farfalla. Fino a gennaio scorso quando il carteggio è stato mandato a Palermo, che ha ricevuto non solo l’accordo tra Sisde e Dap, ma anche gli interrogatori resi all’epoca, oggetto di una nuova indagine.

Il protocollo segreto di Mori. Il generale a processo e le accuse sul sistema «Farfalla» del Sisde «Soldi ai parenti di boss al 41 bis per ottenere informazioni», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” Dalle carte del processo d’appello contro l’ex generale Mario Mori affiora uno dei segreti inseguiti più a lungo dalle indagini antimafia dell’ultimo decennio. Il cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde e dalla Direzione delle carceri tra il 2003 e il 2004, quando Mori guidava il servizio segreto civile. Un patto per raccogliere informazioni a pagamento da detenuti di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, all’insaputa di investigatori e inquirenti. Che ora, per la Procura generale di Palermo, diventa una nuova prova a carico dell’imputato. Dopo una vita spesa nei reparti antiterrorismo e anticrimine di servizi segreti e Arma dei carabinieri, a 75 anni Mori sembra un imputato più imputato degli altri. Chiamato a rispondere per la presunta trattativa tra Stato e mafia, dopo l’assoluzione definitiva per la perquisizione mai fatta al covo di Riina nel 1993 e quella di primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ieri, al processo d’appello per quell’episodio, la Procura generale rappresentata in aula dal capo Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio ha chiesto l’acquisizione di nuove prove a carico di Mori. Con l’obiettivo di dimostrare che anche quando era ufficiale di polizia giudiziaria «ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, e per tale motivo ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali di lealtà istituzionale, traendo in inganno i magistrati». Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e despistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge». Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli. Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41 bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori, e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente. Tra i detenuti contattati ci sono quattro appartenenti a Cosa nostra. Tre dell’area palermitana: Cristoforo «Fifetto» Cannella, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio; Salvatore Rinella, della mafia di Caccamo, considerato vicino al boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che in quel periodo stava collaborando con la magistratura; Vincenzo Buccafusca. E poi il catanese Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani. Tra i calabresi viene indicato Angelo Antonio Pelle, mentre per i campani ci sono Antonio Angelino e Massimo Clemente, più qualche altro. I risultati dei contatti non si conoscono, né quanto siano costati. Per gli uomini dei Servizi è tutto legittimo, mentre per i pm palermitani è un ulteriore prova dell’attività «opaca e occulta» di Mori. Il quale, secondo il testimone Angelo Venturi (ex uomo del Sid oggi 84enne, coinvolto e prosciolto nell’indagine sul golpe Borghese), «gli propose di aderire alla loggia P2 di Licio Gelli e fu allontanato dai Servizi perché intercettava abusivamente il telefono d’ufficio del suo superiore Maletti (iscritto alla P2, ndr )». Uno degli informatori di Mori era Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato Giorgio, difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Lo stesso Ghiron ha fornito un appunto del 1974, «nel quale si fa riferimento a Mori, indicato col criptonimo “dr. Amici”, per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli, indicato come “Gerli”». Lì si diceva che se l’allontanamento dall’Italia del Gran Maestro «danneggiava Mr. Vito» - probabilmente Miceli, l’ex capo del Sid, piduista, arrestato poco prima - «fate in modo di fermarlo, se è meglio che se ne va, lasciatelo partire». L’elenco delle nuove prove indicate da Scarpinato e Patronaggio è talmente lungo da sembrare già una requisitoria; Mori in aula ascolta e prende appunti, affiancato dagli avvocati Basilio Milio e Enzo Musco. «Quando toccherà a noi parleremo e replicheremo», si limita a commentare l’ex generale. Che ha rinunciato alla prescrizione del presunto reato, decorsa da tempo, con la volontà dichiarata di inseguire un’assoluzione piena.

Protocollo Farfalla, nuove accuse al gen. Mori. Il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, Vincenzo Boccafusca, Salvatore Trinella. Sono alcuni dei pezzi grossi della mafia che rientrano negli accordi segreti del Protocollo Farfalla. Dopo il ritrovamento di qualche giorno fa, ecco la conferma: il pg Scarpinato chiede di acquisire agli atti il fantomatico documento nel processo d'appello contro Mori che avrebbe ottenuto informazioni da detenuti al 41 bis in cambio di denaro..., scrive “Affari Italiani”. Informazioni dai detenuti al 41 bis, in rapporto di "esclusività e riservatezza" e "a fronte di idoneo pagamento da definire": è il protocollo Farfalla, che per il pg del processo d'appello al generale Mori, assolto in primo grado, ne proverebbe l'attività "opaca e occulta" quando era capo del Sisde. Una decina i mafiosi "preindividuati" che dovevano riferire esclusivamente ai servizi dietro pagamento di denaro. Tra questi il boss di Brancaccio Fifetto Cannella, il padrino Vincenzo Boccafusca e Salvatore Trinella. E poi i camorristi Antonio Angelino e Massimo Clemente e lo 'ndraghetista Angelo Antonio Pelle. Mori, una lunga carriera nel Sismi prima e poi nei servizi civili, impegnato nel contrasto alla mafia è accusato di slealtà verso lo Stato. Il pg gli contesta di aver agito in modo "autonomo e segreto", tagliando fuori la magistratura "unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia". "La commissione nazionale Antimafia, da quando si è costituita, ha dedicato molte audizioni al tema del Protocollo Farfalla, ne ha chiesto la desecretazione, l'ha ottenuta e oggi questo è un documento intorno al quale continueremo a fare i nostri approfondimenti". Così al Gr1 Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia. Bindi annuncia l'audizione la prossima settimana del "procuratore generale Scarpinato, sarà un'occasione per fare ulteriore chiarezza. Torneremo anche a sentire i vertici dei servizi". Riemergono vecchie ombre inquietanti sulle indagini della Procura di Palermo. Aperto un fascicolo su Sergio Flamia, l'ex boss di Bagherìa. Sono emersi rapporti sotterranei tra Flamia e i Servizi Segreti. Come riporta Repubblica, Flamia "ha ammesso di avere preso soldi dagli 007, circa 150 mila euro. Ha raccontato di essersi consultato con loro in un momento determinante della sua carriera criminale, la «punciuta» rituale. In quell’occasione, un esponente dell’intelligence lo avrebbe invitato ad intensificare la sua partecipazione in Cosa nostra" e "persino dopo l’inizio della sua collaborazione con i magistrati. Un episodio strano, perché durante i sei mesi previsti dalla legge per le dichiarazioni del neo pentito, solo la magistratura può avere contatti con i mafiosi che decidono di passare dalla parte dello Stato". Il sospetto è Flamia sia stato utilizzato per screditare il testimone cardine sulla vicenda della trattativa, vale a dire Luigi Ilardo. Si tratta di un vecchio gioco, quello del pentito ammaestrato in grado di screditare testimoni e depistare indagini. Ammaestrati da Cosa Nostra e, talvolta, persino dai Servizi. E la grande, grandissima novità, è che il Protocollo farfalla non è più un protocollo fantasma. La Procura di Palermo, che ha aperto un'inchiesta, ha rinvenuto il documento che conterrebbe un accordo tra il Sisde e il Dap (Dipartimento per gli affari penitenziari), che risalirebbe al 2004, attraverso cui i servizi di sicurezza potevano "operare" in segreto all'interno delle carceri senza alcun tipo di autorizzazione formale. Del "protocollo" si è sempre parlato, fino ad ora però si è trattato solo di voci. Ma i magistrati della Procura di Palermo che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia sono riusciti a scovare a Roma il documento acquisendolo al fascicolo. L'indagine condotta dai pm Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene ha preso spunto dai contatti tra i servizi segreti e il collaboratore di giustizia Sergio Flamia, contatti "ammessi" dallo stesso pentito. Le dichiarazioni sono state trasmesse alla Procura generale per essere inserite nel dibattimento d'appello contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato di favoreggiamento per la mancata cattura di Provenzano (ma assolto in primo grado). A sollecitare alla Procura la nuova indagine è stato il procuratore generale Roberto Scarpinato che, assieme al sostituto Luigi Patronaggio, sostiene l'accusa contro Mori. I pm stanno indagando a 360 gradi: dal caso Flamia, al Protocollo farfalla alle dichiarazioni fiume di Totò Riina al suo compagno Alberto Lorusso, detenuto al 41 bis, eppure informato di molti fatti con cui spesso sollecita la memoria dell'anziano boss corleonese. Il documento di cui i magistrati sono entrati in possesso non è stato sottoscritto. Sarebbe datato 2004: all'epoca il Dap era guidato da Giovanni Tinebra (dal 1992 al 2001 capo della procura di Caltanissetta che seguì le indagini sulle stragi del 1992; attuale pg a Catania) mentre Mori era al vertice del Sisde, il servizio segreto civile. Successivamente - dal 2007 - furono introdotte alcune norme per "regolamentare" l'attività degli 007 nelle carceri imponendo, ad esempio per i colloqui con i detenuti, l'autorizzazione da parte della presidenza del consiglio. Ma, a quanto pare, grazie al Protocollo farfalla, almeno per il caso Flamia, le norme sarebbero state aggirate. Nei primi giorni di settembre il pg Scarpinato ha ricevuto una lettera di minacce, poggiata sul tavolo del suo ufficio, al primo piano, del piano di giustizia, uno dei palazzi più blindati d'Italia, ma in cui, "ignoti" e ben informati sarebbero penetrati, approfittando di alcune "falle" della sicurezza. Un "invito a fermarsi", diretto a Scarpinato che arriva proprio mentre i magistrati indagano sui rapporti tra servizi segreti, mafia, massoneria e terrorismo nero.

La procura di Palermo e il nuovo caso Mori. Ovvero quando i magistrati usano la legalità come il pongo, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. A proposito del protocollo segreto, che dico, segretissimo di cui parlano oggi i giornali rispetto al caso Mori ("soldi per avere informazioni", e varie liste che elencano nomi di detenuti “preindividuati” dai servizi dopo averne testato la “disponibilità di massima” a “fornire informazioni” in cambio di “un idoneo compenso da definire”). A proposito di tutto questo, una volta superato lo choc per aver scoperto che i servizi segreti usano anche mezzi non convenzionali per raccogliere informazioni (chi l'avrebbe mai detto), c'è un punto però che non convince molto della storia ed è una domanda quasi elementare che andrebbe fatta agli ottimi e sempre integerrimi magistrati della procura di Palermo. Cari magistrati, ma l'articolo 203 del codice di procedura penale lo avete mai letto oppure quando avete fatto l'esame vi avevano strappato la paginetta dal manuale? Vi aiutiamo noi. Leggetelo bene, potrebbe esservi utile:

Art. 203. Informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza.

1. Il giudice non può obbligare gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria nonché il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica a rivelare i nomi dei loro informatori. Se questi non sono esaminati come testimoni, le informazioni da essi fornite non possono essere acquisite né utilizzate.

1-bis. L'inutilizzabilità opera anche nelle fasi diverse dal dibattimento, se gli informatori non sono stati interrogati né assunti a sommarie informazioni.

Mafiosi e pure pazzi, così Cosa Nostra si salvava. Corrado De Rosa, psichiatra e scrittore, domani ospite a Grado Giallo con “La mente nera” sulle perizie compiacenti di Semerari, scrive Mary Barbara Tolusso su “Il Piccolo”. Paura. Suspance. Mistero. Sono questi i temi di Grado Giallo, il festival letterario ormai giunto alla sua VII edizione. Ma quest'anno il terrore assume toni più "pratici", fatti di sospetti che attanagliano la realtà, non solo il plot di un romanzo. In una parola si parla anche di mafia. Ne sa qualcosa Corrado De Rosa, tra gli invitati del festival (domani, ore 16.45 al cinema Cristallo) e oggi alla Libreria Lovat di Trieste con Veit Heiniken (ore 18). Psichiatra e scrittore, De Rosa ha alle spalle più libri sulle ambiguità della psicologia criminale. L'ultimo è "La mente nera" (Sperling & Kupfer), la biografia di un cattivo maestro, Aldo Semerari: «Era lo psichiatra dei boss», dice. «Semerari negli anni '70 era coinvolto in tutta una serie di torbide vicende. Eseguiva delle perizie con cui i mafiosi potevano ottenere l'impunità. Garantiva ai criminali una serie di privilegi attraverso escamotage come il vizio di mente, la seminfermità, la sospensione dei processi o l'incompatibilità con il carcere».

Psichiatri che in cambio di perizie falsate ottengono favori dalla mafia. Quali?

«Semerari cercava di sfruttare la banda della Magliana. Grazie alle sue perizie lo spaccio, i sequestri e le rapine potevano continuare a condizione che parte del profitto andasse al suo movimento eversivo che si chiamava "Costruiamo l'azione". Era uno dei teorici dell'eversione nera tra i neofascisti romani. Questo è il motivo per cui fu anche arrestato per la strage di Bologna».

In che modo quindi Cosa nostra usa la follia?

«Viene utilizzata per tre motivi: per ottenere benefici di giustizia attraverso perizie compiacenti. Per delegittimare. E infine per trattare. Per esempio quando Provenzano simulò il suicidio nel 2012, in realtà non stava tentando di ammazzarsi ma di dire allo Stato: venite a parlare con me. O quando negli anni '80, dopo il sequestro di un assessore democristiano, i servizi segreti si rivolsero alla Camorra per negoziarne la liberazione: questo fu il paradigma della trattativa Stato-mafia. In cambio Raffaele Cutolo, boss della Camorra, chiese appalti, finanziamenti e un pacchetto di perizie psichiatriche compiacenti».

Negli anni '80, proprio mentre la psichiatria ufficiale cercava di liberarsi dalle etichette delle follia…

«Esattamente. Il 1978 è un anno emblematico. Mentre il Parlamento approvava la legge Basaglia, la psichiatria criminale faceva di tutto per affibbiare ai suoi clienti l'etichetta di pazzo. Nello stesso anno Cutolo, grazie alle perizie, riesce a farsi trasferire nell'ospedale psichiatrico di Aversa da dove fugge. E sempre nel '78 viene attribuita la sindrome di Stoccolma ad Aldo Moro per delegittimare i contenuti delle sue lettere».

Quali le forme di follia autentica che colpiscono Cosa nostra?

«In genere colpiscono i boss di seconda fascia. Il grande capo difficilmente ha un disturbo importante perché non gli consentirebbe di progettare e programmare. Però la storia è piena di affiliati che erano matti. Per esempio Leonardo Vitale aveva una psicosi grave. Dieci anni prima di Buscetta aveva rivelato tutto quello che sapeva su boss che ancora oggi sono sulla cresta dell'onda. Vitale fu uno dei pentiti delegittimati dalla psichiatria, si disse che non era attendibile perché, appunto, psicotico».

Esistono delle differenze nei meccanismi psicologici di affiliazione?

«È molto diverso da zona a zona. Per esempio in Sicilia è un meccanismo dell'essere: io sto in Cosa nostra perché è un sistema fondamentalista, cioè rigido, quindi non c'è bisogno che io pensi, c'è Cosa nostra che pensa per me, ciò che io devo fare è solo comandare. Quando vediamo Provenzano arrestato sembra un pastore della Cappadocia perché non ha bisogno di nient'altro che di comandare. Invece il processo psicologico di affiliazione della Camorra si basa sul meccanismo dell'avere: io mi affilio alla Camorra per la visibilità che mi offre, tanto è vero che il sistema criminale campano non è come quello di Cosa nostra, non è verticistico. In Campania ci sono tanti boss che contano moltissimo in piccoli territori, ma nei territori vicini non contano niente. Così come Provenzano sembrava un pastore, Cosimo Di Lauro, boss di Secondigliano, vive in una casa in ci sono addirittura le terme, è tutta apparenza. In Sicilia è impensabile una cosa del genere».

E sull'attuale trattativa Stato-mafia che mi dice?

«Dal punto di vista giudiziario sarà difficile dimostrare una trattativa. Ciò che mi preoccupa è la delegittimazione sul piano storico, un lavoro non funzionale a tutto ciò che sta facendo la Procura di Palermo. Mi lascia perplesso il forte movimento di delegittimazione nei confronti di questi giudici. Atteggiamento che ricorda gli attacchi ad altri magistrati che invece si sono dimostrati lungimiranti. Quando si leggono libri che tendono a negare la presenza della trattativa, la questione diventa pericolosa perché di fatto un negoziato per tutelare i rispettivi interessi c'è sempre stato. Storicamente lo Stato ha sempre chiesto alla mafia di collaborare: per esempio ha chiesto alla mafia un servizio di polizia nei momenti più delicati della storia, da Garibaldi alla seconda guerra mondiale».

Carceri: una storia ordinaria di mafia, scrive Giovanni Iacomini su “Il Fatto Quotidiano”. Professore carissimo, io ero un semplice perito agrario. Quando mi sposai, mio suocero mi disse se volevo lavorare con lui nella sua impresa, visto che non aveva altri eredi. Si trattava di costruzioni, una bella realtà produttiva, con molti dipendenti. Cominciai e le cose andavano bene. Ad un matrimonio mi fu presentato un cugino: bel tipo, col rolex d’oro e un macchinone. Mi dissero di entrare in società con lui per incrementare la nostra attività. In realtà, quello che comandava era il padre di questo cugino. Veniva in cantiere accompagnato da una persona silenziosa, sempre vestito di nero. Nei primi anni 80, in quella che poi fu definita la guerra di mafia, quel capo sparì insieme a tanti altri. Non si sapeva niente di ufficiale, ma noiautri a Paliemmo lo sapevamo quello che succedeva: vedevamo quella piangere di qua, i figli di quell’altro affidati agli zii e cose del genere. “Chiddu vestito ‘e niro” mi fece chiamare: gli dissi che potevo tranquillamente uscire dall’affare (un grande palazzo da demolire e ricostruire) ma lui disse che non cambiava niente, potevo proseguire con i lavori; il “capo” era partito, potevo parlare con lui che poi gli avrebbe riferito quando sarebbe tornato. Mi disse di andare avanti tranquillamente, invece a stretto giro di tempo una per volta mi tolsero tutte le decisioni: mi imponevano le ditte subappaltatrici, chi faceva gli scavi, i fornitori, persino chi dovevo assumere in questo o quel posto. In più, mentre io ero in giro per gli uffici in cerca di permessi e autorizzazioni, in cantiere presero ad incontrarsi fior di pregiudicati (seguiti e fotografati dalla polizia, come seppi in seguito). L’”uomo in nero” intanto apriva diverse attività in centro: il caso volle che una volta andassi in uno dei suoi negozi con mio figlio, il quale avendo sempre avuto una passione per tutto ciò che ha a che fare con gli impianti elettrici, gli risolse in poco tempo un annoso problema ad una centralina. Il tipo si impuntò: bravo ragazzo, me lo voglio cresimare io. Mia moglie, quando glielo dissi, si infuriò. Discutemmo molto a casa, ma alla fine non ebbi la forza di oppormi. Erano spariti pezzi grossi, non quaquaraquà e avevo paura. Dopo qualche tempo finii dentro per concorso esterno in associazione mafiosa. Cominciai dai carceri speciali ma piano piano, man mano che le indagini proseguivano, fui declassato in quanto riuscii a far emergere che ero una semplice vittima della mafia: se prima ci limitavamo a pagare u pizzo, un tot ogni metro di cubatura, poi avevo tutte le ditte e i fornitori in odore di mafia. Gli stessi periti del tribunale accertarono che mi costavano un 30% in più dei prezzi di mercato. Se fossi stato uno di loro avrei pagato il 30% in meno. Si scatenò la guerra tra pentiti. Dovete sapere che da noi ogni famigghia tiene un pentito, che viene usato per infangare. Il rapporto che instaurano con gli inquirenti è un ginepraio inestricabile, fatto di dichiarazioni e smentite, promesse e fregature. Nonostante tutto, per fortuna anche quelli che mi accusavano, alla domanda se fossi uno di loro rispondevano: ma quale uomo d’onore, chiddu lo tenevamo come nu cagnolino, faceva quel che volevamo noi. Questo mi ha consentito di essere declassato, venire a scontare la pena tra i “comuni” e, se Dio vuole, cominciare con i permessi e il percorso di reinserimento. Faccio colloqui con la mia famiglia e spero in un prossimo affidamento ai servizi sociali.

Nei miei lunghi anni di insegnamento in carcere, non è certo la prima volta che qualcuno mi venga a raccontare la sua storia. Come in tutte le altre occasioni, mi interessa fino a un certo punto di vagliare quanto di quel che mi viene detto sia vero. La “verità giudiziale” è già stata stabilita, si sta espiando una condanna. È chiaro che ognuno, nella propria ricostruzione, tende a giustificarsi e discolparsi, per quanto possa essere utile convincere della propria innocenza un semplice insegnante che non può e non deve dare altri giudizi se non quelli strettamente didattici. Però nel frattempo un’idea di come vanno le cose in certe regioni me la sono fatta: nella carenza di un’efficace azione statale, che va dai servizi alla prevenzione, è molto difficile in certe realtà esercitare un certo tipo di attività senza rischiare di essere invischiati, in qualche modo, in affari legati alla criminalità organizzata.

Pupazzi, bambole, costruzioni e persino una consolle X-Box. I malviventi hanno portato via tutto dalla ludoteca del reparto oncologico per i bambini dell'ospedale Civico, tentando di impossessarsi anche dei televisori. Si tratta dell'ennesimo raid dei malviventi subito dalla struttura ospedaliera palermitana e, in particolare, dal reparto riservato ai più piccoli che utilizzano i giochi durante i giorni di ricovero o quando sono accompagnati da mamma e papà per le sedute di chemioterapia. Un furto dal sapore particolarmente amaro perché a pagarne le conseguenze sono proprio i bambini che da oggi non avranno nulla con cui svagarsi durante le ore trascorse in ospedale. Eppure la ludoteca era nata proprio per questo: l'intento di quell'area piena di giocattoli e colori è di alleviare i momenti più duri per i bambini, quelli in cui si trovano faccia a faccia con la malattia all'interno dell'ospedale, scrive “Live Sicilia”. Chi è entrato in azione non ha avuto limiti, non ha risparmiato niente e, probabilmente, se avesse avuto il tempo, avrebbe portato via anche le tv, visto che il filo dell'antenna e le placche metalliche al muro sono stati trovati staccati. Chi vuole spegnere i sogni dei bambini malati aveva già agito alcune settimane fa, quando i responsabili dell'associazione che gestisce la ludoteca avevano denunciato una prima incursione. Nello stesso reparto, nel 2012, furono presi di mira i computer della stanza dei medici e due televisori del day hospital, tutte le attrezzature donate dall'Associazione siciliana per la lotta contro le leucemie e i tumori infantili. Episodi che danneggiano materialmente la struttura - visto che sono stati forzati e danneggiati gli armadi - ed intaccano la serenità che, con fatica i medici, gli assistenti e i familiari dei più piccoli cercano di donare ai bambini che lottano contro la malattia. Il furto è stato denunciato alla polizia che ha avviato le indagini.

Amiamo il sonno dei bambini, perché reca i segni di una terra promessa ormai smarrita, continua “Live Sicilia”. Amiamo guardare i bambini mentre dormono. Con la trasparenza del respiro, ci riportano dentro un ritmo umano del mondo. E ancora ci ricordano che siamo stati bambini anche noi. Che abbiamo riposato, stretti a un giocattolo, con un amico accanto, per affrontare la spaventosa notte di streghe, incubi e visioni. Chi ruba un giocattolo a un bambino che dorme è dunque un assassino, più che un ladro. Un'anima dannata capitata nel recinto di un giardino fiorito, per calpestarlo. Per rubare la pace. Per togliere tutto a tutti. Ladri e assassini di sogni hanno depredato i piccoli dell'Ospedale Civico dei loro giochi, col furto al reparto di Oncologia pediatrica. Al peso dell'innocenza violata, si aggiunge il sacrilegio della devastazione di un luogo in cui si incontrano infanzia e sofferenza, un incrocio che già non accettiamo e che ci appare molto più crudele, se ombre sopraggiungono per togliere gli ultimi strumenti di difesa dalla paura a chi non può difendersi. E' la lezione insopportabile per un cuore puro: streghe e vampiri appartengono alla realtà. Le copie che abitano le favole sono pallide imitazioni. Eppure, dal dolore e dalla viltà è rinata una speranza per cui spalancare le braccia fiduciosi. Palermo ha battuto più di un colpo. Ha sommerso di regali le corsie, a risarcimento della sottrazione. Palermo ha dimostrato che può amare, se sceglie di farlo, che può essere meravigliosa e non orrida. Ha fatto del bene, si è fatta del bene. E chissà che da un episodio di cronaca nera e di bianchissima solidarietà non possa scaturire la virtù di una finalmente compiuta e non più intermittente cittadinanza. Abbiamo messo mano al ripostiglio delle vecchie cose, non sapendo cosa scegliere per donare. Ci siamo confrontati tra ex bimbi con domande angosciose: quello che funzionava ai nostri tempi, andrà bene oggi? C'è chi ha comprato, con generosità, attrezzi fiammanti, prodigi nuovi di zecca, contemporanei, pieni di virtualità, di connessioni, prodotti iper-tecnologici, adattissimi alla fantasia di adesso. C'è chi ha ripescato, magari per mancanza di mezzi, magari per un tributo alla nostalgia, con la medesima generosità, i reduci di giorni trascorsi. L'orsacchiotto di peluche, il Sapientino, il trenino. Perché dove c'è un trenino in fondo c'è sempre un bambino piccolo alla stazione, col berretto rosso e il fischietto. La fantasia progredisce con ali velocissime, però da qualche parte sa conservare oggetti indimenticabili. Un peluche serve. Ha occhi di vetro che scrutano il buio. Ha mani di pezza che accarezzano. Si lascia accarezzare. Un orsacchiotto è un compagno che non delude mai, che non abbandona colui che l'ha scelto, quando arriva la sera. LiveSicilia ha promosso una campagna di donazioni che sarà a breve conclusa con la consegna. Tanti hanno partecipato. Altri hanno organizzato benedette iniziative autonome, con un unico fine comune: riparare al torto subìto. Palermo si è sentita offesa, come non accadeva da tanto. Ha percepito – ed è un evento che non capita spesso – che una ferita inflitta ai suoi figli innocenti riguardava chiunque, era una faccenda condivisa. La città si è schierata. Ha dismesso i panni da strega, per indossare i vestiti scintillanti della fatina buona. E' un miracolo questa mobilitazione che abbiamo raccontato. Non smette di regalarci una calda sensazione di felicità. Ora sarebbe un peccato dimenticare. Sarebbe una tragedia scordare che siamo tornati forti e degni, issando come vessillo lo sguardo dolce e malinconico di un peluche. L'oscurità l'abbiamo sconfitta pure noi. Siamo spuntati dall'altra parte. Amiamo il sonno quieto dei bambini, la terra promessa in cui vorremmo tornare. Amiamo il coraggio e la tenerezza. Amiamo coloro che si sono regalati un sogno, regalando un giocattolo. Li abbracciamo tutti, con nome e cognome. Amiamo quella mamma che ha sistemato in un sacchetto e fatto pervenire in redazione i giochi di un figlio che non c'è più. Una scelta che mostra molti modi di amare. Lui sarà già tornato bambino in una trasparenza che ancora non conosciamo. I bambini del Civico cresceranno, attraverseranno la notte, con un po' del suo respiro attaccato al cuore.

Orrida Palermo. Palermo è veramente orrida. Un affezionato lettore di “Live Sicilia” ci racconta la sua esperienza sull'autobus e spiega perché. Alle 13,45 salgo festante su un bus Amat della linea 662, inforcato dopo una veloce discesa dal 101. Non capita spesso che il percorso finale verso viale Strasburgo sia privo di piacevole sosta “ander the paic of the san, rectius “sutta u picu ru suli…”) all’”Hub” (…) di Piazza De Gasperi, e quindi mi compiaccio, da panormosauro--abbonato AMAT, con le mie gambe e con la felice coincidenza ma… Salgono sul 662 anche 3 panormosauri-controllori, che correttamente svolgono il loro servizio sorprendendo 3 panormosauri-giovani-sprovvisti di biglietto. I primi chiedono ai secondi di scendere con loro dalla vettura, ma i panormosauri non paganti, con fare beffardo, si rifiutano. I panormosauri-controllori insistono dicendo che se non scendono l’autobus non può ripartire ma i panormobiettori (obiettano che avevano aspettato troppo il bus e pertanto, secondo la loro lex specialis non sono tenuti a pagare) se ne fregano e si piantano saldamente sul bus. Tre minuti di scambi vocali, per così dire, franchi e non cordiali, ed io, panormosauro con qualche residuale coscienza civica, tento di coinvolgere qualcuno dei panormosauri astanti “in regola” che affollano il bus per solidarizzare con i controllori, ma ricevo silenzio e, vigliaccamente, desisto. Anzi, qualche avventore solidarizza con i panormomafiosetti, dicendo che in fondo è giusto non pagare perché …il bus non è mai puntuale…Passa un altro minuto e provo, con grande sprezzo del pericolo, a chiamare io il 113 ma noto che finalmente si decidono a farlo i panormosauri-controllori, i quali confermano al panormosauro- autista l’ordine di non ripartire, come concordato con la sala operativa della Questura. Il panormosauro-autista prende atto e pensa bene di mangiarsi un panino (invidia, ho fame anch’io). Nessuna reazione degli altri panormosauri paganti. Chi guarda di qua, chi di là, nessuno osa neanche incrociare gli sguardi dei panormomafiosetti. Sono passati 10 minuti, ma ecco, come negli epiloghi dei classici ellenici, piombare sulla scena il “deus ex machina”. No, non è la volante che tarda ad arrivare (e sfido io: ai poveri operatori di polizia, con tutti i casini di questa città e con i loro organici e mezzi ridotti all’osso non gli si può pure chiedere di essere presenti in 2 minuti dietro a ogni bus frequentato da panormomafiosetti). A sciogliere la surreale matassa è invece il provvidenziale arrivo del 615, giudicato dai panormomafiosetti una linea compatibile con le loro esigenze di mobilità. Scendono quindi senza resistenza alcuna dal 662 e la situazione si sblocca: i panormosauri-controllori scendono pure loro (facendo segno al 615 di non raccogliere i perfidi panormomafiosetti) ma nel frattempo giunge l’eco di una volante. Il mio 662, ormai non più ostaggio del criminale stallo, comincia a marciare verso Via Alcide de Gasperi ma…un momento…chi ti vedo salire alla prima fermata di Viale Strasburgo? Ma si! Sono loro! I 3 panormomafiosetti, che nel frattempo avevano velocissimamente percorso a piedi la stessa strada, allontanandosi da quella piazza ormai “calda”. Mannaggia, per una volta che avevo afferrato “a volo” la coincidenza, senza aspettare il solito quarto d’ora a Piazza De Gasperi, mi tocca sacrificare un quarto d’ora della mia vita per le gesta di questi panormomafiosetti. Ma la colpa è anche mia, che non ho reagito. Si, vabbè, capisco che da solo avrei rischiato di buscarle pure, fra l’indifferenza panormosaureggiante, ma mi sento in colpa lo stesso. Mi sono assuefatto. Sono un panormosauro colpevole anch’io. Non reagisco più. Palermo Orrida. E orrido sono diventato io. E orridi siamo diventati tutti noi.

Un giorno, sul bus, a Palermo. Un palermitano su due secondo il Comune non paga il biglietto Amat. Noi siamo andati a verificare, passando due mattine sugli autobus delle linee del centro città e in periferia. E abbiamo scoperto che..., scrive Sabrina Macaluso su “Live sicilia”. Solo il 50 per cento dei palermitani fa il biglietto dell'autobus. Almeno stando ai dati comunicati pochi giorni fa dal Comune di Palermo che ha lanciato l'allarme portoghesi, un fenomeno che secondo l'amministrazione di Palazzo delle Aquile causa un danno alle casse dell'Amat di circa 10 milioni di euro. Così, armati di biglietto, abbiamo passato due mattinate sugli autobus per constatare il comportamento dell'utenza palermitana che sceglie quotidianamente il bus per spostarsi in città. La nostra avventura inizia sul 101, la principale linea che attraversa l'arteria più importante della città, dallo stadio Barbera fino alla stazione centrale. Alla prima fermata, in piazza De Gasperi, il nostro orologio segna le 9.50 del mattino. Secondo l'orario delle corse pubblicato sul sito dell'Amat, il 101 dovrebbe effettuare una corsa ogni sei minuti minuti, ma registriamo le lamentele di un gruppo di utenti in attesa da circa venti minuti. E in effetti noi siamo costretti ad attendere fino alle 10.22 per salire sul primo 101. Dopo aver rigorosamente obliterato il nostro biglietto, ci accomodiamo insieme con una trentina di persone sul bus. Oltre venti si sono recati all'obliteratrice per convalidare il biglietto, un'ottima percentuale considerato il dato del Comune che parla di un 50 per cento di portoghesi. Quello che stupisce di più, comunque, è l'assenza di controllori che nell'arco di un'intera mattinata, dalle ore 9 alle 13, dopo aver percorso il tragitto stadio-stazione centrale per quattro volte, non si visti, se non alla fine della quarta corsa, alla fermata di via Croce Rossa. Con loro, ecco il primo portoghese, beccato per essere salito senza biglietto su un'altra linea (107). e unica multa di 52 euro elevata in nostra presenza nella mattinata. Ma dove sono le orde di portoghesi che affamano le casse dell'Amat, ci chiediamo. La risposta arriva parlando informalmente con utenti e controllori Amat, gente che utilizza quotidianamente i bus che ci parla del 101 come l'eccezione che conferma la regola, una linea "privilegiata" che può contare su un'utenza ligia al dovere. "Quelli che non pagano il biglietto li può trovare su lineee periferiche - dice un signore di mezza età che preferisce rimanere anonimo -". "E' vero - conferma un gruppo di ragazzi con il biglietto obliterato ancora in mano -, in tanti anni che frequentiamo questa linea 101, raramente abbiamo visto persone che non obliterano il biglietto, molti altri sono professionisti o lavoratori in uffici o negozi del centro città abbonati. Il problema di chi non fa il biglietto è nelle periferie della città". “La situazione appare completamente diversa spostandoci nelle zone periferiche della città”– dice Antonio V., controllore, che ci indica quali sono le zone calde in materia di portoghesi -". La nostra caccia a chi non paga il biglietto sui mezzi pubblici si sposta dunque in periferia, sulla linea 702, che effettua il collegamento da Borgo Nuovo a Piazza Croci. E in effetti ci accorgiamo subito che il trend dei portoghesi rispetto al 101 qui è opposto. Anche qui registriamo qualche ritardo rispetto ai 15 minuti che dovrebbero passare tra una corsa e l'altra. Attendiamo circa 40 minuti prima di salire a bordo. Una quarantina di furbetti ad acquistare il biglietto non ci pensa nemmeno. Lungo il percorso per Piazza Croci, infatti, notiamo solo due persone obliterare il tagliando, nonostante l'autobus sia abbastanza affollato. Basta l'arrivo di un autista che sale sul mezzo dalla porta anteriore e scambiato per un controllore, a scatenare il panico a bordo: alla prima fermata utile si scatena il fuggi fuggi generale e l'autobus si svuota. Stessa scena sulla linea 422, (che piazza Principe di Camporeale a Borgo Nuovo), dove il copione si ripete. Anche qui infatti, sono in molti a non obliterare il biglietto e c'è chi, quasi con aria fiera, dice di “non averlo neppure acquistato”. Ad essere più colpite dal fenomeno dei portoghesi sono dunque le periferie, è qui che le percentuali comunicate dal Comune appaiono addirittura arrotondate per difetto rispetto a quello che riscontriamo con i nostri occhi. Il comune denominatore è rappresentato dall'assenza di controllori. “Ad essere maggiormente colpite dal malcostume dei palermitani che usufruiscono di un mezzo pubblico senza pagare – racconta Marcello S., controllore dell'Amat - sono soprattutto le linee che attraversano i quartieri di San Filippo Neri, Borgo Nuovo, Bonagia, la Noce o Pallavicino, alle quali si aggiungono tutte quelle zone limitrofe alla città vecchia, dove molti passeggeri sperano di farla franca”. Dall'azienda di via Roccazzo, a cui abbiamo raccontato la nostra esperienza, il direttore generale, Pasquale Spadola, annuncia che “i controlli verranno rafforzati proprio per scoraggiare chi non rispetta le regole. I controllori si concentrano ciclicamente su zone e linee diverse per non essere prevedibili. Per quanto riguarda i ritardi lamentati dall'utenza in alcune occasioni, l'80 per cento dei ritardi, è da attribuire ai grandi problemi della viabilità che la nostra città ha da sempre avuto”. Ma si sa: il traffico, come ci ha insegnato un celebre film di Benigni, è una delle piaghe di Palermo...

Gli stenografi della Regione Sicilia guadagnano quasi come Napolitano. I finti tagli alla Regione Siciliana, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. È dura la vita dello stenografo. In Sicilia praticamente un inferno. Presa dalla frenesia del risparmio, l'assemblea regionale ha messo nel mirino i suoi dipendenti, inaugurando la stagione dei tagli. Lacrime e sangue. E risate. Perché fino al 2017 i poveri (si fa per dire) scrittori tachigrafici che sulla punta delle dita veloci fanno viaggiare nel mondo il racconto delle epiche gesta dei parlamentari siculi per la prima volta guadagneranno un po' meno del presidente Napolitano. Al capo dello Stato è riconosciuto un appannaggio annuo di 240.000 euro. Loro, che sin qui ogni anno di euro ne prendevano 235.000 (ma al lordo, per carità), dal 2015 dovranno accontentarsi di 204.000 euro, carichi di trattenute da scomputare. Ancor peggio andrà a segretari (193.000), coadiutori (148.000), tecnici (132.200) ed assistenti (tradotto dal burocratese, i commessi), ultimi della graduatoria con 122.500 euro. I più sfortunati colleghi del Senato riceveranno paghe più basse rispetto ai parigrado siciliani? Il paragone non regge. «Contrariamente a quel che avviene a Palazzo Madama, qui all'Ars non saranno riconosciute indennità fisse e incentivi di produttive. Le nostre sono cifre chiare e non esistono sotterfugi», spiega orgoglioso il deputato questore Paolo Ruggirello, tra i fautori della sofferta intesa coi sindacati. Portatori, aggiunge grato, «di un grande senso di responsabilità», esplicitato col voto favorevole alla proposta anche se i rappresentanti di coadiutori e parlamentari si sono astenuti. Manca adesso il sì del Consiglio di presidenza, già convocato per mercoledì. Sarà una decisione difficile: tagli così sanguinosi non s'erano mai visti, in Sicilia.

Esami di avvocato. La commissione ha corretto 45 compiti in 235 minuti, (quindi non corretti). Candidato escluso ammesso all’orale dal Tar, scrive “La Sicilia”. La commissione esaminatrice per l’esame di di idoneità per l’esercizio della professione di avvocato sessione 2013 ha corretto 45 elaborati in appena 235 minuti e dunque con la media di cinque minuti ognuno e il Tar ha dato ragione a un candidato agrigentino di 30 anni che era stato escluso. Il praticante, con il patrocinio degli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, si è rivolto alla magistratura amministrativa chiedendo l’annullamento, previa sospensione, dei giudizi assegnati dalla commissione esaminatrice agli elaborati, nonché per l’ammissione con riserva alla prova orale. In giudizio si è costituito il Ministero della Giustizia che ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Tar di Palermo, ha invece accolto il ricorso del candidato escluso con riferimento sia all’esiguo tempo di correzione degli elaborati, sia con riferimento al sindacato sulle valutazioni tecniche della commissione esaminatrice ed ha disposto la sua ammissione con riserva alla prova orale. Pertanto il giovane praticante avvocato dovrà sostenere la prova orale in esecuzione del provvedimento cautelare reso dal Tar nel prossimo mese di novembre e se la supererà avrà titolo all’iscrizione all’albo professionale.

"Basta con la storia del corvo". Di Pisa risarcito con seimila euro. Il procuratore di Marsala commenta la sentenza che ha condannato il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore che lo aveva definito inadatto a sostituire il magistrato poi ucciso dalla mafia, come capo dei pm marsalesi, scrive Giacomo di Girolamo su “La Repubblica”. "Basta con questa storia del “corvo”. Io sono una vittima. Perchè non lo si capisce?". Sono le parole del procuratore di Marsala, Alberto Di Pisa, dopo la sentenza del Tribunale di Caltanissetta che ha riconosciuto la diffamazione avvenuta nei suoi confronti da parte di Salvatore Borsellino, condannandolo ad un risarcimento danni di 6000 euro. Borsellino aveva commentato in un incontro pubblico a Marsala (alla presenza, tra l'altro del sindaco di Napoli De Magistris e di Gioacchino Genchi) con parole durissime la nomina di Alberto Di Pisa alla guida della procura dove aveva lavorato Paolo Borsellino: "Non può prendere il posto di mio fratello - aveva detto Borsellino - perchè Di Pisa è stato accusato di essere il corvo al Tribunale di Palermo che mandava lettere anonime contro Falcone, e solo il fatto che non hanno utilizzato in appello la prova delle sue impronte digitali ha permesso la sua assoluzione". Da qui la denuncia di Di Pisa. "Non è così - afferma il magistrato - e lo voglio spiegare una volta per tutte: la mia assoluzione è stata nel merito, perchè non solo è stato riconosciuto che l'impronta digitale mi fu estorta n maniera fraudolenta, ma la Corte dice chiaramente che il corvo non sono stato io e indica che dal tono delle lettere poteva essere soltanto un membro del corpo di polizia che ha voluto sfruttare le divisioni che si erano create nel gruppo investigativo che collaborava con Falcone a seguito della venuta del pentito Contorno in Sicilia. Io, lo ripeto, non c'entro nulla, perchè a quelle indagini non avevo neanche accesso". Delle otto impronte trovate sulle lettere inviate dal "corvo", la Corte d'Appello stabilì che "non una può essere attribuita a Di Pisa", e inoltre era impossibile che ad imbucarle fosse stato Di Pisa perchè erano spedite da Cefalù. "Ho voluto querelare Salvatore Borsellino - continua il magistrato - per porre un freno alle illazioni e alle false ricostruzioni che si fanno ogni volta che succede un fatto che mi riguarda più o meno indirettamente. Tutte le inchieste che avevo in quegli anni, non appena fui accusato ingiustamente mi furono levate e finirono nel dimenticatoio. Sulla vicenda di Contorno non si è fatta mai chiarezza".

Alberto Di Pisa: "Non ero il corvo di Palermo, qualcuno voleva fermarmi". Nel 1989 venne accusato di aver inviato le lettere anonime contro Falcone. Poi fu assolto. Ora il magistrato va in pensione e dice: "Cercate alla Criminalpol", scrive Alessandra Zaniti il 4 gennaio 2016 su “La Repubblica”.

"Sa chi è che non ha mai pensato che io fossi il "corvo"? Paolo Borsellino. "Non ci credo neanche se lo vedo che quell'anonimo l'hai scritto tu", mi disse ".

E Falcone?

"Lui aveva un modo di fare molto diverso e in quei frangenti probabilmente preferì aspettare. Purtroppo non riuscì a vedere la conclusione di questa assurda vicenda".

Nella sua casa di Palermo, appena riposta la toga dopo 45 anni in magistratura, Alberto Di Pisa conserva tutta la rassegna stampa di quella terribile estate dei veleni del 1989 che -  nonostante l'assoluzione definitiva -  lo ha bollato come il "corvo", scrivendo una pagina tra le più nere della storia giudiziaria italiana. Da tre giorni, a 72 anni, ha lasciato l'ufficio di procuratore di Marsala che fu di Paolo Borsellino.

Procuratore, chi ha scritto quell'anonimo inviato alle più alte cariche del paese che accusava Falcone e De Gennaro di aver dato licenza d'uccidere al pentito Totuccio Contorno?

"Nell'89 c'era una profonda faida negli ambienti della Criminalpol. C'era la squadra di De Gennaro e quella di Contrada. Il "corvo" bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece ed è significativo che, dopo la mia assoluzione, nessuno abbia più cercato di individuarlo né di indagare sui contenuti di quell'anonimo. Che, per altro, diceva la verità, come avevo sottolineato io stesso in una riunione in Procura con tutti i colleghi. C'erano Giammanco, Falcone, Sciacchitano, Signorino. Sarei stato un idiota poi a scrivere quell'anonimo".

Cosa disse in quella riunione?

"Che bisognava indagare per capire cosa stava dietro a quello stranissimo arresto di Contorno a San Nicola l'Arena. Qualcuno doveva sapere cosa era veramente venuto a fare, come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia a regolare i suoi conti. Ma qualcuno pensò di approfittare dell'occasione scrivendo l'anonimo che fu subito attribuito a me nonostante fosse scritto su carta intestata della Criminalpol (disponibile solo negli uffici romani dove io non ero mai stato) e con una macchina da scrivere che fu appurato non essere la mia".

Eppure furono in molti a pensare che il Corvo fosse lei.

"Ci fu una convergenza di interessi, politica, servizi, poteri forti, che avevano l'obiettivo di togliermi le inchieste scottanti che avevo in mano, quella su mafia e appalti, sulla morte dell'ex sindaco Insalaco, sulla massoneria, sugli omicidi di Montana e Cassarà. Il procuratore Giammanco me le tolse tutte ancor prima che arrivasse l'avviso di garanzia".

Chi aveva interesse a toglierle quelle inchieste?

"Nonostante quello che andava dicendo Leoluca Orlando, i grandi appalti di Palermo erano ancora in mano a Cosa nostra, a Cassina e Ciancimino. La giunta li aveva assegnati a due aziende romane, la Cosi e la Sico, ma io avevo scoperto che le fidejussioni le aveva pagate il conte Vaselli, cioè Ciancimino. Non era cambiato niente, c'era sempre il solito comitato d'affari di politici e imprenditori. Se avessi potuto continuare sicuramente avrei chiesto i mandati di cattura. Io non guardavo in faccia nessuno. C'era la Primavera di Palermo e c'era il governo De Mita. Questa verità non era gradita a molti".

Poi l'alto commissario Sica riuscì a prenderle le impronte e lei diventò per tutti il Corvo.

"Sica sembrava un amico, lo andavo a trovare spesso. Qualcuno gli fece baluginare questa idea e lui cominciò a fare attività illegali. Mi presero le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. Se qualcuno si fosse preso la briga di leggere la sentenza di assoluzione si sarebbe reso conto che non c'è mai stata una mia impronta sull'anonimo, ma solo la foto di un'impronta costruita a tavolino".

Si è mai chiesto perché tanti suoi colleghi le voltarono le spalle?

"Invidie, gelosie d'ufficio, molti volevano entrare nel pool. Il Palazzo di giustizia fu contaminato da veleni che arrivavano da fuori. Ho vissuto quei tre anni terribili in solitudine. Ci sono voluti nervi saldi, altri colleghi come Signorino non hanno resistito. Poi ho trovato un giudice, il presidente della corte d'appello di Caltanissetta Costanzo, che ha resistito alle pressioni assolvendomi e la mia vita è ricominciata".

Quell'anonimo mirava a Falcone. È vero che tra voi i rapporti non erano idilliaci?

"Assolutamente no. Con Falcone e Borsellino abbiamo istruito il maxiprocesso, abbiamo lavorato insieme alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Ricordo un interrogatorio importante in cui ci doveva parlare dei cugini Salvo. Lui era ospitato in un appartamento sopra la questura di Roma dove si muoveva da padrone. Ci offrì un caffè ma lo portò solo a Falcone e Borsellino. Io non gli ero simpatico perché lo incalzavo in quegli interrogatori che per lui avrebbero dovuto essere dei monologhi. Lo stesso Falcone poi al Csm disse che avevamo sempre lavorato in perfetto accordo. Anche la famosa "pace" tra Sica e Falcone davanti le telecamere fu una messinscena per isolarmi".

L'ANTIMAFIA DELLE BUFALE?

Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella su “L’ultima Ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

A processo il magistrato che passava le carte al "Fatto". Gozzo, l'accusatore di Dell'Utri, a giudizio per violazione del segreto d'ufficio, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno.

Pm Gozzo a processo, gip: “Ha rivelato intercettazioni tra boss Riina e figli”. Sotto la lente di ingrandimento delle indagini una frase del padrino corleonese poi riportata dal Fatto Quotidiano a ottobre e ritenuta ambigua dagli investigatori. "Quest’anno la Juve è una bomba". “Il Fatto Quotidiano” scrive: Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio in merito alla pubblicazione del contenuto di alcune intercettazioni in carcere tra il capomafia Totò Riina e i familiari. Una vicenda su cui dovrà pronunciarsi il tribunale etneo, competente in caso di coinvolgimento di magistrati nisseni. Alcuni stralci della conversazione tra il capo di Cosa Nostra e il figlio furono riportati dal Fatto Quotidiano. In particolare, nel pezzo uscito a ottobre scorso (di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza), si virgolettava una frase del padrino corleonese ritenuta ambigua dagli investigatori. “Quest’anno la Juve è una bomba”, diceva Riina. Parole apparentemente innocue che, a dire dei pm, avrebbero nascosto una minaccia a uno dei magistrati palermitani che indaga sulla trattativa Stato-mafia. La conversazione, peraltro, venne messa in collegamento con una lettera anonima giunta ai pm di Palermo in cui si denunciava il raggiunto accordo tra il boss latitante Matteo Messina Denaro e non meglio precisati “amici romani” per una ripresa della strategia stragista. Dopo la pubblicazione dell’articolo venne aperta un’indagine dai pm di Caltanissetta che, ipotizzando il coinvolgimento di un collega del distretto, trasmisero tutto a Catania. Vennero perquisite le abitazioni di due cronisti del Fatto, in una delle quali fu trovato un file dal quale, secondo l’accusa, sarebbe stato possibile dedurre un ruolo di Gozzo nella fuga di notizie. L’accusa in aula, oggi, è stata rappresentata dal procuratore aggiunto di Catania Carmelo Zuccaro che ha chiesto il rinvio a giudizio del collega, difeso dall’avvocato Francesco Crescimanno. L’autorità giudiziaria etnea dovrebbe inviare la decisione del gip al Consiglio Superiore della Magistratura che potrebbe aprire un fascicolo a carico del magistrato. Nico Gozzo, per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo.

Grasso lascia a mani vuote la Procura di Palermo. Il Presidente del Senato interrogato oggi ha smontato l'ipotesi della Procura sulla sempre più "presunta" trattativa Stato-Mafia, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Oggi, 11 luglio 2014, il presidente del Senato Pietro Grasso ha deposto come testimone dell’accusa nell’aula bunker dell’Ucciardone nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. I magistrati palermitani si aspettavano elementi particolarmente utili dalle dichiarazioni di Grasso, ex procuratore antimafia: in particolare sulle pressioni che Grasso avrebbe subito da parte di Gianfranco Ciani, procuratore generale della Cassazione, tramite l’intercessione del consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio, morto d’infarto nel 2012 (al culmine di una denigrante campagna mediatica) che aveva più volte raccolto per telefono gli sfoghi del senatore Nicola Mancino, preoccupato proprio di entrare nel tritacarne giudiziario del processo Stato-mafia. Ma la procura di Palermo è rimasta ancora una volta a mani vuote. Senza prove: solo suggestioni mediatiche. Infatti l’ex procuratore antimafia rispondendo a ogni domanda, ha sostenuto: «Nessuno mi chiese la formale avocazione dell’indagine trattativa tra Stato e mafia. È tutto documentabile». Ricordando l’incontro con Loris D’Ambrosio, Grasso ha dichiarato: «Mi parlò solo delle continue lamentele ricevute dal senatore Mancino, che si sentiva perseguitato per l’inchiesta sulla “trattativa”. Sapevo benissimo qual era il problema di Mancino: l’avevo incontrato a dicembre del 2011 per gli auguri natalizi. Fu un incontro veloce davanti al guardaroba del Quirinale. Mi disse che si sentiva perseguitato, che era ansioso perché vi erano delle differenti valutazioni su suoi comportamenti e omissioni dalle diverse procure». Per quanto riguarda invece l’incontro avvenuto il 19 aprile 2012 con Gianfranco Ciani, procuratore generale della Cassazione, Grasso ha spiegato: «Quando ero procuratore nazionale antimafia ricevetti una telefonata da Ciani, che si era appena insediato. In quell’occasione si parlò di problemi di coordinamento, problemi che potevano derivare dalla necessità di un’unità di indirizzo da parte di diverse procure (Caltanissetta e Palermo, ndr), che intervenendo sugli stessi fatti, sentendo le stesse persone, potevano avere valutazioni diverse». È notorio che in quel momento storico le maggiori frizioni tra gli inquirenti siciliani riguardavano il diverso giudizio espresso nei confronti del teste Massimo Ciancimino, bollato come «totalmente inattendibile, menzognero e dedito solo alla conservazione dei propri beni» dai magistrati nisseni; mentre veniva considerato «attendibile e caratterizzato da buona fede» dagli inquirenti palermitani. Il quadro che emerge dalle frasi dell’ex procuratore antimafia è che la Procura di Caltanissetta, seguendo pedissequamente le direttive, faceva circolare alle altre procure d’Italia tutti gli atti per un maggior coordinamento e scambio di materiale d’indagine; invece Palermo non collaborava. I magistrati di fronte a così forti dichiarazioni, con l’aula bunker piena di giornalisti, inizialmente hanno incassato il colpo con nonchalance. Ma poi sono iniziate le scintille con il presidente Grasso, soprattutto da parte del pm di punta dell’inchiesta Stato-mafia, Antonino Di Matteo. A un certo punto della deposizione, per esempio, Di Matteo ha chiesto a Grasso di fare chiarezza su un punto, precisando polemicamente di “aver trascritto letteralmente la frase pronunciata” dal testimone. Grasso ha risposto a tono: «Dottor Di Matteo, lei non ha annotato perfettamente il senso delle mie parole» e ha aggiunto: «Ribadisco: non ho mai parlato di pressioni, questa è sua deduzione. Nei miei incontri (con Ciani, ndr), tutti documentabili, non ho mai affrontato alcun tema processuale. Ripeto: il dibattimento di un processo non rientrava nelle mie funzioni. Ho detto le cose come sono andate e mi si può dare atto che nessuna interferenza ci fu mai da parte mia nelle indagini sulla trattativa». Al termine della sua deposizione, Grasso si è sfogato con il presidente della Corte d’assise: «Posso esprimere una mia sorpresa? Pensavo di essere ascoltato come testimone e anche come persona offesa, visto che qualcuno, come il pentito Giovanni Brusca, ha sostenuto che ero tra quelli a cui dare un colpetto. Solamente una piccola annotazione, perché non mi sarei mai costituito parte civile».

Stato-mafia: un papello leggendario. Manca il foglio originale con le richieste dei boss. Mancano i riscontri calligrafici. E sulla data esatta del papello i pentiti si contraddicono. Perde un altro pezzo l'ipotesi accusatoria della procura palermitana, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Il pentito Giovanni Brusca, interrogato venerdì 1° febbraio a Rebibbia durante l’udienza preliminare palermitana sulla trattativa Stato-mafia, accusa Nicola Mancino di essere stato il destinatario del «papello». Il papello, è un foglio di carta con 12 frasi che per la procura di Palermo, contiene le richieste dei boss allo Stato. È la fotocopia di una copia, consegnata ai magistrati della Procura di Palermo il 14 ottobre 2009 dai legali del figlio di Vito Ciancimino, Massimo. Una copia viene anche consegnata alla procura di Caltanisetta, tramite fax da una ricevitoria di Bologna.  L’originale non c’è. Ma per i magistrati di Palermo questo foglio sarebbe il suggello della trattativa fra Stato-mafia. La polizia scientifica ha repertato questa copia su mandato della Procura di Palermo,  comparando la grafia di 27 boss fra cui Gaspare Lo Nigro, Antonio Cinà, Piero Aglieri Leoluca, Bagarella, Francesco Bonura, Giovanni Brusca, Tommaso Cannella, Leoluca Di Miceli, Carmelo Gariffo, Vincenzo Giammanco, Antonino Giuffrè, Marianna Impastato, Arturco, Cinzia e Giuseppe Lipari, Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Totò Riina con i figli Giovanni e Giuseppe e Maria Concetta, Antonino Rotolo, Giacinto Sciacca, Carlo Greco, Giuseppe Madonia, Giovanni Mercadante e Bernardo Provenzano. La risposta arriva il 3 giugno 2010: “Le comparazioni con le restanti scritture hanno dato esito negativo”. Quindi il papello non ha paternità. Il 20 ottobre 2009 Mario Mori, nel processo cui lo vede indagato per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, dichiara al tribunale di Palermo che non c’è mai stata alcuna trattativa tra la mafia e lo Stato, e in una intervista successiva smentisce di aver mai ricevuto dalle mani di Ciancimino, né di alcun altro, il presunto papello, preannunciando azioni legali in merito. A parlare per primo del papello è stato proprio Giovanni Brusca: ne rivela l’esistenza nel settembre 1996, nell’aula bunker di Rebibbia davanti ai magistrati di Palermo, di Caltanissetta e di Firenze.  Il pentito secondo il racconto di Francesco Viviano, che su La Repubblica titola il 20 settembre 1996 Delitti eccellenti e trame di Stato, avrebbe rivelato che “nell’agosto del 1992 quando l’allora governo presieduto da Giuliano Amato prese delle dure contromisure nei confronti dei mafiosi contemporaneamente sarebbe partito un tentativo di trattativa tra spezzoni dello Stato e lo stesso Riina”. Brusca sostiene che attraverso alcuni mediatori siciliani, schegge degli apparati istituzionali, avrebbero sondato il capo di Cosa nostra per sapere a quale prezzo sarebbe stato disposto a cessare le stragi. Riina avrebbe elaborato un "papello" e cioè un elenco di richieste: “La sospensione del carcere duro, un ridimensionamento dell' uso dei pentiti, la garanzia di aggiustare i processi". Ma Brusca, a distanza di anni fornisce diverse versioni davanti ai magistrati sul leggendario “papello”,  soprattutto sulla sua datazione storica.   Il 27 marzo 1997, ancora Viviano, con l’articolo Riina trattò con lo Stato, su La Repubblica fornisce altri elementi importanti del verbale d’interrogatorio nell’aula bunker di Brusca.  Ecco il corpo del testo: “Dopo le stragi di Capaci e di via D' Amelio, Totò Riina presentò il papello, una sorta di conto e condizioni e "qualcuno si fece vivo". Secondo Brusca gli attentati di Falcone e Borsellino "si dovevano fare, però l'occasione fu sfruttata a livello politico per dire: se non la smettete ora noi continuiamo a fare altre stragi e secondo me è nato questo contatto, cioè il famoso contatto del papello". E il 30 luglio del 1997, sempre su quell’interrogatorio di Brusca a Roma, su La Repubblica a firma di Marina Garbesi, dal titolo Uccidevamo i suoi rivali ma poi Andreotti ci tradì,  emerge che “Brusca cita un famoso papello , una carta di richieste vergata da Totò Riina da presentare alle "autorità" dopo la strage di Falcone nel maggio del '92. Non entra nel dettaglio Brusca, le indagini sono ancora in corso, ma si apprende che il papello riguardava una revisione del carcere duro per i boss e una riforma della legge sui pentiti. Quindi il papello è collocato non più dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, ma a maggio 1992. Durante il processo di Firenze sulle stragi del 1993, il 13 gennaio 1998, lo “scannacristiani” di  San Giuseppe Jato viene sentito dai magistrati toscani e sul “mitico” papello aggiusta il tiro  sia sulla datazione storica e  sia sugli interlocutori.  “L’obiettivo era quello di  costringere lo Stato ad accettare le richieste di Cosa nostra: una trattativa sotterranea sarebbe stata avviata dopo l'uccisione di Giovanni Falcone". "Si sono fatti sotto - avrebbe detto Toto' Riina a Brusca nell'estate 1992 -, gli ho presentato un "papello" (un conto da pagare, n.d.r.) di richieste lungo così e ora aspetto una risposta". "Non so chi c'era dall'altro lato del tavolo, Riina non me l'ha detto - ha affermato Brusca -, non so se si tratti di magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni. Conoscendo chi gravitava intorno a Riina, posso dire però che la persona che può aver stilato il "papello" potrebbe essere il dottor Antonino Cina' (medico di Riina ndr), forse con Ciancimino o altri”. Quindi, nel 1998 Brusca, dichiara che il papello viene vergato dopo l’uccisione di Falcone e con magistrati, poliziotti, carabinieri o massoni.  Nel 2009 davanti ai magistrati siciliani, al Tribunale di Palermo, rivela che: “Nell' estate del 1992, tra la strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone e quella di via D' Amelio dove morì Paolo Borsellino, la mafia trattò con lo Stato. Da una parte Totò Riina, dall' altra «un uomo delle istituzioni». Riina mi disse il nome dell' uomo delle istituzioni con il quale venne avviata la trattativa con Cosa Nostra, attraverso uomini delle forze dell' ordine”. Il pubblico ministero gli chiede di rivelarlo ai giudici, ma il pentito ribatte: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere; vi sono indagini in corso e non posso rivelare nulla”. E a alla domanda del penalista Piero Milio, durante il controesame, su dove avesse visto il papello, Brusca risponde candidamente: “L’ho dedotto... no l’ho dedotto, l’ho letto su La Repubblica”. L’ultima dichiarazione oggi nell’aula bunker del carcere di Rebibbia all’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia. Il destinatario del papello, sarebbe Nicola Mancino, e ridata il papello, “dopo la strage di Capaci e prima di via D’Amelio”. Le varianti di Brusca, rese a verbale e poi ritrattate sulla collocazione storica del papello, e su i nuovi interlocutori della presunta trattativa fra Stato e mafia, che si affacciano via via sulla scena come un canovaccio teatrale sono pittoresche e suggestive. Se non fosse che vengono dichiarate in un’aula di giustizia da parte di un sedicente “pentito”, il macellaio della strage di Capaci, ritenuto credibile dalla Procura di Palermo, che oggi davanti al gup Morosini, proclama: “Totò Riina è il mio maestro d’arte”.

Due lettere anonime dei boss smentiscono il teorema Stato-mafia. I messaggi di morte spediti al Ministero dell’Interno e all’Ansa. Nel mirino i venti nemici di Riina: Vigna, Maria Falcone, Caselli, Violante, Di Maggio, il legale di Buscetta e funzionari Dia, scrive Anna Gemoni su “Panorama”.Illustre signor Direttore le consiglio di far fare delle fotografie e delle interviste ai signori che le elenco perché nei prossimi mesi saranno tutti ammazzati e quindi le verrà comodo avere le loro foto e delle belle interviste su cui poter parlare”. Questo è il testo anonimo scritto su un foglio bianco: segue la lista dei nemici di Totò Riina. Il foglio stava dentro una busta gialla con il mittente del Comune di Corleone, spedita da Villabate e giunta alla redazione dell’agenzia Ansa di Palermo il 14 giugno 1994. La missiva comprendeva una ventina di «signori» (lo stesso identico termine era stato usato da Totò Riina il 25 maggio dello stesso anno in tribunale a Reggio Calabria quando, durante una pausa del processo a suo carico per l’omicidio del giudice Scopelliti, il boss aveva lanciato un anatema contro Luciano Violante, ex presidente della commissione antimafia, contro Pino Arlacchi, deputato pidiessino, e  contro Gian Carlo Caselli, procuratore capo di Palermo). Nel nuovo elenco dei nemici del boss inviato alla redazione dell’Ansa, oltre ai nomi fatti dal Riina in aula figurano: Maria Falcone; Davide Grassi, figlio dell’imprenditore Libero Grassi; il pm Roberto Scarpinato; l’onorevole democristiano e fratello di Piersanti Mattarella, Sergio Mattarella; alcuni sindaci del palermitano e Luigi Li Gotti, allora legale di Tommaso Buscetta. Chiudono la lista, due preti antimafia: Antonio Turturro e Antonio Garau. Il messaggio viene subito consegnato al questore di Palermo e il 18 giugno la procura apre un’indagine. Ma pochi giorni prima, il 1° giugno 1994, un’altra lettera anonima, zeppa di minacce mafiose, era intanto arrivata al ministero dell’Interno. Nel testo viene fatto il nome di Riina, che avrebbe l’intenzione di compiere alcuni attentati. Nel mirino sono: Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento presidente della Repubblica; Pino Arlacchi, autore del saggio Addio Cosa Nostra: la vita di Tommaso Buscetta (Rizzoli); l’allora procuratore capo della Repubblica di Firenze, Pier Luigi Vigna; il leader della Lega Nord, Umberto Bossi; alcuni noti dirigenti della direzione investigativa antimafia e Francesco Di Maggio, al tempo vicedirettore del dipartimento amministrazione carceraria. Con questi due messaggi di morte, a distanza di quasi due settimane l’uno dall’altro e se si aggiungono, verso fine maggio, le maledizioni di Riina in tribunale, Cosa nostra semina di nuovo l’incubo bombe. Le elezioni amministrative si dovevano ancora svolgere, ma le politiche c’erano state il 27 e 28 marzo 1994. Il 15 aprile si era insediato a Palazzo Chigi un esecutivo guidato da Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, questo è il periodo nel quale, per la Procura di Palermo, era in corso la cosiddetta trattativa fra uomini dello Stato e mafia. Secondo l’ipotesi dei magistrati palermitani, titolari dell’indagine, il numero 2 del Dap, Di Maggio, avrebbe allentato il 41 bis già nel 1993 proprio per il presunto patto con  Cosa nostra. Ma allora perché mai Riina in quello stesso momento lo vorrebbe morto, insieme a Vigna, a Maria Falcone, e ad alcuni dirigenti della Dia?  Forse voleva dividere il Parlamento sul 41 bis e sulla legge dei pentiti? Perché irrompere così nella scena italiana, se la trattativa  fra mafia e Stato era iniziata e stava proseguendo? L’effetto di quelle minacce, comunque, non sortisce l’effetto auspicato da Riina. La compagine del governo non si spacca e dopo una bufera prevedibile tra i banchi di Montecitorio, tutti si compattano. I segnali di allarme e incubi attentati vengono subito recepiti dall’esecutivo centrale, dagli 007, dalla magistratura e dalla politica bipartisan. Già quando il boss corleonese  lancia la condanna  a morte contro “i comunisti”, Scalfaro interviene di corsa, mandando un telegramma  al vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, che Panorama pubblica qui sotto, per chiedere un’azione forte dal Palazzo dei Marescialli, nei confronti di quel giudice che aveva permesso quello show. Bruno Siclari, capo della procura nazionale antimafia, su Repubblica dichiara: “La mafia stava alla finestra per vedere se il nuovo governo dava segni di incertezza. Ora hanno capito che da parte nostra non c’è alcun cedimento ed è possibile qualsiasi reazione”. Siclari preannuncia altri attentati e sullo stillicidio  quotidiano sul 41 bis dice: “Per i mafiosi è una questione essenziale. Le bombe di Firenze, Milano e Roma avevano questo obiettivo. Così come la campagna che hanno scatenato ora. Non va toccata la legge sul 41 bis e sui collaboratori di giustizia”. Medaglia d’oro all’esecutivo azzurro anche da parte di Violante. “Non facciamoci dividere da Riina – afferma – Berlusconi non sta avendo cedimenti. E Maroni sta lavorando bene”. Vigna, uno dei 20 condannati a morte dai boss ha aggiunto: “Forse Riina ha confermato la strategia che sta dietro le stragi del ' 93. Cosa nostra voleva fermare l'azione dello Stato che si era fatta incisiva grazie anche ai pentiti". Anche Vittorio Teresi, all’epoca sostituto procuratore di Palermo, ora titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia,  ha le idee chiare su quelle missive e a Repubblica traccia un’analisi, facendo un excursus “dalle lettere del Corvo nella primavera del 1989 o di quell’anonimo di otto pagine a cavallo delle due stragi del 1992” sostenendo che “all’azione armata contro determinati obiettivi precede o segue il proclama che chiarisce che la mafia spera di trovare una sponda ferma nell’area di governo sull’articolo 41 bis. Importante per i mafiosi è che venga sempre e comunque riconosciuta la matrice”. Prima lo show di Riina, poi due lettere di morte rivolte a persone di altissimo profilo. Nel ‘94 Cosa nostra punta a nuove stragi. I riflettori sono ben accesi sul 41 bis, sulla legge dei pentiti e sulla confisca dei beni. Tutti, sanno cosa vogliono i boss.  Ma se  la trattativa Stato-mafia era in atto, che interesse avrebbe avuto Cosa nostra a uscire allo scoperto, attirando su di sé l’attenzione negativa di tutto il mondo istituzionale e investigativo, e risvegliando anche l’opinione pubblica? Perché, porprio in un momento così delicato, si sarebbe cercato lo scontro frontale con lo Stato?  Se si sperava di trovare una riva ferma dal mondo politico sul 41 bis, come dice il pm Teresi, vuol dire che Riina non aveva trovato alcuna sponda o cedimento, né esisteva alcuna trattativa con lo Stato…

Stato-mafia: sentenza Mori, le motivazioni - documento. I giudici in 1300 pagine: le tesi della Procura di Palermo risultano «enfatizzate».Niente patto per Provenzano, scrive  Anna Germoni su “Panorama”. I giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo, che il 17 luglio scorso hanno assolto «perché il fatto non costituisce reato» il prefetto Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995 a Palermo, in 1322 pagine di motivazione della sentenza depositate ieri sera, sbriciolano tutto l’impianto accusatorio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Secondo il tribunale non ci sarebbe stato alcun patto o accordo per la mancata cattura del boss corleonese. Le mancate revoche del 41 bis del 1993, che secondo i magistrati erano la «prova» del patto scellerato tra Stato- mafia, essendo esigue e irrilevanti non sono da mettere in relazione con la tesi accusatoria, vista la pronta risposta dello Stato, anzi l’impianto della procura risulta «enfatizzato» troppo dai pm. Il giudice Borsellino non fu ucciso per la trattativa, mancano le prove. Il Collegio boccia le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Brusca, Mutolo e Lo Verso. Inoltre, per la mancata cattura del boss Nitto Santapaola nel 1993, mancano le prove a carico degli imputati. E ancora, Massimo Ciancimino «l’icona antimafia» e il colonnello Michele Riccio, principale testimone da cui prende il via il processo a carico di Mori, considerati come validi prodi dai magistrati siciliani, dal tribunale vengono bollati come «inaffidabili» e che non si esclude la loro «consapevole e deliberata falsità delle stesse dichiarazioni». Ci sarebbero state per Mori ed Obinu, «sia pure alla stregua di un giudizio, ex post, scelte operative discutibili» ma niente trattativa con la mafia. Insomma un macigno che irrompe nella procura di Palermo e che rotola immediatamente davanti alla corte d’assise, dove si sta celebrando il processo sulla trattativa fra uomini dello Stato e capimafia. «Le ipotesi, per quanto plausibili, restano ipotesi e nuoce alla complicata attività di verifica della fondatezza delle stesse la diffusa inclinazione a trasformarle in fatti (sia pure rimasti, per il momento, sforniti di prova). Per un P.M. e, a maggior ragione, per un giudice è questo un punto fermo, dal quale non si può prescindere».  «In sede di requisitoria il P.M. ha insistito sull'addetto movente della condotta contestata, evidenziando che la stessa non era stata determinata da vituperabili motivi personali, da collusione, da corruzione o da viltà. Considerati anche il passato degli imputati ed il loro comportamento processuale(essi, come ricordato, rinunciando alla prescrizione non si sono sottratti al giudizio), non appare in linea con la premessa la estrema severità della sanzione richiesta dal P.M., che sembra tradire lo sforzo di imprimere agli avvenimenti una peculiarissima gravità, sforzo forse disancorato da una lettura contestualizzata degli stessi». «La oggettiva analisi della evoluzione della vicenda di Cosa Nostra dalle stragi del 1992 ad oggi, caratterizzata da una incisiva offensiva promossa contro la organizzazione criminale dallo Stato sul piano normativo, sul piano delle investigazioni e della cattura dei latitanti e sul piano delle (conseguenti) statuizioni giudiziarie (costituite dalle decisioni di condanna e di applicazione di misure di prevenzione, soprattutto patrimoniali), propone un punto fermo, dal quale tracciare una utile e congrua linea valutativa, che il Tribunale non ritiene possa essere messo in discussione: negli ultimi venti anni, dopo la stagione delle manifestazioni più violente di Cosa Nostra, che sembravano all'epoca incontrastabili, la cattura del boss Salvatore RIINA ha costituito una svolta che ha ridato fiducia e slancio alla azione di contrasto alla associazione mafiosa, che da lì in poi ha conosciuto una ragguardevole continuità. E se anche nell'autunno del 1993 si scelse di lanciare a Cosa Nostra un segnale di distensione, non rinnovando, per alcune centinaia di detenuti, il regime differenziato previsto dall'ari. 41-bis O.P., dovrebbe, comunque, ritenersi che tale momentaneo cedimento, che, per quanto rilevante, sembra essere stato eccessivamente enfatizzato dall'Accusa (non vennero concessi particolari benefici ai mafiosi, ma si applicò a parecchi esponenti della criminalità organizzata - di cui solo 80 una limitata parte appartenenti a Cosa Nostra - un regime restrittivo meno rigoroso), sia avvenuto anche per cercare di evitare i colpi di un terrorismo mafioso che sembrava, in quel momento, incontrollabile. dirsi che una interpretazione degli avvenimenti che non tenga conto della peculiarità dei contesti temporali in cui si è operato rischia di essere fuorviante e di fare apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz'altro complicità o connivenze gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori». «Il Tribunale, riservandosi di vagliare l’affidabilità delle singole indicazioni del MUTOLO che riterrà rilevanti, non ritiene che possa, in termini generali, riconoscersi al medesimo un elevato grado di attendibilità»; «il Tribunale ritiene che sia ragionevole attribuire al LO VERSO, almeno per quanto riguarda le dichiarazioni che direttamente interessano questo processo, un insufficiente grado di intrinseca attendibilità»; «volendo trascurare la tardività di alcune affermazioni del BRUSCA ed il sospetto che possibili fattori inquinanti abbiano suggerito al collaboratore alcune integrazioni (per esempio: la sopravvenuta conoscenza delle dichiarazioni nel frattempo rese da Massimo CIANCIMINO sull'on. MANCINO; la possibile, sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatone determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza anche in dipendenza dei nuovi reati che gli venivano contestati), si può dire che il propalante sia portatore, di massima, di conoscenze solo indirette e assai lacunose e che le sue indicazioni temporali siano particolarmente oscillanti ed incerte. In conclusione, alla stregua di quanto esposto, alle specifiche indicazioni del BRUSCA non può attribuirsi un sufficiente grado di affidabilità». «Alla stregua delle rassegnate risultanze si deve affermare che gli atteggiamenti del dr. BORSELLINO riferiti dal MUTOLO sono rimasti senza riscontro, così come senza riscontro è rimasta la eventualità che lo stesso dr. BORSELLINO abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una "trattativa" in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra. Da ultimo, si deve rilevare che alcuni dati sembrano indicare che la strage di via D'Amelio fosse già programmata da tempo e non sia stata frutto di una decisione estemporanea, dettata da contingenze del momento». «Immaginare che l'eliminazione del dr. BORSELLINO avrebbe spianatola strada alla "trattativa" significherebbe ammettere l'assenza nel Paese di forze che si sarebbero strenuamente opposte ad una soluzione che, se si volesse prendere per buono il "papello" consegnato da Massimo CIANCIMINO, avrebbe richiesto radicali riforme normative favorevoli alla mafia. Altre sedi processuali accerteranno, se sarà possibile, se il dr. BORSELLINO sia stato barbaramente assassinato per eliminare un ostacolo ad una soluzione concordata fra lo Stato e Cosa Nostra, ovvero per impedirgli di acquisire l'incarico di Procuratore Nazionale Antimafia, per il quale era stato pubblicamente indicato dal Ministro SCOTTI, o, ancora, per la sua ferma volontà di individuare gli assassini del dr. Giovanni FALCONE o per il suo interessamento, in quest'ambito, alla indagine mafia-appalti, che risulta dalle indicazioni di molteplici fonti. In proposito, si può fare rinvio alle dichiarazioni dei dr.i NATOLI ed INGROIA». «Lo stesso dr.INGROIA ha riferito alla Corte di Assise di Caltanissetta dei timori per la incolumità del dr. BORSELLINO successivi alla strage di Capaci, ricordando che il magistrato sosteneva che il dr. FALCONE, finché in vita, era stato per lui uno scudo, che il medesimo era consapevole di essere predestinato alla uccisione dopo l'assassinio dello stesso dr. FALCONE e sottolineando come la strage di via D’Amelio fosse “prevedibilissima”».

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

Eppure la demagogia e l'ipocrisia non si spegne.

La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.

Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.

Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.

«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.

Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.

«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».

Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?

«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».

Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?

«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».

Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?

«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».

Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?

«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».

Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi. 

«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».

Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?

«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l'Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello...

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell'alveo?

«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

MARCELLO DELL’UTRI. LA VERA STORIA.

Dell'Utri e la balla dei libri rubati. L'ex senatore, in carcere a Parma, viene accusato dai mass media di avere "ricettato decine di migliaia di libri antichi". Ma non è vero, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". Ancor più che nel salto sul carro del vincitore, uno sport nel quale eccellono a livello mondiale, gli italiani sono campioni olimpionici nel tiro allo sconfitto. Prendiamo Marcello Dell’Utri: già senatore di Forza Italia e del Pdl, dal 13 giugno 2014 Dell’Utri è recluso nel carcere di Parma a causa di una controversa condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uomo è atterrato, vinto. Anche se negli anni Novanta ha già dato prova di una grande tempra, durante una lunga custodia cautelare nel carcere di Torino, dove aveva trascorso il tempo leggendo I pensieri di Sant’Agostino. Per qualche tempo sui giornali si scrive del disagio del condannato per la sua impossibilità di tenere più di un libro per volta in cella: del resto, la passione di bibliofilo dell’ex numero uno di Publitalia è nota. Poi su di lui cala il silenzio. Ma la gogna non può accontentarsi, deve insistere. E allora che cosa accade, improvvisamente, il 31 marzo scorso? Accade che su più giornali, contemporaneamente, escono articoli nei quali si racconta che Dell’Utri è nuovamente nei guai. E che guai. Titoli e articoli sono a dir poco disastrosi, e non solo perché lo colpiscono nella sua grande passione: “Indagine su Dell’Utri per ricettazione: 10 mila libri da chiese e biblioteche” scrive il Corriere della Sera. Aggiunge il Fatto quotidiano: “L’ex senatore è accusato di ricettazione e di esportazione illecita di opere d’arte che per gli inquirenti valgono milioni di euro”. La Repubblica insiste: “Volumi stimati milioni di euro trafugati a enti pubblici e religiosi”. “Sequestrati a Dell’Utri 20 mila libri antichi rubati da biblioteche”, spara il Messaggero. Nessuno si sottrae all’attacco. Si parla di una rete di complici, attiva nella fornitura di libri rubati. Emerge la figura di un Dell'Utri, se possibile, ancor più abominevole di quella che lo vuole "amico dei mafiosi": espone un potente e ricco razziatore di chiese e di biblioteche, alla continua ricerca di libri antichi e ovviamente preziosissimi. Così che anche un'altra tra le caratteristiche positive dell'uomo, la sua cultura e l'amore per la pagina scritta, venga devastata. A nulla serve che Giuseppe Di Peri, l'avvocato che di Dell'Utri è lo storico difensore, controbatta quello stesso giorno con un comunicato stampa nel quale ricorda che “l’indagine è partita dalla Procura di Napoli nei confronti di Massimo De Caro”, già direttore della biblioteca nazionale dei Girolamini, a Napoli, e accusato di avervi sottratto numerosi libri, e aggiunge che Dell’Utri in realtà "ha collaborato con l’autorità giudiziaria mettendo spontaneamente a disposizione e consegnando tutti i volumi ricevuti in dono da De Caro”. Dal comunicato si capisce inoltre che il sequestro non è un fatto nuovo, né pertanto una notizia, perché in realtà risale al 12 aprile 2014. E a nulla probabilmente servirà il comunicato inviato oggi dallo stesso Dell'Utri in cui si dice che "Ancora una volta, partendo da notizie su indagini in corso, è stata posta in essere una campagna denigratoria e diffamatoria a mio danno. Sulla base di mere supposizioni investigative sono stato indicato come un ricettatore e un ladro, al cui confronto impallidisce la mitica figura di Guglielmo Libri. Quest’accusa è per me inaccettabile e mi ferisce più della stessa detenzione. Ho acquisito e raccolto uno per uno i volumi attraverso librerie antiquarie italiane ed internazionali, aste, mostre, bancarelle e privati collezionisti in un arco di tempo di oltre quarant’anni. E se anche, quindi, su decine di migliaia di testi si dovesse rinvenire qualche volume di cui è sospettabile la provenienza, sarebbe assurdo ritenermene responsabile. A testimonianza della mia buona fede, basta considerare che i libri in questione sono stati dettagliatamente descritti, catalogati e messi a disposizione del pubblico nella biblioteca milanese di Via Senato; pubblicati nel bollettino mensile della stessa ed esposti in numerose mostre tematiche. Ciò a riprova del fatto che mai ho dubitato della origine lecita degli stessi. La diffusione delle infamanti notizie mi ha colto nell’impossibilità di rispondere tempestivamente, data la condizione di prigioniero, limitativa della mia possibilità di difesa. Per quanto detto, e viste la superficialità e la scorrettezza con cui i “media” – e chi li ha informati – hanno trattato la vicenda, intendo rivolgermi all’Autorità Giudiziaria per ristabilire la verità dei fatti a tutela della mia dignità". Tutto, è inoltre avvenuto dopo che Dell'Utri ha catalogato ed esposto al pubblico i suoi libri nei locali della biblioteca di via Senato, a Milano. Se mai l'ex senatore avesse avuto la certezza che alcuni di quei volumi erano frutto di un furto, di certo non si sarebbe esposto a quel rischio. Aggiunge Di Peri: "Il sequestro è servito solo a consentire l'esame dei volumi in un luogo diverso rispetto a quello dove erano custoditi,tenuto conto sia del loro numero, sia del tempo necessario per il loro esame". Per di più, il legale spiega che i libri "sospetti" non sono 10 o 20 mila, ma sono pochi, alcune unità. E quindi se anche su decine di migliaia di testi si dovesse sospettare della legittima provenienza di qualche volume, sarebbe assurdo ritenerne in qualche modo responsabile l'ex senatore. Tutt'al più potrebbe trattarsi di un "incauto acquisto". Conclude il penalista: "Ipotizzare, come hanno fatto alcuni media, che vi sia una rete di complici in grado di fornire illegalmente volumi antichi e preziosi a Dell'Utri è una congettura, neppure suffragata dall'esito di indagini". Tutte balle, insomma, Ma intanto la gogna , ancora una volta, ha colpito nel segno.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Marcello Dell'Utri, ecco la vera storia raccontata dalle carte. Dell'Utri è tornato ed è in galera: ieri mattina è atterrato a Fiumicino con un volo da Beirut e un'ambulanza l'ha portato subito in carcere a Parma, dove un centro clinico potrà sorvegliare i postumi dell'intervento al cuore a cui si è sottoposto due mesi fa. È lo stesso carcere dove c'è Totò Riina e dove c'era Bernardo Provenzano. Dell'Utri deve scontare 7 anni. Dopodiché, senza girarci attorno, la domanda resta la stessa: esiste una terza via tra innocentisti e colpevolisti? Esiste un terzo dell'Utri tra il raffinato bibliofilo e il grezzo affiliato? Tra Publitalia e una cosca? Forse esiste, sì, ed è desumibile dalle stesse carte che la difesa ha utilizzato per dipingerlo come un giglio e che l'accusa ha utilizzato per inchiodarlo alla sua sicilitudine. Carte accumulate dal 1994 a oggi. Ci si occupa dell'accusa principale, naturalmente: della mafiosità, non del cascame residuale fatto di improbabili estorsioni a Berlusconi, abusi edilizi, false fatture, cazzate tipo P3 e altre sciocchezze da sovraesposizione. Il cuore del problema è la storia di un uomo che si incaricò e fu incaricato di proteggere Berlusconi - consenziente - in anni in cui la criminalità e la mafia prendevano di mira soprattutto imprenditori come il Cavaliere. Mettiamola così: se anche fosse stato un mafioso, Dell'Utri, sarebbe stato un mafioso di serie C. Certo, i giudici palermitani hanno scritto di un "sodalizio mafioso", ma in pratica il reato di Dell'Utri (non di Berlusconi, che figura come vittima) consisterebbe nell'aver riagganciato un vecchio amico in odore di mafia, Gaetano Cinà, affinché le sue conoscenze consentissero di arrivare a grossi calibri mafiosi: questo al fine di apprendere, dai medesimi, le condizioni che potessero consentire una pax imprenditoriale e familiare per Berlusconi. Un mediatore: Dell'Utri è configurato come un canale di collegamento (neppure particolarmente quotato) tra alcuni estorsori professionali e un'emergente realtà industriale che negli anni ’70 non poteva illudersi - come non avevano potuto illudersi la Fiat o la Ferruzzi, per dire - di non pagare dazio alla criminalità. I magistrati hanno scritto di "accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri... è probatoriamente dimostrato che Dell'Utri ha tenuto un comportamento di rafforzamento dell'associazione mafiosa fino a una certa data, favorendo i pagamenti a Cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest". Pagare la mafia, o farla pagare, in quest'ottica viene equivalso a rafforzarla. Si potrebbe azzardare una similitudine: è come scoprire che un esercente pagava il pizzo per proteggere la sua attività e la sua famiglia e che un suo dipendente, delegato a "risolvere problemi", fece tutto ciò che ritenne necessario per risolverli. Ma c'è una differenza sostanziale: pagare il pizzo in Italia non è reato (anche se certa giurisprudenza vorrebbe che lo fosse) e però le cose cambiano se vai a parlare con quelli che il pizzo lo pretendono, e che magari ti hanno già fatto saltare la saracinesca del negozio: questo in Italia - e solo in Italia - configura il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che presuppone una connivenza coi tuoi estorsori. In Italia una "mediazione" del genere viene equivalsa a un appoggio alla mafia: al pari, giurisprudenza alla mano, di medici che abbiano curato mafiosi o di preti che li abbiano confessati. In genere per avvalorare questa giurisprudenza si ricorda che fu Giovanni Falcone, il 17 luglio 1987, a firmare una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa: ma, nei fatti, il giudice non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi di reato. Naturalmente le similitudini valgono quello che valgono, e pm e giudici in realtà hanno avvalorato scenari più foschi: ma neanche tanto, e comunque sono rimasti perlopiù indimostrati. Anche la celebre assunzione di Vittorio Mangano come stalliere di Arcore, in fin dei conti, rientrò in un quadro di tutela dell'incolumità della famiglia Berlusconi. Poi vai a sapere quanto sia davvero credibile il racconto del pentito Francesco Di Carlo, secondo il quale nel 1975 ci fu addirittura una riunione "negli uffici di Berlusconi" alla quale parteciparono Dell'Utri e i boss Girolamo Teresi e Stefano Bontade. La Cassazione ha ritenuto credibile l'incontro, e in quella sede, a suo dire, fu presa la "contestuale decisione di far seguire l'arrivo di Vittorio Mangano presso l'abitazione di Berlusconi in esecuzione dell'accordo" sulla protezione ad Arcore. Quel che è certo è che c'erano da proteggere le emittenti televisive che Fininvest cominciava a gestire in Sicilia. E che, come ha confermato la Cassazione, in fin dei conti i rapporti di Dell'Utri con Cosa nostra sono provati soltanto dal 1974 fino al 1977. Questo è il “mafioso" Dell'Utri, che vanamente si è cercato di dimostrare che sia rimasto mafioso anche negli anni della formazione di Forza Italia. Ma questa tesi, cara a Ingroia, non è passata. Tutto il resto, quasi per stanchezza, sì.

LA SICILIA DEGLI SPRECHI.

E’ ancora un’intesa di massima, non formalizzata, ma presto i burocrati dell’Assemblea regionale siciliana (consiglieri ma anche stenografi, segretari…) avranno lo stipendio tagliato fino al limite massimo di 240mila euro lordi l’anno, con qualche eccezione. D’altra parte il siciliano Gianfranco Miccichè, candidato non eletto con Forza Italia a Strasburgo, fa presente che con la pensione da parlamentare (4000 euro al mese) “non si campa”. Sembrava banale: allineare lo stipendio di queste figure professionali a quello di tutte le altre cariche pubbliche, dal presidente della Repubblica (230mila euro l’anno), ai manager pubblici. Ma semplice non lo è affatto, sia per le difficoltà incontrate, sia per la macroscopica eccezione siciliana: per dirne una, con il nuovo tetto uno stenografo con 20 anni di servizio potrà guadagnare al massimo 200mila euro l’anno, lordi. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, guadagna 114mila euro lordi all’anno. Il limite, per i consiglieri parlamentari siciliani, sarà quello di 240 mila euro lordi annui. A seguire gli stenografi (200 mila), i segretari (145 mila), i coadiutori (110 mila) e gli assistenti (92 mila euro). E per far passare la nuova regola ce n’è dovuto di impegno, di compromessi. Sono salve le pensioni d’oro infatti, altrimenti i burocrati più anziani avrebbero affossato la nuova norma. Come scrive Emanuele Lauria su Repubblica: Ma se da un lato il presidente dell’Ars fa calare la scure sugli stipendi dei dipendenti per il futuro, dall’altro salva i grand commis più anziani e benestanti. La proposta che si va a concretizzare, infatti, contiene una clausola di fuoriuscita: chi lascia l’amministrazione entro un anno mantiene il superstipendio e il “maturato contributivo”. Significa che conserva pure il diritto a una pensione d’oro. Pare sia la norma grazie alla quale Ardizzone ha trovato il lasciapassare dei pezzi da novanta dell’amministrazione.

Ma tanto per quel che conta. Il 118 in Sicilia e quei mille addetti regolarmente pagati per non lavorare. Bastavano 2400 autisti ma ne furono assunti 3350, senza concorso per uno spreco di valutato tra i 25 e i 30 milioni di euro all’anno, scrive Michele Schinella su “Il Corriere della Sera”. Per tenere operative 24 ore al giorno le 256 ambulanze del 118 siciliano bastavano 2400 autisti ma ne furono assunti 3350, senza concorso. I mille lavoratori in esubero, pur costretti a rimanere con le braccia conserte per tre anni, sono stati regolarmente pagati. Lo spreco valutato tra i 25 e i 30 milioni di euro all’anno è finito ora all’attenzione della Procura della Corte dei conti. La mega assunzione avvenne nel luglio del 2010 e fu preceduta da una proposta che costò all’allora assessore regionale alla Sanità Massimo Russo una denuncia da parte della Cgil. Era gennaio del 2010 quando l’esponente del Governo guidato da Raffaele Lombardo «per porre fine agli sprechi» come dichiarò, decise di togliere alla Croce Rossa italiana il 118 e di affidarlo a una società interamente pubblica costituita tra le 17 Aziende sanitarie e la regione Sicilia, la Seus Spa. Negli stessi giorni l’ex magistrato della Procura di Palermo scoprì dall’Avvocatura dello Stato cui aveva chiesto un parere che doveva essere la regione Sicilia a pagare i 50 milioni di euro di straordinario che i 3350 dipendenti della Croce rossa reclamavano. Il motivo? Avevano tutti un contratto part time e il loro monte orario complessivo non bastava a tenere sempre attive le ambulanze dislocate in Sicilia: per anni, invece di aumentare l’orario di lavoro ordinario settimanale di ciascuno di loro si era ricorso all’uso massivo dello straordinario, meglio remunerato. All’assessore, alle prese con il Piano di rientro imposto dal Governo nazionale, venne un’idea che formulò in una proposta: «Se gli autisti rinunciano a quanto spetta loro di straordinario li assumiamo nella nuova società pubblica, il loro contratto diventa full time e gli applichiamo il Contratto collettivo dell’Aiop (ospedalità privata) economicamente più vantaggioso. Chi non accetta può tornare a casa». Inutile dire che accettarono tutti, sindacalisti compresi, tranne il segretario regionale della Funzione pubblica della Cgil Michele Palazzotto che presentò un esposto per estorsione nei confronti di Russo: “I lavoratori hanno diritto a tutti i loro soldi e al passaggio nella nuova società”, rivendicò il sindacalista. Il risultato del do ut des? La carenza si trasformò in esubero di personale. “Una parte di questi li riqualificheremo come operatori socio sanitari e li impiegheremo nelle strutture sanitarie pubbliche; gli altri effettueranno i servizi di trasporto interno per conto degli ospedali”, assicurò Russo. L’operazione, però, ha avuto tempi biblici. Dino Alagna, sino a qualche giorno fa direttore sanitario della società pubblica, spiega: “E’ stato molto faticoso, ci sono state tante difficoltà e resistenze, ma solo da febbraio del 2014 non c’è più alcun dipendente della Seus inattivo”. L’affidamento da parte della Regione del 118 e dei servizi di trasporto ospedaliero senza gara alla Seus Spa era stato bocciato dall’Autorità di vigilanza sui pubblici contratti. Secondo l’organismo allora presieduto da Sergio Santoro entrambe le operazioni sono state effettuate “in violazione delle regole di libera concorrenza di derivazione comunitaria” e sono causa “di aggravi di costi per le casse pubbliche”: la delibera è stata così trasmessa alla Procura della Corte dei conti. Tuttavia, alla fine del 2012 il governo regionale guidato da Rosario Crocetta ha rinnovato il contratto si servizio alla Seus Spa. Nei successivi mesi del 2013 per sanare le illegalità rilevate dall’ Avcp lo Statuto della società pubblica è stato profondamente modificato. La gestione del servizio di emergenza siciliano era già finita all’attenzione della Corte dei conti: nel mirino della Procura i provvedimenti grazie ai quali le ambulanze erano lievitate (in due occasioni ma sempre alla vigilia di tornate elettorali) passando dalle 150 del 2004 a quasi doppio nel 2007. L’organo di responsabilità contabile il 27 febbraio del 2013 ha condannato 18 esponenti politici a pagare complessivamente 13 milioni di euro. Gli assessori della Giunta di Totò Cuffaro e i membri della Commissione Sanità dell’Ars sono stati ritenuti colpevoli non di aver aumentato il numero della ambulanze, ritenuto opportuno per adeguarlo agli standard delle altre regioni, ma perché contestualmente incrementarono “da dieci a dodici il personale addetto ad ognuna delle 258 ambulanze”. “L’operazione – rilevarono i giudici - è stata attuata previa repentina ed immotivata riduzione da 36 a 30 ore settimanali dell’orario individuale di lavoro”. Il contratto si trasformò così in part time e divenne la causa originaria della nuova inchiesta della Procura della Corte dei conti. I magistrati contabili conclusero: “La vera ragione di tale abnorme incremento del numero di autisti può essere rinvenuta soltanto in una causale clientelare diretta all’assunzione alle dipendenze della Croce rossa (con oneri finanziari scaricati sulle finanze della Regione siciliana) dapprima di “corsisti” e poi anche di “lavoratori interinali”, già impiegati nel settore”.

«A mmia?!?» Rosario Crocetta, precipitatosi a batter cassa a Palazzo Chigi per strappare un «aiutino» di Letta a tappare l’emergenza finanziaria, dice che non riesce a capire perché, dopo anni di complice lassismo, il commissario di governo ha bocciato proprio il bilancio suo: «Ma se sono i miei predecessori ad aver fatto quel buco!». Fatto sta che, bianca, azzurra o rosé, non c’è verso che la Regione siciliana trovi un suo equilibrio. Così scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Che l’isola sia stata amministrata per decenni in modo indecente («e ancora lo è», accusano i nemici del governatore) è dura da contestare. Basti leggere un’Ansa: «Il procuratore generale della Corte dei conti in Sicilia, Giuseppe Petrocelli, nella requisitoria per il giudizio di parificazione del rendiconto della Regione, ha sostenuto che nell’ isola “c’è un concentrato di malgoverno nel quale emerge l’esplosione delle spese a scopo clientelare o demagogico”». Ce l’aveva con le «regalie di ogni tipo destinate pressoché esclusivamente a essere utilizzate come meccanismo di formazione e perpetuazione del consenso». Era il giugno 1990. Quasi un quarto di secolo fa. Da allora, non c’è presidente scelto prima con una pastetta fra i partiti o più tardi votato direttamente dagli elettori che non abbia giurato d’avere cominciato a risanare i conti. Lo ha fatto da sinistra Angelo Capodicasa: «Pur non essendo condivisibili i toni allarmistici la situazione desta serie preoccupazioni e occorre adottare subito politiche di bilancio, correttivi legislativi e atteggiamenti di governo che siano in grado di riportare sotto controllo la spesa e individuare obiettivi di risanamento per la crescita». L’ha fatto da destra Totò Cuffaro: «Pur proseguendo sulla strada del risanamento e del contenimento della spesa pubblica, questo governo ha dimostrato di saper operare delle scelte importanti per il rilancio dell’economia...» L’ha fatto da posizioni autonomiste Raffaele Lombardo: «Da diverse settimane stiamo operando nel senso di un risanamento dei conti, che dovrà portarci a tagliare sprechi, non solo nel settore della sanità e del personale...» Eppure, non c’è stata finanziaria che non sia stata bacchettata dalla Corte dei conti. Anno dopo anno. Si pensi che nel 1998 il procuratore generale, Luigi Maria Ribaudo, denunciò che la Sicilia in mezzo secolo di autonomia speciale aveva «disperso in modo scriteriato e assurdo le risorse disponibili» senza saper «utilizzare gli eccezionali vantaggi che derivano da ciò che gli assegna la Carta costituzionale». Eppure il suo monito fu preso talmente sul serio che l’anno dopo, come denunciò lui stesso, sul libro paga della Regione, tra dipendenti diretti e precari a vario titolo, il numero era salito a «centomila persone». Un numero che nel 2010, invece che calare, sarebbe stato calcolato in 144.148. Una deriva senza fine. Tanto che nel 2008, quando già era esplosa la polemica sui costi della politica compreso il clientelismo, la stessa Corte denunciò che la finanza regionale fosse «in notevole deterioramento» con l’indebitamento «cresciuto dell’83%». In un contesto come questo lo sapevano tutti che un giorno o l’altro i nodi erano destinati a venire al pettine. Che non era possibile avere 1.874 dirigenti in più, in rapporto ai sottoposti, rispetto alla media del resto d’Italia. Che le frodi comunitarie scavavano in Europa un solco profondo, colmo di diffidenze, nei confronti dell’isola. Che non poteva durare in eterno il giochetto di assumere «clientes» senza concorso perché tanto erano «provvisori» per poi passare alla stabilizzazione di migliaia e migliaia di precari alla volta. Lo sapevano tutti. Eppure ancora nel 2009 saltarono fuori regali di Natale stupefacenti, come fossero anni di vacche grasse: trecento gemelli da polsino e orecchini d’oro da 358 euro al pezzo, «1.500 teste in ceramica dei discendenti dei Borbone» da 115 euro l’uno e una montagna di cravatte di gran firma e altro ancora. E tutti a chiedersi: ma come fanno, a far figurare i conti in ordine? E ogni anno, con un gioco di prestigio, finivano tra le entrate enormi quantità di crediti che parevano lì lì per essere riscossi. Centinaia di palazzi e terreni e beni immobiliari pronti a essere venduti e mai venduti. Previsioni di incassi così incredibili da essere ridicoli, come la riscossione di denari dai cacciatori «derivanti dallo smaltimento delle carcasse degli animali». Macché, per anni è passato sempre tutto. E quando proprio i conti non tornavano (non potevano tornare se la Regione nel rapporto entrate-uscite era secondo la Cgia di Mestre sotto di 1.750 euro pro capite contro un residuo fiscale di 5.775 euro medio dei lombardi e 4.232 degli emiliani) il presidente partiva e andava a battere cassa a Roma. Lo ha fatto Cuffaro e prima di lui Lombardo e prima di loro Rino Nicolosi. Il quale nel 1988, dopo l’uccisione dell’ex sindaco Giuseppe Insalaco, come raccontano Enrico Del Mercato ed Emanuele Lauria nel libro «La zavorra», salì a Roma dall’allora presidente Giovanni Goria. Questi, ricorda un funzionario, «chiese a Nicolosi cosa si potesse fare per arrestare il dilagare della violenza mafiosa in Sicilia. Il presidente lo scrutò, ci pensò un po’ su e poi cominciò il suo ragionamento: per fermare la mafia bisogna migliorare l’efficienza della burocrazia siciliana. E per fare questo bisogna assumere più persone negli uffici della Regione e dei Comuni». Dice oggi Rosario Crocetta che «un andazzo così non si può invertire da un giorno all’altro» e non è colpa sua se «Cuffaro e Lombardo hanno lasciato buchi da brivido» e giura che lui ha fatto «tagli per 1,4 miliardi» e ha denunciato alla magistratura «le schifezze della Formazione» e insomma «ci vuole del tempo perché un malato possa guarire e lo ammazzi se pretendi che sia sano tutto di colpo». Il commissario di governo però, nonostante il desiderio del governo di trovare una soluzione che rassereni i dipendenti senza stipendio, pare essersi impuntato. Basta tolleranze. Fine. Il braccio di ferro proseguirà nei prossimi giorni. E intanto Crocetta continua a ripetere: «Perché a me? Perché solo a me?»

Sicilia, l'assessore al lavoro: "Guadagno solo 5440 euro netti al mese". Ester Bonafede, membro della giunta Crocetta, si lamenta di guadagnare meno di un commesso al Parlamento siciliano: "Noi assessori abbiamo un riconoscimento economico ridotto", scrive Giovanni Masini “Il Giornale”. Ai tempi della crisi tutti devono fare dei sacrifici, e anche Ester Bonafede, assessore al Lavoro della Regione siciliana guidata da Rosario Crocetta, ci ha provato: ma con 5440 euro netti al mese non dev'essere facile arrivare alla quarta settimana. Uno stipendio "ridotto", lo definisce la Bonafede, che si lamenta di come "un assessore regionale guadagni meno del suo capo di gabinetto, meno di un deputato e, in certi casi, perfino di un commesso." "Oltre ai tagli orizzontali" - spiega alla stampa a margine di un dibattito sulla spending review - "Gli assessori subiscono la tassazione dell'unica indennità percepita per intero. Così per quanto mi riguarda, il mio personale stipendio netto, con la tassazione al 44%, è di 5.440 euro mensili. Meno di quanto percepisca il mio capo di gabinetto o un semplice deputato, che non ha lo stesso carico di responsabilità di un componente del governo." La Bonafede ha però voluto chiarire più precisamente il senso delle sue dichiarazioni, spiegando come il lavoro di assessore non preveda pause o vacanze, a fronte di un riconoscimento economico inadeguato; sostiene addirittura come gli assessori della giunta si sentano "discriminati" rispetto agli assessori, perchè non si vedrebbero riconoscere le maggiori responsabilità di cui sono gravati. "Non voglio sminuire il ruolo e l'importanza del lavoro svolto dell'apparato amministrativo e sicuramente non si vuole innescare una polemica su una riforma che nasce dalla volontà dell'Aula, ma semplicemente sottolineare che c'è una dissacrazione del ruolo del politico." I cittadini siciliani però non si preoccupino troppo: l'assessore promette comunque di lavorare "con la stessa dedizione e lo stesso entusiasmo" anche con questo stipendio ridotto e non proporzionato al ruolo che ricopre. E tante grazie, verrebbe da aggiungere.

SPRECHI ESATTORIALI.

Sicilia, esercito di 886 avvocati per (non) riscuotere le tasse. La società dell’isola recupera solo il 2% delle cartelle esattoriali, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Con 508 uomini Hernán Cortés conquistò il Messico, con 886 avvocati a busta paga, tra dipendenti e collaboratori, la Regione Siciliana non riesce a rastrellare più del 2% delle tasse recuperabili, in teoria, dalle cartelle esattoriali. «È l’unico gabelliere al mondo che rischia il fallimento», si è sfogato furente Rosario Crocetta. Dovesse succedere, sarebbe un record planetario: il primo pignoratore pignorato. È piena di debiti, la disastrosa società «sorella» di Equitalia (guai a parlare di fusione: debiti o non debiti l’autonomia non si tocca!) che dovrebbe riscuotere le tasse non pagate dai siciliani e che è in mano per il 99,885% proprio alla Regione. «Secondo le ultime rilevazioni ufficiali, fatte un anno fa, “Riscossione” ha accumulato perdite per 60 milioni e mediamente aumenta di una ventina di milioni all’anno il suo buco», scriveva il 2 gennaio Giacinto Pipitone sul Giornale di Sicilia . Due giorni prima l’intero Cda, a partire dalla presidente Lucia Di Salvo, fedelissima del governatore, si era dimesso: situazione insostenibile. Sono anni che «Riscossione», a lungo associata a Montepaschi di Siena, è in condizioni disastrose. Ma via via è andata, con lo scorrere del tempo, sempre peggio. Al punto che la stessa Corte dei conti palermitana, come ricordava la relazione inaugurale dell’anno giudiziario del 2014 tenuta dalla presidente Luciana Savagnone, particolarmente dura, è più volte intervenuta con sentenze di condanna nei confronti dello sgangherato carrozzone burocratico accusandolo di «non avere per nulla svolto, o di non avere svolto con la richiesta sollecitudine, i compiti che le erano stati affidati, determinando così il mancato incameramento di somme dovute dai cittadini». Insomma, «le responsabilità accertate attengono quasi sempre al comportamento, giudicato gravemente colposo, che ha causato l’omissione o il ritardo con cui si è proceduto alla notifica dell’atto impositivo, provocando la perdita dell’entrata». Non per altro l’anno scorso la prima scelta di Crocetta, dettata dalla disperata necessità di arginare la cancrena di illegalità in corso da anni, era caduta addirittura su Antonio Ingroia, l’ex magistrato promotore delle inchieste su Marcello Dell’Utri e la trattativa Stato-mafia che si era candidato nel 2013 con la lista Rivoluzione Civile. Una scelta poi rientrata. Un esempio di sciatteria sanzionata dalla Corte dei conti? La condanna dell’incapace gabelliere, «incaricato di gestire la riscossione dei tributi e delle altre entrate» dell’isola, a risarcire il Comune di Cefalù: la notifica per una sanzione del ‘94 era stata inviata alla fine di settembre del 2002. Otto anni dopo. Inaccettabile. Tanto più per una società che ha oltre 700 dipendenti. Tanti, in rapporto ai soldi recuperati. E va già meglio di anni fa, quando ne aveva quasi il doppio. «È un quadro sconcertante», ha spiegato a Mario Barresi de La Sicilia Antonio Fiumefreddo, l’avvocato catanese scelto tre settimane fa da Rosario Crocetta (tra perplessità, dubbi e mugugni di molti) come presidente di Riscossione Sicilia: «Ci aspetta un lavoro durissimo». Poco ma sicuro. Basti dire che le buste paga dei dipendenti, stando ai sospiri dei nuovi amministratori, assorbono il 98% del bilancio societario: il novantotto! Da incubo. Come da incubo, a causa di perdite più pesanti di quanto si pensasse, sono le esposizioni con le banche: 162 milioni più 75 milioni di debiti coi fornitori privati. Che minacciano, appunto, di «pignorare i beni ai pignoratori per antonomasia». Tutti tranne, si capisce, Equitalia: tra i fornitori che avanzano soldi, circa 7 milioni, c’è anche lei. Che, al contrario, da tre anni chiude in attivo. Ed è riuscita nel 2014 a recuperare per conto dello Stato 7,4 miliardi di tributi. Ma non basta. Tra le spese sconcertanti denunciate dal nuovo presidente ci sono ad esempio gli affitti delle sedi di «Riscossione» in alcuni capoluoghi di provincia: 42 mila euro al mese per la sede di Catania che dovrebbero salire addirittura a 76 mila dal 2016 nonostante la regione possieda nel capoluogo etneo alcuni edifici vuoti, 27 mila al mese per quella di Siracusa, 30 mila al mese (manco si trattasse di Manhattan!) per quella di Ragusa. Quanto a Palermo, una sede costa 450 mila euro l’anno di affitto e l’altra, di proprietà, addirittura il doppio (novecentomila!) per la manutenzione e i servizi di pulizia. «Quando ho chiesto il perché di questo costo spropositato mi è stato risposto: perché il palazzo è vecchio», ha raccontato Fiumefreddo a Barresi. L’edificio è del 1985. Andasse così con tutti gli immobili pubblici nel resto d’Italia, staremmo freschi... Più ancora che la scoperta di «una maxi-evasione da un miliardo» denunciata da Crocetta (arrabbiatissimo con quel 96,4% dei super ricchi siciliani che evade sistematicamente le tasse) e la scoperta di un elenco di ottocento «nullatenenti» con la Ferrari, la Maserati o addirittura l’elicottero, elenco consegnato alla Procura della Repubblica nonostante «pressioni spaventose», colpisce però l’uso sistematico di una massa di avvocati mai vista. Certo, per incassare certi crediti spesso difficili da recuperare occorre un gran lavoro nei tribunali. Ma i numeri emersi in Sicilia sono pazzeschi: in totale, i difensori della società regionale, alcuni pagati come dipendenti altri come collaboratori, risultano essere complessivamente 886. Cioè otto volte di più, per dare un termine di paragone, degli avvocati cassazionisti dell’intera Francia. «Neppure Obama ne ha tanti», si è sfogato Antonio Fiumefreddo. Può scommetterci.. I dipendenti della Casa Bianca, dal direttore generale all’ultimo assunto dei camerieri, come spiega il sito ufficiale, sono in totale 446. Cioè 440 in meno ...

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

La regione degli onnipotenti scrive Domenico Tempio su “La Sicilia”. La pace non è di casa in Sicilia. A cominciare dalla Regione, la quale sprofonda sempre più in un girone infernale. Dove i peccatori si annidano tra noi. Addirittura, riescono a conquistare i posti di comando. Infettati come sono da un putrescente odore di mafia. Colpevoli o innocenti (ma le condanne ci sono), conta la macchia quasi indelebile che continua a essere gettata addosso alla Sicilia. Raffaele Lombardo dopo Totò Cuffaro, un unico destino. Concorso esterno nell'associazione mafiosa per il primo, favoreggiamento all'organizzazione mafiosa per il secondo. Lombardo ha ancora due gradi di giudizio. L'augurio è che riesca a togliersi di dosso questa accusa infamante. Non solo per lui, ma per quei siciliani che lo hanno votato. Per cancellare anche quello che un leghista di recente ha scritto: «Come mai tra tanta gente perbene giù in Sicilia, si va ad eleggere proprio chi è colluso con i mafiosi?». Difficile la difesa. Quando sembra spirare un vento di cambiamento, c'è chi fa di tutto per ammorbare l'aria. Persino i grillini, nati dalla rabbia della gente, giocano al tanto peggio. Basta guardare il loro leader, Beppe Grillo, è diventato un fenomeno da baraccone. Ieri nell'incontro con Renzi ha dato il massimo. Chi gli scrive i testi? Casaleggio? Roba da piazza. Utile solo alle Tv per fare ascolto. Quello che oggi sta accadendo alla Regione è emblematico del tempo in cui viviamo. Magari in alcune cose non ci sarà di mezzo la mafia (almeno si spera), ma di sicuro c'è una combriccola di saltimbanchi in preda a orgasmi di potere. Come in un'orgia si stracciano le vesti gli uni con gli altri, cercando di arraffare il più possibile. Vi sembra plausibile che la maggioranza di Crocetta, anche se in verità è variabile come il tempo, dopo avere raggiunto un difficile accordo sulla tanto decantata riforma delle Province, la boccia nel segreto dell'urna? Direte è storia antica. Ecco perché poi la mafia si insinua. Il disegno di legge varato da Crocetta poteva servire almeno a dare una prima potatura al carrozzone degli enti intermedi. Certo, alcune cose vanno specificate meglio, come l'estensione delle aree metropolitane o la creazione dei cosiddetti consorzi di liberi Comuni, però la legge si poteva considerare un primo passo verso un diverso assetto del territorio siciliano. Sia per trovare nuove sinergie nei servizi; sia per sfoltire la burocrazia; sia per i finanziamenti che solo uniti si possono ottenere; sia, consentiteci di dirlo, per selezionare meglio la classe amministrativa. Si perdono poltrone? Pazienza. I politici se ne facciano una ragione. I primi colpevoli sono loro. Hanno ridotto la Regione, pomposamente chiamata autonoma, a una palude dalla quale loro stessi non riescono a tirarsi fuori e dove, scavando, trovi una lunga lista di scandali milionari. Se Crocetta ha un merito è proprio questo: aver scoperchiato il malaffare. Per il resto, ci dispiace dirlo, il governatore ha lasciato immobile la macchina amministrativa. Non solo alla Regione, ma in quasi tutti gli enti. Li ha paralizzati con commissariamenti in serie. La sanità, ad esempio, è quella che soffre di più. Da tempo ormai attende i suoi vertici. Persino i teatri, vedi il Bellini di Catania, sono congelati. Tanto da temere che li si voglia azzerare. Si tratta di incapacità? Non crediamo. Forse è un metodo. Una onnipotenza di potere pericolosa per sé (Crocetta) e per gli altri (i siciliani). Anche i Cuffaro e i Lombardo hanno peccato, oltre ai presunti legami con la mafia, di onnipotenza. Comincia sempre così la caduta degli dei.

La Sicilia come metafora, scrive Mauro Mellini su “Giustizia Giusta. Riandare col pensiero a Leonardo Sciascia è sempre utile, anzi, talvolta, è addirittura indispensabile, per capire le cose di Sicilia e non solo di Sicilia e d’Italia. Ne abbiamo la prova in questi giorni. Poco assai si parla, nel resto d’Italia, di quel che sta accadendo in Sicilia. Il governo regionale di Crocetta e tutta la politica siciliana hanno raggiunto limiti inimmaginabili, grotteschi di degrado. La Regione Sicilia, che dovrebbe essere una delle più forti per le condizioni finanziarie che le assicura lo Statuto Speciale, è praticamente al collasso, al fallimento, con un bilancio allo sbando, specie dopo gli interventi del Commissario dello Stato che hanno “rottamato” per illegittimità e per sostanziale falsità buona parte di quello raffazzonato dalla Giunta. Crocetta è “rientrato” nel P.D., dopo avere per qualche tempo navigato sotto le insegne di un suo personale gruppo, “Il Megafono”, che ora pare sia diventato una corrente del P.D. Che nell’Isola è, di colpo, diventato “renziano”, perché le correnti che si sono scannate in una lotta senza esclusioni di colpi, hanno fatto a gara per correre in soccorso del vincitore. Crocetta si regge alla presidenza grazie alla norma, oggi in vigore per regioni e comuni, per la quale Presidente e Sindaci possono essere abbattuti solo da Consigli kamikaze: chi li sfiducia e li manda a casa, automaticamente, perde il posto e va a casa con lo “sfiduciato”. Un sistema che sembra inventato dalla fantasia di un autore di spettacoli comici. In pratica i Presidenti della Regione Sicilia possono essere mandati a casa (o in prigione) solo dai magistrati. Gli ultimi due predecessori di Crocetta, Cuffaro e Lombardo hanno avuto questa sorte. Crocetta pare che da quel lato sia abbastanza ben protetto. Al suo fianco c’è un vecchio “professionista dell’Antimafia”, Lumia, che fu anche Presidente della Commissione Antimafia Parlamentare. Quando il partito provò ad escluderlo dalle liste per il Parlamento Nazionale, intervenne scopertamente e pesantemente la Magistratura a “censurare” quel tentativo di metterlo da parte. Fu subito “reintegrato”. Finché dura, naturalmente. Quelli che se ne intendono dicono che in Sicilia anche il Partito dei Magistrati è piuttosto ondivago al suo interno e tendenzialmente sospettoso e inaffidabile nei rapporti, per così dire, esterni. Ora Crocetta sembra tornato in grembo al P.D., ma non sembra che la sua Giunta rispecchi una tale posizione. D’altro canto se il P.D. sembra oramai ben allineato con l’ortodossia del “rottamatore”, i veri padroni della Sicilia sono i “monnezzari” (mestiere che, con quello dei rottamatori, cioè degli “sfasciacarrozze” ha una certa attinenza). Padroni di Sicindustria (la Confindustria dell’Isola) tre o quattro gestori di discariche, hanno in pugno la Regione, Crocetta, la Giunta e, per quel che conta, il Parlamento Siciliano. Sono “industriali antimafia” perché hanno rifiutato il pizzo (dopo, magari, essersi pentiti di averlo in un primo tempo pagato). In quanto antimafia sono in condizioni di mettere al bando chi non può vantarsi di essere tale o che essi stessi tale non considerano. Sono forti delle loro concessioni che non sempre (ad esser ottimisti) coincidono con l’optimum delle prospettive del gravissimo problema dei rifiuti (in una delle discariche siciliane pare che sia arrivata, in qualche momento, anche della “monnezza” di Napoli). Certo è che mettersi di traverso al loro “sistema” può essere pericoloso. Lo sostiene e lo proclama, ad esempio, il Sindaco di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, che si era messo in testa di far funzionare la raccolta differenziata e si è trovato prima indagato per mafia e poi con l’Amministrazione sciolta per “infiltrazioni mafiose”. E molte altre e gravi sono le storie che si sentono in giro. Intanto Crocetta ha “sistemato” il Procuratore super antimafia Ingroia che non era riuscito a riciclarsi come uomo politico (si era candidato addirittura alla Presidenza de Consiglio). Farà il presidente di un ente per l’esazione. Una volta c’erano i famosi “Cavalieri”. E prima ancora i baroni ed i loro gabellotti e campieri. Intanto la magistratura mette sotto processo ministri (e c’è mancato poco che s la prendesse anche col Presidente della Repubblica) perché “hanno abusato del diritto di fare la politici dello Stato”, “abbassando la guardia” ed entrando in trattative con la mafia. Nel processo di Palermo se ne stanno vedendo di tutte e di più. Trionfa il concetto che è la giurisdizione che “legittima” il diritto. Si applica così il principio che la Cassazione ha inventato per le questioni tributarie: il diritto è il diritto ma la magistratura può stabilire che se ne è abusato. Intanto diverse categorie di dipendenti pubblici lavorano, ma hanno cominciato a non ricevere lo stipendio. Non si sa se c’è un bilancio della Regione, se, dopo la prima bocciatura di buona parte di esso, le “toppe” che l’Ars ci ha messo reggeranno ad un altro esame di legittimità. Incombe il fallimento. E Crocetta, che aveva annunziato che a settembre l’abolizione delle Provincie sarebbe stata cosa fatta con la costituzione dei “liberi consorzi” di Comuni, è ancora alle prese con questa storia grottesca. Qualcuno ha cominciato ad accorgersi che una differenza tra Provincie e ”liberi consorzi” c’è sicuramente: questi ultimi saranno molti di più. Che malgrado ciò costino di meno e funzionano meglio ha il sapore dell’utopia. O della truffa. Un “libero consorzio” si farà sicuramente: quello di Gela, il paese di Crocetta. Gela non era riuscita a “diventare provincia” (benché “regionale”). Concludendo. Questa è la Sicilia di cui la stampa nazionale sembra far di tutto perché poco se ne parli. Questa è la Sicilia: sì, “come metafora” d’Italia, come diceva Sciascia, che scrisse anche un libro con questo titolo.

La Sicilia come metafora dell’Italia del Rottamatore, termine freddo e burocratico (la “rottamazione” delle armi di guerra confiscate era prevista dalla legge). Meglio dire “lo Sfasciacarrozze” termine sonante e chiaro del gergo e del dialetto romano. Sciascia ci ha fatto capire molte cose. A chi, naturalmente ha voglia di capire.

Il paese dove due presidenti di regione sono condannati per mafia: il primo (Cuffaro) con sentenza definitiva per favoreggiamento, il secondo (Lombardo) per concorso esterno. Ancora una condanna che ferisce la Sicilia, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dopo Cuffaro, un altro presidente condannato. La sentenza non è definitiva, ma l'immagine della Sicilia ne viene comunque colpita. E chi governa oggi la Regione ha un solo modo per risollevarla Un altro presidente della Regione, il secondo in pochi anni, ritenuto responsabile dai magistrati di una condotta che sottende legami con Cosa nostra. Il secondo dopo Totò Cuffaro, e ancora peggio, poiché per il politico di Raffadali il reato era quello di favoreggiamento aggravato, mentre l'ex leader dell'Mpa è stato giudicato responsabile di concorso esterno in mafia. Per Lombardo, è bene precisarlo da subito, si tratta ancora di un pronunciamento di primo grado, che potrà anche mutare negli altri livelli di giudizio, e che quindi ovviamente non cancella la presunzione di innocenza che per lui come per chiunque resta in piedi fino alla eventuale condanna passata in giudicato. Ma pur nella sua provvisorietà, la sentenza di condanna di Catania è una ferita, un'altra, per la Sicilia. L'onta di un pronunciamento nel nome del popolo italiano per fatti di mafia macchia ancora una volta la più alta istituzione siciliana e con essa travolge la Sicilia e la sua immagine martoriata. Lombardo avrà modo di difendersi nel secondo grado di giudizio e di dimostrare in quella sede di essere innocente, come ha protestato fino a questo pomeriggio. Se così è, e continueremo a presumerlo fino alla fine, glielo auguriamo. Il peso di questa sentenza sulla storia recente della politica siciliana, però, non si può ignorare. E impone alla classe dirigente chiamata oggi a governare la Regione, in questi tempi così difficili e oscuri, uno sforzo ulteriore, per aiutare l'Isola a scrollarsi di dosso il fardello di un marchio così sordido e infamante. Per farlo, i proclami e gli slogan servono poco. Le denunce in procura forse un po'. Ma quello che davvero occorre, perché la politica riappropri dell'onore perduto, è il buon governo. È la buona politica. Vogliamo aspettarla con un po' di speranza, malgrado tutto.

Mafia, condannato Lombardo. È la maledizione della Sicilia, scrive  Mariateresa Conti  su “Il Giornale”. Aveva perorato la sua innocenza, disobbedendo anche ai suoi avvocati, con una dichiarazione spontanea ieri mattina, nell'ultima udienza. E si era detto certo che no, non poteva essere condannato. Ma alla fine, per Raffaele Lombardo, ex governatore di Sicilia, è andata nel peggiore dei modi: sei anni e otto mesi, col rito abbreviato, per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Appena quattro mesi in meno del suo ex amico e predecessore alla presidenza della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che per favoreggiamento aggravato alla mafia sta scontando sette anni. Una botta durissima. La decisione del Gup Marina Rizza è arrivata ieri pomeriggio, intorno alle 18 e 10. Lombardo, accompagnato dalla moglie, era presente e trattenendo a stento l'emozione ha commentato: «È l'epilogo naturale di questo processo. Me lo aspettavo, l'avevo detto a mia moglie». E presente, a sostegno dei suoi pm, era anche il capo della Procura di Catania, Giovanni Salvi. Il Gup ha pronunciato un doppio verdetto: da un lato la condanna dell'ex governatore, sei anni e otto mesi (i pm ne avevano chiesti dieci, ma il giudice ha ritenuto il voto di scambio assorbito dal reato più grave, il concorso esterno) più interdizione dai pubblici uffici e un anno di libertà vigilata, anche se è caduto uno dei capi d'accusa, la collusione con il clan Cappello; dall'altro il rinvio a giudizio del fratello di Lombardo, Angelo, ex deputato Mpa, che aveva optato per il rito ordinario e che sarà alla sbarra dal prossimo 4 giugno. Il Gup ha inoltre stabilito di trasmettere alla procura gli atti relativi alla posizione dell'editore del quotidiano La Sicilia ed ex presidente della Fieg Mario Ciancio Sanfilippo. La Procura esulta: «Il nostro castello - dice Salvi- ha retto. Oggi è avvenuto un fatto storico, si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana». Un iter travagliato, quello di questo processo. Inizialmente ai fratelli Lombardo viene contestato solo il reato elettorale (per voto di scambio l'ex governatore ha in corso un'altra inchiesta che coinvolge anche il figlio Toti, deputato regionale, ndr). Per le collusioni con la mafia la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Poi è arrivata l'imputazione coatta, l'aggravante mafia. Adesso la sentenza. L'ex governatore, comunque, promette battaglia: «Sono di una serenità infinita - ha detto annunciando ricorso in appello - mi aspettavo questa sentenza. Non pensavo, infatti, che il giudice potesse avere il coraggio sovrumano di schierarsi con una sentenza di assoluzione, che pure sarebbe stata aderente ai fatti, contro la Procura che per il 50 per cento dei suoi componenti è venuta anche plasticamente a dimostrare la mia posizione nel processo». Lombardo ha attaccato la «grande stampa» e il sistema di interessi che, a suo dire, ha intaccato. Quindi, citando Sciascia, ha concluso: «Conosco il contesto. Ma affermeremo la verità».

Raffaele Lombardo è stato condannato a sei anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive “Il Corriere della Sera”. L'ex governatore della Sicilia era imputato anche per voto di scambio con il clan Cappello, accusa dalla quale è stato però prosciolto. La Procura aveva chiesto per Lombardo una condanna a 10 anni. L'ex governatore, su sua stessa richiesta, è stato giudicato con il rito abbreviato. Il gup di Catania, Marina Rizza ha anche rinviato a giudizio suo fratello Angelo Lombardo, ex deputato nazionale del Mpa e ha disposto la trasmissione alla Procura degli atti che la stessa Dda aveva prodotto di un'intercettazione nella sede del direttore e editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo. «Me l'aspettavo, è l'epilogo naturale del primo grado di giudizio, ma non finisce qui: seguiremo tutte le strade legali per dimostrare la mia innocenza», ha commentato a caldo Raffaele Lombardo. L'inchiesta sui fratelli Lombardo è nata da uno stralcio dell'indagine Iblis dei carabinieri del Ros di Catania su presunti rapporti tra Cosa nostra, politica e imprenditori. Per l'ex governatore Lombardo, che si è sempre proclamato innocente, la Procura di Catania, in sede di requisitoria, aveva chiesto la condanna a dieci anni di reclusione. «Abbiamo fatto un lavoro importante», con una «procura unita», ha commentato il capo dei pm di Catania, Giovanni Salvi, dopo la condanna di Lombardo. «Oggi è avvenuto un fatto storico», ha aggiunto il magistrato, «si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana. Frutto di un lavoro importante che ha avuto anche collaboratori importanti a sostegno dell'accusa».  L'altro ex governatore siciliano, Totò Cuffaro, è stato invece condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Da gennaio 2011 sta scontando la pena nel carcere romano di Rebibbia. «Sono momenti importanti e delicati», aveva detto stamattina l'ex governatore, attendendo il verdetto, «Sentiremo la sentenza, che accoglieremo con assoluto rispetto», aveva aggiunto, evidentemente commosso, a conclusione dell'ultima udienza del processo. In aula con lui c'era la moglie, Saveria Grosso. Lombardo, prima della conclusione dell'udienza, che si è svolta a porte chiuse, ha reso spontanee dichiarazioni davanti al Gup: «Ho detto alla Corte le mie ragioni - ha spiegato l'ex presidente della Regione - quello che sentivo di dire, non con l'approvazione piena dei miei legali che sono terrorizzati da quello che può dire contro se stesso l'imputato».

Il viaggio del ras autonomista fra ombre di mafia e tradimenti politici. Raffaele Lombardo fu eletto nel 2008 e mollò quasi subito l'ex amico Cuffaro e il centrodestra. Nel 2010 l'abbraccio con il Pd. Spiazzato dall'inchiesta catanese sulle collusioni del governatore con Cosa Nostra, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. "Io non ho concorrenti, perché sono l'Autonomia e sto su un pianeta diverso". Era il 12 aprile del 2008, e dal quartier generale di via Pola, a Catania, Raffaele Lombardo lanciava il suo proclama ai siciliani. Sullo schermo del suo studio, in quel preciso momento, compariva il volto di Anna Finocchiaro, chiamata affettuosamente "Annuzza", con l'elegante distacco di chi, a due giorni dal voto, già sapeva che avrebbe surclassato la concorrente del Pd. E così sarebbe andata: trentacinque punti percentuali, un milione di voti di differenza. C'era già tutto, in quella frase. C'era il governatore spavaldo e inafferrabile, insofferente ai diktat dei partiti e ai recinti delle alleanze. C'era il più formidabile distruttore di maggioranze che la storia della Sicilia abbia conosciuto. Ne ha cambiate cinque come i suoi esecutivi, Lombardo, rendendo i quattro anni della sua esperienza a Palazzo d'Orleans un'epopea profondamente controversa. "Raffaele-Raffaele". La convention di Acireale, il 24 febbraio del 2008, ospita 6 mila tifosi, accorsi per il lancio ufficiale della candidatura di Lombardo. Fra le bandiere della Trinacria, e persino dell'Evis (l'esercito di volontari per l'indipendenza della Sicilia), fanno capolino i big impettiti del nascente Pdl: in prima fila ecco Renato Schifani e Angelino Alfano, gli sponsor presso Berlusconi della nomination dell'alieno Lombardo, preferito al compagno di partito Gianfranco Micciché. Il leader dell'Mpa ricambierà il favore, un mese dopo, presentandosi sul palco della Fiera accanto al Cavaliere e cantando con lui e i suoi colonnelli il refrain di "Meno male che Silvio c'è". Quei tempi sembreranno ben presto lontanissimi. A tutti. Incassata l'elezione, Lombardo decide di smarcarsi repentinamente dalla coalizione con la quale ha governato la Sicilia negli anni precedenti. E il primo colpo lo assesta a fine maggio, al momento di formare la giunta. Il presidente non ascolta i consigli del suo amico e predecessore Totò Cuffaro e, al posto dell'udc Nino Dina, manda alla Sanità il magistrato Massimo Russo. Cuffaro stacca il telefono e non si fa più trovare. Si rompe un lungo sodalizio umano, quello politico fra l'Mpa e l'Udc cuffariana resisterà ancora qualche mese. E i primi mesi della sua gestione Lombardo li trascorre segnando il solco con il recente passato: dispone il blocco delle assunzioni e avvia un piano di ridimensionamento delle società partecipate che rimarrà per gran parte incompiuto. Nel frattempo esercita uno spoils-system con il quale manda a casa i "fedelissimi" di Totò. Fra questi la super-burocrate della Programmazione, Gabriella Palocci, congedata solo con una lettera, che sbotterà in lacrime: "Sono stata trattata peggio di una cameriera". Cuffaro, il 6 novembre 2008, ha capito l'antifona: "Raffaele? È in preda a una furia sostitutrice: sta colpendo sistematicamente tutti i miei uomini". È già nato, d'altronde, l'asse con Gianfranco Micciché, il sottosegretario da tempo divenuto nemico numero uno di Cuffaro e già in traiettoria di uscita dal Pdl. Lombardo, nella prima delle sue frasi celebri, comincia a parlare di "geometrie variabili" e in Parlamento, con l'aiuto del Pd, vede la luce la riforma della Sanità osteggiata dai berlusconiani. Le Europee del 2009 si svolgono in un clima caldissimo all'interno della maggioranza. Da battaglia. Anzi, da "guerra termonucleare" per dirla con le parole del presidente dell'Ars, Francesco Cascio, che di suo pugno mette alcune definizioni non proprio lusinghiere, come quella che vuole il governo Lombardo "il peggio degli ultimi quindici anni". Alle Europee trionfa l'astensionismo, ma l'Mpa di Lombardo- in una non memorabile alleanza con la Destra di Storace - tiene mentre il Pdl perde 600 mila voti rispetto alle Politiche dell'anno precedente. Il Popolo della Libertà - alla cui guida in Sicilia sono andati Giuseppe Castiglione e Domenico Nania - conosce in Sicilia l'inizio della sua crisi. E il primo rimpasto di Lombardo, nel luglio del 2009, fotografa lo strappo: al governo vanno - o rimangono - gli uomini vicini a Fini e Micciché, il gruppo che di lì a poco formerà il Pdl Sicilia. Fra loro Gaetano Armao, avvocato di grido che - attaccato dal Pd per una serie di conflitti d'interesse- sarà costretto a lasciare tutti gli incarichi in aula prima di essere rinominato nel Lombardo-ter. Con il Pdl i rapporti di Lombardo sono sempre più tesi. Da Roma, dal governo Berlusconi, non arrivano gli oltre quattro miliardi del Fas e quando, nell'ottobre del 2009, i deputati "lealisti" del Popolo della Libertà, non votano il Dpef, il presidente decide la rottura. Di lì a pochi mesi salteranno i due assessori pidiellini superstiti - Beninati e Milione - mentre con il Pd comincia il "fidanzamento" voluto in particolare dal capogruppo Antonello Cracolici. A novembre la cena fra Lombardo e Massimo D'Alema che darà vita al "patto dell'orata". Le feste di Natale fanno nascere il Lombardo-ter, che vede l'ingresso di due tecnici in quota Pd quali Mario Centorrino e Pier Carmelo Russo. Eccole, le geometrie variabili: Lombardo conosce alcune defaillances a livello amministrativo (come le nomine di nove dirigenti esterni che sarà costretto in gran parte a ritirare), prosegue nella sua opera di occupazione del sottogoverno guadagnandosi da l'appellativo di "Arraffaele", ma in aula riesce miracolosamente a condurre in porto alcune riforme: rifiuti, semplificazione burocratica. Grazie, appunto, alle geometrie variabili. E alla generosità del Pd. La svolta il 27 marzo del 2010, con la notizia - pubblicata da Repubblica - dell'indagine per mafia che riguarda il governatore. Lui, Lombardo, reagisce a muso duro, annuncia urbi et orbi che dirà in aula i nomi dei politici che, davvero, sono collusi con Cosa nostra. I nomi che Lombardo poi pronuncia, nella seduta del 13 aprile, sono quello - atteso - del senatore Pino Firrarello e del deputato Salvo Torrisi, entrambi del Pdl, entrambi additati per interessi nella realizzazione del termovalorizzatore di Paternò. Fioccano minacce di querela, finirà tutto in un polverone dentro il quale Lombardo prosegue la sua marcia a fari spenti, con improvvise accelerazioni, preceduto da una fama che riguarda sempre più i suoi vezzi: l'abitudine di mangiare la carta, la leggenda che vuole che la segretaria assaggi prima i suoi pasti, e poi quell'incredibile collezione di fucili - quaranta, tutti funzionanti - custoditi in una stanza di Palazzo d'Orleans. A settembre ecco il Lombardo-quater. Con Micciché, che fonda Forza del Sud, il legame è consunto anche per i contrasti su un mai nato comune partito meridionale. Entra al governo la nuova Udc di Gianpiero D'Alia. Lombardo diventa uno dei leader del Terzo Polo ma la sua storia è sempre più segnata dalla vicenda giudiziaria che, nel dedalo della Procura catanese, si dipana in un susseguirsi di colpi di scena. Sotto la scure di un processo incombente che dovrà chiarire i rapporti con i boss ma con una giunta in cui sono presenti magistrati, ex prefetti, esponenti degli industriali schierati contro il racket, Lombardo continua a dare una doppia immagine di sé. A confondersi è soprattutto il Pd, che diventa protagonista di un interminabile dibattito interno sull'opportunità di garantire ancora il sostegno al governatore. Il referendum interno al partito non si farà mai. E il dibattito spingerà i democratici all'opzione del ritiro dell'appoggio solo di recente, all'inizio di giugno del 2012, quando il governatore ha già deciso di lasciare anzitempo l'incarico. Il Lombardo-quinquies è in realtà uno stillicidio - via un assessore alla volta, ecco il sostituto - che caratterizza l'ultima scoppiettante fase politica della "volpe di Grammichele" sostenuta ormai da una minoranza composta da Fli, Api e Mps: Lombardo riesce a firmare 130 nomine di sottogoverno in tre mesi, inducendo l'Ars a varare una norma per imbrigliare il suo potere di assegnare incarichi. Mentre Bruxelles sospende trasferimenti per 600 milioni di euro, chiedendo chiarimenti sulle procedure degli appalti, a Roma crescono i timori per un default in stile greco della Regione che spingono persino il premier Monti a intervenire: la lettera di Palazzo Chigi a Lombardo provoca polemiche e ha una cassa di risonanza internazionale. Le società di rating, preoccupate, sospendono il giudizio o declassano l'amministrazione isolana. La saga di Raffaele finisce in una Sicilia messa sotto tutela dallo Stato. Una dura legge del contrappasso, per il presidente autonomista.

La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

I fili che reggono la vita di Totò Cuffaro, in attesa «dell’alba nuova», scrive il 29 Giugno 2014 Emanuele Boffi su “Tempi”. Il nuovo libro dell’ex presidente della Regione Sicilia, letteralmente «scritto a mano» nel carcere di Rebibbia. Dove «si muore e si risorge ogni giorno». «La mafia ha paura di chi ama. L’uomo è veramente libero quando sa cosa fare della sua libertà» (Salvatore Cuffaro, Le carezze della nenia, Guerini e associati). Una sera sono stato a cena a casa di Totò Cuffaro, il criminale. Per la giustizia italiana l’ex presidente della Regione Sicilia è colpevole di aver favorito la mafia e per questo è da quattro anni nel carcere di Rebibbia (e ancora tre ne mancano). Questo per i giudici, per il tribunale, per lo Stato. Ma per tanti siciliani – e per me, che pur ne ho avuto una conoscenza solo epidermica – Cuffaro è un innocente che sconta ingiustamente la sua pena dietro le sbarre. Di quella cena ricordo il doppio tavolo apparecchiato (ché, uno solo, non bastava), il vino corposo e la raccomandazione – più volte espressa – di mangiare tutto, assaggiare tutto, non lasciare nulla nel piatto: tantomeno i semini dei fichi d’India, «che vengono dal mio orto, di cui sono assai orgoglioso. Hai capito, picciotto?». Capito. Quindi anche i semini? Anche i semini. Di quella cena pantagruelica e del successivo dì a scorrazzare per la Sicilia, mantengo l’impressione di una personalità esorbitante, elettrica, tarantolata. Baci, abbracci, pacche sulle spalle, “vasa vasa” e un continuo, perenne, inesausto bisogno di contaminarsi con gli altri, fossero essi commendatori o ortolani, di cui Cuffaro rivendicava orgogliosamente il contatto: «Meglio baciare tutti e dare il bacio a quello sbagliato, che non baciare nessuno», disse. Glielo hanno fatto pagare caro questo suo convincimento, ma sono certo che quei baci e quegli abbracci li rifarebbe tutti. Dopo Il candore delle cornacchie, Cuffaro ha pubblicato un nuovo libro, Le carezze della nenia. È un libro, letteralmente, come lui stesso racconta, «scritto a mano», «mentre il carcere accorcia il mio respiro», durante notti insonni. È un taccuino di pensieri, chiose, note a margine che rispecchiano una realtà dove «si muore e si risorge ogni giorno». L’uomo che ha trascorso la sua vita libero, all’aperto, tra la gente, che preferiva il comizio al salotto tv, che percorreva ogni giorno chilometri e chilometri per visitare ogni paesino della sua regione, ora si trova costretto in un buco, all’ora d’aria, alla mensa del cibo scadente, alla conta dei rapporti umani. Al luogo dove «si porta a spasso il cadavere di se stessi». Eppure. Eppure quello di Cuffaro non è un libro di idee, è un libro pieno di cose. Soprattutto di fili, a volte robusti, a volte sottili, che legano e sorreggono la sua speranza, come una maglia che lo preserva dal cadere nell’orrido della disperazione. Ci sono fili di suoni che Cuffaro avverte dalla cella: bisbigli di merli, fringuelli, cornacchie, passeri, colombi, gabbiani, cardellini e, forse, «di un tacchino impettito». Ci sono i fili dei profumi delle piante e dei fiori (rose, pini, peschi, prugni, platani). Ci sono i fili del suo volto smagrito, che sono quelli che si vedono. Ma ci sono anche i fili che non si manifestano, sono quelli delle «rughe, più numerose sul cuore che sul viso». C’è il filo dell’aquilone, che Cuffaro ha costruito per volare alto oltre le mura, così che potesse, almeno lui, vedere l’orizzonte e restituirne il conforto al suo padrone. C’è il filo di cuoio con cui ha legato la medaglietta della Madonna che «non è un porta fortuna, e non la porto perché mi aspetto il miracolo. È per me il segno della protezione di mia madre e della Madonna, il segno che sono amato». Ci sono, soprattutto, i fili dei raggi di sole, forse la “cosa” che più manca a Cuffaro e di cui parla con maggior nostalgia («stanno rubando il sole alla mia pelle»). C’è il filo che lo lega al padre, l’uomo che «mi ha insegnato il senso del Divino senza mai trascurare il senso dell’umano». Che nell’ultima telefonata gli disse che l’avrebbe fatto uscire dal carcere. È vero, ci riuscì, ma al prezzo della sua vita. Fu a causa del suo decesso, che Cuffaro poté recarsi alla tumulazione. E, infine, ci sono i fili delle radici che non fanno appassire il fiore di una vita. «La parte più bella del fiore è quella che si mostra, di cui si può cogliere il profumo, ma non pensiamo mai che essa non si potrebbe e non sarebbe apprezzata se non ci fosse la parte nascosta, coperta, sporca». Lì, nella parte nascosta, chiusa, incarcerata, sporca come può essere una gattabuia, sta il filo che alimenta una «verità che va cercata e difesa sempre, anche quando è seppellita». Anche se è al buio. Anche se c’è solo «un minuto di sole». «Per vivere l’alba nuova – scrive Cuffaro – bisogna attraversare la notte vecchia».

Totò Cuffaro si racconta in libro autobiografico “Torno verso la vita”, scrive "Grandangolo Agrigento" il 7 dicembre 2015. L'uomo è un mendicante che crede di essere un re. In attesa di uscire, il 16 dicembre, dal carcere di Rebibbia, dove sta scontando una pena di 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra, l’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, si racconta nel libro autobiografico “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re”: la nascita della passione politica, la vita insieme alla famiglia, l’amore per la sua Terra e gli ultimi 5 anni passati in carcere. Ogni capitolo è preceduto da riflessioni su opere di grandi scrittori, da Sant’Agostino a Thomas Eliot. Il testo inaugura la collana di libri dal carcere “Il paese senza cielo”, di Aliberti compagnia editoriale. “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re, pensa di esserlo diventato perchè si è fatto da sè – scrive Cuffaro -. La vita si incarica di ricondurlo a quel che è, a diventare se stesso. Arrivare in vetta non è facile, tornare indietro ancora meno facile, saper ripartire è certamente difficile ma si può: è segno di saper e voler vivere la vita”. “Il massimo del dolore – sottolinea nel libro Cuffaro – muta la vita personale dell’uomo, e però il carcere non è stato l’inizio e non è la fine. In questo percorso sono stato sull’orlo del baratro e sopra una nuvola. Sono stato naufrago ed esploratore. Ho vagato in un’arida foresta del vivere col corpo e l’animo ferito e sono stato aggrappato al grande albero dalle cui fronde dondola la speranza. Grazie all’amore e alla speranza non ho perso il senso del futuro neanche nei giorni più neri e scuri, neanche quando m’è mancata l’aria e il respiro della vita e grazie a loro non ho mai rinunciato a voler raggiungere la foce della libertà. D’Annunzio soleva dire: ‘Vado verso la vita’, io più semplicemente torno verso la vita”.

Ma i guai non sono finiti.

Le visite a Rebibbia della corte di Cuffaro. "Ecco la rete di amici che curava i suoi affari". I pm chiudono le indagini su 41 politici: "Spacciavano in carcere i collaboratori dell'ex presidente per loro portaborse. Così i colloqui non erano intercettati, scrivono Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti il 28 dicembre 2015 “La Repubblica”. Il 13 luglio 2011 a Rebibbia si gioca una partita di calcio. A bordo campo tra gli spettatori ci sono Felice Crosta (il superburocrate pensionato d'oro della Regione Sicilia), Fausto Desideri (ex consigliere delegato di Riscossione Sicilia) e Marco Morrone (il factotum romano). Totò Cuffaro è in carcere da sei mesi, ma ha subito capito come fare a non perdere il contatto con i suoi fedelissimi. "Caro Marco - preannuncia in una lettera a Morrone - verrai invitato ad una manifestazione che stiamo facendo in carcere, così potrai stare un po' insieme a me e potremo parlare. Assieme a te farò invitare Felice Crosta e Fausto Desideri. Ufficialmente vi inviterà un'associazione che non ha nulla a che fare con me". E due mesi dopo l'associazione di volontariato Gruppo Idee invita a Rebibbia gli amici di Cuffaro. Tra i volontari su cui l'ex governatore fa affidamento c'è Federico Vespa, figlio di Bruno e di Augusta Iannini, magistrato e ora garante per la privacy. C'è tutta la "corte" di Totò nelle mille pagine di allegati dell'inchiesta della Procura di Roma che si appresta a depositare la richiesta di rinvio a giudizio per 41 persone (tra cui Simona Vicari, sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Renzi e dieci parlamentari di diverse forze politiche) che devono rispondere di aver falsamente attestato lo status di collaboratori parlamentari che ha consentito loro di accedere all'interno di Rebibbia e ad avere colloqui "privati" (al riparo da intercettazioni) con l'ex governatore della Sicilia. Il quale ha appena finito di scontare una condanna a 7 anni per favoreggiamento a Cosa nostra. Cuffaro, va detto subito, in questa inchiesta non è indagato. Lui, a parlare con i suoi fedelissimi che andavano a trovarlo in carcere, non ha commesso alcun reato. A differenza dei parlamentari nazionali ed europei che, avendo diritto ad entrare nelle carceri, si sono portati dietro "amici" di Cuffaro spacciandoli come loro collaboratori e che ora rischiano fino a 10 anni. Da Simona Vicari a Vladimiro Crisafulli, da Calogero Mannino a Saverio Romano, da Giuseppe Ruvolo a Cinzia Bonfrisco, tutti si sarebbero prodigati - secondo le conclusioni dell'inchiesta condotta dal pm Barbara Zuin - per permettere all'ex governatore di mettere in piedi "un collaudato sistema di comunicazioni attraverso il quale Cuffaro ha impartito direttive o comunque fornito indicazioni per lo svolgimento di una molteplicità di non meglio specificati affari che lo vedono coinvolto". Indagato dalla Procura di Palermo nell'ambito di un'inchiesta sulla realizzazione di alcuni termovalorizzatori in Sicilia (poi finita in archivio), per Totò Cuffaro i pm Nino Di Matteo e Sergio De Montis avevano disposto la videointercettazione dei colloqui in carcere tranne, come prevede la legge, quelli con i suoi legali e con i parlamentari. Ma dalle intercettazioni effettuate sulle utenze dei familiari di Cuffaro, gli investigatori della Guardia di Finanza hanno avuto contezza che con quei colloqui al riparo dalle microspie "è stato consentito a Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo stato detentivo". Il giorno in cui Santina Scolaro (già portavoce di Cuffaro) vede venir fuori, nell'ambito dell'inchiesta sul caso Penati, i nomi dell'avvocato d'affari palermitano Francesco Agnello e del senatore Beppe Lumia, si muove subito. "Bisogna informare immediatamente Totò", dice al telefono. E quando si rivolge al factotum Marco Morrone riceve questa risposta: "Si può entrare senza dire niente a nessuno, con un parlamentare e s'organizzamo, con Crisafulli, glielo dico, o con Lillo Mannino che ce va tutti i lunedì". Tra coloro che vanno a trovare Cuffaro in carcere (ma non è coinvolto nell'inchiesta), anche Angelino Alfano, che varca il portone di Rebibbia quando non è più ministro di Giustizia e non è ancora ministro dell'Interno. È il 21 febbraio 2012, il giorno del 53esimo compleanno di Cuffaro, che affida al suo interlocutore la richiesta di contatto con Mondadori per la pubblicazione di un suo libro e poi scrive al suo coautore Francesco Di Chiara: "Oggi è venuto a farmi visita Angelino Alfano per farmi gli auguri. È stato molto carino. Ho concordato con lui che avrebbe chiamato Marina Berlusconi, alias Mondadori, per fissare appuntamento con Renato Farina". Di Chiara poi entrerà a Rebibbia con Renato Farina, già condannato per aver portato in carcere da Lele Mora un ragazzo spacciandolo per suo collaboratore. Il 12 aprile 2011 Marco Marrone parla al telefono con la figlia di Cuffaro, Ida, e le dice: " Noi c'avevamo con tuo papà una situazione con la senatrice Vicari, con Simona perché sta cosa va in scadenza ad aprile e la deve incontra Nino (Sirchia) perché c'ha il fascicolo che tuo padre gli aveva lasciato di questa pratica". Basta controllare i registri e si scopre che la Vicari è stata in carcere pochi giorni prima, il 7 aprile. Dalle verifiche è venuto fuori che al seguito dei parlamentari era entrata a Rebibbia tutta la corte di Totò: il dirigente del ministero dell'Agricoltura Attilio Tripodi, l'ex direttore generale della Asl di Agrigento Giuseppe Di Carlo, l'ex presidente di Confindustria Trapani Davide Durante, l'avvocato dello Stato Filippo Maria Bucalo, il presidente dell'Università Kore di Enna Cataldo Salerno, oltre a deputati e politici locali a lui fedelissimi.

Cuffaro prima e dopo il carcere. Totò che visse due volte, scrive Sabato 12 Dicembre 2015 Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. L'ex presidente della Regione sarà scarcerato oggi e tornerà ad essere un uomo libero. Ma chi è stato fino a ieri Totò Cuffaro? Quale peso ha avuto nella storia della Sicilia da potente e poi da recluso? Qui si prova a dare qualche risposta. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era il politico che, con felpata durezza, comandava in lungo e in largo, ghigliottinato dalla condanna per un'accusa imperdonabile. C'era il recluso del carcere romano di Rebibbia che ha abbracciato la sua pena di prigioniero tra le sbarre, spiccando il volo verso la redenzione. Ora, il secondo torna a casa, consegnando la matricola da detenuto al passato. Come accadde per le lucciole di Pasolini, questa storia si racconta con uno spartiacque preciso, al sapore di cannolo. C'era Totò Cuffaro che chiamavano universalmente "Vasa vasa", per via della sua capacità stoica di incollarsi alle guance degli elettori. Non regnava, suggeriva preghiere che era saggio ascoltare. Non alzava la voce, sussurrava consigli. Si muoveva in uno scintillio di seguaci, come ogni reuccio siciliano che si rispetti, ma da primo della classe. Al suo passaggio, secerneva una tela inesorabile per acchiappare voti. Nessuno poteva esimersi dal baciare Totò, quando reggeva il potere; nessuno poteva batterlo, ne sanno qualcosa Leoluca Orlando e Rita Borsellino che videro le loro aspettative ridursi in cenere, nella corsa per Palazzo d'Orleans. “Con Totò Cuffaro - ha scritto Pietrangelo Buttafuoco - la Sicilia era quello che era: l’ultima ridotta democristiana. Con il suo successore poi, quello di Grammichele, eletto nella coalizione berlusconiana (per farsi smacchiare in corso d’opera dall’onnipotente capo della sinistra antimafia, ossia il professionista Beppe Lumia), la Sicilia divenne quel che è ancora oggi: la fogna del potere. Con Rosario Crocetta, infine, eletto nell’alleanza a guida Pd, la Sicilia è solo impostura”. Ecco la descrizione di un legame che non ha mai conosciuto tentennamenti: Totò-Salvatore, moderato, saldo detentore di preferenze, accessibile interlocutore di chicchessia – capace di non scordare mai nulla, né un nome, né un volto –, il governatore della porta accanto: praticamente invincibile. Nemmeno la frequentazione di certi ambienti in cui consenso e clientele si incrociano ne scalfiva il santino. Neppure un celebre incidente di percorso al cospetto di Maurizio Costanzo - quando un allora ignoto siciliano, dall'accento raffadalese, si alzò per dire quello che pensava, dalla platea, come lo pensava - ne offuscò la stella. E sul palco c'era il giudice Giovanni Falcone. Infine, un incauto vassoio di cannoli affondò il fuoriclasse in apparenza intoccabile nel gennaio del 2008. Il notissimo scatto col presidente che 'festeggia' la condanna per favoreggiamento semplice in primo grado, pasteggiando a ricotta, non venne perdonato. E fu l'immagine, più che la giurisprudenza, a sospingere la pietruzza che sarebbe diventata valanga. Da lì, dalla presunta cannolata di ringraziamento – l'interessato ha sempre smentito: "Tutti sanno che non stavo festeggiando. Non ero certo un fesso".  – ebbe inizio il crollo di un potere che aveva fatto del sorriso l'arte smussata di ogni superbia, l'approdo mascherato di ogni arroganza. Non gli perdonarono, insomma, lo sberleffo che non c'era, perché strideva col ritratto conosciuto. Caddero le inevitabili dimissioni. Il macigno della condanna per favoreggiamento alla mafia - l'accusa imperdonabile - fece il resto. Sulle carte piovve il timbro della Cassazione, il 22 gennaio del 2011, con il successivo ingresso a Rebibbia. Fine della prima parte della storia. C'era due volte Totò Cuffaro. C'era una volta il detenuto matricola 87833 Salvatore Cuffaro – nessuno aveva più il coraggio di chiamarlo Totò – autore di libri bellissimi, di lettere d'amore, sempre rispettose di una giustizia, pur considerata ingiusta. “Hanno voluto e pensato di mandarmi all'inferno, io ho accettato di andarci e ci sono entrato senza che nessuno mi venisse a prendere: la Giustizia me lo ha chiesto, ma non mi sento all'inferno. Io sto vivendo il carcere, anche se con difficoltà inumane, nell'inferno non si vive, si brucia (…). Ho scoperto il mio giardino interiore. Ora comprendo che cosa provano gli uccelli quando vengono raggiunti e colpiti dagli spari del cacciatore, comprendo il piangere degli alberi abbattuti dal fulmine o tagliati dal boscaiolo. Scrivo per conservare l'uomo che sono, per difenderlo. Scrivo per segnare ciò che mi accomuna a tutti quelli che sono qui con me, che sono in posti come questo dove sono io. Scrivo mentre intanto il carcere accorcia il mio respiro. Scrivo e riprendo i pensieri che, altrimenti, condannati a rimanere sconosciuti, si perderebbero per sempre”. Anche dietro le sbarre si può rintracciare un orizzonte di salvezza, fabbricando un aquilone, per esempio (“Io fuggo sull'Aquilone, l'Aquilone è la mia fuga. Io sull'Aquilone, nocchiero del cielo”). E diventare segnali luminosi di ombre altrimenti destinate al silenzio, alla catena dei pensieri, dei sentimenti. In carcere, Totò si è ristretto, smagrendosi; ha perso i chili delle vestigia trascorse, ha condiviso l'anima con i compagni di prigionia e l'ha mostrata a coloro che stavano fuori. Molti che non l'avevano mai apprezzato né votato, che delimitavano nel perimetro del disgusto le schiere osannanti dei clientes, si sono trovati, quasi senza volerlo, dalla parte dell'ex reuccio, della sua innocenza proclamata, della sua colpa lavata dal dolore e dalla dignità. Ecco il vero miracolo di Rebibbia. C'era due volte Totò Cuffaro. Uno era il simbolo di un potere vorace, di baci schioccati da troppi Giuda, di sicilianissime paludi. L'altro era un recluso che in cella ha scoperto la sua redenzione. Ora si racconta un'altra storia: quella di un uomo libero che si è guadagnato il diritto di ricominciare.

Cuffaro in libertà dopo sconto pena: “Ho sbattuto contro la mafia. Ma ho pagato, altri no. Basta politica”. L'ex leader Udc ed ex presidente della Regione Sicilia ha lasciato il carcere di Rebibbia: "Ora credo di avere il diritto di ricominciare". Si era consegnato il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto, scrive Giuseppe Pipitone il 13 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Una laurea in giurisprudenza quasi in tasca, due libri dati alle stampe e diversi chili in meno: si è presentato così Salvatore Cuffaro ai cancelli del carcere romano di Rebibbia, che ha attraversato stamattina dopo aver finito di scontare la sua pena. “È bello respirare la libertà. Oggi posso dire di aver superato il carcere”, sono state le prime parole dell’ex presidente siciliano, che in una cella del piano terra del penitenziario ha trascorso gli ultimi 1.785 giorni: si era consegnato, infatti, il 22 gennaio del 2011, poche ore dopo che il bollo della Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa nostra e violazione di segreto. Grazie agli sconti di pena e alla buona condotta, però, il “detenuto modello” Cuffaro ha scontato alla fine meno di cinque anni di carcere: e adesso è tornato libero con due anni d’anticipo. In questo arco di tempo, l’ex leader dell’Udc ha studiato giurisprudenza (nei prossimi mesi dovrebbe sostenere l’esame di laurea), trovando il tempo anche di firmare due libri (Il candore delle cornacchie e Le carezze della nenia). “La politica attiva, elettorale e dei partiti è un ricordo bellissimo che non farà parte della mia nuova vita. Ora ho altre priorità. Ho amato la politica e non rinnego nulla di ciò che ho fatto, non mi sento tradito”, ha spiegato l’ex senatore Udc. E ha poi aggiunto: “Nella mia coscienza sono innocente. Sono andato a sbattere contro la mafia. Tornassi indietro metterei un airbag. Ho fatto degli errori, non mi voglio nascondere: io li ho pagati, altri no. Ora credo di avere il diritto di ricominciare”. Già nella giornata di oggi tornerà aRaffadali, la sua città d’origine in provincia di Agrigento, insieme alla famiglia, per rivedere l’anziana madre, che quasi due anni fa aveva preso carta e penna per chiedere al presidente Giorgio Napolitano di graziare il figlio detenuto. “Mi dispiace, ma non posso accettare la carità”, era stato il commento di Cuffaro, che aveva chiesto – senza successo – di essere assegnato ai servizi sociali. Adesso, invece, ha annunciato di volere andare in Africa, in Burundi, a fare volontariato. Un desiderio che, semmai dovesse realizzarsi, sarebbe agli antipodi dalla prima vita di Cuffaro, titolare di un lungo curriculum di chiacchierato politico acchiappavoti, capace di mettere d’accordo elettori di ogni risma e colore. Deputato ragionale della Dc dal 1991, noto al grande pubblico fin da quando interviene al Costanzo Show per difendere il “maestro” Calogero Mannino (in studio c’era anche un attonito Giovanni Falcone), Cuffaro si guadagna presto un bonario soprannome: Totò Vasa Vasa, dato che è in grado di schioccare un doppio bacio sulle guance di chiunque si trovi a portata di smack. Assessore regionale all’Agricoltura in governi di centrodestra e centrosinistra, si fa subito segnalare perché è uomo di facilissima socialità: non dimentica mai un nome, un volto, una richiesta, a tutti elargisce consigli, favori, aiuti, doni. E alla fine viene premiato: nel 2001 viene eletto per la prima volta presidente della Sicilia, battendo a sorpresa Leoluca Orlando. Poi nel 2006 la riconferma, quando a sfidarlo c’è Rita Borsellino. Nel frattempo era già deflagrato il caso giudiziario: la procura di Palermo lo accusa di aver rivelato all’imprenditore Michele Aiello, prestanome diBernardo Provenzano, importanti dettagli su indagini in corso. Informazioni che, tramite il medico e politico Domenico Miceli, finiscono direttamente al boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, ex aiuto primario dell’ospedale Cervello. È una storia di colletti bianchi e favori, politici e voti, medici e boss latitanti quella in cui viene coinvolto l’allora potentissimo governatore, numero due dell’Udc di Pierferdinando Casini. L’inchiesta spacca il mondo politico, ma anche la stessa procura di Palermo: alcuni pm vorrebbero processare Cuffaro per concorso esterno, l’allora procuratore capo Pietro Grasso però si oppone. Alla fine l’ex governatore verrà rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra: l’aggravante, però, cadrà quando in primo grado arriva la condanna a cinque anni. È il 24 gennaio del 2008 e Cuffaro spiega di non avere intenzione di dimettersi: uno scatto rubato mentre a Palazzo d’Orleans è intento a spostare un vassoio pieno di cannoli fa scoppiare la polemica. La foto dei presunti festeggiamenti a colpi di dolce alla ricotta fa il giro d’Italia, diventa più imbarazzante della stessa condanna: e alla fine Vasa Vasa dovrà arrendersi, dimettendosi dall’incarico e accettando di trasferirsi al Senato. Il 23 gennaio del 2010 è la volta della corte d’Appello: Cuffaro viene condannato a sette anni e stavolta torna il favoreggiamento aggravato. Sentenza che diventerà definitiva appena un anno dopo. Nonostante la galera, però, gli amici di un tempo non si dimenticano di Totò: e fanno la fila per andarlo a trovare in carcere. Solo che per laprocura di Roma almeno 41 dei visitatori di Cuffaro sono colpevoli di falso: non avrebbero rispettato le regole che concedono ai deputati di entrare in carcere accompagnati da un collaboratore. Al cospetto dell’ex governatore sono andati praticamente tutti: da Mannino a Saverio Romano, dagli ex europarlamentariAntonello Antinoro e Salvatore Iacolino al senatore Pino Ferrarello, fino a Mirello Crisafulli, l’ex impresentabile del Pd, ribattezzato il Cuffaro Rosso per la sua capacità di acchiappare voti a Enna, nonostante militasse nello schieramento opposto a quello di Totò. Un elenco sterminato che la dice lunga sulla quantità di relazioni mantenute negli anni da Totò Vasa Vasa, l’ex governatore che più di qualcuno ricandiderebbe anche domani. Il galeotto Cuffaro, però, non sembra intenzionato a tornare in politica, e in ogni caso non potrebbe ricoprire alcun incarico, dato che è interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Una discriminante fondamentale, visto l’ampio parterre di cuffariani che ha ormai preso pieno possesso del nuovo Pd renziano.

Presentato “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scrive News Sicilia” il 9 dicembre 2015. «A un certo punto sembra che qualcuno farfugli qualcosa. È difficile capire che cosa, ma, per la Procura di Palermo e il perito Roberto Genovese, quel qualcuno che parla sarà la moglie di Guttadauro, la signora Gisella Greco. È la signora, allora, che nel momento in cui il marito fa capire di aver scoperto la microspia, secondo quello che il perito Genovese dirà di aver sentito, avrebbe pronunciato la frase: “ragiuni…veru ragiuni avia Totò Cuffaro”. In quel momento, a qualche chilometro di distanza, al comando dei Ros a Monreale, il maresciallo Salvatore Ciffo è addetto all’ascolto delle registrazioni di casa Guttadauro. È da ore incollato al tavolo, con la cuffia in testa, quando sente che dentro casa di Guttadauro “sta avvenendo qualcosa”. Appena sente qualcosa di strano, come i “rumori metallici” in sottofondo, prende il telefono e chiama il suo collega, il maresciallo Giorgio Riolo, che in quel momento si trova in vacanza. Riolo è la persona giusta, perché è colui che le microspie, dentro casa di Guttadauro, è andato a metterle il 15 agosto del 2000. Sa dove sono e può capire se Guttadauro veramente sia riuscito a scoprirle o meno. “Giorgio vieni che forse hanno trovato qualcosa” gli dirà il collega Ciffo. Riolo, a quel punto, si precipiterà al comando di Monreale per capire veramente che cosa stia succedendo. Quando sarà ascoltato dai P.M., Riolo dirà di aver sentito una frase del tipo “aveva ragione Totò” […] Come vedremo più avanti, a distanza di anni, Riolo darà tutta un’altra versione … ». Questa un’anteprima - tratta dal paragrafo “15 giugno 2001: Guttadauro trova la microspia. Come gli aveva detto il cognato?”, del secondo capitolo “Processo al presidente” - del libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani”, presentato proprio oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati. Il testo illustra la vicenda giudiziaria dell’ex governatore, a firma del giornalista romano Simone Nastasi e sarà disponibile a partire da domani in tutte le librerie e nelle librerie Mondadori d’Italia per Bonfirraro editore. L’autore pone interrogativi e analizza la questione cercando di chiarire i passaggi meno chiari e meno raccontati dell’intero processo contro Cuffaro, concluso con sentenza della Cassazione. Nel testo viene anche riportata alla memoria del lettore la condanna a sette anni di reclusione, per rivelazione di segreto istruttorio con l’aggravante di favoreggiamento mafioso, “accusa che Cuffaro ancora oggi continua a non voler accettare, perché ripete ‘la mafia fa schifo e la mafia, l’ho sempre combattuta” come precisa lo stesso autore. Un mix di interrogativi, testimonianze, interviste che contribuisce a rendere il volume una riflessione attenta su temi di primissima attualità e che interessano il lettore in quanto libero cittadino. “Mi auguro che questo libro - dice l’autore - aiuti il lettore a farsi la propria opinione su una vicenda complessa quale è stata il processo all’ex governatore Cuffaro. Ho scelto come fonti principali gli atti processuali proprio per mantenere una certa obiettività nella narrazione dei fatti. La parola adesso spetti pure al lettore”. “È un libro che avrei voluto pubblicare sin dal giorno della carcerazione di Totò Cuffaro – dichiara l’editore Salvo Bonfirraro  e quindi cinque anni fa, ma capisco che i tempi allora non fossero maturi. Il saggio ha percorso una lunga gestazione, della durata di almeno due anni, subendo molti cambiamenti di rotta, e ha visto la luce soltanto grazie alla sete di conoscenza e d’informazione che ha sempre caratterizzato le nostre pubblicazioni. Adesso tutti i lettori, scevri da pregiudizi, potranno accedere alla verità che nessuno ci ha mai racconta.

Cuffaro scarcerato, ma un libro rilancia i dubbi sul processo, scrive il 14/12/2015 Grazia Bontà su “L’Ultima Ribattuta”. È uscito ieri mattina dal carcere romano di Rebibbia, l’ex governatore della Sicilia e senatore Udc Salvatore Cuffaro. Dopo 4 anni e undici mesi trascorsi nell’istituto penitenziario romano per scontare la condanna definitiva a sette anni di reclusione, ricevuta per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. L’ex governatore, in definitiva, ha scontato “soltanto” 4 anni e undici mesi grazie all’indulto di anno per i reati “non ostativi”, e ai 45 giorni di sconto previsti dalla legge per la buona condotta. Inizialmente, sembrava che l’uscita dal carcere di Cuffaro fosse prevista per il giorno 15 dicembre, ma invece la libertà è arrivata con due giorni di anticipo. Ad accoglierlo oltre ad un fiume di giornalisti, che già dalla serata di sabato erano stati informati della scarcerazione anticipata, i suoi avvocati Marcello Montalbano e Maria Brucale, i fratelli Silvio e Giuseppe e il figlio. Sono venuti a prenderlo a Roma, con un pulmino, per portarlo direttamente in Sicilia a trovare la madre. Ma prima di Cuffaro, la settimana scorsa e precisamente giovedi 10 dicembre, è uscito anche un libro che racconta la sua vicenda giudiziaria. Dal titolo eloquente: “Cuffaro: tutta un’altra storia. La verità sul processo al presidente dei siciliani”, scritto dal giornalista Simone Nastasi e edito dalla casa editrice Bonfirraro. Il volume è stato presentato nella mattinata di mercoledì 9 dicembre alla sala stampa della Camera dei Deputati. Nel libro vengono ripercorse tutte le tappe della vicenda processuale durata sei anni che iniziata nel settembre del 2004 con la richiesta di rinvio a giudizio, si sarebbe conclusa nel gennaio 2011 con la condanna definitiva dell’ex governatore. L’ex governatore era stato accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro (medico aiuto primario, già condannato per mafia e accusato di essere il nuovo capo mandamento del quartiere Brancaccio) e Michele Aiello (imprenditore nel settore sanitario, accusato di essere uno dei prestanome di Bernardo Provenzano). Per questo che infatti le accuse contro Cuffaro saranno di rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Nel raccontare i passaggi che hanno scandito l’intera vicenda processuale di Cuffaro, l’autore del libro, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo di Cuffaro. Dalle dichiarazioni contraddittorie di Salvatore Aragona, principale teste di accusa, al ritrovamento della “prova regina”, un’intercettazione ambientale (saltata fuori non dal processo contro Cuffaro ma da uno parallelo), che è servita ai pm per chiedere e ottenere in sede dibattimentale, il riconoscimento dell’aggravante di mafia nei confronti dell’ex Governatore. Dall’intercettazione infatti, secondo uno dei periti incaricati di analizzarne il contenuto, sarebbe spuntato fuori anche il nome di Totò Cuffaro (nel caso dell’ormai famosa frase “ragiuni avia Totò Cuffaro”). Intercettazione della quale, tuttavia, gli esami di 3 periti su 4 avrebbero smentito l’esistenza. A curare la prefazione del volume, Guido Paglia, che pur non avendo direttamente seguito il processo di Cuffaro, ha accettato di approfondire la vicenda, dopo essere stato “convinto per anni che elementi per condannarlo ce ne fossero”. Anche Paglia tuttavia, dopo aver letto il libro di Simone Nastasi, si è detto del parere che alla fine “Cuffaro abbia pagato qualche errore nella linea difensiva”, nonostante e comunque, una “certa stima” nei confronti dei magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino (rispettivamente, oggi, procuratore capo e procuratore aggiunto di Roma, ma ieri rappresentanti dell’accusa nel processo contro Cuffaro) lo portino a dubitare che il processo sia solo una colossale “montatura”. Della post fazione invece, si è occupato l’avvocato e ex parlamentare radicale Mauro Mellini (autore tra l’altro di un volume dal titolo Il Partito dei Magistrati) che invece, pur non avendo anch’egli seguito direttamente il caso, ha parlato esplicitamente di “giustizia di lotta”, dicendosi convinto che nei confronti di Cuffaro ci sia stata una vera e propria “persecuzione”. Dettata evidentemente, da ragioni che vanno anche al di la dei fatti processuali. Adesso allora, l’ultima parola, quella più importante, spetti pure ai lettori, nei confronti dei quali l’autore Nastasi ha espresso l’auspicio che “questo libro possa aiutarli a farsi un’opinione corretta e esauriente sull’intera vicenda giudiziaria”.

Processo Cuffaro, quante stranezzeUn libro solleva dubbi e interrogativi, scrive il 9 dicembre 2015 Manlio Viola su “Palermo. Blog Sicilia”. Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Se lo chiede Simone Nastasi, giornalista romano, avvicinatosi per pura curiosità alla vicenda del presidente della Regione condannato e che ha scontato per intero la sua pena in carcere. “Un caso più unico che raro – dice Nastasi – quello di un senatore della Repubblica che non si nasconde dietro la politica o qualsiasi forma di impunità, che accetta la pena e la sconta senza chiedere privilegi, e con un rispetto delle istituzioni senza eguali”. E’ stata proprio l’osservazione di questo fatto, riconosciuto a Cuffaro anche dai suoi più acerrimi nemici politici, a mettere Nastasi sulla tracce degli atti del processo alla ricerca di una spiegazione. Guardando alla reazione dell’uomo Cuffaro Nastasi si è posto alcuni interrogativi ed ha ricostruito, passo passo, il processo mettendo insieme un libro da 224 pagine più una appendice con gli atti giudiziari disponibile da domani in libreria.

Nastasi, dopo questo lungo lavoro di ricerca lei si sarà fatta una sua idea sulla vicenda.

“Innanzitutto ci tengo a precisare che si tratta di un libro scritto in larghissima parte sulla base degli atti giudiziari e solo in minima parte intervistando alcune persone. Un politico Pd come Vladimiro Criusafulli e, alla fine, due imputati, uno dei quali assolto e risarcito, i marescialli Riolo e Borzacchelli. Ma una idea me la sono fatta proprio guardando agli atti del processo”.

E qual è questa idea?

“Beh negli atti del processo c’è palesemente qualcosa che non va. Basti pensare che la prova sulla base della quale si giunge ad una condanna in Cassazione non compare prima della seconda metà del procedimento. Si tratta, peraltro, di una intercettazione ambientale proveniente da altro procedimento, quello che riguarda il medico ed ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli. Una ambientale trascritta da un perito le cui dichiarazioni a verbale durante il processo non convincono la corte tanto da richiedere una seconda perizia. Proprio questa nuova perizia smentisce la prima sull’esistenza della frase fondamentale ma questo non basta per evitare a Cuffaro l’accusa più pesante, quella di favoreggiamento nei confronti di un mafioso”.

Secondo lei c’è stato un errore giudiziario?

“Non dico questo, sostengo solo che negli atti si rilevano stranezze. Cuffaro ha sbagliato, e questo sembra accertato dagli atti del processo. La mia convinzione, dopo aver studiato tutto, è che la sentenza più giusta fosse quella di primo grado che lo condannava solo per la rivelazione del segreto d’ufficio. Il resto mi sembra abbastanza controverso”.

Ma la rivelazione del segreto d’ufficio non attiene il pubblico ufficiale deputato a mantenere quel segreto?

“Lo pensavo anche io ma studiando atti processuali e giurisprudenza ho accertato che chiunque, anche se non deputato a mantenere quel segreto, se ne entra a conoscenza è tenuto a non rivelarlo. Dunque il reato di rivelazione c’è probabilmente stato, in base alle prove processuali. Non ho visto, invece, la dimostrazione degli altri reati. Negli atti c’è una perizia di Gioacchino Genchi, noto funzionario tecnico della polizia e in seguito consulente di grandi processi, che dice chiaramente come in 5 anni e decine di migliaia di ore di telefonate di Cuffaro e delle persone a lui più vicine non c’è un solo contatto con uomini mafiosi o pseudo tali. Con una sola eccezione: Salvatore Aragona. Vogliamo dimenticarci che stiamo parlando, però, di un medico?”.

Dunque cosa si è risposto alla domanda iniziale che si era posto? Cuffaro ha veramente favorito la mafia?

“A mio parere, ripeto, la sentenza più giusta era quella di primo grado: solo rivelazione di segreto d’ufficio. e c’è da ricordare che se quello fosse rimasto il reato e fosse caduta l’aggravante dell’articolo 7 ovvero proprio il favoreggiamento indiretto alla mafia, il reato sarebbe stato prescritto e Cuffaro non avrebbe fatto un giorno di galera”.

Ma inizialmente la procura di Palermo voleva imputare l’allora presidente della Regione addirittura per concorso esterno. Questo non pone altri dubbi?

“Anche su questo mi sono fatto una mia idea. In Procura a Palermo c’era la convinzione forte della colpevolezza di Cuffaro ma anche la consapevolezza dell’inconsistenza delle prove d’accusa. Da qui nacque il confronto forte dentro la Procura, quasi uno scontro, che portò ad evitare l’imputazione di concorso esterno proprio perché non avrebbe retto in tribunale”.

Il libro esce domani, appena 4 giorni prima della scarcerazione di Cuffaro. E’ una scelta precisa? Cosa pensi accadrà quando Cuffaro lascerà il carcere?

“Durante questo mio lavoro sugli atti processuali – conclude Nastasi nella sua intervista a BlogSicilia – ho incontrato molte persone ed ho avuto modo di percepire come tanti in Sicilia non siano affatto convinti che Cuffaro sia stato vicino alla mafia. Mi aspetto una grande manifestazione di affetto da parte di questa gente nei confronti di un uomo al quale bisogna, comunque, riconoscere una cosa su tutte: il grande senso delle istituzioni dimostrato e la grande dignità nell’affrontare la pena comminatagli senza mai sottrarsi”.

Totò Cuffaro ha veramente favorito la mafia? Il nuovo libro di Simone Nastasi sul processo all’ex presidente dei siciliani, scrive My Belice” il 16 dicembre 2015. Totò Cuffaro adesso è un uomo libero. A ventiquattro ore dalla scarcerazione è ritornato nella sua Raffadali, accolto da un codazzo di persone, le stesse che lo hanno tanto atteso per quasi cinque lunghi anni. Ha pagato così il suo conto con la giustizia che lo aveva condannato definitivamente in Cassazione il 22 gennaio del 2011 per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato alla mafia. E lo ha accolto anche un nuovo libro “Cuffaro tutta un’altra storia – La verità sul processo al presidente dei siciliani” edito da Bonfirraro e scritto dal giornalista romano Simone Nastasi, in tutta Italia nelle librerie indipendenti e in tutte le librerie Mondadori, che rilancia molti dubbi sulle tesi dell’accusa, raccontando i passaggi più importanti che hanno scandito, come recita il lungo titolo, l’intera vicenda dibattimentale del «primo condannato della storia politica italiana a scontare in carcere una pena così lunga». Al di là del nome del personaggio, che in questo caso è senza dubbio risonante, il libro si muove su un campo minato che è quello della ricerca di una “giustizia giusta” in uno stato di diritto come l’Italia e mette in luce come, probabilmente, in tutta questa vicenda sia stata calcata un po’ la mano sulla gravità dei reati imputatigli. Un saggio acuto e agile, dall’andamento a spirale, con i concetti accennati prima e approfonditi poi, che, alla luce anche delle ultime dichiarazioni di Totò Cuffaro all’uscita da Rebibbia, abbandona subito la presunzione di essere detentore di assolute verità – a dispetto del titolo provocatorio – ma che induce il lettore a porsi, sempre e comunque, delle domande da cittadino libero. L’autore, dunque, utilizzando come principale fonte di informazione gli atti processuali, ha posto in evidenza tutte quelle stranezze e quelle ambiguità che hanno caratterizzato il processo all’ex governatore, accusato di essere una delle “talpe” che tra il 2001 e il 2003 avrebbero rivelato notizie riservate agli allora indagati per associazione mafiosa, Giuseppe Guttadauro e Michele Aiello. Nel libro si dipanano per intero i passaggi storici, dall’inchiesta “Talpe alla Dda” fino ad arrivare alla controversa questione della “prova regina”, ovvero la trascrizione di quell’intercettazione ambientale “Ragiuni avia Totò Cuffaro” che è per Nastasi uno degli elementi sul quale si concentrano i “dubbi maggiori”. «Perché così tanti consulenti? E perché per due periti la ricezione della microspia risulta poco udibile? Ma, soprattutto, Cuffaro avrebbe realmente fatto parte di quell’area grigia nella quale, come si legge nella sentenza di primo grado, “opera indisturbato un intreccio perverso tra interessi politici, economici, affaristici e mafiosi”»? Dubbi, interrogativi, testimonianze, interviste esclusive e quant’altro, arricchito dalla prefazione del giornalista d’inchiesta Guido Paglia, direttore de L’ultima ribattuta, e dalla postfazione dell’avvocato ed ex parlamentare Mauro Mellini, autore de Il partito dei magistrati (Bonfirraro ed.).

Totò Cuffaro: "Vi racconto le mie prigioni". Intervista di Luca Telese su "Libero Quotidiano" del 29 dicembre 2015.

«All'inizio ho cominciato a scrivere incidenti di esecuzione per tutti quelli che non erano in grado di farlo da soli. Ne avrò fatti almeno 200…».

Cosa sono? 

«È l'istanza per avere ridotta la pena se cambiano le leggi o le condizioni. È cominciato così…». In che senso? (Ride, autoironico) «Mi sono fatto una fama: l'avvocato del braccio. Sono soddisfazioni».

Poi?

«Poi sono passato ai "permessini", la richiesta burocraticamente incartata che serve per avere qualsiasi cosa. Il permessino per la torta, per lo spazzolino… (Altra risata, più amara) «Per le scarpe, il libro, la penna…. Senti ma la sai la più bella? Serve il permessino anche per potersi far scrivere il permessino».

E gli analfabeti come fanno?

«Ecco, bravo: nell'ora d' aria gli allungavo un permessino scritto da me, per chiedere, a nome loro, di potersi far fare un permessino, sempre da me».

A quel punto sei diventato sia avvocato che scrivano.

«Metà dei detenuti non ha avvocato. Ma ti stavo dicendo dell'ultimo gravosissimo incarico: la stesura delle lettere private».

Difficile?

«Una sofferenza fisica. Il carcere è una vita di messaggi in bottiglia».

Ma perché gravoso?

«È come rivivere tutte queste sofferenze. Te lo confesso: ho avuto problemi con molte lettere. Scrivi questo… scrivi quello…».

Mi fai un esempio?

«Una mia amica trans, molto innamorata del suo uomo mi diceva: "Adesso scrivi che lo desidero. Scrivi che lo voglio prendere da dietro e scrivi che voglio tanto metterglielo in culo».

E tu?

«Ho esclamato: Non posso!».

E la trans?

«E perché non potresti, scusa?». «Le faccio: Sono cattolico».

Ah ah ah… e lei? 

«Impassibile, ma con una logica inattaccabile dice: "Capisco, tu sei cattolico ma la lettera è la mia"!».

Posso dire solo qui che il giorno in cui Totò Cuffaro è stato condannato ero tra quelli convinti che se lo meritasse. Ero fra quelli indignati per i festeggiamenti per la sentenza di primo grado a base di cannoli. Lo avevo rincorso da inviato nella notte delle comunali di Catania. A cena con Raffaele Lombardo i due avevano decantato il loro pieno di preferenze come un sistema del Totocalcio. Ero rimasto a bocca aperta: avevo scritto tutto. Pensavo che Cuffaro si arrabbiasse, invece mi aveva detto: «Facciamo un'intervista!?». Ebbene sì, baciò pure me. Un vicerè. Era una vita fa. Lo rivedo dieci anni dopo, in una stanza di Rebibbia: un altro uomo. Maturo, serio, diverso. Trenta chili di meno, rada barba sale e pepe. Ci rivediamo più volte, nel corso di un anno, quando partecipo al corso di giornalismo istituito da Giorgio Poidomani. Manca un anno alla scarcerazione. Mentre usciamo da una cella Totò mi annuncia: «Ho scritto un libro dove il protagonista è un maiale in carcere che si chiama come Peppa Pip. È un libro orwelliano, la storia di Tota Pig. E Tota Pig sono io». Adesso Cuffaro è uscito, il libro ce l'ho in mano ("L'uomo è un mendicante che crede di essere un re", Aliberti), è bellissimo, la copertina è un maialino disegnato da Vauro. E Tota Pig è tornato Totò.

Ti hanno radiato dall'ordine, come fai a vivere?

«Già, un'altra follia. Ti riabilitano, ma ti tolgono la possibilità di lavorare. È come dire: Vai e ruba. Io mi limiterò alla prima cosa…

Dovevi dare 700 mila euro di danni all' erario.

«Ho venduto una casa. In qualche modo abbiamo fatto. Mio figlio, il mio orgoglio, adesso lavora».

Cosa farai con i diritti della Aliberti?

(Ride) «Coltivo un sogno eversivo. Voglio mettere insieme almeno 16mila euro per regalare ai detenuti un nuovo campo da calcetto. Con l'erbetta sintetica, capisci?

Quando eri dentro giocavi? 

«Ah ah ah… chi non gioca a pallone in carcere è morto. Anche chi gioca, a dire il vero, per i tanti calcioni che si danno e prendono. Alla fine con la scusa dell'età, avevo ottenuto il permesso di fare l' arbitro».

Cornuto?

«Questo ti stupirà: fra tutte le ingiurie che volano dietro le sbarre quella parola è un tabù».

Come te lo spieghi?

«Qui c' è gente che preferirebbe morire che scoprire un tradimento. La contumacia e l'assenza producono dolore da cui non c' è protezione».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«L'impossibilità di dormire con cui combattono tutti. Io da medico mi sono imposto di non assumere i sedativi di cui l'amministrazione carceraria fa abbondante uso».

Perché?

«Perché volevo rimanere lucido. Alle 23.00 si dovrebbe spegnere tutto. Alle 24.00 il tuo compagno del letto di cella ulula: "Totò, basta co sti tolksciò!!!"».

Cioè i talk show?

«Sì, la politica, una delle malattie che non ti abbandona. All'una di notte sei chiuso nell'unico fortino dove in carcere esiste la privacy».

Quale?

«I sei metri cubi della tua branda. L'unico spazio, cesso e lavandino compresi, che non condividi con nessuno. E lì, sei finalmente solo con te stesso e inseguito dai tuoi demoni. Ti assale l'angoscia».

Il tuo libro sembra scritto da un saggista novecentesco: rifletti sulla condizione umana, citi Foucault e Sant'Agostino, Sciascia e Mann... Hai un ghost writer laureato in lettere?

«Non sfottere! Mi sono cibato di libri, come un affamato. Ne ho letti cinque sei a settimana, ero inseguito da loro. Mi hanno regalato, non so perché, venti copie delle Confessioni».

E che ne hai fatto?

«Distribuite fra le celle: il carcere è pieno di analfabeti che studiano. Anche se non era una lettura esattamente popolare: "Ancora co 'sto Sant' Agostino Totò! Ma Grisham non te lo regalano?"».

Sei stato presidente di regione, deputato: allora cosa pensavi del carcere?

«La verità? Me ne fottevo allegramente, come ancora oggi fa la maggior parte della classe dirigente italiana».

Cosa chiederesti al ministro Orlando?

«Di far finire una vergogna: perché un detenuto ha diritto a una sola telefonata a settimana? ».

Dal carcere sei uscito nudo.

«Ho regalato tutto. Tranne le scarpe e i vestiti con cui sono uscito e le quattordicimila lettere che mi hanno mandato».

Le hai tenute tutte?

«Anche le tre - relativamente poche - di insulti».

Tipo?

«Pezzo di merda, muori».

Carina perché la tieni?

«Perché è giusto che qualcuno mi volesse vedere marcire su 13mila che mi hanno incoraggiato. Rende vere le altre».

Il carcere redime?

«Ovviamente no. Il carcere non educa, diseduca. Una enorme struttura organizzata per creare inutile sofferenza».

Un altro esempio.

«Penso agli extracomunitari che non hanno la possibilità di vedere i loro bambini che crescono. Basterebbe Skype».

Dicevi che l'assenza è la pena più grande.

«Già: sentirsi abbandonato, dimenticato. In questo clima due parole di una lettera del Papa diventano discussioni di intere settimane di cella in cella».

Un leghista duro ti direbbe: sono criminali ben gli sta.

«Oh, sì. C' è un pezzo di società che ha sbagliato. Ma che merita di essere considerata: altrimenti che differenza c'è con la tortura?».

Altro promemoria per il ministro Orlando?

«Che vergogna l'aumento della tassa di soggiorno per chi è dentro. Ti facevano pagare 80 euro al mese, oggi 115. E 50 se li prendono in cauzione».

Hai aiutato il tuo compagno di cella, spacciatore, a ridursi la pena.

«Oh sì! Era stato condannato con la Giovanardi-Fini, demolita dalla Corte Costituzionale: ho fatto incidente di esecuzione anche a lui, e gli hanno levato due anni».

Hai trovato tua moglie in stato di depressione.

«Terribile: avevo intuito che dopo essere venuta tutte le settimane per quattro anni, se non passava doveva esserci qualche problema. Ma mio figlio non ha voluto dire nulla».

E una crisi legata a te proprio ora che esci?

«È convinta che mi riporteranno in galera».

Ma è vero che vai a fare il medico in Africa?

«A marzo, ho già il biglietto fatto per il Burundi. Se posso ci vado anche con lei. È medico, sarebbe utilissima».

Parliamo del tuo amico islamico Jalal.

«Compagno di cella. Dopo la strage del Bataclan abbiamo pregato insieme».

E non gli dava fastidio?

«Macchè. Pensa che spettacolo. Grida dal fondo del braccio: "Ahò che fannòoo?". Telecronaca dalla cella di fronte "E che devono fa? Preganoooo!"».

La cosa per cui hai sofferto di più?

«Le perquisizioni quando ti buttano tutto all' aria. Compresa la foto con i miei figli e mia moglie, infilata alla rete, che guardavo quando la notte mi stringevo al cuscino a piangere».

Cuffaro riceve favori, dicevano.

«Non mi perdonerò mai di non aver potuto dare la mano a mio padre mentre moriva. Mi hanno negato il permesso».

Ti hanno impedito anche di vedere tua madre.

«Le parole della dottoressa Tomasini, magistrato di sorveglianza: "Il colloquio viene negato perché sarebbe svuotato di ogni significato perché le condizioni sono tali che non si potrebbe avere una comune relazione di intenti"».

Sei d'accordo con il tuo compagno di partito Giovanardi su gay e trans?

«No, gli direi che non ha capito nulla: ma lo pensavo anche prima».

Il compagno di cella che hai amato di più?

«Giuseppe, un siciliano amante della poesia. Quando è uscito mi pareva di aver perso un parente».

C' è una lezione che vorresti trasmettere a chi leggerà il libro?

«È che lo capisci solo dentro una cella. Il desiderio è tutto, ed è solo nella tua immaginazione. Ma è quello che ti tiene vivo. Quando ti tolgono tutto».

Hai detto: senza la fede non avrei resistito.

«Vero. Ma adesso penso che sia diverso. Ho scoperto la vera essenza del mio cattolicesimo. Solo in cella ho capito cosa vuol dire essere cattolico: ho capito che di tutte le religioni monoteiste, il mio è l'unico Dio che è andato in carcere, che ha camminato con il cireneo».

Il Dio dei carcerati perché Dio carcerato.

«Proprio così: un Cristo che è sceso dalla croce per stare anche al fianco dei più disperati, è vicino prima di tutto a quelli che stanno a marcire nelle galere. Cristo è il Dio che viene in cella con te». Di Luca Telese

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

In un doc la storia di Don Ciotti e Libera: "La battaglia di chi combatte ogni giorno", scrive Silvia Fumarola l'08 dicembre 2015 su “La Repubblica”, tessendo le lodi del loro protetto per ideologia. Da sempre "La Repubblica" è stata sponsor e promulgatrice mediatica di Libera e del suo Guru. Si intitola "Sono Cosa nostra" il film dedicato alla vita e all'operato di Don Luigi Ciotti girato da Simone Aleandri. Lanciato in anteprima al cinema Nitehawk di Brooklyn, New York, il doc è anche un modo per celebrare i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie: "Rappresento un 'noi' perché Libera raccoglie 1600 associazioni". Don Luigi Ciotti non smette di ripeterlo: «La legge c’è ma non basta, bisogna fare di più». È un’Italia che fa sperare quella raccontata nel documentario Sono Cosa nostra di Simone Aleandri: l’anteprima mondiale è ospitata nello storico cinema Nitehawk di Brooklyn, per iniziativa di Rai cinema. «Lo faremo girare nelle scuole e verrà trasmesso in tv, è un film da servizio pubblico, racconta l’impegno per la legalità, la battaglia quotidiana di chi combatte tutti i giorni» dice l’amministratore delegato Paolo Del Brocco. Il film celebra i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie, nata a fuor di popolo, con la raccolta di un milioni di firme, promossa dall’associazione Libera. Visita lampo a New York per don Luigi Ciotti, l’incontro col vescovo, la sera la proiezione. Speranza e resistenza sono le parole chiave di chi in Campania, Calabria, Sicilia, ma anche in Lombardia e in Piemonte, ha trasformato beni appartenuti ai boss in cooperative (500), mettendo a frutto casali e terreni, creando un circolo virtuoso e offrendo lavoro. La casa del jazz a Roma, i prodotti di Libera venduti nei negozi, la volontà di educare alla bellezza – anche quando sembra un’impresa disperata - perché nessuno possa dire un giorno: «Tu non hai fatto niente?». Antimafia sul campo. Passione e rigore, una vita sotto scorta, Don Ciotti, è accolto dagli applausi: «Rappresento un “noi” perché Libera è un’organizzazione che raccoglie 1600 associazioni. Nel 1996 in Italia grazie a una legge voluta dai cittadini, i beni nella mani della mafia sono diventati beni condivisi». Con il sacerdote c’è Daniela Marcone: il padre Francesco fu ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 era direttore dell’ufficio del Registro, aveva combattuto la corruzione. Il suo volto è finito su un murale, il nome sui vasetti di olive della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola. «Oggi la memoria di mio padre» racconta Daniela con orgoglio «non sono più sola a portarla avanti». Il riscatto e la dignità passano per il lavoro: immigrati, persone che hanno avuto qualche difficoltà nella vita, lavorano la terra e curano gli ulivi. Pietro Fragasso che coordina la cooperativa sociale non ha dubbi: «Per noi l’antimafia deve diventare economia». Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio che lo riporta in Sicilia, Don Ciotti segue la strada di Pio La Torre, il sogno di togliere alla mafia i capitali rappresentati dalle proprietà immobiliari, terreni, aziende agricole. Il magistrato Francesco Menditto spiega come sia importante questa battaglia di civiltà e come sia lunga la strada per la confisca dei beni. «La cosa che dà più fastidio alle mafie» spiega don Ciotti «è che i beni privati diventino condivisi. I ragazzi devono mettersi in gioco, quando trovano parole sono di carne gli brillano di occhi, s’infiammano: non devono scoraggiarsi». A Quindici (Avellino) primo comune sciolto per associazione mafiosa, la villa confiscata al boss della camorra Graziano, oggi ospita il maglificio 100quindici passi. Ci sono state minacce e intimidazioni, contro la struttura furono sparati cinque colpi di pistola, ma il lavoro continua. A Castel Volturno (Caserta) Massimo Rocco ha creato il caseificio “Le terre di Don Peppe Diana” in un terreno confiscato al camorrista Michele Zaza; la cooperativa produce le mozzarelle di bufala, ma quando fu inaugurata i lavoratori venivano definiti “folli”. I vigneti della cooperativa curata da Valentina Fiore a San Giuseppe Jato nascono nel ricordo di Placido Rizzotto, rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948; la gente in un primo momento aveva paura di andare a lavorare su quelle colline, perché occuparsi delle terre confiscate ai boss significa fare antimafia. La cascina di San Sebastiano da Po in Piemonte, intitolata al procuratore capo di Torino Bruno Caccia, (ucciso nell’83) e alla moglie Carla, è meta di pellegrinaggi, unisce un’intera comunità. Qui si fa il miele, si raccolgono le nocciole. Il bene apparteneva alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore, responsabile dell’omicidio del magistrato. La figlia di Caccia ha scelta una foto dei genitori che ballano, un frammento di felicità e speranza per il futuro, come immagine simbolo per il casale. «Papà è stato il primo magistrato del nord ucciso per mano mafiosa» racconta, parlando del «dolore puro, fortissimo» provato il giorno dell’attentato. Dal sorriso degli operatori della cooperativa Il Balzo che hanno trasformato un’edicola di Baggio (Milano) che faceva da quartier generale per la ‘ndrangheta in un centro per ragazzi diversamente abili all’orgoglio di gestire un bar, quest’Italia liberata grazie a Don Ciotti fa bene al cuore, ma niente è facile. È lui stesso a lanciare l’allarme: «C’è ancora tanta illegalità. Nei momenti di crisi i mafiosi hanno un’immensità di denaro da riciclare, dobbiamo essere più scaltri, più attenti e ricordarci che gli affari li hanno sempre fatti anche al nord. La confisca dei beni deve essere trasparente: ci sono sempre paroline, virgole, punti. La prima riforma da farsi in Italia è quella delle nostre coscienze». E spiega come il potere dei segni (caro al codice della mafia) sia importante, così diventa un gesto forte quello della Nazionale che va a giocare a Rizziconi, in Calabria, nel campetto di calcio che la ‘ndrangheta per anni non voleva venisse utilizzato. «Questo è un documentario che riassume piccoli esempi» dice don Ciotti «è ancora troppo poco, sono stati confiscati solo 17mila beni. Se si uniscono le forze – magistrati e società civile – è possibile guardare al futuro. La lotta alla mafia ha bisogno di lavoro e scuole, è la cultura che dà la sveglia alle coscienze, è importante conoscere. A marzo del prossimo anno saranno vent’anni della legge 109. Il sistema legislativo in atto è inadeguato, si potrebbe fare di più. Questo governo e quello precedente hanno creato una commissione per vedere come la legge della confisca dei beni può essere migliorata, attualmente i progetti sono arrivati alla Camera e in Senato. Il primo elemento inserito è il sequestro dei beni dei corrotti, non solo dei mafiosi. L’agenzia che opera deve essere potenziata, bisogna agire anche sui beni aziendali: quello finora è stato un fallimento».

Strapaese delle meraviglie. Fuoco amico, scrive Gabriele della Rovere il 4 dicembre 2015 su "L'Indro". Bufera di Libera, leadership di Don Ciotti e Democrazia carismatica. Allora la questione è se ci siano zone di riserva, amici ed amici degli amici, magari benemeriti operatori nel sociale come nella fattispecie, nei cui confronti conviene (di più: è giusto) applicare peculiari criteri di riguardo e tutela. La nostra risposta è no. Fondamento della nonviolenza è che il fine non giustifica i mezzi, ma i mezzi prefigurano il fine: così, dunque, non si può rivendicare buona finalità per coprire comportamenti che rappresentino comunque un vulnus alle regole di comportamento. Alla democrazia ‘interna’ di un soggetto, gruppo, o quel che sia. Ce ne eravamo già occupati a proposito del Movimento Cinque Stelle, che in questo nostro disgraziato strapaese delle meraviglie (disgraziato perché senza la grazia di valori comuni, di rispetto delle regole del gioco e delle regole tout court) rappresenta un utile, prezioso strumento per la Democrazia: a prezzo però, a volte, della Democrazia decisionale. Come fatto ne il Contrappunto, 2015 Novembre 25, delineando la Fenomenologia di Gianroberto Casaleggio. Chi è l’uomo che ha trasformato Beppe Grillo in Beppe Grillo. Ed a cui l’Italia deve qualcosa. «E’ grazie a lui, non solo ma molto, se l’Italia ha un po’ più, forse molto più, di Democrazia. Anche se purtroppo pagata a volte, e ripetutamente, con un meno di Democrazia interna al Movimento ed alle sue espressioni elettorali. Che è cosa di non poco conto, anzi di moltissimo conto, visto che da nonviolenti riteniamo che il fine non giustifichi i mezzi, ma i mezzi prefigurino il fine». Ecco, diversamente ed analogamente, si può forse si deve ragionare su Luigi CiottiDon Luigi Ciotti. Creatore del Gruppo Abele, del mensile Narcomafie e di Libera, poderosa galassia-strumento per il contrasto alla criminalità organizzata e l’affermazione della legalità. Da tempo anche tra quelli a lui più vicini, o comunque consentanei alla sua azione, si sostiene: «Occorre guardare l’opera, non la persona». Adesso emerge lo ‘scontro interno’ il ‘fuoco amico’ aperto dalle parole di Franco La Torre. Dirigente di Libera che porta sulle spalle la dolorosa esperienza della morte di Pio La Torre, suo padre, esponente del Partito Comunista ucciso da Cosa Nostra nel 1982, a Palermo. Aveva criticato, in occasione dell’Assemblea Nazionale del 7 Novembre 2015, ad Assisi, con un ampio intervento, il comportamento di Enrico Fontana, Direttore dell’associazione, e quindi il suo più importante dirigente operativo. Costretto alle dimissioni per aver ricevuto in sede esponenti del mondo ambientalista finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale. Non è tanto rilevante la questione in sé (lo è eccome, ma non di questo ci stiamo occupando ora), quanto le modalità con cui il confronto e lo scontro si è articolato. Con la defenestrazione del reo di lesa maestà. Sino ad arrivare a sostenere, come fa Nando Dalla Chiesa che di Libera è Presidente onorario, una ardita tesi. «Certo che quello di Don Luigi è un potere carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata di tutti, come nei Partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione». A parte che una cosa non esclude l’altra, anzi vi è più la immeschinisce, grati dovremmo conseguentemente rivolgere il pensiero a due giganti come Benito Mussolini e Silvio Berlusconi che la questione della Guida Suprema l’hanno radicalmente proprio così risolta. La tesi odierna è peraltro analoga a quella esposta a suo tempo dall’allora berlusconiano Italo Bocchino per avallare il porcellum calderoliano, che avrebbe permesso una migliore selezione, dall’alto e senza quasi intervento degli elettori, della classe dirigente e parlamentare. Utilmente il Fatto Quotidiano, pur tra qualche imbarazzo, ha preso spunto dal'Huffington per dare ripetuto spazio alla vicenda di Libera. Può essere doloroso toccare determinati argomenti, certi territori riservati, certi operati dei buoni. Ma non toccarli è ancor più effettivamente doloroso e causa, in primo luogo ai protagonisti, le ferite più gravi. Quelle per protezione ed omissione.

E, dunque, ricapitolando questo incrocio di Novembre-dicembre 2015. Da Lunedì 30 Novembre a Venerdì 4 Dicembre.

Lunedì 30 Novembre. Finisce Novembre. Non è una gran notizia, ma già che la vedete è una buona notizia.

Martedì 1 Dicembre. Inizia Dicembre. Anche questa non è una gran notizia, ma intanto… Franco La Torre dice all’Huffington Post che è stato emarginato, e di fatto cacciato, da Libera per aver criticato alcuni dirigenti e comportamenti. Anche del fondatore e leader, Don Luigi Ciotti.

Mercoledì 2. Il Fatto Quotidiano“Mandato via con un sms”. Don Ciotti e la guerra di Libera.

Giovedì 3. Il Fatto QuotidianoLibera, il mito della purezza affronta il “fuoco amico”. Ivi ripresa, senza commento, anche una bizzarra teoria socialpolitologica di Nando Dalla Chiesa.

Venerdì 4. ‘Il Fatto Quotidiano’: “Libera”, attenzione al fuoco amico. Intervento di Gian Carlo Caselli.

E poi Sabato 5 e Domenica 6. Vediamo…

E la prossima settimana da Lunedì 7 Domenica 13. Continuiamo a vedere. Che già è una buona cosa.

E così ecco iniziato questo Dicembre. E quasi finito questo 2015. Non torneranno mai più, ma li abbiamo vissuti, ed è una gran fortuna che purtroppo prima o poi finirà. Ma mica è detto…

Consulenze, soldi e veleni. In fondo a Libera, scrive “Live Sicilia” Mercoledì 09 Dicembre 2015. L'inchiesta di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza fa le pulci a Libera che, dopo anni di splendore, conosce qualche momento di opacità. Dopo le ultime polemiche e l'addio di Franco La Torre, anche la stampa nazionale si occupa di Libera con paginate e inchieste. Oggi, per esempio, Il Fatto Quotidiano pubblica un servizio - a firma di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza - che fa le pulci all'associazione di don Luigi Ciotti. Titolo: "Consulenze, soldi pubblici e veleni: in fondo a Libera". "L'ultimo direttore, Luigi Lochi - si legge - è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dovere affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all'inizio dell'estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del Pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre del 2013 ha dovuto lasciare l'incarico; non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente". "La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l'ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1500 associazioni, gestisce 1400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell'antimafia sociale. Non solo. 'Libera' è l'invenzione stessa dell'antimafia che, per la prima volta, dopo Capaci e via D'Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio (...). Vent'anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri. (...). Che ne è oggi di quella teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo?". L'inchiesta del Fatto approfondisce personaggi e situazioni. Ricostruisce una storia che sta conoscendo momenti di opacità. Riprende il discorso dei soldi: "L'organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d'autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a un milione e 268 mila euro (...). Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, un po' meno attratti dal don Ciotti manager". Né può mancare il riferimento alle recenti polemiche in cronaca. "E' per questo che Franco La Torre ad Assisi ha lanciato l'allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma? Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un despota e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che che a denunciare le emergenze criminali".

LIBERA: CONSULENZE, SOLDI PUBBLICI E VELENI. L'avevano denuciato il M5S, l'avevamo denunciato anche noi in più occasioni. Per chi vuole capire, approfondire e Libera-rsi dai dogmi. L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora a ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana (sotto la cui egida è nata l'associazione da Sud n.d.r.) si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna, Francesca Rispoli, amica del PD Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a Don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo ad una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno dell’anno scorso si è dimesso pure il Vice Presidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei Conti su alcune spese ordinate quando era a capo-gabinetto del Sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Uno, due, tre dimissioni ‘imbarazzanti’ nel giro di un anno, strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che lo stesso Presidente Onorario, Nando Dalla Chiesa, definisce “una creatura fondata sul potere carismatico, dove la leadership non si discute”. La leadership è quella di Don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccogli 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e Via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra. Vent’anni sono passati dal quel 1995 quando Don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo? La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, recentemente ha voluto ricordare che “serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o finanziata”. Lo stesso Don Ciotti ha più volte messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: “l’antimafia – ha detto – è ormai una carta di identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel fare incetta di finanziamenti pubblici. L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per 1 milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268 mila euro.  Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega Coop, sgancia ogni anno 70 mila euro. Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416 mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnati al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera, che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del Don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal Don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv. Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa? Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di Don Ciotti rischia di addomesticarsi? E’ per questo che Franco La Torre (ex candidato di Rivoluzione Civile insieme a Gabriella Stramaccioni, Direttrice Nazionale di Libera, che il gossip vuole compagna di Attilio Bolzoni di La Repubblica n.d.r.), ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma. Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del PCI siciliano ucciso dalla mafia nel 1982) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo Don Ciotti un “despota” e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: “Nessuno – dice – sporchi la nostra trasparenza”. Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’Ufficio di Presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25 mila euro presso al Regione Emilia-Romagna (governata dal PD Stefano Bonaccini) oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di SeL Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo promotore della campagna “Miseria Ladra” contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del Presidente del Consiglio regionale PDL, Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia. E tace soprattutto il neo direttore Lochi, dal 1991 al 1999 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena 4 giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la c.d. “norma Saguto” che ha scatenato la furia del M5S. Perché? “La nuova legge – hanno spiegato i grillini – stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangiasoldi dello Stato”. La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. E’ la nuova antimafia bellezza! Quella dei pennacchi, dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro. (Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015) 

La Torre contro Don Ciotti. "Dovevamo vigilare", scrive su “Live Sicilia” Martedì 01 Dicembre 2015 Riccardo Lo Verso. C'è anche il caso Saguto all'origine della scelta del figlio di Pio La Torre di divorziare dall'associazione antimafia. "Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Eccolo uno dei motivi per cui Franco La Torre, ormai ex componente del consiglio di presidenza di Libera, ha deciso di andare via dall'organizzazione di don Luigi Ciotti. Libera, a suo dire, non avrebbe tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. “Si sturino le orecchie”, aggiunge La Torre pronunciando la frase in dialetto siciliano e sgombrando da possibili dubbi: non è polemico, di più. Il figlio di Pio La Torre, l'ex segretario del Pci siciliano che assieme a Rognoni firmò nel 1982 la legge per colpire i patrimoni mafiosi, individua nel caso Saguto e in Mafia Capitale le spie dell'inefficienza della classe dirigente di Libera che avrebbe bisogno di una radicale ristrutturazione. “Siamo arrivarti dopo la magistratura. Non abbiamo capito che stava accadendo tutto questo - aggiunge - non va bene che una mattina ci si alzi, si legga il giornale e si scopra il caso. Non ce lo possiamo permettere”. Cosa si poteva fare a Palermo? “Non lo so, non ho ricette. Certamente si doveva analizzare il problema”. E se gli fai notare che in molti, per ultima la Commissione nazionale antimafia, il sistema Palermo lo avevano passato al setaccio finendo per elogiarlo, La Torre taglia corto: “Magari anche noi avremmo concluso che le cose andavano bene. Si può sbagliare nelle conclusioni, ma non accorgersene no. Non si può”. È innegabile che l'esigenza di combattere la mafia colpendo i patrimoni dei boss sia diventata una enorme macchina economica. Nel panorama del movimento antimafia Libera è una holding (termine che non piace affatto al suo fondatore). L'organizzazione, nata per la promozione della legalità e l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, oggi è alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale di Libera, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché, alla luce dei numeri sopra citati, “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Da qui la scelta di fare un passo indietro che rende esplicito il malessere che da tempo covava nel movimento antimafia. “Io voglio bene a Libera e a Luigi, abbiamo lavorato bene in questi anni e speravo - spiega La Torre -, anzi spero, perché sono un ottimista, che le mie parole siano un'occasione di crescita”. Per il momento non è andata così. Oggi l'ormai ex rappresentante di Libera mette in guardia dai “rischi dell'antimafia di convenienza” e di quella che si fa “schermo di interessi indicibili”. Ed è in questo contesto che l'organizzazione di don Ciotti non avrebbe fatto sentire la sua voce: “Ci siamo fatti sentire a L'Aquila nel post terremoto e in Lombardia, ma non a Palermo per le Misure di prevenzione e a Roma per Mafia Capitale. Il nostro compito si è affievolito”. Ciotti non ci sta, dalle colonne di Repubblica difende l'organizzazione (“Non c'è nessun problema, Libera sta lavorando bene”) e spiega che “prima si conosceva il nemico, era la mafia, ora gli attacchi arrivano da più parti”. Chissà se alla voce “attacchi” vadano inserite le parole di Silvana Saguto. A chi le ha contestato, intercettazioni alla mano, di avere fatto favorito amici e parenti nella scelta degli amministratori il magistrato rispondeva che i “nomi di persone valide li abbiamo chiesti anche ad associazioni antimafia come Libera”. Circostanza che un paio di mesi fa Libera smentì categoricamente.

Antimafia, Pino Maniaci: «Libera? Ormai è una holding». Associazioni poco trasparenti e non al passo coi tempi. Il direttore di Telejato fotografa la lotta a Cosa Nostra. E fa un paio di domande a don Ciotti, scrive Francesca Buonfiglioli il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. Sono passati 30 anni e un'infinità di polemiche da quando Leonardo Sciascia sfidò i «professionisti dell'antimafia», quegli «eroi della sesta» che agiscono solo per fini personali e per accaparrarsi consenso. E cos'è cambiato? Praticamente nulla. «C'è che Sciascia aveva ragione», ammette a Lettera43.it Pino Maniaci direttore di Telejato, l'emittente del Palermitano da sempre in prima linea contro la mafia. Lo dimostrano le parole dure di Franco La Torre figlio di Pio segretario siciliano del Pci ucciso dalla mafia nel 1982 nei confronti di don Luigi Ciotti, numero uno di Libera. «Sono stato cacciato dall'associazione con un sms», ha spiegato La Torre all'Huffpost dopo aver criticato apertamente la gestione dell'associazione che non è riuscita a intercettare il fenomeno di Mafia Capitale, per esempio, o il caso Saguto a Palermo, la giudice, militante dell'antimafia, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Uno scandalo, quello legato ai beni confiscati, accompagnato dal silenzio assordante delle istituzioni. Che quando si sono decise a parlare, dice arrabbiato Maniaci, «l'hanno fatto troppo tardi». «Solo ora qualcuno comincia a rilasciare dichiarazioni», aggiunge. «Ma sono in ritardo. Da Raffaele Cantone a Piero Grasso». Proprio il presidente del Senato il 27 novembre aveva lanciato un appello per «un'antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandoni sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, e corsa al finanziamento pubblico e privato». Ma, insiste Maniaci, «finora se ne è stato muto come un pesce. E dire che nel 2010 Saguto era alle sue dipendenze...». Con Telejato da tempo il giornalista aveva denunciato delle irregolarità, anche al presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta. «Non volevo buttare merda, ci mancherebbe altro. Gli dissi solo che all'interno del tribunale c'era un verminaio», ricorda.

DOMANDA. E quale è stata la risposta?

RISPOSTA. Mi sentii rispondere che così prestavo il fianco agli altri, cioè ai mafiosi.

D. Quale è la situazione dell'antimafia oggi?

R. Ha perso credibilità. Ed è doloroso non credere nelle istituzioni. Tutta l'antimafia dovrebbe fare pulizia al suo interno, ormai è diventata una holding perfetta per fare affari. Se decontestualizziamo siamo di fronte a due mafie.

D. Tutto da buttare?

R. No, assolutamente. C'è una vera antimafia che non è quella delle holding, ma quella delle onlus che si autofinanziano, della gente comune, dei ragazzi. E che è nel cuore delle persone.

D. Una critica a Libera?

R. Il messaggio di Libera è meraviglioso. Ci sono migliaia di giovani in tutta Italia che lavorano e ci credono.

D. Ma...

R. Ma deve rivedere la sua gestione. Ormai non è più un club come all'inizio ma una holding.

D. Però sostiene di essere in prima fila nella trasparenza dei bilanci.

R. Lo dicono loro. La trasparenza è fondamentale.

D. I soldi rovinano tutto?

R. A mio parere così si mortifica l'antimafia vera. Ripeto ormai non parliamo di un club ristretto ma di un'associazione nazionale. E anche a livello territoriale dovrebbero essere scelte persone capaci e competenti.

D. Quindi è d'accordo con La Torre?

R. Se uno come La Torre, e stiamo parlando del figlio di Pio, sostiene che non c'è democrazia e altri membri del consiglio nazionale lasciano l'associazione...

D. Un'altra accusa è di non essere a passo con i tempi. Cosa ne pensa?

R. Le mafie sono cambiate, sono quelle dei colletti bianchi. Anche l'antimafia deve aggiornarsi, cambiare pelle e guardare il fenomeno per quello che è. Però don Ciotti si incazza. Vabbè che lui è uno che si incazza facilmente... io però avrei un paio di domande da fargli.

D. Prego.

R. Perché i ragazzi che da tutta Italia arrivano in Sicilia per partecipare a progetti come 'Liberarci dalle Spine' non solo lavorano gratis nei terreni confiscati ma devono pure pagare 150 euro per vitto e alloggio? Manodopera gratuita?

D. La seconda domanda?

R. Perché la pasta di Libera fatta col grano di Corleone viene venduta a 6 euro al chilo? Non sarebbe un messaggio bellissimo fare sì che questa pasta sia accessibile anche a chi è meno abbiente?

D. In attesa delle risposte, non crede che questa gara ad accaparrarsi un patentino antimafia stia diventando una farsa?

R. Ci sono politici antimafia, commissioni antimafia, la Dda, la Dna. Manca solo il Ddt. Farsi fotografare accanto al Don è diventato trendy. Il fatto è che ormai la normalità non esiste, è paradossale. Suggerisco a Camilleri di rivedere anche il suo Montalbano...

OLTRE LIBERA. CHE COSA C’È DIETRO LA GRANDE DISFATTA DELL’ICONOGRAFIA ANTIMAFIA. Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato, scrive Salvatore Merlo il 03 Dicembre 2015 su "Il Foglio". Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice “che non c’è nessun problema” nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo “del secolo” o il processo alla “storia”, e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice “ammazza sentenze” assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi. Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che “è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia”, ha detto a Repubblica. “Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi”. E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: “L’antimafia non è più un fatto di coscienza”, aveva detto, “ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione”. E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita “ad intercettare” i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti – o almeno così dice lui: “Mi ha scaricato con un sms” – e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, “infangata dagli scandali”, come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già “icona” dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia. Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. “Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie”, ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: “Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare ‘la mafia fa schifo’. E’ la grande impostura dell’antimafia”. Un fenomeno che è stato motore della lotta – efficace – contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante – “c’è una mafia dell’antimafia”, ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito antimafioso – attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia. Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale – come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: “L’associazione ha dei meriti enormi”, ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. “Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità”. Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. “L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno”, ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, “e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”, non dovrebbe cioè muoversi come un “potere”, che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare.

Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".

La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:

a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?

b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.

c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.

d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!

e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".

«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».

Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?

«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».

Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.

«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».

Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?

«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».

È una manovra politica?

«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».

D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.

«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».

E il paragrafo su Libera?

«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».

Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?

«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».

Cosa chiedete nell’interpellanza?

«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».

Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?

«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».

Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?

«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».

I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».

Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".

Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».

Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.

Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.

Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».

A quale sistema fa riferimento?

«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».

Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».

DAL 1986 SALVATORE SANFILIPPO È PRESIDENTE DELL’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE, DOVE, DAL 1987, COME GIUDICE A LATERE C’È LA DOTT.SSA SAGUTO. I suoi guai cominciano quando viene arrestato Antonino Lo Giudice, di Partinico, per sofisticazione vinicola: costui si rivolge ad Antonino Blogna, addetto alla scorta del giudice, e a Francesco Paolo Sammarco, un poliziotto, per avere un contatto con lui ed avere segnalato il nome di un avvocato difensore, scrive “TeleJato”. Il poliziotto chiede un compenso di 40 litri d’olio, che, dalle ricostruzioni giornalistiche pare abbia chiesto per sé, mentre altri sostengono sia stato ricevuto dal giudice. Il giudice non sa di avere il telefono sotto controllo: scoppia un caso di abuso d’ufficio: Sanfilippo  si difende dicendo che Lo Giudice era già stato da lui condannato a due anni di sorveglianza speciale e cinque milioni di contravvenzione, con revoca della patente, ma il CSM non vuole saperne e dispone prima il trasferimento d’ufficio di Sanfilippo per incompatibilità ambientale  (aprile ’92) ad altra sede con motivazioni del tipo “ha perso di credibilità e prestigio, decoro e fiducia nell’attuale sede”, e poi malgrado la conclusione della vicenda con l’amnistia, si arriva addirittura destituzione  dall’ordine giudiziario. La persecuzione continua pochi anni dopo prima con una condanna  per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti avvenuti durante la sua presidenza alle misure di prevenzione ancorchè nella sentenza si legga  che “il contributo realmente dato…dal Sanfilippo sia stato di poco conto” ma l’accusa “è confermata da testi di sicura attendibilità in primo luogo la dott.ssa SAGUTO”, conclusasi con una pena concordata; ancora con una richiesta da parte della procura di Palermo per sottoporre il Sanfilippo a misura di prevenzione patrimoniale ed infine con la richiesta di confisca del patrimonio ritenuta infondata per ben due volte dalla Corte d’Appello di Caltanissetta perché la Procura NON HA FORNITO “la prova della riconducibilità del patrimonio esaminato alle attività illecite dell’imputato” ed infine rigettato anche  dalla Corte di Cassazione (in quest’ultima fase difeso dalla figlia Valeria, avvocato). Infine l’accusa di riciclaggio, mossa dal pool di Palermo, a firma Dario Scaletta, Calogero Ferrara e Ambrogio Cartosio, nei riguardi della moglie e della figlia che si risolve in un’assoluzione per non aver commesso il fatto nel marzo 2010: accusa sostenuta attraverso una consulenza tecnica a firma del dott. Salvatore Cincimino smentita punto per punto attraverso la consulenza tecnica di parte. La figlia, già titolare di uno studio legale, ha dedicato la sua vita a restituire onorabilità al nome del padre, da poco scomparso, anche se tutte le disavventure giudiziarie, legate a un bidone d’olio mai ricevuto, le hanno causato un danno di oltre 100 mila euro. La vicenda è da leggere nel clima di caccia alle streghe determinatosi nella Procura di Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino e nelle lotte all’interno della Procura, tra i vari magistrati. Particolare non indifferente: la Saguto, dopo il trasferimento di Sanfilippo, rimane nel collegio dell’Ufficio Misure di prevenzione, ma la sua testimonianza è determinante nel processo contro Sanfilippo sostenendo che non si interessava del suo ruolo e che riceveva nel suo ufficio strani individui… (Il pentito Vincenzo Scarantino, smentito in vari processi per la sua inattendibilità).

"Ufficio di collocamento beni sequestrati". La Saguto e le intercettazioni dello scandalo, scrive Martedì 20 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Secondo i finanzieri, l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe segnalato amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. "Io ti devo chiedere il favore per il prefetto". Ultimo giorno dello scorso mese di agosto. Poco dopo la undici e trenta Silvana Saguto contatta al telefono una dipendente che al Palazzo di Giustizia di Palermo fa il funzionario giudiziario. “... era per vedere cose nuove... volevo parlarti un minuto... - dice il magistrato - intanto cominciamo con tuo figlio sicuramente”. L'ufficio dell'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale è imbottito di microspie. Le hanno piazzate gli investigatori della Polizia tributaria su delega della Procura di Caltanissetta. I finanzieri scrivono nelle informative: “Gli approfondimenti investigativi hanno fatto emergere che Silvana Saguto segnala persone da contrattualizzare (amici, conoscenti, personali o di suoi familiari) ad alcuni amministratori giudiziari”. Insomma, saremmo di fronte ad una sorta di ufficio di collocamento con i nominativi delle persone da assumere suggeriti dal magistrato a capo, fino ad un mese e mezzo fa, del collegio che sequestra i beni alla mafia e nomina gli amministratori giudiziari. Suggerimenti che non sappiamo se abbiano fatto in tempo ad accogliere, visto che le conversazioni sono state intercettate in prossimità delle perquisizioni e dei sequestri che hanno fatto esplodere lo scandalo. Il lavoro degli investigatori, però, guarda indietro nel tempo per scovare assunzioni sospette avvenute in precedenza. L'ufficio del magistrato era tappa obbligata per gli amministratori giudiziari, le cui voci sono rimaste impresse nei nastri magnetici che raccontano il "pressing" del magistrato. Quarantasette minuti dopo le undici dello stesso giorno di fine agosto nella stanza dell'allora presidente entra l'avvocato Aulo Gigante. La richiesta della Saguto è diretta e svelerebbe un intreccio di posizioni di lavoro: “... senti qua per Vincenzo avremmo trovato probabilmente un posto adesso, nell'amministrazione Virga dove lui può essere preso intero, però c'è una persona che io voglio presa in cambio... il figlio di... la conosci... il cancelliere... questo ha esperienza... ha fatto fallimenti”. Ecco la richiesta di piazzare il figlio del funzionario giudiziario. Gigante prende tempo: “... il problema è che siamo in grosse difficoltà... mi devi dare tempo sino a dicembre, a dicembre io so se siamo vivi o morti”. Saguto: “... ma temporaneo non lo potresti prendere?... Se io non trovo di meglio subito lo prendiamo temporaneo al posto di Vincenzo appena Vincenzo lo mettiamo... incomprensibile... è bravo, ha fatto fallimenti come curatore”. Gigante torna a parlare delle sorti della catena di negozi di abbigliamento, tirando in ballo i vecchi proprietari alla cui gestione, almeno così sembrerebbe dalle sue parole, farebbe risalire lo stato di crisi aziendale: “... ci salviamo riducendo i costi, malgrado Massimo Niceta... vabbè comunque organizziamoci... lo facciamo”. Il 2 settembre successivo la Saguto contatta la funzionaria giudiziaria: “... dovremmo fare con tuo figlio, lo mettiamo da Niceta... in un posto che si libera... contabilità... quello che la faceva era un ragazzo che conoscevo pure io che non è diplomato ragioniere, quindi deve essere una contabilità all'ingrosso, diciamo... se dovesse andare male Niceta, proviamo altri posti... per tuo fratello ho parlato con Provenzano, il professore... ”. Tre giorni prima, il 28 agosto 2015, la Saguto chiede ad un altro amministratore, Alessandro Scimeca: “… allora io ti devo chiedere il favore per il prefetto... quello là (incomprensibile) assumere, devi trovare...”. “Silvana è improponibile... - Scimeca prova a resistere alle richieste - io faccio tutto quello che vuoi... ma come ti aiuto?... Io al prefetto l'aiuto pure, ma non con quella mansione, ma non con quella qualifica”. Saguto: “Io posso vedere anche in altri posti ma lui cosa sa fare, niente”.  Nella stessa giornata la cimici captano la conversazione fra la Saguto e il titolare di un noto ristorante-sala ricevimenti in provincia di Palermo dove andrà a lavorare il figlio del magistrato, Elio, di professione chef. Quest'ultimo, a giudicare dalle parole della madre, non è rimasto molto contento della proposta economica. L'imprenditore tranquillizza la madre: “Credo che si può superare tutto”. All'indomani le cose si mettono a posto: “Sono contentissima io ed è contentissimo pure Elio”. “Hanno trovato l'intesa completa”, dice l'imprenditore. Ed è sempre il futuro di un altro figlio, Emanuele, che sta a cuore al magistrato. Al padre Vittorio dice “che per ora è tranquillo, dal primo ottobre il professore (Carmelo Provenzano, ndr) dice che qualche cosa gliela troverà da fare... intanto vuole fare sto concorso per commissario... poi vuole fare un corso in criminologia... io intanto lo scrivo per l'abilitazione di avvocato”. Provenzano, docente universitario ad Enna, secondo l'ipotesi della Procura di Caltanissetta, sarebbe stato inserito dalla Saguto fra gli amministratori giudiziari in cambio dell'aiuto al figlio, sia negli studi che nel mondo del lavoro.

L’inchiesta sui beni confiscati e le difficoltà economiche di casa Saguto, scrive “Palermo Blog Sicilia” il 19 ottobre 2015. Emergono poco alla volta le intercettazioni telefoniche ed ambientali in possesso alla procura di Caltanissetta che hanno convinto i magistrati nisseni a notificare l’avviso di garanzia correlato di perquisizione al collega Silvana Saguto ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Intercettazioni che lasciano sorpresi nelle quali il magistrato parla al telefono con l’avvocato Cappellano Seminara delle difficoltà economiche della sua famiglia. Ci sono riferimento a carte di credito in scadenza da 10 mila euro, al rischio di aver tagliata la luce per insolvenza a trance di pagamenti da 8800 euro. Insomma richiesta di aiuto economico rivolte dal magistrato all’avvocato che di per se non dimostrano la corruzione ma che vengono considerate interessanti dagli investigatori che ricostruiscono l’apparato accusatorio piuttosto pesante sulla base delle trascrizioni delle intercettazioni della Guardia di Finanza. Per parte suo il magistrato ha sempre ammesso le difficoltà economiche ma derubricandole a normali difficoltà comuni a ogni famiglia. Le telefonate non sono sempre comprensibili, come riporta oggi il Giornale di Sicilia in edicola, e sono riportate più volte omissioni per incomprensibilità di alcuni passaggi quando i due abbassano la voce durante la conversazione. C’è di tutto in queste intercettazioni, ivi compresi i riferimenti a Walter Virga figlio di Tommaso Virga all’epoca dei fatto membro del Csm. Walter è un giovane avvocato amministratore giudiziario di Bagagli e del gruppo Rappa ma di lui. Nello studio di Virga lavora anche la fidanzata del figlio della Saguto poi messa alla porta forze a causa dell’inchiesta. Di questa vicenda la Saguto e cappellano Seminara parlerebbero in una intercettazione, sempre secondo quanto riportato dal giornale. ‘Walter Virga è un ragazzino, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento’ sarebbe la frase intercettata che la Saguto rivolgerebbe a Cappellano Seminara l’8 giugno scorso. Uno spaccato tutto da interpretare ma che supporterebbe le accuse secondo la procura di Caltanissetta e che gli indagati dovranno spiegare in maniera compiuta.

Gite al mare, profumi e servizio taxi. La blindata tuttofare di Silvana Saguto, scrive Lunedì 19 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: "Impiego della scorta per fini non istituzionali". Le intercettazione dell'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Più che una scorta era un servizio taxi. Gli uomini a bordo della blindata andavano in giro per la città a soddisfare le richieste di Silvana Saguto, ex presidente della Sezione misure di prevenzione finita sotto inchiesta della Procura di Caltanissetta. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: “Impiego della scorta per fini non istituzionali”. La mattina del 28 agosto scorso il magistrato spiega al figlio Emanuele che “ho mandato i miei (personale della scorta, ndr) a prendere tutte cose (materiale sanitario per suturare una ferita, ndr) alla clinica Zancla”. Sempre lo stesso giorno la Saguto contatta un agente della scorta invitandolo a comprare “il dopo sole” per portarglielo a casa. Tre giorni dopo l'ex presidente chiama Mariangela Pantò, fidanzata del figlio, per chiederle se all'indomani le va di trascorrere una giornata al mare: “Ti faccio prendere dalla scorta quando viene a prendere a me”. All'indomani, davanti all'abitazione della Pantò si appostano i finanzieri. La donna viene prelevata nella zona di corso Calatafimi e accompagnata a casa Saguto. Pochi minuti dopo escono assieme dall'abitazione del giudice, salgono a bordo della Bmw serie 5 blindata per dirigersi verso via Marchese di Villabianca. Il 2 settembre la storia si ripete. “Stanno venendo a prenderti, ti portano a casa - dice la Saguto alla Pantò - perché a me mi arrivò una direttissima... tu comincia ad andare a casa, se del caso mangiate e poi io arrivo”. L'ultimo episodio contestato dai finanzieri risale al 3 settembre scorso. La Saguto chiama un uomo della scorta: “Potete venire, però dovete passare dalla profumeria e prendermi i dischetti levatrucco, quelli grandi”. In profumeria la scorta ci passa davvero. C'è un problema, però: "Sta controllando meglio ma molto probabilmente non ci sono quelli grandi, ci sono quelli piccoli”.

Pino Maniaci: “La dottoressa Saguto? E' potente perché tiene in pugno personaggi importanti”, scrive Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York" del 19 ottobre 2015. Dopo le nuove rivelazioni sulla gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - una specie di stillicidio che coinvolge istituzioni e personaggi che rappresentano le stesse istituzioni giudiziarie - siamo tornati a chiedere ‘lumi’ a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato che ha fatto esplodere questo caso. Con lui affrontiamo tanti temi: a cominciare dal ruolo delle ‘holding’ dell’antimafia, Libera e Addiopizzo. Piano piano, al ritmo di uno stillicidio, vengono fuori le rivelazioni sul ‘caso’ della Sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Il riferimento è, per lo più, all’ex presidente, Silvana Saguto, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. E’ già venuta fuori la storia di un debito della famiglia della dottoressa con un supermercato sequestrato alla mafia (debito che è stato in parte pagato). Quindi la storia del tonno sequestrato poi utilizzato per una cena. E oggi il Giornale di Sicilia pubblica un articolo con ampi stralci delle intercettazioni tra la dottoressa Saguto e l’avvocato cappellano Seminara. Articolo che lascia basiti per il tono e per gli argomenti. Tra questi, l’ex presidente della Sezione di misure di prevenzione che dice di non avere soldi per pagare l’energia elettrica. E i rapporti con la “Calcestruzzi”. Confessiamo di essere rimasti di stucco nel leggere l’articolo del Giornale di Sicilia. Così, ancora una volta, siamo andati a chiedere lumi a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato, il giornalista che ha fatto scoppiare questo putiferio.

“Certo - ci dice - ho letto l’articolo. E mi pongo e pongo subito una domanda: quando si parla della Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere del Tribunale di Palermo, amministrata almeno dodici aziende di calcestruzzo. Detto questo, oltre che da quanto comincia a emergere dalla intercettazioni, io sono sbalordito dalle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dalla stessa dottoressa Saguto”.

Ovvero?

“Guardi, la dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera, Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire, le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”.

Parliamo un po’ di Libera e di Addiopizzo?

“Qui entriamo in un campo molto particolare. Cominciamo col dire che sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Anche se ci sono aspetti che a me sembrano poco chiari. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta cinque-sei Euro; un vasetto di caponata cinque Euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Soprattutto alle famiglie indigenti. Invece avviene il contrario. Sull’argomento ho chiesto un parere a Don Ciotti. Ma non ho mai ricevuto risposta. Poi c’è, in prospettiva, la questione legata ai sequestri”.

Cioè?

“Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento nazionale deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Mattello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”.

Questo è un tema che voi di TeleJato avete sollevato con forza, non senza buone ragioni: tante imprese sequestrate vengono svuotate e poi riconsegnate semi fallite ai legittimi proprietari.

“Appunto. Anche grazie a questo metodo è stata distrutta buona parte dell’economia di Palermo e della sua provincia. Sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”.

A questo punto cogliamo l’occasione per invitare questi imprenditori a raccontarci le loro storie. Detto questo, passiamo all’avvocato Cappellano Seminara, che a quanto pare è e rimane un intoccabile.

“Proprio così, un intoccabile. Infatti fino ad oggi ha mantenuto tutti gli incarichi. E passa addirittura all’attacco. Un qualunque altro cittadino, al suo posto, sarebbe già in galera con i beni sequestrati”.

Sarebbe una nemesi: il gestore dei beni sequestrati che subisce un sequestro.

“Sarebbe un fatto di giustizia”.

Tornando all’avvocato Cappellano Seminara, la dottoressa Saguto ha detto che la Sezione gli ha assegnato solo otto incarichi.

“Non è affatto così. Nello studio dell’avvocato Cappellano Seminare operano trentacinque avvocati. Sono gli avvocati che noi di TeleJato abbiamo definito i quotini. Questi legali gestiscono tantissimi beni a Palermo e in provincia. Altro che solo otto incarichi!”.

A suo giudizio come si sta comportando in questa storia il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM)?

“Da quello che leggo e sento il comportamento del CSM risulterebbe un po’ ambiguo. Sembra che proponga ai magistrati coinvolti in questa storia di chiedere il trasferimento. Così ha detto la stessa dottoressa Saguto. Anche tale aspetto a me sembra devastante”.

Qualche magistrato ha parlato del pericolo di delegittimare la magistratura.

“Ho letto, in questo senso, dichiarazioni in generale. Non mi sembra che sia questo il problema. Anzi i magistrati hanno tutto l’interesse a chiarire i fatti. E poi, diciamolo con chiarezza: chi è che verrebbe delegittimato dalla richiesta di chiarezza in materia di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia? La dottoressa Saguto? Io invece penso sempre al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che avrebbero pensato di tutta questa incredibile storia?”.

In questi giorni avete sollevato anche il caso dell’impresa Niceta. E’ vero che chiuderà i battenti?

“Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa cinquanta dipendenti. E ne hanno assunto ventiquattro. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici dei solito giro. L’ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare la testa lasciando il corpo non serve a nulla, perché tutto rimane come prima. Faccio un esempio concreto: a che serve mandare via Virga se poi i coadiutori nominati dallo stesso Virga restano?”.

Ma secondo lei chi c’è dietro questa storia? A parte gli avvocati, non ha parlato e non parla nessuno. A cominciare dall’Ordine dei commercialisti. E tutti restano sostanzialmente al proprio posto.

“Quello che posso dire è che dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti. E questo a me sembra un fatto gravissimo”. 

Negozi Niceta: si chiude, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 15 ottobre 2015. LO AVEVAMO ANTICIPATO GIÀ DA ALCUNI MESI E ADESSO È DEFINITIVO: TUTTI I NEGOZI NICETA, DA PARTINICO, A CARINI, A PALERMO, AD AGRIGENTO, HANNO CHIUSO O STANNO PER FARLO, A CAUSA DELL’INCAPACITÀ GESTIONALE DIMOSTRATA DELL’AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO AULO GIGANTI, UNO DEI “QUOTINI” DI CAPPELLANO SEMINARA AL QUALE È STATA AFFIDATA L’AZIENDA MESSA SOTTO SEQUESTRO PERCHÉ NEL PUNTO VENDITA DI CASTELVETRANO LAVORAVANO DUE NIPOTI DI MATTEO MESSINA DENARO. In poco più di un anno questo signore è stato capace di mandare a casa 45 lavoratori, di cui siamo in grado di fare nomi e cognomi: aveva anche fatto una lettera di licenziamento ad altri otto, avendo già deciso la chiusura dei residui punti vendita dei centri commerciali La Torre e Forum, ma improvvisamente, non si sa per quale folgorazione, ha deciso di ritirare i licenziamenti, di tenere ancora aperti i due punti, forse in attesa della prossima udienza fissata il 20.10, durante la quale di dovrebbe decidere definitivamente se continuare l’amministrazione giudiziaria del nulla o se restituire ai proprietari le briciole di un impero. Quello che più incuriosisce è che sono stati licenziati 54 lavoratori, ma ne sono stati assunti 27: anche di essi potremmo fare nomi e cognomi e sappiamo per certo che tra di essi ci sono due amici di un figlio della Saguto, uno è stato raccomandato da un giudice, uno dice che gli hanno rubato il furgone della ditta, mentre era in trasferta, due sono stati individuati come persone che attingevano a piene mani dalla cassa del punto vendita di Castelvetrano, una non si è mai vista. Insomma una bella lista di persone che hanno sostituito lavoratori ai quali, oggi, come da essi ultimamente denunciato, è stato anche negato il pagamento del TFR. E andiamo ad altro: Non è stato fatto ancora l’inventario dei beni, dei quali avrebbe dovuto occuparsi un perito, un certo Ferrara: adesso non si sa cosa dovrebbe inventariare, dal momento che è tutto scomparso, pure le attrezzature comprate in leasing. Non è stata pagata la retribuzione di sei mesi di lavoro al sig. Niceta che nei primi mesi ha mandato regolarmente avanti il negozio, fino a quando non gli è stato proibito di mettervi piede. L’amministratore giudiziario si è visto più o meno un’ora a settimana, ma ha incamerato profitti impressionanti, per sè e per i suoi collaboratori inutili, negando però che le cifre comparse su un noto quotidiano siano reali. E adesso siamo alla fine. Dopo aver cambiato tutti gli avvocati, dimostratisi incapaci di difendere i loro interessi, i Niceta hanno presentato una memoria al giudice delle misure di prevenzione e aspettano una risposta per il prossimo 29 ottobre.

Gli ex dipendenti Niceta scrivono a Pino Maniaci, scrive "Telejato" il 10 ottobre 2015.

GENTILISSIMO DIRETTORE, Chi parla è un gruppo di ex dipendenti Niceta, come ben sapete la situazione che avevamo predetto lo scorso inverno non solo si è avverata ma è anche peggiorata. Tanti di noi hanno perso il  lavoro per dare posto a nuove assunzioni “Parentopoli” ed altri semplicemente sono stati mandati a casa. Nessuno di noi ha percepito né le ultime mensilità lavorative né tantomeno il TFR e per di più siamo venuti a conoscenza che sono stati saldati affitti arretrati di esercizi commerciali chiusi. Molti di noi hanno sottoscritto una scrittura privata dove l’amministratore avv. Gabriele Aulo Gigante si impegnava a rateizzare i TFR per non gravare copiosamente sulle spese aziendali, ma ovviamente questo impegno non è stato portato a termine. Ci chiediamo inoltre: è legittimo per un amministratore giudiziario vendere dei beni di un’azienda sotto sequestro preventivo? E se così fosse, a che scopo? Non dovrebbero essere i dipendenti i primi ad essere liquidati? I pochi ex dipendenti che hanno provato a sollecitare gli importi spettanti, come risposta dall’illustre amministratore Gigante, hanno avuto: “Neanche so se domani continueremo ad amministrare questa azienda visto il casino che sta succedendo!!!!! Perché dovremmo uscire questi soldi in un momento così difficile?”  Di chi dovremmo fidarci? Dopo anni di sacrifici ci vediamo togliere sia il nostro diritto al lavoro sia tutto ciò che ci spetta. Abbiamo appena appreso dal vostro TG che la “Povera, Ladra, Dottoressa Silvana Saguto” è a casa in malattia per una depressione… Ci viene spontaneo chiederci, unni su i nostri piccioli (dove sono i nostri soldi)? Non dovremmo essere noi ad avere la depressione? Essendo molto dispiaciuti per la Dottoressa, Le auguriamo una pronta guarigione e di poter ritornare al lavoro presto, però con una nuova mansione, lavare fino all’età pensionabile le scale del tribunale di Palermo e non sarebbe neanche degna di fare questo essendo un lavoro onesto. Per lei, carissimo Seminara, non ci sono parole… ma la cosa che ci fa più ribrezzo è di dover pensare: possibile che non ci siano giudici non corrotti in grado di prendere in mano, in modo dignitoso e leale, questa grave situazione per ripristinare la giustizia? Quella giustizia che qualsiasi comune mortale avrebbe già pagato. Ma Seminara no… lui non si tocca. Quali valori ha e continua a insegnare ai suoi figli? Noi siamo persone oneste, non auguriamo nulla di brutto, ma dato che alla Saguto abbiamo augurato di lavare le scale del tribunale di Palermo, a lei Seminara, le auguriamo di essere il mocio di tutti i secchi dei tribunali d’Italia. Con tanta rabbia, tristezza, amarezza, chiediamo soltanto ciò che ci spetta. P.S.: un consiglio, togliete la frase “La legge è uguale per tutti” dai tribunali, perché è falsa. La legge è uguale solo per chi ha il Monopolio del potere.

Morto a pochi giorni dal sequestro. Si è spento Mario Niceta, scrive Mercoledì 18 Dicembre 2013 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Pochi giorni fa, l'impero dell'imprenditore palermitano era finito nel mirino della Procura, che l'aveva accusato di aver costruito la sua fortuna all'ombra di Cosa nostra. Resterà per sempre uno dei nomi più noti tra gli imprenditori palermitani. Nella tomba si porta i ricordi di una scalata commerciale e, forse, anche il lato oscuro dei suoi successi. Mario Niceta è morto a 71 anni. Pochi giorni fa sul suo capo, e su quello dei suoi figli, si è abbattuta una disavventura giudiziaria. Di quelle che, se confermate, rischiano di lasciare una macchia indelebile in una vita intera. La Procura della Repubblica ritiene, infatti, che Mario Vittorio Niceta abbia costruito le sue fortune grazie all'appoggio dei pezzi da novanta della mafia. È scattato il sequestro preventivo di un patrimonio da 50 milioni di euro. Toccherà ai figli - Piero, Massimo e Olimpia - che ne hanno raccolto l'eredità imprenditoriale sobbarcarsi il peso della sua difesa, oltre che della loro. Di certo se ne va un cognome conosciuto da giovani e meno giovani. Da chi già negli anni Cinquanta comprava i tessuti nello storico negozio di via Roma e da chi, in epoca recente, ha seguito la moda nei tanti negozi con il marchio Niceta sparsi per Palermo e per altre città siciliane. Le fortune del gruppo sono nate nel punto vendita di via Roma, a pochi passi dalla stazione centrale, dove coppie di genitori arrivavano in treno dai paesi della provincia palermitana per comprare il corredo alle figlie prossime alle nozze. Nasceva la Niceta Srl, prima gestita dai fratelli Onofrio e Piero e poi, appunto da Mario. Negli ultimi anni, una grave malattia lo aveva costretto alla sedia a rotelle. Inevitabile che le sorti del marchio passassero ai tre figli che hanno differenziato l'attività. Non solo abbigliamento. E di recente il gruppo Niceta si è dovuto misurare con la crisi che lo ha obbligato ad una serie di operazioni di ristrutturazione dei debiti e di concordato preventivo per sanare le perdite. Poca cosa rispetto al ciclone giudiziario che si è di recente abbattuto anche su Mario Niceta. Su richiesta del Procura antimafia di Palermo e della Questura di Trapani a Mario e ai figli sono stati sequestrati tutti i beni. Carabinieri del Ros, poliziotti, finanzieri e agenti della Direzione investigativa antimafia sono giunti alla stessa conclusione: ci sarebbe la mafia dietro la scalata imprenditoriale. E la storia delle presunte contiguità illecite partono da lontano. Da quando Mario Niceta lavorava ancora con il calcestruzzo e sarebbe diventato il fornitore dei cantieri edili nella zona di Brancaccio per decisione dei capomafia della zona. Accuse pesanti ma anche ora tutte da verificare. Mario Niceta lascia la sua difesa in eredità ai figli.

Beni giudiziari confiscati: I negozi di Niceta, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 25 febbraio 2015. PROSSIMI ALLA CHIUSURA I NEGOZI NICETA. L’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA LI HA PORTATI AL FALLIMENTO. Stanno per chiudere i negozi Niceta, lo storico esercente palermitano che si occupa della vendita di capi di abbigliamento, accessori e preziosi. Anzi uno di essi, il punto vendita presso il centro commerciale Forum di Palermo, è già chiuso. Il peccato originale di Niceta Mario Vittorio Massimo, ovvero Niceta padre, è legato al possesso di una ditta di calcestruzzo in contrada Ciacculli-Brancaccio, che, secondo una dichiarazione del pentito Cannella, fatta nel 1995 davanti ai giudici Lo Forte e Di Lucia, sino al 1993 aveva come Amministratore unico Niceta Mario, e successivamente, sino al fallimento nel 1996,   un tal Conigliaro Giuseppe, ma i cui reali padroni erano Pino Greco, detto Scarpuzzedda, i fratelli Graviano e Nino Mangano per conto di Bagarella. Cannella è quello che riferisce anche di “ingenti somme di denaro versate tra il 1976 e il 1978 dalle famiglie di Totuccio Inzerillo e Stefano Bontade nelle attività imprenditoriali di Silvio Berlusconi” (4.3.1998): non risulta tuttavia che, nei confronti di Berlusconi, malgrado le dichiarazioni di Cannella siano state confermate da molti altri pentiti, da Spatuzza a Galatolo, sia mai stato emesso un decreto di confisca dei suoi beni. Solo per curiosità aggiungiamo che Cannella parla anche dell’arruolamento nei servizi segreti, per intercessione dell’on. Gava, allora ministro, di Emanuele Piazza, fratello di un tossicodipendente cui Pino Greco forniva droga, poi implicato nell’attentato dell’Addaura contro Falcone. Tornando a Niceta, la proprietà, solo nominale, dell’impianto, da parte del Niceta è anche confermata dal pentito Angelo Siino in una deposizione del 1998. A partire dal 1993 Niceta, tetraparaplegico, e quindi in una difficilissima condizione esistenziale, abbandona tutto e dichiara il fallimento delle aziende nelle quali c’era il suo nome. L’altro ostacolo su cui vanno a inciampare i fratelli Massimo e Piero Niceta, si trova a Castelvetrano, al momento, nel 2007, dell’assegnazione degli spazi del grande centro commerciale Belicittà, gestito dalla 6 G.D.O. di cui è patron assoluto Grigoli, che è compare di Filippo Guttadauro in quanto suo testimone di nozze, mentre Filippo Guttadauro è padrino di Federica Grigoli. Con questo i fratelli Niceta stipulano nel 2007 un contratto d’affitto di ramo d’azienda per l’installazione di due punti vendita, il Blue Spirit e il Niceta Oggi, ma commettono l’imprudenza (?) di inserire nel personale di lavoro Francesco e Maria Guttadauro, figli di Filippo Guttadauro, che ha sposato la sorella di Matteo Messina Denaro Rosalia, detta Rosetta e che, secondo i Niceta non riescono a trovare lavoro a causa delle loro parentele: va detto che Filippo Guttadauro è fratello di Giuseppe, un medico che risulta essere capo-mandamento di Brancaccio-Ciaculli, cioè uno di quelli che controllava la cava di Niceta padre e che è padrino di Massimo Niceta. Secondo le conclusioni dei giudici, i fratelli Guttadauro sarebbero i soci occulti dei due punti vendita di Belicittà i cui intestatori fittizi sarebbero invece i fratelli Niceta, titolari dell’azienda NI.CA. La guardia di Finanza parla addirittura di un rapporto “sinallagmatico” (sic!), ovvero di un inesistente contratto, secondo cui tra le parti sarebbero state concordate obbligazioni reciproche, cioè niente. Aggiungasi che nei pizzini sequestrati nel 2007 ai Lo Piccolo c’è uno strano biglietto, attribuito a Matteo Messina Denaro in cui è scritto “amico Massimo N.” e che esiste una intercettazione telefonica del 2000 in cui Massimo Niceta, dovendo aprire un punto vendita Moda Italia in corso Finocchiaro Aprile a Palermo, telefona a Filippo Guttadauro, lamentandosi di uno sconosciuto, andato a chiedergli informazioni e chiedendo, secondo la chiave di lettura degli inquirenti, un intervento del padre Giuseppe, suo padrino, ove si trattasse di richiesta di pizzo. Altro elemento addotto è la nomina del ventunenne Niceta Pietro, nel lontano 1991 come Amministratore della Tecnotra, società operante nel settore dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, cui, nel 1992 subentrava il solito Conigliaro, che la metteva in liquidazione. Troviamo i nomi di Niceta Gioacchino e di Niceta Mario anche nel consiglio di Amministrazione della Parabancaria Consulting, una ditta che si è occupata di servizi bancari e parabancari, assicurativi e finanziari, sino al 1992, anno in cui si dimisero. C’è poi una serie di eventi nei quali entra in ballo l’on. Acierno, un deputato condannato nel 2012 a 6 anni per peculato e altre cose di questo genere, in stretto rapporto con i Guttadauro e con un tal Cappadonna, compare e “vivandiere” di Matteo Messina Denaro. Anche qua niente di penalmente rilevante, ma ce n’è abbastanza per disporre, prima da parte della procura di Trapani il sequestro dei due punti vendita di Castelvetrano, , poi, da parte della procura di Palermo, (2.12.2013) il sequestro di tutti e 16 punti vendita, case, azioni, depositi bancari, il tutto, persino un motociclo Piaggio, si dice, per un ammontare di 50 milioni di euro, sulla base di “evidenze indiziarie che fanno ritenere….”. L’amministrazione viene affidata, dalla dott.ssa Saguto, che dirige l’ufficio delle misure di prevenzione, a uno dei suoi pupilli, l’avvocato Aulo Gigante, già legale rappresentante del gruppo Aiello (Villa Teresa), il quale, in un primo tempo, si serve degli stessi fratelli Niceta per portare avanti la gestione dei negozi e disporre le ordinazioni e i pagamenti delle commesse, poi, rimproverato dalla Saguto, o essendosi accorto che la presenza del Niceta poteva costituire un forte ostacolo ai suoi progetti di speculazione, notifica ad Olimpia Niceta ( e quindi ai suoi fratelli) “l’interdizione della facoltà di accedere ai luoghi ove le attività in sequestro esplicano le loro attività aziendali nonché di sostare nei pressi delle medesime, con l’espresso divieto ad intrattenere rapporti di qualsiasi genere con i dipendenti” (16.10.2014). Neanche si trattasse di pericolosi terroristi! Da allora tutti i punti vendita cominciano a svuotarsi di merce e di persone con la prospettiva, entro nell’immediato breve tempo, forse qualche settimana, del fallimento, e con la seria preoccupazione dei 50 dipendenti di essere licenziati davanti alla chiusura di tutte le attività commerciali di quello che una volta fu l’impero dei Niceta. Il tutto con tanto di chiusura delle indagini e di proscioglimento da ogni accusa della famiglia Niceta, la cui richiesta viene fatta dai giudici Micucci e Guido, della Procura di Palermo già nel 2010. Nel frattempo il commissario giudiziario, tal Martina La Grassa, pagata con i soldi dell’azienda, dopo i 90 giorni di rito, presi per i dovuti accertamenti sul valore e sulla eventuale dolosa provenienza dei beni confiscati, si è preso altri 90 giorni e altri 90 se ne prenderà, in attesa che l’azienda chiuda. Tramite i propri legali i Niceta avevano presentato un piano di concordato preventivo ad un’assemblea dei creditori, ma pare che la cosa sia sfumata perché giudicata un’indebita intromissione nella gestione giudiziaria. Finisce nei guai, e i beni di sua proprietà, nonché quelli dei suoi parenti, sono messi sotto confisca e sommati a quelli dei Niceta, anche Vittorio Emanuele Orlando, un imprenditore di Terrasini, colpevole di avere sposato Olimpia Niceta, dalla quale si era separato nel 2012. Orlando, avendo dimostrato la sua estraneità, rientra in possesso dei suoi beni dopo qualche mese. In poco più di un anno di amministrazione giudiziaria il fatturato iniziale, inizialmente stimato in 20 milioni successivamente dimezzato, a causa della crisi, si è ulteriormente ridotto, soprattutto per il peso dei pagamenti dell’amministrazione, stimato in 500.000 euro finiti nelle tasche di Aulo Gigante e dei suoi sette collaboratori, che presentano fatture con esorbitanti spese di trasferta e sono pagati per un lavoro di controllo del tutto inutile. Queste passività sono andate a scapito dell’azienda, al punto che i dipendenti hanno dovuto piegarsi a un contratto di solidarietà, cioè rinunciare al 20% dello stipendio. Al momento. Per evitare licenziamenti e conseguente clamore mediatico, i dipendenti dei punti vendita chiusi sono spostati in quelli ancora aperti, facendo aumentare la passività nella gestione. Fornitori che aspettano di essere pagati e, senza garanzie non vogliono più fornire merce, scaffali vuoti, merce in liquidazione sono evidenti segnali di un’imminente chiusura.

L’ultima poco convinta proposta è di lasciare tutto nelle mani dei dipendenti, in una sorta di cooperativa che provi autonomamente a risollevare le sorti dell’azienda, oltre che continuare ad assicurare il pagamento dell’amministratore che ha procurato il dissesto. A costui si chiederebbe almeno un anno di attività libera da spese, prima di stipulare (guarda un po’!), un accordo per il pagamento di una quota di gestione. Cioè la cooperativa dovrebbe pagare una sorta di affitto o concessione, non chiamiamolo pizzo, all’amministratore giudiziario Gigante, che rappresenta lo stato, per poter far lavorare i soci-dipendenti. E’ tutto.

Negozi Niceta: L’amministratore giudiziario minaccia i dipendenti, scrive "Telejato" il 2 marzo 2015. MINACCIATI DI LICENZIAMENTO SE CI SARANNO ANCORA FUGHE DI NOTIZIE CON LA STAMPA. L’amministratore giudiziario dei negozi Niceta, Aulo Gigante, nominato dall’Ufficio misure di prevenzione di Palermo, dopo che il 2.12.2013 era stato disposto il sequestro dei beni dell’azienda, per sospetto di inquinamenti mafiosi, non ha gradito il nostro servizio, fra l’altro ripreso anche dal prestigioso sito “Antimafia Duemila” ed ha convocato i 90 dipendenti che ancora lavorano presso i punti vendita a lui affidati, minacciandoli di non riferire più alcun tipo di notizie alla stampa, pena il licenziamento o, cosa molto più probabile e imminente, la messa in part-time. Per quanto riguarda la famiglia Niceta ha lasciato capire che, dietro tutte le manovre che mirano a gettare discredito su di lui e, indirettamente sull’azienda a lui affidata, ci sono loro stessi e che ha intenzione, continuando così le cose, di sfrattarli dalla loro stessa casa di Mondello, bambini compresi, o, quantomeno di obbligarli a pagare l’affitto, essendo il bene attualmente sotto sequestro. Insomma, siamo davanti ad atteggiamenti padronali d’altri tempi e a misure, purtroppo consentite da una legislazione lesiva dei diritti umani che, si badi, può essere condivisa se si tratta di procedere nei confronti di mafiosi penalmente riconosciuti, ma che diventa arbitraria   quando le misure di prevenzione sono effettuate nei confronti di persone delle quali deve essere verificata la continuità con la mafia o la realizzazione del patrimonio con il concorso di capitali mafiosi. In tal senso il commissario giudiziario Martina La Grassa continua a chiedere rinvii di 90 giorni, che gli sono accordati, per verificare documenti semplicissimi, quali atti di proprietà di case portate spesso in eredità dai coniugi delle persone inquisite. La poverina lavora in modo indefesso, ma non ce la fa, anche perché i rinvii gli assicurano ogni volta tre mesi di parcella a spese dell’azienda. Ma andiamo ai negozi: ormai siamo alla stretta finale. L’avvocato Gigante ha ammesso diverse volte di essere un neofita, di non possedere l’esperienza e le conoscenze necessarie per mandare avanti la baracca, e si è servito di collaboratori e dipendenti da lui nominati, che si sono rivelati per alcuni aspetti figure parassitarie e inutili nella conduzione aziendale: Tra di questi , va citato, per aver ricevuto l’incarico di buyer, cioè di compratore, di addetto agli acquisti con i vari fornitori, un tal Caponnetto, titolare di un negozio di giocattoli, che di abbigliamento non capiva niente e che ha già procurato un calo delle vendite di circa il 40%. Per metterci una pezza Gigante ha creduto opportuno di affiancargli “la persona ideale”: si tratta di Patrizia Di Dio, vicepresidente della Camera di Commercio, titolare di 5 negozi di abbigliamento a Palermo “La vie en rose”, che, ha recentemente messo in vendita, magazzino compreso, visto che gli affari non gli vanno bene: a parte l’evidente conflitto d’interesse, non ci vuole molto a concludere che il tempo della fine è più vicino. Anche perché la signora Di Dio ha detto che lavorerà gratis, ma se si valuta che la sua prima commessa è stata fatta con il 40% di aumento rispetto alla precedente, non ci vuole molto a concludere che costose trasferte e differenze di valore finiranno tutte col pesare sul bilancio del gruppo Niceta. I dipendenti sono pronti a formare una cooperativa e a gestire autonomamente i punti vendita, ma è chiaro che in tutto questo ci vuole l’intervento dello stato e la decisione di sganciare dalle mani voraci che la governano, tutta la gestione dell’azienda. Cioè niente. Riassumiamo le cause di un fallimento annunciato: mancata programmazione degli ordini, presenza inutile del personale assunto dall’amministrazione giudiziaria, per sorvegliare i punti vendita, , per non parlare di un elemento rilevato dai dipendenti stessi, ovvero la “mancanza di disponibilità al sacrificio lavorativo”, che tradotto in termini in termini volgari significa non avere alcuna voglia di lavorare, pagamento di indennità di trasferta sovradimensionate, concessione di ferie in modo arbitrario, mancata presenza sui posti da amministrare, poiché Gigante è anche amministratore della Italgas, un’azienda che si trova in puglia, dove egli si reca per tre giorni la settimana, mancato pagamento di alcuni fornitori, incapacità di gestire commercialmente una realtà di dimesioni più vaste di un semplice negozio, ma soprattutto atteggiamenti autoritari e scarsa disponibilità al rapporto con i lavoratori. E se questo significa rappresentare lo stato, siamo proprio messi male.

A proposito di Amministratori giudiziari e Niceta, scrive "Telejato" il 17 marzo 2015. ABBIAMO RICEVUTO UNA LETTERA INVIATA DALL’AVV. PIETRO MILONE, CON RICHIESTA DI RETTIFICA DI ALCUNE AFFERMAZIONI FATTE NEI CONFRONTI DELL’AVV. MARTINA LA GRASSA DA NOI FATTE IN DUE ARTICOLI DI SALVO VITALE RIGUARDANTI I FRATELLI NICETA. QUESTA LA NOSTRA RISPOSTA. Gentile avvocato, in risposta alla sua del 12 c.m. , con qualche giorno di ritardo, rispetto all’intimazione perentoria di due giorni da lei stabilita, dovuto a problemi personali, rispondo, anche a nome del direttore del telegiornale Riccardo Orioles e del titolare di Telejato Pino Maniaci, con una prima considerazione, più che altro una curiosità: come mai la dott.ssa Martina La Grassa, sua assistita, che è già un avvocato e, se non siamo in errore, ha un padre avvocato civilista con uno studio in via Libertà e un altro in via Rapisardi, dove abita lei stessa, invece di chiedere personalmente la richiesta di rettifica si è rivolta a un altro avvocato? Si tratta di una richiesta di rettifica di un privato che si ritiene parte lesa a un altro privato che è o dovrebbe essere responsabile dell’errore.  Sul cerchio degli avvocati che ruota attorno alla Procura e, in particolare all’ufficio misure di prevenzione, ci siamo già occupati in altri articoli e vogliamo sperare che lei e la sua assistita non siano in quella “quota”. Ma andiamo ai fatti: non siamo riusciti a capire in che cosa consista l’offesa all’onore e alla reputazione della dott.ssa La Grassa: forse nel fatto che si ipotizzano rinvii e proroghe nella consegna del lavoro commissionato dalla procura? Se l’incarico di commissario giudiziale è cessato il 4 aprile 2014, quand’è iniziato?  Si presume che la data sia stata quella del 2.12.2013, cioè quella del sequestro dei beni dei Niceta e, in tal senso sarà stato possibile qualche rinvio, ma c’è da fare un apprezzamento alla dott.ssa La Grassa per avere svolto il suo lavoro in circa quattro mesi, cioè nei tempi richiesti, o quasi, cosa che non si può dire di altri suoi colleghi. Giusta invece la richiesta di rettifica, relativa all’incarico, ricevuto dall’avv. Martina La Grassa di commissario nominato dal tribunale fallimentare per il concordato, mentre è il dott. Fabio Ferrara il perito nominato dal tribunale di Palermo per la perizia: evidentemente abbiamo erroneamente scambiato le competenze. Per il resto è giusta la precisazione, a noi nota che la parcella viene calcolata facendo riferimento all’ ammontare dell’attivo e del passivo risultanti dall’inventario redatto ai sensi dell’art.172 della legge fallimentare, ma la presunzione di dilatazione dei tempi, come abbiamo già ammesso, è stata dovuta a un errore nello scambio delle competenze e degli incarichi affidati dal tribunale.  Si noti altresì che tra l’incarico di “redigere l’inventario” o quello di “verificare documenti e atti di proprietà”, ci pare non possa esserci qualche errore nell’attribuzione delle competenze, ma non ci sono elementi che possano causare offesa e danno all’immagine della dott.ssa La Grassa, alla quale, comunque va dato atto di avere svolto il lavoro in tempi rapidi. La presente sarà letta nel corso dell’odierno telegiornale. Ove ci siano altre cose da rettificare prego la S.V. di preparare lei stesso un comunicato di rettifica, scritto in termini giornalistici, cioè accessibili al telespettatore, che siamo pronti a sottoscrivere.

Partinico 17.3.2015

Salvo Vitale, Pino Maniaci, Riccardo Orioles

Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara.  - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.

Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi -  neanche tanto velatamente -  altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente -  diceva all'amministratore -  una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio  -  avverte il Csm  -  in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.

Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI  GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo ni