Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU
GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)
3289163996
0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK:
(personale)
ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV:
TELE WEB ITALIA
NEWS:
RASSEGNA STAMPA -
CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
LA CAMPANIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
NAPOLI
TRA CAMORRA ED ANTICAMORRA
TUTTO SU NAPOLI E LA CAMPANIA
I NAPOLETANI ED I CAMPANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?
Quello che i Napoletani ed i Campani non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Napoletani ed i Campani non avrebbero mai voluto leggere.
(*Su Salerno c'è un libro dedicato)
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PARLIAMO DI NAPOLI.
LA CAMORRA BORGHESE.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
I MAGISTRATI DI NAPOLI SE NON SON BUONI, LI MANDANO A SALERNO.
POTERE A 5 STELLE.
GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
ALLO STADIO SI VA GRATIS.....MA NON TUTTI.
NAPOLI TATUATA.
SCENEGGIATA CAMORRISTICA. CAMORRA SOUND. NEOMELODICI E CRIMINALITA’.
LA NAPOLI DI GIANCARLO SIANI: IERI COME OGGI. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
NAPOLETANO: CAMORRISTA PER NASCITA. QUELLO CHE PENSANO GLI ALTRI…E LO DICONO!
COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE…..
NAPOLI OSTAGGIO DEI RAGAZZI CAMORRISTI.
COSÌ LA CAMORRA HA CREATO L'ECOMAFIA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA……
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
BAGNOLI: LA STATO FA FALLIRE SE STESSO.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
NAPOLI JIHADISTA.
IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.
CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?
A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?
COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.
I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
LA PUZZA SOTTO IL NASO DELLA POLITICA NAIF. ELEZIONI: GLI IMPRESENTABILI.
LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.
LA METAMORFOSI DEI FORCAIOLI: LUIGI DE MAGISTRIS.
DAVIDE BIFOLCO. MORIRE A 16 ANNI. “LA CAMORRA TI PROTEGGE. LO STATO TI UCCIDE”?
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.
STATO INFAME, GIUSTIZIA SPREGEVOLE. TORTORA E GLI ALTRI.
MAGISTRATURA INCONTROLLATA ED INCONTROLLABILE.
STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.
PARLA ANTONIO IOVINE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.
LA CAMORRA MEGLIO DELLO STATO?
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD. COSENTINO, TU VUO’ FA’ LL’AMERICANO, MA SI NATO IN ITALY.
LA CELLA ZERO.
NAPOLI FALLITA.
VEDI NAPOLI? NO! BEVI NAPOLI E PUOI MUORI.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.
DELINQUENTE A CHI?
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.
MAGISTRATURA ED ABUSI: POTERE MAFIOSO?
TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.
GIUDICI IMPUNITI.
C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!
IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.
I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.
MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.
MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?
NAPOLI 40 ANNI DOPO.
E CHE DIRE DEL CONCORSO TRUCCATO PER DIRIGENTE SCOLASTICO?
VEDI NAPOLI E …POI MUORI!
PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.
PARLIAMO DI LUIGI DE MAGISTRIS.
I FALSI PROFETI. LA MAFIA VIEN DALL'ALTO. IN TERRA DI ILLEGALITA’ NESSUNA TOGA O DIVISA PUO’ CHIAMARSI FUORI, PUR DECANTATI DA SOMMI POETI PARTIGIANI.
SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME.
A NAPOLI VITTIME INNOCENTI. SI MUORE PER NIENTE, NELL’INDIFFERENZA E SENZA OTTENERE GIUSTIZIA.
PREFETTI, IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE. ANCHE A NAPOLI!!!
VIGILI URBANI. PARLIAMO DI VIOLENZA DELLE ISTITUZIONI, OMERTA' ED IMPUNITA'.
NAPOLI MASSONICA. MASSONERIA CONTRO NAPOLI.
NAPOLI MAFIOSA. MA NON E’ TUTTO CAMORRA.
I PRECARI DELLA CAMORRA.
MAGISTRATI CONTRO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
NAPOLI TRA ORGOGLIO E RANCORE.
POLITICA, ISTITUZIONI E CAMORRA.
QUANDO LA QUESTIONE MORALE E’ BIPARTIZAN.
MAGISTROPOLI, IN CHE MANI SIAMO?
MALAGIUSTIZIA.
INGIUSTIZIOPOLI: TORTORA E GLI ALTRI.
USI ED ABUSI MUNICIPALI.
E POI SIAMO ALL'INVEROSIMILE. QUANDO I FURBI A NAPOLI HANNO SEMPRE RAGIONE.
AFFITTOPOLI.
ORMEGGIOPOLI.
PARCHEGGIOPOLI.
MORTOPOLI.
AMBIENTOPOLI.
LAUREFICIOPOLI.
SFRUTTAMENTOPOLI.
CONCORSOPOLI.
GIUGLIANO E LE ISTITUZIONI MARCE.
AD ISCHIA: ARRESTATO IL SINDACO.
ISCHIA. ABORTI CLANDESTINI E FALSI OBIETTORI DI COSCIENZA.
NOLA ED I SUOI PARADOSSI.
PORTICI E L'ASSENTEISMO AL COMUNE.
POZZUOLI E LE SUE ISTITUZIONI.
TORRE DEL GRECO E LA GIUSTIZIA LUMACA.
PARLIAMO DI AVELLINO
AMIANTO LA STRAGE DIMENTICATA.
MALAGIUSTIZIA. AVVOCATI CONTRO MAGISTRATI.
QUINDICI E LA POLITICA.
PARLIAMO DI BENEVENTO
L’ANTIMAFIA FACILE.
MASTELLOPOLI.
POLITICA ED INTRALLAZZI. LA VICENDA DI NUNZIA DE GIROLAMO.
TELESE TERME E LA POLITICA.
PARLIAMO DI CASERTA
CENTRI COMMERCIALI: CAMORRA E FIANCHEGGIATORI.
L'ANTI CAMORRA. IMPRENDITORIA E POLITICA; STAMPA E MAGISTRATURA.
POLITICA E CAMORRA. L'ANTICAMORRA? IN UNA STALLA.
SCUOLA PUBBLICA E PARITARIA.
AMMINISTRATOPOLI.
MALASANITA'.
CASAL DI PRINCIPE. STORIA DI UN INNOCENTE.
CASAPESENNA E LA POLITICA.
SANTA MARIA CAPUA VETERE. IL TRIBUNALE DELLA VERGOGNA.
VILLA LITERNO, LA CAMORRA E L'ANTICAMORRA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Sul web si legge: Scritte trovate veramente in giro per Napoli.
Panettiere: "Quando vi diventa duro ve lo grattugiamo gratis, ma metà ce lo tratteniamo".
Vendite immobiliari (in una palazzina in vendita con officina artigianale sul retro): "Si vende sola davanti, il dietro serve a mio marito".
1º Mobiliere: "Si vendono letti a castello per bambini di legno".
2º Mobiliere: "Si vendono mobili del settecento nuovi".
1ª Macelleria: "Da Rosalia - Tacchini e polli, a richiesta si aprono le cosce".
2ª Macelleria: "Carne bovina ovina caprina suina pollina e coniglina".
1ª Polleria: "Polli arrosto anche vivi".
2ª Polleria: "Si ammazzano galline in faccia".
3ª Polleria: "Si vendono uova fresche per bambini da succhiare".
Sfasciacarrozze: "Qui si vendono automobili incidentate ma non rubate".
1º Fioraio: "Se mi cercate sono al cimitero... vivo".
2º Fioraio: "Si inviano fiori in tutto il mondo, anche via fax".
1º Abbigliamento: "Nuovi arrivi di mutande, se le provate non le togliete più".
2º Abbigliamento: "Non andate altrove a farvi rubare, provate da noi".
3º Abbigliamento: "In questo negozio di quello che c'è non manca niente".
4º Abbigliamento: "Si vendono impermeabili per bambini di gomma".
1ª Autofficina: "Venite una volta da noi e non andrete mai più da nessuna parte".
2ª Autofficina: "Si riparano biciclette anche rotte".
Ferramenta: "Sega a due mani a denti stretti: 50 Euro".
Lavanderia: "Qui si smacchiano antilopi".
Sul citofono della caserma dei Carabinieri: "Attenzione per suonare premere, se non risponde nessuno ripremere".
Negozio di mangimi: "Tutto per il vostro uccello".
Avvisi sulle bacheche parrocchiali.
Per tutti quelli che tra voi hanno figli e non lo sanno, abbiamo un'area attrezzata per bambini!
Giovedì alle 5 del pomeriggio ci sarà un raduno del Gruppo Mamme. Tutte coloro che vogliono entrare a far parte delle Mamme sono pregate di rivolgersi al parroco nel suo ufficio.
Il gruppo di recupero della fiducia in se stessi si riunisce Giovedì alle 19. Per cortesia usate le porte sul retro.
Venerdì sera alle 19 i bambini dell'oratorio presenteranno l'Amleto di Shakespeare nel salone della parrocchia. La comunità è invitata a prendere parte a questa tragedia.
Care signore, non dimenticate la vendita di beneficenza! E' un buon modo per liberarvi di quelle cose inutili che vi ingombrano la casa. Portate i vostri mariti.
Tema della catechesi di oggi "Gesù cammina sulle acque". Catechesi di domani "In cerca di Gesù".
Il coro degli ultrasessantenni verrà sciolto per tutta l'estate, con i ringraziamenti di tutta la parrocchia.
Ricordate nella preghiera tutti quanti sono stanchi e sfiduciati della nostra Parrocchia.
Il torneo di basket delle parrocchie prosegue con la partita di mercoledì sera: venite a fare il tifo per noi mentre cerchiamo di sconfiggere il Cristo Re.
Il costo per la partecipazione al convegno su "Preghiera e digiuno" è comprensivo dei pasti.
Per favore mettete le vostre offerte nella busta, assieme ai defunti che volete far ricordare.
Il parroco accenderà la sua candela da quella dell'altare. Il diacono accenderà la sua candela da quella del parroco, e voltandosi accenderà uno a uno tutti i fedeli della prima fila.
Martedì sera, cena a base di fagioli nel salone parrocchiale. Seguirà concerto.
Nel resto d’Italia non scherzano…Titoli di articoli giornalistici o cartelli realmente pubblicati.
Si è spento l'uomo che si è dato fuoco [Giornale di Sicilia, 1998]
Falegname impazzito, tira una sega ad un passante [Corriere della Sera, 1991]
Tromba marina per un quarto d'ora [Corriere del mezzogiorno, 1997]
Fa marcia indietro e uccide il cane, fa marcia avanti e uccide il gatto [Corriere della sera, 1992]
Incredibile, all'aeroporto spariscono le valige del mago Silvan [Il Messaggero, 2001]
Questa macelleria rimane aperta la domenica solo per i polli [ Insegna in un negozio di Roma]
Qui chiavi in 5 minuti [Insegna in un negozio di Cuneo]
Si affitta l'abitazione del terzo piano, la signora del secondo la fa vedere a tutti [Inserzione in una strada di Trapani]
Vendo tutto per esaurimento [Insegna in un negozio di Brescia]
Eliminazione totale bambini a sole € 30 [Insegna in un negozio di abbigliamento di Trieste]
Si avverte il pubblico che i giorni fissati per le morti sono il martedì e il giovedì [Ufficio Anagrafe di Reggio Calabria]
Regalo cucciolo di mastino docile e affettuoso, mangia di tutto, gli piacciono molto i bambini [Annuncio Giornale di Sicilia]
Che Egli sia benedetto, ieri è deceduto il Cavalier Luigi Fotte, inconsolabile la sorella Giuseppina Fotte con i parenti tutti [Necrologio]
Qui riposa Benedetta Gaia Bellina, donna instancabile, ha amato la vita, suo marito e tutto il paese [Lapide]
Gli insegnanti che hanno un buco lo devono mettere a disposizione del Preside [Circolare del Preside relativa agli orari di lezione]
Giletti choc in diretta tv: "Napoli indecorosa". Bufera sui social. Il conduttore a L'Arena: "Città indecorosa, immondizia a ogni angolo". E scoppia la polemica, scrive Rachele Nenzi Domenica 01/11/2015 su "Il Giornale". Massimo Giletti battibecca con l'avvocato Antonio Crocetta. E va su tutte le furie: "Non glielo permetto, in Rai c'è gente che fa un lavoro straordinario. Voi iniziate a far andare avanti la vostra città (Napoli, ndr) che è indecorosa in certi punti. Se lei esce dalla centrale della stazione uno trova immondizia in tutti i vicoli". L'insulto va in scena in diretta tv, a L'Arena. E sui social network finisce il finimondo. Al centro del dibattito ci sono i biglietti per lo stadio San Paolo che finiscono gratis nelle mani dei consiglieri del Comune. Crocetta accusa il conduttore di non dare spazio ai problemi del Sud Italia: "La Rai non vuole parlare del Meridione. Lei sta facendo campagna elettorale e il governo è assente su Napoli". E Giletti replica duramente: "I napoletani subiscono gli effetti di una politica molto scarsa. Lei non dia regole alla Rai, che ha fatto un grande lavoro andando a raccontare con film e fiction i problemi della camorra". Gli insulti alla "Napoli indecorosa", con spazzatura "ad ogni vicolo", manda su tutte le furie i napoletani che si sono riversati sui social network prendendo di mira il conduttore. "Per Giletti Napoli è una città indecorosa - tuona il giornalista del Mattino, Marco Esposito - la Vigilanza reagisca". "Giletti sempre pronto a infangare Napoli addirittura con Salvini presente - fa eco un altro follower - la vera 'emergenza rifiuti' è nello studio della Rai". E un altro ancora: "E io dovrei pagare il canone per sentire Giletti e Salvini infangare Napoli? La vera emergenza rifiuti è alla Rai".
"Napoli è sporca". E De Magistris querela Giletti. Il Comune di Napoli vuole un risarcimento milionario: i soldi serviranno a migliorare l'igiene della città, scrive Chiara Sarra Martedì 03/11/2015 su "Il Giornale". "È sporca e malavitosa". Sulle parole di Massimo Giletti in questi giorni si è scatenata una bufera dentro e fuori dal web. E ora anche Luigi De Magistris ha deciso di prendere provvedimenti. La sua giunta ha infatti approvato una delibera con la quale si dà mandato all'Avvocatura del Comune di querelare per diffamazione il conduttore e la trasmissione di Rai Uno L'Arena. Il Comune pretende ora un risarcimento danni milionario da destinare al miglioramento dell'igiene urbana cittadina. Oggi il sindaco ha inoltre scritto al presidente della Vigilanza Rai, Roberto Fico, e al presidente Rai, Monica Maggioni, per manifestare "indignazione per come è stata condotta la trasmissione L'Arena, dove la città di Napoli è stata denigrata e ne sono stati evidenziati i soliti stereotipi infamanti". "Si è oltrepassato il limite del corretto diritto di cronaca e di critica - che è indispensabile in democrazia - che è stato immolato sull'altare dell'audience, senza alcun contraddittorio e con parole, pronunciate dal conduttore, diffamatorie ed offensive per il nostro territorio", ha scritto De Magistris, "Darò impulso ad ogni azione a tutela di Napoli, per salvaguardare la sua immagine e per difendere il principio del delicato ruolo di servizio pubblico della Rai, che deve garantire imparzialità ed equilibrio".
Giletti querelato per aver detto il vero su Napoli. Massimo Giletti, il conduttore, si può rimproverare tutto tranne che di non sapere fare egregiamente il proprio mestiere di istigatore e aizzatore, scrive Vittorio Feltri Domenica 08/11/2015 su “Il Giornale”. In passato ci siamo già occupati dell'Arena, talk show pomeridiano della domenica, in onda su Raiuno, segnalandone pregi e difetti. A Massimo Giletti, il conduttore, si può rimproverare tutto tranne che di non sapere fare egregiamente il proprio mestiere di istigatore e aizzatore. Suole svolgere temi scottanti e ciò rende lo studio incandescente, cosicché gli ascolti schizzano in alto con grande soddisfazione dei responsabili dell'ex monopolio. Siamo costretti dagli eventi a riparlare di questo programma, dopo avere seguito l'ultima puntata, la scorsa domenica. A un certo punto Giletti, infervoratosi nella discussione sui macroscopici problemi di alcune metropoli italiane, per esempio la lacunosa nettezza urbana, ha espresso un pensiero su Napoli, condiviso dalla stragrande maggioranza perfino dei napoletani. Questo (cito testualmente): «Iniziate a fare andare avanti la vostra città, e mettetela a posto perché in vari punti è indecorosa, abbandonata a se stessa. Chi esca dalla stazione centrale trova nei dintorni vicoli pieni di rifiuti, e i cittadini onesti sono sempre in attesa che vengano puliti». Cosa c'è di strano o di sbagliato in simile affermazione? Nulla. È arcinoto che alcune zone di Napoli - specialmente le meno centrali - sono infrequentabili per l'immondizia straripante. Ci fu un periodo, anni orsono, che cataste di schifezze inamovibili con mezzi ordinari avevano costretto l'amministrazione comunale a chiedere lo stato d'emergenza e l'intervento del governo. Si scatenarono polemiche feroci tra politici di diverso orientamento, i quali si accusavano a vicenda di incompetenza, incapacità, menefreghismo: un autentico scaricabarile. Alla fine, una soluzione (cretina) fu trovata. Anziché distruggere il pattume come usa nelle città civili, i cervelloni pubblici decisero di caricarlo su navi e di trasportarlo altrove, spendendo l'ira di dio per pagare inceneritori stranieri, non essendo funzionanti quelli campani. Ora non so se nel frattempo sia stato escogitato un modo più intelligente per togliere la sozzeria dalle strade, ma so che Giletti ha ragione da vendere: nei pressi della stazione la situazione è quella da lui sommariamente descritta. Allora mi domando perché il sindaco Luigi De Magistris abbia querelato il conduttore pretendendo un risarcimento di 10 milioni di euro. Risarcimento di che? Incomprensibile. Se io scrivo che la stazione Centrale di Milano è spesso presidiata da clochard e da poveri extracomunitari allo sbando mi limito a «fotografare» lo status quo, il che mi pare non sia vietato, dato che non contiene offese ma soltanto la rappresentazione della realtà. Personalmente, non ho nulla contro De Magistris, ma questi deve spiegare perché, invece, ce l'ha con Giletti, reo di aver raccontato correttamente ciò che ha constatato a Napoli. La televisione e i giornali sono lo specchio di quanto accade e non possono essere accusati di alcunché se riproducono fedelmente i fatti. Chi cerca di intimidire i cronisti minacciandoli nel portafogli, commette un sopruso che andrebbe sanzionato dai giudici. In altri Paesi la cosiddetta «lite temeraria» viene punita, qui da noi non si sa nemmeno di che si tratti. Pertanto è una forma di divertimento assai diffusa intentare causa a coloro che per professione riferiscono, tramite i media, ciò di cui sono stati testimoni diretti o di cui hanno a disposizione la documentazione. Nel caso di Giletti, negare che egli sia stato scrupoloso nel sostenere che a Napoli la «monnezza» è una costante del paesaggio, è come dire che il Vesuvio è sparito.
Vedi Napoli e poi puzza, scrive dal canto suo Filippo Facci su "Libero Quotidiano" del 3 novembre 2015. Può anche darsi che a Massimo Giletti piaccia vincere facile: ma è impressionante la bruttezza argomentativa mostrata dal consigliere comunale Antonio Crocetta, contro il quale il conduttore si è giustamente scagliato nel corso della puntata domenicale de "L'Arena" su Raiuno. Ed è ancora più impressionante l'impudenza con cui un magistrato di note simpatie progressiste, Nicola Quatrano, è intervenuto su Repubblica per difendere l'indifendibile, cioè Crocetta, secondo il quale Massimo Giletti "riduce sempre Napoli a problemi minimalisti" (voleva dire minimali, il minimalismo è una tendenza artistica e culturale) a dispetto dei problemi reali, che sarebbero "gli investimenti che non si fanno al Sud". Cioè: che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale. E vale anche per quei poveretti che sono tutti indignati perché Giletti ha detto che a Napoli c'è "spazzatura in tutti i vicoli" e che "è una città indecorosa". Secondo il magistrato Nicola Quatrano, questi sarebbero "i soliti luoghi comuni". Volevate il minimalismo? Eccolo: Napoli fa schifo, in tutta Europa non esiste una città del genere, lo pensiamo anche noi, e quello della spazzatura è un problema storico-culturale che nel tardo 2015 salta ancora agli occhi. E al naso.
Continua Filippo Facci, ora si inventano il vilipedio a Napoli. «Ti ha querelato la città di Napoli», mi avvertono dalla redazione che è già sera. Come fa una città a querelare? Basta che a farlo sia tal avvocato Angelo Pisani, presidente della Municipalità Napoli Nord (boh) che già qualche mese fa querelò una leghista che su Facebook era stata poco tenera coi partenopei. Mi segnalano che Pisani ha chiesto anche un intervento dell'Ordine dei giornalisti (mah) e che tempo fa voleva querelare anche il telefilm Gomorra perché screditava l'immagine di Scampia. L'altro giorno a querelare, invece, era stato il sindaco De Magistris, uno che si esprime così: denuncia a Massimo Giletti perché nella trasmissione «L' Arena» aveva detto che Napoli è «indecorosa» (in alcune zone) e che «se esci dalla stazione trovi immondizia in tutti i vicoli». Querela. E querela bis, perché quella contro di me ha origine proprio in un articoletto che parlava della trasmissione di Giletti. Perché mi hanno querelato? Che cosa ho scritto che ha fatto tanto incazzare? Non lo so, la querela non l'ho vista, forse è stata solo annunciata: ma in rete abbondano articoli che riportano delle mie precise frasi. Abbonda anche altro, soprattutto su Twitter e Facebook: minacce varie, auguri di morte, insulti, solita roba da straccioni anonimi (spesso i giornalisti pubblicano le minacce per atteggiarsi a vittime) ma che nell' insieme evidenzia solo una cosa, secondo me: l'inconsapevolezza di molti napoletani di ciò che Napoli è oggettivamente (dati alla mano) e di come è mediamente considerata. Non sto a riportare tutto quello che avevo scritto: in sostanza mi sono rivolto contro il consigliere comunale napoletano, Antonio Crocetta (contro cui si era rivolto anche Giletti) che in tv aveva detto che i problemi sollevati a «L' Arena» erano «minimalisti» (sic) a dispetto dei problemi reali di Napoli, che sarebbero «gli investimenti che non si fanno al Sud». E qui vado testuale, che faccio prima: «Che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale. E vale anche per quei poveretti che sono tutti indignati perché Giletti ha detto che a Napoli c' è «spazzatura in tutti i vicoli» e che «è una città indecorosa»...Volevate il minimalismo? Eccolo: Napoli fa schifo, in tutta Europa non esiste una città del genere, lo pensiamo anche noi, e quello della spazzatura è un problema storico-culturale che nel tardo 2015 salta ancora agli occhi. E al naso». Ecco: le frasi che hanno fatto querelare dicono siano quest' ultime. È un giudizio tranchant, non c' è dubbio, anzi «minimalista», ma è il mio giudizio: e non capisco come si possa querelarlo. Il reato di vilipendio c'era per Napolitano, non per i napoletani. Dopodiché, ora, troverei imbarazzante dovermi difendere da repliche anche educate tipo «Napoli è bellissima» e «devi studiare la storia di Napoli» e «vieni a Napoli» e roba così. A Napoli ho un po' di amici (tutti molto signori, come a Napoli sanno essere incredibilmente) e a Napoli ho vissuto nel periodo della leva. Ogni tanto ci vado. Credo che a Napoli si possa vivere bene come in poche altre città del mondo, ma basta così, non è questo in discussione: si può vivere bene - mi assicura un amico che ci si è appena trasferito - anche a Caracas o a San Paolo. Il punto è che Napoli fa schifo - a me, almeno - per dei record che la rendono unica in tutta Europa: la disoccupazione soprattutto giovanile, l'astensione alle urne, le costruzioni abusive, i reati ambientali, quelli legati all' usura, gli scippi e i furti d' auto, e non sto neppure citando il suo più grande successo letterario d' esportazione: la camorra. Di cosa dovremmo discutere, in un'aula di giustizia? Un' indagine del Sole 24 Ore, basata sulla qualità della vita nelle città (tenore di vita, affari e lavoro, servizi, ambiente, salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), ha messo Napoli al 107esimo posto, esattamente l'ultimo. Reddit - un sito di social news frequentato anche da Barack Obama - ha messo Napoli ai vertici della classifica dei luoghi turistici più deludenti secondo chi c' è stato: e viene citata la spazzatura, tu guarda. Dovrei spiegare queste cose al mio avvocato? Il querelante, l'avvocato Pisani, ha detto che le mie sono solo «offese gratuite e infamanti contro gli abitanti di Napoli, che proprio delle inefficienze dell'amministrazione sono già le prime vittime». Capito, è colpa dei politici. Ecco, secondo me no. Napoli non è così perché c' è De Magistris, o perché c'era Bassolino. Napoli è così - anche - perché qualcuno li elegge. Qualcuno che ha colpe - sissignori - storico-culturali.
La dottrina di Erri De Luca: giusto querelare (gli altri). È la libertà di parola secondo un guru. Anzi, un paraguru, scrive Paolo Bracalini Venerdì 06/11/2015 su "Il Giornale". Ci aveva spiegato che «non si processano le opinioni», che non si bandiscono «le parole contrarie», che non si può incriminare qualcuno «per l'uso di un termine», che giammai avrebbe accettato di farsi «censurare o di ridurre la lingua italiana», arrivando a sventolare in aula l'articolo 21 della Costituzione, quello sul diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, paragonandosi con un pizzico di sovrastima a Gandhi e Mandela. E ci eravamo tutti stracciati le vesti - abboccando alla linea difensiva concordata da Erri De Luca col suo avvocato - per difendere persino il suo di pensiero, molto ambiguo e pericoloso, a difesa dei sabotatori che sfasciano i cantieri della Tav (lo hanno assolto). Tempo due settimane, e il poeta napoletano spiega meglio il suo pensiero: alcune opinioni si processano eccome, è consigliato portare in tribunale chi pronuncia certe parole contrarie (alle opinioni di Erri De Luca). Lo scrittore ex Lotta continua ha modo di spiegarlo quando gli chiedono se abbia fatto bene il sindaco De Magistris - che secondo Erri De Luca dovrebbe fare «almeno un secondo mandato», pure senza scomodare gli elettori - a querelare Massimo Giletti per aver detto in tv che «Napoli è indecorosa in certi punti, abbandonata» all'immondizia. Un'opinione forte ma legittima, almeno quanto quella di di De Luca per cui «la Tav va sabotata, le cesoie sono utili a tagliare le reti». È giusto querelare Giletti per un'opinione? Risponde il maestro napoletano: «Può servire la querela, per moderare i termini di chi si allarga troppo nei nostri confronti». Ecco, se uno si allarga, usa termini che non vi aggradano, querelatelo. È la libertà di parola secondo un guru. Anzi, un paraguru.
Caro Erri De Luca, hai fatto una stupidaggine, scrive il 6 novembre 2015 Damiano Aliprandi su "Il Garantista". Mi dispiace, ma Erri De Luca credo che abbia sbagliato ad appoggiare la querela di De Magistris nei confronti di Giletti, reo di aver espresso un parere (che non condivido) su Napoli. Cosa dovremmo fare se applicassimo la querela nei confronti di chi si esprime in maniera negativa contro la bellissima città di Napoli? Io non dimentico il pessimo programma di Santoro quando affrontò Napoli. Bertazzoni, l’inviato di Servizio Pubblico, si era messo a fare lo sbirro per le strade di Napoli. Con quel fare arrogante e presuntuoso era andato ad intervistare i ragazzi con tono d’accusa: “Sapete che è illegale non fare l’assicurazione? Sapete che è illegale occupare cantine e abitarci dentro?”. Ma non è finita qui! Costui aveva superato il limite della sopportazione quando era andato dalla famiglia di Davide Bifolco, il ragazzo ucciso da un carabiniere, chiedendogli se avessero qualcosa da recriminare a loro stessi per la morte del figlio e per il fatto che gli altri figli avessero precedenti per furto. Il programma di Santoro non aveva dato la percezione che Napoli fosse “indecorosa” come la ha definita Giletti, ma un luogo infernale da evitare. Meriterebbe l’ergastolo allora? Parliamo di Saviano. Insomma, la città l’ha chiamata “Gomorra”! Gli diamo il 41 Bis direttamente? Non capisco perchè Erri De Luca, persona che stimo, si sia prestato a questo. Proprio lui che ha dovuto subire un processo per aver espresso una legittima opinione. Come fa il paladino de “la parola contraria” ad unirsi a chi vuole querelare una persona che ha definito la città “indecorosa”. Giletti non mi piace, è infarcito di un populismo peggio dei grillini, e non l’ho mai preso in considerazione. Con queste indignazione mi state facendo interessare di Muccino, Miss Italia, Giletti. No, vi prego!
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
PARLIAMO DI NAPOLI.
Napoli, una città tra miseria e dignità. Viaggio nell’epicentro della povertà italiana. Dove ogni giorno si lotta contro la bruttezza. E fioriscono mille idee per farcela. Un esempio? Il brand #fattoascampia, scrive Carmine Fotia il 14 settembre 2018 su "L'Espresso". Mario Cappella lavora all’associazione San Gennaro nel Rione Sanità di Napoli, dov’è nato Totò, luogo assurto a simbolo di una vecchia camorra dispensatrice di giustizia con la commedia di Eduardo De Filippo, “Il sindaco del Rione Sanità”, dove oggi imperversano le baby gang con le loro “stese”. Mario, mentre mi indica bei murales e piazze messe a nuovo in occasione dell’anniversario della nascita del Principe, mi offre una chiave di lettura spiazzante delle cause della povertà: «Se vivi in un posto brutto ti abitui alla bruttezza. Nella bellezza c’è anche la dignità, mentre l’impoverimento imbarbarisce». Seguendo questa suggestione, dopo aver fatto visita a Daria Esposito, dell’associazione If, mi trovo incantato a perdermi dinnanzi alle Sette opere della Misericordia di Caravaggio, custodito nell’Istituto Pio Monte della Misericordia. Luci e ombre trasformano il realismo dei personaggi, raffiguranti le sette opere misericordiose che ogni buon cristiano dovrebbe compiere, in una scena di iperrealismo onirico ambientata nei vicoli napoletani. Mi trovo a pensare alle parole di Mario, alle analisi di Andrea, alla Scampia di Padre Fabrizio, di Suor Edoarda, di Enzo, ai sogni di Giuseppe. Le persone che sto per raccontarvi mi hanno insegnato che l’opposto di povertà e degrado non sono ricchezza e opulenza: sono dignità e bellezza.
Gomorra non abita più alle Vele. Pochi numeri, prima di dare voce alle vite difficili che stanno dietro di essi. L’ultimo rapporto Istat ci dice che la povertà oggi ha raggiunto il punto più alto mai registrato dal 2005 e nel Sud le cose vanno peggio: a fronte di una povertà assoluta che in Italia è del 6,9 per cento al Sud è al 10,3; lo stesso per gli indici di povertà relativa: Italia 12,3 per cento, Sud 24,7. Se la più alta quota di poveri, assoluti e relativi, è al Sud (più 321 mila poveri assoluti in un anno), nell’area metropolitana di Napoli circa il 30 per cento delle famiglie è in zona povertà. «Napoli è l’epicentro della miseria italiana», mi dice senza mezzi termini Andrea Morniroli, sociologo e socio della cooperativa sociale Dedalus, autore, insieme e Enrica Morlicchio del libro “Poveri a chi? Napoli (Italia)”, edito dal gruppo Abele. Quando scendo dal treno alla stazione mi viene a prendere Padre Fabrizio Valletti, gesuita, prete ribelle che occupò piazza San Pietro contro la visita di Richard Nixon a Roma nel 1967. Guida con destrezza la sua vecchia auto in mezzo al tipico traffico napoletano, scansando con qualche manovra spericolata motorini che ci sfrecciano attorno mentre usciamo dal centro.
La nostra direzione è Scampia, dove padre Fabrizio anima il centro Hurtado. Qui c’è il quartiere delle Vele, orrendi palazzoni fatiscenti dove è stata ambientata la serie tv “Gomorra”. A Scampia c’ero già stato due anni fa insieme a Michele Spina, il poliziotto che ha cacciato la camorra dalle Vele. Superata una statua di Padre Pio benedicente si entra: sporcizia, calcinacci, appartamenti sventrati, l’intrico dei corridoi di metallo arrugginito, i ponti che attraversano l’edificio si affacciano su appartamenti fatiscenti dove ancora vivono famiglie. «Ognuno di questi palazzi», mi ha raccontato Spina, «era stato trasformato nella più grande piazza di spaccio europea, modificando i cancelli d’ingresso dei palazzi con porte blindate, chiuse dall’interno con delle staffe di ferro e con delle feritoie attraverso le quali i pusher vendevano le dosi. Abbiamo aggredito anche fisicamente queste strutture, distruggendo, giorno dopo giorno, domenica compresa, tutti questi cancelli. Hanno dovuto chiudere così diverse piazze di spaccio perché sarebbero servite troppe vedette per controllarne tutti gli accessi».
Gomorra, dunque, non abita più qui, anche se restano da demolire ancora due Vele. Ma quanto ci metterà a tornarci, se posti come questo non saranno risanati e i loro abitanti restituiti a una vita civile? «A Scampia», risponde padre Fabrizio, «il 25 per cento della popolazione è composta da giovani. Ci sono cinque Istituti comprensivi, cinque Scuole superiori, ma non il Classico, né l’Artistico; il 30 per cento dei ragazzi non arriva in terza media: la mancanza di opportunità, la scarsa vita culturale, un corredo linguistico inadeguato, sono la causa forse principale della povertà». Morniroli fornisce però una chiave di lettura diversa del dialetto: «L’80 per cento dei ragazzi non parla italiano perché considera il dialetto come la lingua dell’anima. Se vogliamo insegnare loro qualcosa dobbiamo conquistare la loro anima, stabilire empatia con loro e non pretendere che essi si adattino a noi. Per esempio, per consentire a un ragazzo che la mattina lava i vetri di seguire i nostri corsi li abbiamo spostati al pomeriggio». Mentre giriamo per Scampia Padre Fabrizio mi spiega il brand #fattoascampia: i prodotti freschi degli orti coltivati dai detenuti di Secondigliano, una parte dei quali proviene proprio da Scampia, i prodotti conservati, i prodotti di sartoria, di legatoria e cartotecnica. #Fattoascampia, geniale capovolgimento del paradigma, per cui il “fatto” della droga, diventa il #fatto con “piedi, cuore, testa e mani” da chi cerca di uscire dalla povertà e dalla marginalità con il lavoro, 45 persone contrattualizzate. Sarebbe bello, questo spera padre Fabrizio, se magari qualcuno degli intellò o degli artisti che si spendono a chiacchiere contro la povertà desse una mano per diffondere il brand.
Il miracolo del parco Corto Maltese. Scampia: un luogo, dice padre Fabrizio, che va letto fuori dagli stereotipi. «Esistono due Scampie. Il degrado e la povertà, ma anche condomini di piccola e media borghesia, ben tenuti, che si difendono con cancelli e sorveglianza privata». Eccoli, e poco dopo il campo rom, davanti al quale gli abitanti di altri quartieri scaricano di tutto. Una discarica a cielo aperto, maleodorante, dove giocano bimbi e cani, le baracche sono costruite con un surreale tentativo di dignità, lamiere e legno, giardinetti, qualche piccola piscina di gomma. Poco più avanti, davanti a una chiesa, un ex galeotto fa il pescivendolo: «Don Fabri’, tengo le alici fresche fresche, quelle che vi piacciono a voi». Il Giardino di mille colori, di Suor Edoarda è un’oasi di pace, dipinta con i colori dell’arcobaleno, dove i bimbi rom giocano e seguono un corso di balli moderni, mentre altri salgono sul pulmino per andare in piscina. Continuando il nostro viaggio dentro Scampia passo davanti alla palestra di judo di Gianni Maddaloni: «Attraverso le regole dello sport, cerco di insegnare loro le regole della vita», alla scuola calcio dell’Arci, frequentata da 500 ragazzi, alla cooperativa L’uomo e il Legno di Enzo Vanacore, che dà lavoro a 45 persone: «Il lavoro è anche dignità». Arriviamo al parco Corto Maltese, una volta centro di spaccio, trasformata dai residenti in un luogo ameno, con panchine, giochi, prati curati e murales di panorami marini. La scarsezza di risorse del Comune e delle istituzioni in generale, la palude burocratica che blocca anche le poche risorse disponibili, spinge chi si batte contro la povertà a far da sé, con l’aiuto di fondazioni private dedite alla filantropia. Accade così per tutte le associazioni che ho incontrato. Senza industria, senza banche locali, senza progetti infrastrutturali, il turismo, molto incentivato dalla giunta di Luigi De Magistris, costituisce comunque un flusso economico, un torrente che s’insinua nei reticoli della città e sembra l’unica opportunità. Ma è anche il più permeabile al lavoro nero e precario e alle infiltrazioni camorriste: «Se vuoi aprire un’attività e nessuno ti fa credito, c’è sempre un don Rafaè pronto a finanziarti, controllando di fatto l’attività», mi dice una fonte che preferisce restare anonima.
«È il mio sogno e lo realizzerò». Mi sposto in centro, all’associazione If, per incontrare Giuseppe, 25 anni, barbetta curata, tatuaggio bene in vista e calzoncino corto contro l’afa di un torrido giorno di luglio. «Ho tre fratelli, in realtà erano quattro, ma uno è morto giovane. I due più grandi vivono da soli, io e il più piccolo con mia mamma che per campare s’arrangia. La scuola non mi piaceva perché secondo me il sistema era sbagliato: eravamo come tanti cani arrabbiati tenuti rinchiusi, tutti gli emarginati nella stessa classe. La mia idea si chiama Cargobike: un triciclo a pedalata assistita con una struttura di legno. Voglio portare nei quartieri del centro il caffè napoletano come si faceva una volta con la cuccumella e venderlo insieme a piccola pasticceria tipica, le sfogliatelle. A me non interessava un sussidio, io volevo un aiuto per cominciare questa mia attività, ma purtroppo la banca chiedeva una firma di garanzia per concedermi il prestito, ma in famiglia non c’è nessuno che possa farlo. Grazie all’associazione ho potuto usufruire del Fondo della Caritas. Per me è importante anche perché mi fa crescere proprio perché mi assumo la responsabilità di un prestito da restituire: per potermi anche pagare lo stipendio devo guadagnare 100 euro al giorno per dieci mesi l’anno, sessanta caffè e quaranta sfogliatelle. Prima, quando lavoravo in nero guadagnavo di più, ma non esistevo. È dura? Ma questo è il mio sogno e lo realizzerò. E se funziona voglio esportarlo anche in Europa». In piazza De Nicola Elena de Filippo presidente della cooperativa Dedalus mi spiega il senso delle iniziative culturali dell’associazione Il Gomitolo: «L’arte, la cultura, sono occasione di incontro e di conoscenza». Mi presenta tre bellissime ragazze che lavorano come operatrici e mediatrici culturali, Ismahan, Fatima e Ruwam. Dice ancora Morniroli: «La povertà di strada è cambiata. Non solo tossici, prostitute, senza fissa dimora, ma anche immigrati il cui progetto di integrazione al Nord è fallito. E ognuno si arrangia: ti racconto la storia di “Gratta e Vinci”, un immigrato chiamato così perché raccoglie i gratta e vinci di chi non ha vinto e butta via senza controllare e così riscuote minuscoli premi di pochi centesimi dei quali la gente non si accorge. La strada però si è incattivita. C’è un sovraffollamento dei livelli più bassi, si spezzano le catene di autoaiuto. Comincia a cambiare anche l’approccio. E devo tenere conto anche della percezione delle persone. Per esempio, un po’ di tempo fa mi trovavo in un’assemblea di quartiere nella quale veniva contestato il fatto che si spendessero soldi per fornire preservativi alle prostitute di strada. Il clima era decisamente ostile ma è cambiato quando ho spiegato che se c’è chi si prostituisce è perché per ognuna di loro ci sono dei clienti che potrebbero essere anche i vostri figli, mariti, fidanzati. Se proteggo le prostitute io proteggo anche voi». Al Rione Sanità Mario Cappella mi porta in giro a vedere tutte le piazze dedicate a Totò, in occasione dell’anniversario della nascita. «Tra le cose di cui andiamo fieri c’è la palestra di pugilato in parrocchia dove i ragazzi accettano di essere allenati dagli istruttori della polizia». Con le sue due cooperative la Fondazione di Comunità San Gennaro dà lavoro a circa 35 persone, ma soldi pubblici non ne vogliono: «La dipendenza dal pubblico è tossica», dice Mario e mi spiega che i soci della Fondazione mettono 100 mila euro a testa. L’assessora al Sociale della giunta napoletana Roberta Gaeta conosce bene i problemi perché viene dal mondo del volontariato sociale. Devo farle osservare che è vero che in giro ho visto tanta attività dal basso, ma mi pare un po’ fare di necessità virtù, visto che le risorse per la lotta alla povertà non ci sono, piuttosto che quell’ideologia dell’auto-organizzazione celebrata dal sindaco: «La povertà si combatte solo con il lavoro e lo sviluppo», mi dice l’assessora. «Se un ragazzo tra i 16 e 19 anni non riceve alcuna formazione il rischio che dalla povertà cada nella criminalità è altissimo. Noi, tra i tanti progetti, stiamo lavorando con 500 ragazzi in accompagnamento educativo al percorso formativo e professionale. Un centro in ogni municipio, è riconosciuto come tirocinio, 400 euro al mese. Gli adolescenti sono i più difficili, lavoriamo per farli accedere a circuiti che consentono loro di usufruire di altre misure. Non basta il reddito, serve il lavoro. Servono risorse e serve creatività. Ma serve anche com’è accaduto per il parco Corto Maltese a Scampia che la gente si organizzi dal basso e consideri la bellezza come il luogo che ti meriti». Marco Rossi Doria, 64 anni, maestro di strada e studioso di politiche educative, già sottosegretario alla Pubblica istruzione dal 2011 al 2014, instancabile animatore di politiche contro l’esclusione sociale, commenta il dato sui giovani che lasciano il Sud, e avverte che oltre alla povertà materiale c’è anche il rischio della desertificazione e per questo elogia il vitalismo della società napoletana, capace di inventare soluzioni con fantasia. Ma lancia un allarme: «Se ogni anno il sei per mille dei giovani napoletani emigra, e sono i più intraprendenti, questa cifra messa insieme per quindici anni, forma un numero imponente. Se il 47 per cento dei minori della città di Napoli è povero o a rischio povertà, siamo di fronte ancora oggi a un problema che Francesco Saverio Nitti considerava urgente più di un secolo fa. Sono gli effetti della crisi, dei tagli al welfare che il centrosinistra non è riuscito a fermare: quando la crisi azzanna, i poveri vengono azzannati più dolorosamente. Napoli è il paradigma della povertà e della diseguaglianza, se non viene messa al centro di un grande progetto nazionale di riscatto, il suo futuro è compromesso. Ma chi parla di questo oggi?», conclude Rossi Doria. Viste da qui le promesse del governo legastellato sembrano davvero molto lontane.
Alla Motorizzazione civile di Napoli solo 4 su 10 senza guai con la giustizia. Il rapporto del ministero dei Trasporti all’Anac di Cantone: «Un quadro sconcertante». Dai documenti emerge come oltre la metà dei dipendenti risultano con procedimenti disciplinari o penali a carico, scrive Giusi Fasano il 6 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Dunque. Il rapporto parla di Napoli e il paragrafo di pagina cinque si intitola «Situazione del personale in servizio presso l’Ufficio motorizzazione civile». L’attacco non promette nulla di buono: «Per una visione d’insieme della gravissima situazione dell’ufficio di Napoli — dice —, nell’allegato nr.10 si riporta l’elenco di tutto il personale che ad oggi vi presta servizio». Gravissima situazione? Allegato? L’autore ne riassume il senso: «In giallo — scrive — sono evidenziati i dipendenti che hanno procedimenti disciplinari/penali recenti; in verde quelli che sono stati oggetto di procedimenti disciplinari/penali chiusi; in azzurro i dipendenti che hanno procedimenti disciplinari/penali aperti e sospesi da molto tempo; in rosso i dipendenti segnalati da esposti/denunce pervenute all’Amministrazione e inoltrati alle competenti procure». Quindi, per ricapitolare: «Da tale allegato emerge un quadro sconcertante in quanto solo il 40% del personale in servizio risulta ad oggi privo di qualsiasi pendenza e/o denuncia». Che si può dire anche così: solo quattro su dieci non hanno alcun tipo di guaio con la giustizia. Il dossier — che risale ad agosto scorso e mette in luce «criticità» ancora oggi non risolte — è firmato dal capo del personale del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture Alberto Chiovelli ed era destinato a due dirigenti interni: il capo di gabinetto Mauro Bonaretti e Loredana Cappelloni, responsabile per la prevenzione della corruzione. Ma è finito anche all’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Nove pagine più allegati vari che raccontano (fra le altre cose) la storia di un ufficio — quello della motorizzazione civile di Napoli — nel quale «appare chiaro che nonostante le azioni intraprese dall’Amministrazione e nonostante le indagini in corso, continuano ad essere commesse irregolarità». Una specie di dichiarazione di fallimento, diciamo così, malgrado siano stati presi nel tempo accorgimenti che, manco a dirlo, sono elencati ad uno ad uno. E cioè: «Nuove disposizioni in materia di esami e patenti, centralizzazione nella scelta degli esaminatori, implementazione del sistema informatico, ispezioni a sorpresa, controlli a campione sulle pratiche, procedimenti disciplinari...». Niente. Tutto inutile: «Dai controlli costantemente effettuati — fa sapere il capo del personale del ministero — emergono ancora attività fraudolente dei dipendenti e numerosi esposti anonimi che segnalano al nuovo dirigente situazioni sulle quali è necessario fare chiarezza». A questo punto la domanda è: perché dal ministero hanno sentito la necessità di spiegare tutto questo all’Anac? In realtà non l’avrebbero fatto se non fosse stata la stessa Anac a chiedere informazioni dopo le rimostranze di alcuni impiegati della Motorizzazione (di Napoli e altre città campane) ai quali non è stato confermato il cosiddetto «distacco», cioè il diritto - a termine - di lavorare in una sede diversa da quella per la quale si è stati assunti. Che sta succedendo negli uffici della Campania? ha chiesto in sostanza qualcuno dall’Autorità anticorruzione. E dal ministero hanno deciso di abbondare con i dettagli. Così si scopre che sul territorio campano sono in corso almeno tre procedimenti giuridici (di altrettante procure) che riguardano gli uffici della Motorizzazione: i magistrati di Avellino stanno celebrando il processo per l’incidente dell’autobus che nel luglio 2013 finì giù da un viadotto e causò la morte di 40 persone. La revisione risultò falsa ed è proprio sulle false revisione che sarebbe aperta un’inchiesta anche dalla procura partenopea mentre a Caserta le indagini riguarderebbero soprattutto le irregolarità negli esami delle patenti. Si va da extracomunitari che avrebbero sostenuto test per la patente al posto di altri, a funzionari che avrebbero suggerito le risposte o consentito l’uso del cellulare durante l’esame, oppure parliamo di impiegati che avrebbero inserito per anni dati falsi di revisioni mai avvenute. A giudicare dallo scenario disegnato dal ministero dei Trasporti agli inquirenti non mancheranno spunti.
Napoli, la Baghdad della Camorra, nelle roccaforti dei clan tra mamme pusher e killer ragazzini, scrive il 25 luglio 2017 Amalia De Simone su "Il Corriere della Sera". È la nuova camorra che racconta se stessa. Un viaggio nei quartieri del centro storico di Napoli, patrimonio dell’Unesco e preda delle gang criminali. Un percorso filmato con una tecnica che mostra gli ambienti a 360° e che ci porta nelle loro roccaforti raccontate dalla viva voce degli affiliati ai clan. I loro dialoghi originali, molti dei quali mai sentiti prima, svelano ferocia, disumanità e miseria di giovanissimi che si combattono per contendersi le attività illecite in fette di quartieri. Dalla selezione di quelle intercettazioni (abbiamo potuto ascoltare ore di conversazioni e procedere ai tagli) si capisce tutto il male ma anche la disperazione di una vita da deboli, ragazzi che cercano nel crimine un modo per affrancarsi, affascinare e autocompiacersi. Sparano e godono delle loro azioni di morte. Sparano e si terrorizzano a vicenda. Sparano e poco importa se i proiettili finiscono nei balconi della gente per bene o se colpiscono a morte per errore giovani che si guadagnano il pane onestamente come Maicol Russo o Luigi Galletta e che affrontano la notte e la gioventù in strada con i loro amici, come nel caso di Genny Cesarano.
Teatri di guerra. «Sembrava Bagdad» dicono descrivendo le battaglie rione per rione con kalashnikov e pistole scaricate a raffica. Ma non è Bagdad. È Napoli dove mentre la camorra di primo livello fa affari in tutto il mondo, il sottoproletariato camorrista fatto di ragazzini tossicodipendenti e feroci, tiene sotto scacco alcuni quartieri della città. Centro storico, Sanità, a ovest il rione Traiano e Soccavo e ad est Ponticelli. Le indagini della procura antimafia guidata da Filippo Beatrice e Giuseppe Borrelli sono riuscite ad entrare nel cuore dei «sistemi» di quartiere e hanno fatto scattare arresti e processi. Ma il ricambio sembra sempre pronto e le nuove leve fatte di giovanissimi emulano i loro predecessori e ne preservano e celebrano le gesta criminali con tatuaggi, scritte sui muri. Nel quartiere Sanità nonostante tutti gli sforzi delle forze dell’ordine si spara ancora: agguati contro le bande rivali ma anche dimostrazioni armate chiamate stese con piogge di proiettili esplosi «random» lungo la strada, mentre si corre sugli scooteroni. E così oltre ai cosiddetti morti di camorra ci sono anche gli effetti collaterali: 10 vittime innocenti negli ultimi cinque anni in tutta la città.
Gli invisibili. In strada c’è tanta polizia e in azione c’è una nuova squadra, «gli invisibili», messa in piedi dal questore Antonio De Iesu e dal vicequestore Michele Spina. Si confondono tra la gente e riescono a prendere terreno sui criminali con sequestri di armi e droga. La strada ci porta fino a via Fontanelle, quartier generale del clan Vastarella. L’anno scorso ci fu un regolamento di conti in cui furono uccisi due affiliati. Come al solito i parenti si danno la voce per segnalare la nostra presenza. E qui ascoltiamo un’intercettazione in cui si parla proprio di quell’agguato e della strategia del terrore da parte del gruppo Esposito – Genidoni, avversario del clan delle Fontanelle. Decidiamo poi di spostarci nei cosiddetti «Cristallini» area della «Sanità» che prende il nome da una strada. Sarebbe un borgo bellissimo con case che si accavallano e si intrecciano. Ma purtroppo questa caratteristica è diventata un vantaggio per gli spacciatori che non potendo più vendere in strada per la presenza costante della polizia, lo fanno sui tetti. Entriamo in uno dei palazzi e ci affacciamo su un ballatoio: da lì si vedono i tetti comunicanti dove si appostano i pusher che fanno passare le dosi.
Il ruolo delle donne. La polizia sospetta che il ruolo delle donne in questo traffico sia molto incisivo. Per questo motivo suonano alla porta di casa di una signora che vorrebbero controllare. Lei perse il marito (pregiudicato) in un agguato di camorra. Apre una bambina di una decina di anni che sembra abituata ai controlli e spiega che la mamma sta riposando. I poliziotti che ormai la conoscono, le chiedono se abbia pranzato e da quanto la madre non si alza dal letto (sospettano che possa lei stessa aver assunto stupefacenti e lasciato la figlia da sola a badare alla casa). Pochi minuti dopo ci raggiunge la zia della ragazzina, anche lei ha un bimbo molto piccolo che tiene in braccio e che scarrozza su e giù per i pianerottoli soprattutto mentre viene scoperta, dietro una porta chiusa di una casa apparentemente disabitata, una centrale di confezionamento di dosi di crack. Tutto normale, anche che il bambino assista. D’altronde solo pochi giorni prima il marito della donna cercando di fuggire durante un blitz, nascose gli stupefacenti proprio nei pannolini di quel bimbo. I bambini in questi contesti subiscono una sorta di educazione criminale passiva. A loro non viene risparmiato nulla e se si ascoltano con attenzione le intercettazioni allegate alle inchieste della dda spesso si sentono anche le loro voci anche in momenti in cui vengono decisi agguati o preparate armi. Come per esempio nelle conversazioni tra gli esponenti del clan Buonerba (molti di loro come anche alcuni esponenti dei clan della sanità sono difesi dall’avvocato Leopoldo Perone).
Stragi come partite di pallone. Quella dei Buonerba è una cosca che ci riporta nel centro antico, in via Oronzio Costa, denominata la via della morte. Una strada ricca di storia, con una chiesa antica vandalizzata, depredata e spesso anche utilizzata come deposito dalle bande criminali. In questa strada sentiamo dalle voci dei camorristi una spietata conta dei morti: è come una partita a calcio. «Abbiamo fatto 2 a 1 anzi 6 noi e 1 loro...». E poi la pianificazione di una spedizione punitiva contro un parente di un avversario che gioca a calcio: «Non lo ucciderei, quello gioca a pallone gli distruggiamo proprio la vita». E infatti decidono di sparargli nelle gambe. Gli avversari di questa crudele partita sono i Sibillo, che vivono ad una manciata di vicoli di distanza: via Santi Filippo e Giacomo (centro storico). All’interno del portone c’è un altarino con il busto del boss Emanuele Sibillo ucciso a 19 anni. Appena arriviamo con le telecamere la mamma di Emanuele si precipita a difendere fisicamente il suo «territorio» e a chiudere il portone custode della statuetta in memoria del figlio. Di fronte c’è una scuola e si spera che quell’altarino più che ad imperitura memoria rimanga invece come un monito per i ragazzi che inevitabilmente lo incrociano tutti i giorni. Sui muri i simboli del clan 17 FS o ES, gli stessi che in tanti affiliati o simpatizzanti del clan si sono fatti tatuare. Vaghiamo in quelle strade e in quelle dei loro avversari ascoltando al precisa ricostruzione di quell’omicidio fatta da un testimone vicino al clan Buonerba. È l’assassinio di un ragazzo loro coetaneo. Ma per loro la vita non vale niente e così ricordano le pallottole, il sangue, il corpo accasciato sull’asfalto, il terrore della gente... e ci ridono su.
"La città di Napoli è l'inferno". E il Sun la paragona a Raqqa. Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. E il Sun inserisce Napoli tra i dieci posti più pericolosi al mondo, scrive Enrica Iacono, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". "Vedi Napoli e poi muori", dice un detto popolare per indicare la bellezza del capoluogo campano. Oppure "Vai a Napoli e vai all'inferno", come dice un articolo pubblicato oggi dal tabloid inglese The Sun. Il capoluogo campano, governato ormai da sei anni dal sindaco arancione Luigi De Magistris, è stato infatti inserita tra i posti più pericolosi del pianeta, "most dangerous corners of Earth". Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. Per gli inglesi Napoli è molto simile a una città in guerra. E, così nell'infografica inserita dal Sun, sul capoluogo campano è stato "appiccicato" il bollino rosso. A farglielo "guadagnare" sarebbero stati i continui omicidi e lo spaccio della droga. Le altre città incluse nella classifica sono Raqqa, Caracas, Groszny, Mogadiscio, Saint Louis, Kiev, Perth, Karachi e San Pedro Sula. Napoli è quindi la città più pericolosa d'Europa. "A Napoli è di casa la camorra", scrivono nell'articolo. Mentre fino a pochi anni fa veniva chiamata "neapolitan mafia", con il fenomeno di Gomorra adesso viene chiamata con il proprio nome. Nell'approfondimento del Sun si parla, poi, dei clan partenopei che si distinguono da altri consessi mafiosi italiani per l’assenza di gerarchie nell’organizzazione. Le gang, invece, spesso composte da dodicenni, compiono ogni giorno atti di microcriminalità. "Napoli è la città italiana famosa per i suoi legami con la criminalità organizzata", si legge nell'articolo. Per questo motivo Napoli è definita come sistema in cui gruppi rivali si scontrano soprattutto per il predominio del traffico di stupefacenti. Fino alla frase conclusiva: "La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase "go to Naples" si accosta a “go to the hell", andare all’inferno’".
Napoli come Raqqa? Croce direbbe: fate finta di sì, la migliorerete. «The Sun» l’ha inserita nella lista delle più pericolose: involontaria citazione da «Benvenuti al Sud» dove Claudio Bisio indossava il giubbotto antiproiettile, scrive Marco Demarco il 18 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Napoli come Raqqa, Caracas e Karachi? Napoli tra le prime undici città più pericolose del mondo insieme con Grozny, Mogadiscio, Manila, St. Louis, Kiev, San Pedro Sula e Perth in Australia? Di fronte a certe notizie come questa appena sparata dall’inglese Sun bisognerebbe reagire come un secolo fa, in situazioni analoghe, consigliava di fare don Benedetto. Allora si parlava della diversità in senso antropologico dei napoletani, e anche della loro predisposizione alla vita criminale, e Croce suggeriva di non inalberarsi più di tanto, ma, per quanto possibile, di stare al gioco. Meglio: di far buon viso, e cioè, sapendo che la cosa non era vera, di comportarsi come se lo fosse, così da approfittarne per migliorare sempre di più le condizioni generali della città e del Mezzogiorno. Di fatto, però, poi è quasi sempre successo il contrario: c’è stato molto fumo vittimistico e identitario nel rispondere alle provocazioni, ed è mancata, invece, la sostanza necessaria per rimuovere le troppe condizioni di svantaggio. Anche questa volta è probabile che il primo a mettersi in moto sarà l’ufficio comunale che il sindaco de Magistris ha di recente istituito per difendere in sede legale la buona immagine della città, mentre gli ultimi saranno quelli che dovrebbero occuparsi, in senso generale, della sicurezza urbana. Che pur non essendo ai livelli indicati dal Sun, non è neanche, bisogna dirlo, al pari degli standard europei. Quelli del servizio giornalistico ricordano, semmai, per un verso, gli scenari di «Gomorra» e per l’altro quelli ipotizzati in «Benvenuti al Sud», quando il povero Claudio Bisio è costretto a lasciare la sua Brianza per il Cilento e lo fa solo dopo aver indossato il giubbotto antiproiettile. E infatti il Sun è lì pronto a ricordare che Napoli è la città della camorra, pardon, de «’O sistema», come scrive a conferma di un certo aggiornamento professionale, e delle «baby gangs», quelle delle sparatorie tra la folla, le cosiddette «stese», delle piazze di spaccio da difendere con i Kalashnikov. L’unica concessione che nella sua infografica il tabloid fa a Napoli è di evitarle le icone peggiori, quelle relative al terrorismo, il simbolino della bomba a mano, e alla violazione dei diritti umani, il martelletto giudiziario. Ci sono invece le icone relative agli omicidi, alla droga e alla criminalità comune. Il finale, poi, è tutto un programma: «La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase “go to Naples” si accosta a “go to the hell”, “andare all’inferno’». Proprio come pensava Angela Finocchiaro, la moglie di Bisio, nel film di Luca Miniero.
Il Censis: «A Napoli deficit di senso civico». Contraffazione. Polemiche dopo la presentazione del rapporto 2016. Il sindaco de Magistris: «Non è vero. C’è un forte livello di partecipazione, di antimafia sociale dei fatti», scrive Adriana Pollice su "Il Manifesto" il 13.6.2017. Due anni fa era stata Rosy Bindi a dichiarare: «La camorra è parte costitutiva» della società napoletana. Ieri il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, ha spiegato: «Napoli è un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari» e di nuovo è scoppiata la polemica. L’occasione è stata la presentazione della ricerca realizzata per il ministero dello Sviluppo economico sul fenomeno della contraffazione nella provincia partenopea. «I consumatori si rivolgono all’industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili – ha proseguito De Rita – con l’errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine. Fa parte della cultura, della storia, del modo di vivere napoletano». Per arginare il fenomeno, la conclusione, «occorre spingere sul pedale della sensibilizzazione dei cittadini-consumatori». La replica è arrivata dal sindaco, Luigi de Magistris: «Non è vero che il senso civico sia inferiore rispetto ad altre città. Da quando amministriamo, Napoli ha il maggior numero di luoghi affidati esclusivamente per senso civico ai partenopei, oltre 400. C’è un forte livello di partecipazione, di antimafia sociale dei fatti». Il tema è non confondere la cultura con i reati: «C’è contraffazione, anche tanta, e c’è criminalità, tanta – ha proseguito de Magistris -. Quindi c’è un tema di repressione come in tutte le grandi città del mondo e c’è un tema di prevenzione. Il comune ha fatto uscire migliaia di persone in questi anni da un circuito di abusività: attività artigianali e autoimprenditorialità che abbiamo regolarizzato, chiedendo il rispetto del decoro e l’emersione dal nero. Altra cosa sono le attività illegali e criminali, che non possono essere tollerate». L’analisi del Censis fornisce l’istantanea del settore, particolarmente redditizio per la camorra, che si è infiltrata in tutti i livelli della catena produttiva: acquisto e gestione tramite prestanome degli opifici del falso; distribuzione attraverso l’imposizione ai commercianti dei prodotti da acquistare o chiedendo il pizzo. I clan sfruttano anche gli ambulanti («la vendita avviene principalmente su strada a opera di cittadini extracomunitari») ma si stanno già spostando sul web. Nel 2016, rileva la nota, il 24% degli articoli contraffatti intercettati da Agenzia delle dogane e Gdf, per un totale di oltre 6milioni di pezzi, è stato scoperto nella provincia partenopea. Tra il 2008 e il 2016, sono stati confiscati 68.942.099 articoli falsi, il 15% del totale nazionale. I prodotti più frequenti nell’ultimo anno sono stati occhiali, accessori e abbigliamento. E poi 900mila strumenti da ferramenta; oltre 500mila tra stampe, litografie e incisioni; 20mila ricambi per auto. Il business si sta espandendo su agroalimentare, giochi, medicinali e detersivi. Accanto ai prodotti finiti, ci sono i kit per l’assemblaggio: etichette, contenitori, marchi, buste che trasformano un capo neutro in uno griffato. Gli scarti di lavorazione finiscono bruciati illegalmente nell’hinterland vesuviano. Nei sottoscala e negli appartamenti convivono i padroni locali con quelli stranieri: le sartorie illegali producono a ritmi altissimi sfruttando manodopera a basso costo, sul mercato finisce merce indistinguibile dall’originale accanto a copie scadenti. Dalla Cina viene il 57,7% dei prodotti sequestrati l’anno scorso. La spesa media in oggetti falsi per ogni italiano è di 100euro all’anno. La contraffazione vale 7miliardi che diventano 19 con la filiera completa, mentre lo stato perde 6miliardi di imposte.
"A Napoli mancano legalità e senso civico", l'analisi del Censis, scrive il 13/06/2017 "L'Adnkronos". Napoli "è la provincia italiana in cui si sequestrano i maggiori quantitativi di merce falsa" e sul suo territorio "sono rappresentate tutte le fasi della filiera" della contraffazione, dalla produzione alla vendita abusiva di merce contraffatta, anche perché è "un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari" e "ciò induce i consumatori a rivolgersi all'industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili con l'errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine, o comunque siano un reato di lieve entità". L'analisi è del Censis, che in una nota illustra i risultati della ricerca realizzata per il ministero dello Sviluppo Economico e presentata nell'ambito della 2ª Settimana nazionale anticontraffazione da Loredana Gulino, direttore generale Lotta alla contraffazione-UIBM, e Giorgio De Rita, segretario generale del Censis. Nel 2016, rileva la nota, il 24% degli articoli contraffatti intercettati da Agenzia delle Dogane e Guardia di Finanza sul territorio nazionale, per un totale di oltre 6 milioni di pezzi, è stato scoperto nel territorio partenopeo: come dire che un articolo contraffatto ogni quattro è stato rinvenuto qui. Complessivamente, tra il 2008 e il 2016 nella provincia sono stati confiscati 68.942.099 articoli falsi, il 15,1% del totale nazionale. Tra le categorie merceologiche più presenti nei sequestri dell'ultimo anno figurano gli occhiali, gli accessori e l'abbigliamento. Ma ci sono anche circa 900.000 strumenti da ferramenta, oltre 500.000 tra stampe, litografie e incisioni, oltre 20.000 pezzi di ricambio per auto. E soprattutto etichette, contenitori, marchi, buste, kit per l'assemblaggio e il confezionamento di merce che arriva neutra sul territorio e poi viene falsificata sul posto. L'impresa locale del falso si basa sulla equilibrata coesistenza di soggetti appartenenti a etnie diverse ed è in grado di sostenere elevati ritmi di produzione e di coprire diverse gamme di prodotti: da quelli finemente rifiniti realizzati da artigiani locali a merce di bassa qualità in arrivo dall'Estremo Oriente e assemblata da lavoratori stranieri. La Cina è il Paese di provenienza del 57,7% dei prodotti sequestrati alle Dogane nel 2016. Sul territorio della città e nella provincia la produzione in appartamenti, sottoscala, magazzini prosegue senza sosta, nonostante le attività di contrasto delle Forze di polizia e della Polizia locale. Nel 2016 i reparti provinciali della Guardia di Finanza hanno sequestrato complessivamente oltre 11 milioni di beni di consumo, oltre 4 milioni di accessori e abbigliamento, più di 3 milioni di prodotti elettronici e oltre 1 milione di giocattoli contraffatti o non norma. La Polizia locale di Napoli ha effettuato 2.632 controlli antiabusivismo e elevato 495 verbali. Nella sola zona della Duchesca nel 2016 sono stati posti sotto sequestro 40 locali tra magazzini e depositi. Ma Napoli, osserva il Censis, "non è solo produzione: sul territorio sono rappresentate tutte le fasi della filiera del falso, fino a quella della vendita abusiva di merce contraffatta. Il commercio abusivo è un fenomeno molto diffuso nella città, dove la vendita avviene principalmente su strada ad opera di cittadini extracomunitari, principalmente senegalesi e nigeriani entrati irregolarmente nel nostro Paese". "Napoli - sottolinea il Censis - è anche un territorio dove il senso civico e la cultura della legalità risultano particolarmente deficitari. Ciò induce i consumatori a rivolgersi all'industria del falso per acquistare prodotti griffati a prezzi sostenibili con l'errata percezione che produzione e vendita di merce falsa non siano un crimine, o comunque siano un reato di lieve entità. La camorra non è stata a guardare: di fronte a un business poco rischioso ma assai redditizio si è infiltrata in tutti i livelli della catena produttiva, inserendosi a monte della filiera, con l'acquisto e la gestione tramite prestanome degli opifici del falso, e a valle, interessandosi direttamente della distribuzione dei prodotti falsi attraverso l'imposizione ai commercianti dei prodotti da acquistare o chiedendo il pizzo per le postazioni di vendita". Per arginare il mercato del falso, è la conclusione del Centro studi, "la sola azione di repressione e di contrasto non è sufficiente. Occorre anche spingere sul pedale della sensibilizzazione e dell'informazione dei cittadini-consumatori, al fine di disincentivare l'acquisto e togliere ossigeno al commercio della merce contraffatta". "Non è affatto vero che a Napoli il senso civico sia inferiore rispetto ad altre città". Questo il commento del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a quanto contenuto nell'analisi del Censis sulla contraffazione. "Non è solo l'opinione di un napoletano e del sindaco - ha sottolineato de Magistris - basta vedere che Napoli, da quando noi amministriamo, ha il maggior numero di luoghi affidati e adottati esclusivamente per senso civico dei napoletani, oltre 400, e basta vedere il livello di partecipazione popolare, di antimafia sociale nei fatti, di schieramento delle forze in campo. Detto questo a Napoli c'è contraffazione, c'è criminalità e anche tanta. C'è un tema di repressione, come in tutte le grandi città del mondo, né più né meno, e c'è un tema di prevenzione". A Napoli, ha ricordato de Magistris, "in questi anni abbiamo fatto uscire migliaia di persone dal circuito di illegittimità e di abusività, nel quale si trovavano semplicemente perché facevano attività creativa, di artigianato partenopeo, a volte anche di autoimprendiotorialità, ma non avevano le autorizzazioni che noi abbiamo dato in cambio del rispetto del decoro, di alcune regole. E' la riemersione dal nero in attività legali. Altre cose sono le attività criminali, che non possono essere tollerate e non si deve mai sottovalutare che dietro alcune attività di contraffazione e abusivismo c'è la criminalità organizzata". De Magistris ha poi evidenziato l'impegno "delle forze di polizia e soprattutto della Polizia Municipale" che hanno fatto sì che "diverse aree della città non siano più invase da attività abusive. Oggi mi sento di dire che bisogna fare molto di più sul traffico di rifiuti in alcune ore della giornata, per il quale ho chiesto un impegno più forte delle forze di polizia. Ma il senso civico è alto, l'amministrazione è molto schierata, in modo chiaro e non solo sulla repressione ma anche nell'ottica della prevenzione, e ci auguriamo che anche altre articolazioni dello Stato diano il loro contributo".
Loreto Mare, aspetta 4 ore per il trasferimento in un altro ospedale: muore 23enne in codice rosso. Il responsabile del pronto soccorso, Alfredo Pietroluongo: "Inosservanza dei più elementari doveri professionali". La denuncia è stata diffusa dal consigliere regionale Francesco Borrelli, scrive Anna Laura De Rosa il 19 agosto 2017 su "La Repubblica". Al pronto soccorso dell'ospedale Loreto Mare di Napoli è arrivato alle 21.46 dello scorso 16 agosto. Vittima di un incidente stradale, un ragazzo di 23 anni aveva un politrauma, fratture multiple. Scatta il ricovero in codice rosso. E iniziano ore di attesa che, secondo quanto denunciano i sanitari, potrebbero essere risultate fatali. Il ragazzo il giorno dopo è morto. E' il consigliere regionale della Campania, Francesco Borrelli, a rendere nota la storia. E lo fa diffondendo la denuncia presentata dal responsabile del Pronto soccorso dell'ospedale Loreto Mare, Alfredo Pietroluongo. "Dopo le indagini radiografiche e Tac veniva riportato in codice rosso dove i rianimatori constatavano un progressivo peggioramento delle condizioni generali ed un progressivo calo dell'emoglobina ai valori 7 - si legge nella denuncia - Si provvedeva a richiedere il sangue in urgenza e alle ore 1.04 avveniva il ricovero in Chirurgia con prognosi riservata ed in imminente pericolo di vita". "Ciò nonostante - continua la denuncia - il paziente rimaneva in codice rosso impegnando due unità infermieristiche del Pronto Soccorso con visibile disagio per il resto delle attività dello stesso pronto soccorso mentre le anestesiste intervenute rientravano in rianimazione". Passa ancora del tempo, fino alle ore 1.45 quando Pietroluongo scrive che "venuto a conoscenza del fatto che il paziente era in attesa da circa due ore di essere trasportato in un altro Presidio per eseguire una angioTac e la cosa si rallentava perché non vi era accordo su quali infermieri avrebbero dovuto eseguire il trasferimento" chiede al medico che aveva in carico il 23enne "di provvedere ad accelerare i tempi dell'iter diagnostico anche perché il codice rosso era bloccato da circa quattro ore". Il medico di turno risponde che "sapeva lui cosa doveva fare e che le cose andavano bene così". Nel frattempo viene deciso chi doveva accompagnare il paziente. Ma intanto "alle ore 3.30 il padre del ragazzo quasi in lacrime, infuriato, mi veniva a chiedere cosa si stava aspettando, preoccupato delle condizioni del figlio che peggioravano". Pietroluongo cerca di parlare con il medico che stava seguendo il caso e scoppia uno scambio di accuse. A quel punto "mi precipitavo al Pronto soccorso chiedendo che un infermiere del Pronto soccorso si offrisse volontario per l'accompagnamento e raccomandavo di far partire immediatamente l'ambulanza con rianimatore e chirurgo a bordo". Il gruppo parte "ma senza rianimatore". Il 23enne arriva all'ospedale Vecchio Pellegrini: gli vengono trasfuse altre tre sacche di sangue e i medici criticano l'assenza dell'autoambulanza rianimativa, mezzo che non è stato ottenuto neanche per il ritorno al Loreto Mare dove il paziente rientra alle ore 8.30. Viene condotto in rianimazione dove muore. "A motivo di quanto esposto credo che i fatti evidenzino una superficialità di comportamento ed un disprezzo per la tutela dell'utenza ancora prima dell'inosservanza ai più elementari doveri professionali - conclude la denuncia - Chiedo ove mai si dovesse ravvisare una condotta omissiva di intervenire e di denunciarle alle autorità competenti". Chiederò al direttore dell'ospedale Loreto Mare di avviare un'indagine interna - dichiara Borrelli nel post - per fare luce sulla gravissima vicenda che ci è stata segnalata, relativa alla morte di un giovane di ventitrè anni, giunto al Pronto Soccorso in gravissime condizioni lo scorso 16 agosto e morto il giorno seguente dopo aver atteso per ore il trasferimento presso l'ospedale Vecchio Pellegrini". "La denuncia di ritardata assistenza, firmata proprio dal responsabile del Pronto Soccorso Alfredo Pietroluongo - continua il consigliere regionale - parla chiaramente di oltre quattro ore trascorse tra l'arrivo in codice rosso al Loreto Mare, la stabilizzazione del paziente e il successivo trasferimento al Vecchio Pellegrini, per di più senza ambulanza rianimativa. Un fatto gravissimo che deve essere approfondito in modo capillare poiché occorre comprendere la natura di questo ritardo e verificare se lo stesso abbia compromesso ulteriormente il quadro clinico del ragazzo già complesso".
«Tra liti e ritardi, vi racconto le 4 ore di mio figlio morto in ospedale». Il padre di Antonio Scafuri ricostruisce la drammatica notte al Loreto Mare: «Me lo hanno ucciso. Litigavano per decidere quale infermiere dovesse accompagnarlo in ambulanza», scrive Roberto Russo il 20 agosto 2017 su “Il Corriere della Sera”. Napoli «Me lo hanno ucciso. Mio figlio era lì che moriva e intanto al pronto soccorso litigavano per decidere quale infermiere dovesse accompagnarlo in ambulanza per fare l’AngioTac. Qualcuno dovrà pagare per quello che è successo, non posso rassegnarmi a questa morte assurda». Raffaele Scafuri non si dà pace. Il suo Antonio, un bel ragazzo di 23 anni di Torre del Greco, è morto la mattina del 17 agosto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Loreto Mare di Napoli, dove era arrivato in codice rosso la sera precedente, alle 21.45, dopo un grave incidente stradale mentre era alla guida della sua moto.
Il racconto del padre è avvalorato anche dall’importante testimonianza del dottor Alfredo Pietroluongo, responsabile del Pronto soccorso del Loreto Mare, che ha inviato alla direzione sanitaria un rapporto da brividi. Si persero 4 ore di tempo, è scritto, perché non c’era accordo su quale infermiere dovesse accompagnare il giovane in gravissime condizioni al «Vecchio Pellegrini», distante appena un chilometro. Ma Pietroluongo chiama in causa anche un suo collega per la «libera interpretazione dei percorsi assistenziali». Ora il rapporto arriverà in Procura, come ha annunciato la direzione sanitaria, mentre il ministro della Salute Beatrice Lorenzin invierà gli ispettori.
Cosa sia successo durante quelle drammatiche quattro ore dovrà stabilirlo l’inchiesta. Intanto prova a ricostruirlo il padre. «È certo — accusa— che seppure preso in carico dalla chirurgia, è rimasto parcheggiato in pronto soccorso per ore». «All’arrivo in ospedale — aggiunge— inizialmente lo hanno assistito, poi è stato steso su un lettino in attesa di effettuare quella Tac che avrebbe evidenziato eventuali problemi ai vasi sanguigni. Antonio aveva fratture multiple e l’emoglobina in discesa, si temeva un’emorragia interna, ma lui era sempre lì sul lettino».
Quindi ulteriori attese, mentre i medici delle urgenze pressavano per il trasferimento. E qui il paradosso: quale infermiere avrebbe dovuto accompagnarlo in ambulanza? «Tra i paramedici di turno sembrava non esserci accordo, erano tutti occupati a fare altro. Saranno state le 4 del mattino quando ho perso la pazienza e ho alzato la voce — ricorda il padre — solo a quel punto medici e infermieri si sono messi d’accordo, dopo che li avevamo visti litigare».
Al giovane vengono trasfuse quattro sacche di sangue, è evidente che c’è un’emorragia interna ma non si riesce a localizzarla. Pietroluongo fa presente al collega di chirurgia che occorre fare presto, ma nemmeno la sua preoccupazione serve ad abbreviare i tempi. Così, dopo una burrascosa telefonata tra i due, il primario chiede aiuto all’ispettore sanitario e si riesce finalmente a trovare un infermiere per il trasferimento. Antonio viene trasportato al vicino ospedale, su un’ambulanza priva di rianimatore. Intanto le sue condizioni peggiorano e lo sottopongono ad altre due trasfusioni, poi con i risultati dell’esame viene rispedito al Loreto Mare e sono ormai le 8 del mattino. «In quel momento — dice il padre— hanno informato me e mia moglie che si trovava in rianimazione e che i risultati delle analisi erano favorevoli».
Invece tutto precipita. «Ci fu consentito di vederlo solo dopo le 15 — accusa il padre — quando era già deceduto. Era freddo, segno che era morto da tempo. Ci dissero che aveva avuto tre infarti». I familiari ci tengono a chiarire un altro aspetto: «Qualcuno in ospedale ha provato a insinuare che Antonio fosse malato. Falso, lui scoppiava di salute e aveva giocato a calcio fino ai 16 anni. Era un leone — ripete il papà disperato — e l’ho perso per la totale negligenza di quelli che dovevano curarlo. Voglio tutta la verità sull’accaduto e lotterò ogni giorno della mia vita per ottenerla». La famiglia del giovane si è affidata all’avvocato Luigi Ascione per la denuncia. E adesso tutta la comunità di Torre del Greco si stringe attorno a quei due genitori disperati, Raffaele e Rosaria, molto noti nella città vesuviana, perché lavorano in un parco giochi privato sul litorale. In attesa dell’autopsia e dell’ispezione ministeriale, esplode anche un caso politico. Valeria Ciarambino, consigliera regionale dei Cinque Stelle, accusa: «Da mesi denunciamo al ministero della Salute che in Campania l’assistenza sanitaria è fuori controllo e ci sono gravi rischi per i cittadini».
Napoli, formiche nel letto di una paziente, Lorenzin: "Fatto indegno". E la Procura apre un'inchiesta. In arrivo Task force. Controlli della Regione. De Luca: "Sanità penalizzata dalla politica politicante, inquinata da delinquenti, camorristi e affaristi di ogni tipo", scrive il 13 giugno 2017 "La Repubblica". "Una cosa indegna": commenta così il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, il caso dell'ospedale San Paolo di Napoli dove una donna ricoverata si è ritrovata il letto invaso dalle formiche. E la Procura di Napoli apre un'inchiesta. "Abbiamo immediatamente mandato i Nas e oggi arriverà una task force. Dalle prime indagini è emerso che c'erano dei lavori all'interno del reparto. Poi sono state trovate queste lenzuola infestate in un magazzino". Lo ha detto, a margine di un convegno alla Luiss sulla sicurezza alimentare tra Italia e Cina, il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, commentando il caso dell'ospedale San Paolo di Napoli dove una donna ricoverata si è ritrovata il letto invaso dalle formiche. "La task force - ha aggiunto il ministro - dovrà appurare tutte le responsabilità e fare un accertamento sulla direzione dell'ospedale e su quello che è accaduto nel reparto e agli altri pazienti. Ovviamente è stato bloccato l'accesso al reparto per altri pazienti".
La bonifica. Partiranno già da oggi le attività di bonifica del reparto di Medicina generale dell'ospedale San Paolo di Napoli e, a seguire, dell'intero nosocomio. Lo spiega all'Adnkronos il direttore sanitario dell'ospedale Vito Rago, all'indomani dello scandalo scatenato dalla diffusione della foto delle formiche sul letto di una paziente. "Abbiamo posto in essere tutte le procedure necessarie affinché un episodio del genere non si verifichi mai più", spiega Rago, da appena 20 giorni direttore sanitario dell'ospedale San Paolo. "Serve un intervento radicale e per questo - aggiunge - ho già incaricato una ditta affinché svolga le attività di bonifica prima nel reparto in questione, poi dell'intero nosocomio".
Il presidente della Regione. Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, questa mattina ha visitato l'ospedale San Paolo con il nucleo ispettivo regionale. I controlli effettuati dai sanitari dell'Asl sono andati avanti per tutta la mattina dopo l'episodio denunciato dal consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, di una paziente ricoverata e stesa su un letto colmo di formiche. "Mi sono recato nel reparto, è pulito. Sono stati fatti lavori per l'impianto di ossigeno e abbiamo un problema degli alberi perchè i rami sporgono fino al balcone. Mi hanno detto - ha detto De Luca dop ola visita - che ci sono problemi di questo tipo quando ci sono pazienti alimentati con sacche nutrizionali ricche di glucosio e zuccheri". E ha concluso: "Al di là di questo la sanità in Campania è un disastro. Stiamo lavorando fino all'ultimo respiro affinchè torni un centro di eccellenza. Per troppi anni è stata penalizzata dalla politica politicante, inquinata da delinquenti, camorristi e affaristi di ogni tipo".
L'indagine interna. E intanto "un'indagine interna per attribuire, quando vi fossero le dovute responsabilità" è stata avviata nell'ospedale San Paolo, spiega all'Ansa, Rago, che si sta recando in Regione a seguito di una convocazione. "Sto cercando di fare in modo di debellare questo fenomeno che, mi dicono (Rago è direttore sanitario del San Paolo da soli 20 giorni, ndr), duri da anni e non deve mai più ripetersi". Sul fronte della bonifica dei luoghi, Rago ha dichiarato che "sono state messe in essere tutte le procedure necessarie dalla mia persona e da altri organi interni".
Il sindaco di Napoli. La foto delle formiche su un letto dell'ospedale San Paolo di Napoli "è talmente inaccettabile, inqualificabile e grave che è difficile trovare le parole per commentare". Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, commentando anche "la notizia di stamattina di altri arresti nel settore della sanità per truffa". Alla luce di entrambi gli episodi, spiega de Magistris, "consiglierei, senza voler fare polemica, a chi ha competenza sulla sanità che ogni giorno fa propaganda nel dire che da quando è arrivato qualcuno la sanità nella nostra regione è diventata più efficiente, di impegnare un pò meglio le risorse pubbliche, di scegliere con maggior cura le persone ai vertici delle aziende responsabili della sanità e forse, prima di fare una serie di inaugurazioni che non producono nulla, di chiudere qualche pronto soccorso e qualche ospedale in meno e far funzionare meglio qualche reparto". Secondo de Magistris "sarebbero molto più felici i cittadini e anche chi ha competenza politica sulla sanità godrebbe di maggior plauso da parte di tutti, e di maggior consenso".
Infermieri. "La sanità, soprattutto quella pubblica, ha un solo grande referente: il cittadino bisognoso di cure. Quando ciò non avviene vuol dire che la sanità nel suo complesso e gli operatori hanno fallito. Gli infermieri, che da sempre hanno legato la propria missione professionale ai bisogni del cittadino/ammalato, sono coinvolti al pari di chi ha la responsabilità della direzione sanitaria del presidio. Chiediamo che si accertino subito le reali responsabilità, a partire da chi non ha vigilato sull'igiene della struttura e sulla sicurezza del paziente. Il Collegio professionale, da parte sua, se necessario, è pronto ad adottare i provvedimenti opportuni". Lo chiede Ciro Carbone, presidente Ipasvi (che raccoglie infermieri professionali e assistenti sanitari) di Napoli.
Cgil. "Siamo di fronte ad un altro episodio di degrado in una struttura pubblica, un episodio vergognoso di una gravità inaudita che lede la dignità della persona, che lascia sgomenti i cittadini e che offende i tanti lavoratori che quotidianamente si prodigano per garantire la migliore assistenza ai pazienti". Lo affermano Alfredo Garzi segretario generale FP CGIL Campania e Giosué Di Maro segretario Sanità FP CGIL Campania in relazione alle immagini diffuse ieri di una donna ricoverata all'ospedale San Paolo e coperta di formiche. "Non esistono attenuanti - proseguono i sindacalisti - per coloro che dovevano controllare e non lo hanno fatto. È necessario che si individuino nel più breve tempo possibile eventuali responsabilità e si ripristini l'immagine decorosa dell'ospedale e di tutta la ASL Napoli 1". Secondo i rappresentanti sindacali, l'episodio è "l'emblema del degrado organizzativo in cui versa la sanità in Campania a causa delle politiche di austerità e di tagli che stanno negando il diritto alla salute ai cittadini e il diritto a un lavoro dignitoso ai professionisti della sanità". Garzi e Di Maro concludono sottolineando che "non c'è più tempo da perdere. E' ora di dire basta, di gridare la nostra indignazione, di reagire, di dare voce ai cittadini, come stiamo facendo da tempo purtroppo inascoltati".
L'attacco della Lega. "Quanto sta accadendo negli ospedali campani è l'ennesima testimonianza dell'incapacità del governatore De Luca di gestire il sistema sanitario regionale. Ieri una donna ricoverata è stata costretta a dormire tra le formiche, oggi è la volta di 7 arrestati nei centri di diagnostica convenzionati di Napoli e Caserta per tac e risonanze mai effettuate in favore di pazienti del tutto ignari. De Luca al suo arrivo si è ritrovato una macchina efficiente grazie alla precedente esperienza del governo di centrodestra e ora sta distruggendo tutto. E a pagarne le conseguenze sono sempre i cittadini. Presenterò un'interrogazione al governo per chiedere interventi immediati per porre fine a questo scempio. Mi domando infatti come mai De Luca e il ministro Lorenzin siano tanto impegnati alla ricerca del nuovo commissario per la sanità invece di migliorare i servizi e garantire un sistema quantomeno dignitoso. Basterebbe poco: una normale disinfestazione e una pulizia costante per aver almeno strutture pulite. Aspettiamo fatti e non le solite note sceneggiate teatrali deluchiane". Lo dichiara la deputata della Lega-NcS Giuseppina Castiello firmataria dell'interrogazione.
Napoli, referendum per l'autonomia sullo stile di quello di Lombardia e Veneto: asse De Magistris-De Luca, scrive il 26 Maggio 2017 “Libero Quotidiano”. Non solo Veneto e Lombardia: anche Napoli vuole un referendum per l'autonomia fiscale. Un punto sul quale Luigi De Magistris, sindaco partenopeo, e Vincenzo De Luca, governatore campano, vanno d'accordo. Infatti hanno deciso di sostenere il referendum nordista, poiché, spiega Italia Oggi, per loro la Lega Nord di oggi non è più quella che combatte contro il Sud. L'iniziativa del Carroccio, dunque, sarebbe un'ottima possibilità per reclamare altrettanto. Tanto che Arturo Scotto, deputato ex Ulivo, poi Sel e oggi con la "cosina rossa" Mdp, ha presentato addirittura una proposta di legge affinché Napoli abbia la stessa autonomia di Roma. Stando al testo, Napoli rinuncerebbe ai 259 milioni di euro del fondo di solidarietà in favore di una parte di due imposte destinate al territorio. Una legge con cui si farebbe un passo in avanti verso il decentramento. Peccato che il passo in avanti sarebbe fatto a Napoli, capitale italiana degli sprechi, laddove il controllo del denaro pubblico è ancor più difficile che altrove. Napoli, insomma, si trasformerebbe in Napoli Autonoma: il territorio sarebbe quello attuale del Comune, il consiglio comunale prenderebbe il nome di Assemblea partenopea. Lega Nord ed Mdp sono pronti a votare la legge in parlamento, ma se la legislatura finirà anzitempo sarà difficile che l'aula riesca ad occuparsene. Curioso, infine, il fatto che la Lega appoggi l'autonomia campana: hanno trovato un modo "elegante" per realizzare il vecchio pallino della secessione?
Napoli, mezzo miliardo di multe che nessuno riesce a riscuotere. Solo un automobilista su cinque paga per le infrazioni al codice della strada. E anche la gestione del patrimonio immobiliare fa acqua. Ora si spera in “Napoli Riscossione”, scrive Gian Antonio Stella il 25 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Mezzo miliardo! Quante cose si potrebbero fare, coi 479 milioni di euro di multe che il comune di Napoli non riesce a riscuotere dai suoi cittadini? Quanti lavori e lavoretti urgenti e vitali potrebbero essere avviati? Macché: la voragine resta lì. E continua a sprofondare. Avete presente i numeri pubblicati qualche settimana fa dall’inserto «L’Economia» del Corriere? Dicevano, sulla base di Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat e Siope, che a Milano si pagano mediamente 138 euro di multe a residente l’anno, a Firenze 109, a Parma 107, a Bologna 103, a Rimini 72, a Brescia 71, a Roma 60 e giù giù a scendere verso le città del Sud «con Bari e Napoli che hanno multe pro capite rispettivamente di 32 e 31 euro». Quasi un quinto rispetto al capoluogo lombardo. In fondo al ranking, «Potenza e Latina con meno di nove euro a testa». Era l’ennesima conferma di un andazzo che va avanti da decenni. Basti ricordare un’inchiesta di Gianni Trovati sul Sole 24 Ore del marzo di due anni fa sui «residui attivi» per mancati versamenti che superavano già allora, complessivamente, in Italia, i 32 miliardi. Nel 2013 la capacità di riscossione sulle entrate extra-tributarie (multe e tariffe accertate) risultava del 92% a Bergamo, 87% a Bolzano e Sondrio, 82% a Massa e ancora giù giù (ma con lodevoli e non rare eccezioni come Enna, Barletta o Sassari...) verso Sud con Napoli, al 95° posto col 36,4%. È in questo contesto, già pesante, che Alessio Gemma ha spiegato ieri mattina sulle pagine di cronaca della Repubblica di Napoli, che nella città partenopea «solo un napoletano su cinque paga i verbali al codice della strada» e che nel rendiconto 2016 in arrivo oggi in consiglio comunale «su 78,8 milioni di euro, il totale delle infrazioni elevate, sono stati incassati 15,8 milioni». Un trend che «fa crescere anno dopo anno la montagna di multe ancora da riscuotere». Per un totale a fine 2016, e possiamo scommettere che negli ultimi cinque mesi la cifra è cresciuta ancora, di 479 milioni. Numeri che hanno obbligato il collegio dei revisori del municipio napoletano, nel parere allegato al rendiconto, a «osservare una notevole difficoltà nel recupero delle entrate da sanzioni al codice della strada». Il tutto a distanza di pochi giorni da quando Luigi de Magistris, dopo aver dato più volte l’annuncio a vuoto della nascita di «Napoli Riscossione» («Il Comune di Napoli è il primo ad aver detto addio a Equitalia: obiettivo raggiunto», tuonò ad esempio il 9 giugno 2016) aveva lanciato sulla sua pagina Facebook un grido di dolore sui conti comunali: «Non so come abbiamo pagato stipendi e garantito servizi. Il Governo doveva intervenire per far togliere il pignoramento. Non lo ha fatto. Bastava un segnale. Non è arrivato». E ancora: «Il Comune di Napoli ha il conto bloccato per circa 80 milioni di euro da Natale scorso per un pignoramento derivato da un commissariamento post terremoto 1980. Un debito quasi integrale dello Stato. Questo pignoramento per un soffio non ha provocato l’impossibilità di approvare il bilancio e pensate, solo per un attimo, come facciamo a governare in questo contesto avendo anche la cassa bloccata». Di più: «Abbiamo resistito anche questa volta. Ma che ingiustizia ennesima! Ora si daranno soldi a Roma, Milano e Torino. Questa è l’Italia giusta e solidale che volete? Da noi la pazienza per le ingiustizie è terminata». Per carità, uno sfogo comprensibile, per chi deve governare quella che per Curzio Malaparte «è la più misteriosa città d’Europa», la sola al mondo «che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica». Una città che «non è una città: è un mondo». Difficile, governare Napoli. Tanto più dopo i tagli ai comuni di questi anni fatti da un po’ tutti i governi. Ma restano alcune domande. È vero che in altre parti della stessa Campania ci sono realtà estremamente diverse come Puglianello, 1.370 anime nel Beneventano, che ha conquistato nel 2015 addirittura il primato italiano delle multe da autovelox facendo di queste entrate una voce pari al 10% del bilancio? È vero che lo stesso de Magistris aveva già dato una «ripulita» ai conti stralciando tre anni fa 866 milioni di crediti (tra i quali le multe) quasi impossibili da recuperare? E allora come può essersi allargata così in fretta, di nuovo, la voragine di quelle multe non pagate? Può bastare, per recuperare terreno, l’acquisto sbandierato di cento iPad perché i vigili urbani possano distribuire più in fretta le contravvenzioni? Domande che vanno fatte in parallelo a quelle sul patrimonio immobiliare. Se è vero che la gestione di quel tesoro sterminato era già uno scandalo nel 2002 (per la Corte dei Conti valeva il doppio di quello della intera Lombardia ma dalle 59.927 case, uffici e terreni il municipio ricavava meno di 30 milioni di euro spendendone quasi 46 per la manutenzione) come è possibile che tre lustri dopo i magistrati contabili siano costretti a indagare ancora su una evasione degli affitti pari al 50% e su una gestione (quella di Alfredo Romeo, vedi anche «affare Consip») assai opaca? Sia chiaro: sarebbe scorretto scaricare tutte le responsabilità sul sindaco di oggi. Ereditò un pantano. Ma è mai possibile che siamo ancora fermi alle multe non pagate?
De Magistris: “Chi diffamerà Napoli sarà querelato”. Allo sportello online del Comune si potranno segnalare le offese, gli eventuali risarcimenti saranno usati per «migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi». Ma c’è già chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo», scrive "la Stampa" il 18/04/2017. C’è chi ha definito Napoli «fogna d’Italia» e chi ha auspicato l’intervento del Vesuvio per «lavare con il fuoco» i napoletani. C’è chi ha chiamato in causa la camorra, chi i rifiuti, chi perfino il colera. In tanti, negli anni, a Napoli e ai napoletani hanno rivolto un bel po’ di offese. Ora il Comune, sindaco in testa, dice basta. E chi diffamerà la città sarà querelato, promette, senza se e senza ma. Benvenuti nello sportello online “Difendi la città”, dove si potranno segnalare offese, allegare screenshot dei profili social, foto. «Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità», la definisce il sindaco Luigi de Magistris. Ma sui social non tutti ne sono convinti e in barba a minaccia di querela, c’è chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo». La presentazione dello “sportello” che si legge online è più che chiara: «Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell’ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online “Difendi la Città” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo». Il sindaco, tutto questo, lo spiega così: «Non si tratta di essere insofferenti alle critiche delle quali abbiamo bisogno». Il discorso è un altro e lo sintetizza in una frase che, in conferenza stampa, pronuncia in dialetto: «Hanno fatto di tutto per “schiattarci”». A chi gli chiede se così i napoletani non rischiano di passare per permalosi e vittimisti, il sindaco risponde: «No, il vittimismo, il piagnisteo, le manie di persecuzione non c’entrano proprio nulla. Non è una santificazione della città o una insurrezione razziale». É, piuttosto, una «contro narrazione»: «Non intendiamo fare una propaganda o fare un mezzo di comunicazione alternativo ma vogliamo difendere la città quando chiunque, chiunque esso sia, fa una ricostruzione contraria al vero della città che frena le potenzialità». E così se un sindaco al pari di un cittadino, se un italiano al pari di uno straniero offenderà Napoli sarà querelato. Anche i cori da stadio rientreranno nella valutazione dell’Avvocatura. E se poi qualcuno sarà condannato a pagare i danni, i soldi ricavati dal risarcimento saranno destinato a questo: «Faremo soprattutto azioni civili, piccoli azioni per migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi».
Lo sportello rientra nel progetto Napoli città autonoma. «Napoli sarà la prima città ad avere uno statuto autonomo nell’Italia del terzo millennio - conclude de Magistris - Il nostro è un progetto vero che non è contro nessuno ma è per la città».
Pronta la reazione dei nordisti. Vedi Napoli e poi ti querela, scrive Mercoledì 19 aprile 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". La stima incommensurabile che il genere umano nutre per il sindaco De Magistris rischia di essere messa a dura prova dalla sua ultima iniziativa. Uno sportello giudiziario a cui potranno rivolgersi vittime e testimoni di diffamazione ai danni di Napoli e dei napoletani. La nobiltà dell’intento è inconfutabile. Napoli è città fuori dal comune bersagliata dai luoghi comuni. Ma non è un luogo comune il vittimismo alimentato dalla sua classe dirigente, che da secoli, per non procurarsi il fastidio di affrontare i problemi, trova decisamente più comodo attribuire la loro mancata soluzione a un complotto esterno. I razzisti da operetta - come quel sindaco lombardo che nei giorni scorsi l’ha definita “una fogna” - offrono un alibi di ferro a questa ricostruzione fasulla della realtà, che ha consentito a pochi privilegiati di tenere nell’indigenza tutti gli altri, ergendosi pure a difensori della napoletanità offesa. La trovata di De Magistris offre nuovi strumenti, compresa la delazione, a una battaglia retorica e consolatoria che presterà il fianco al sorgere di altri luoghi comuni. “Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne importa”, cantava Pino Daniele, con l’amore e il dolore di un innamorato vero. Chissà se anche lui sarebbe passibile di denuncia presso lo sportello del Comune. O se lo sarebbe quel tassista che così mi riassunse i lavori infiniti per la metropolitana: “Non la stanno scavando. La stanno cercando.” Ma a Napoli si perdona tutto. Persino di avere eletto sindaco un incrocio tra Mao e il fratello narciso di Masaniello.
Napoli, Luigi De Magistris apre lo sportello Difendi la tua città: "Quereleremo tutti quelli che parlano male di noi", scrive il 19 Aprile 2017 “Libero Quotidiano". Napoli spesso è invasa dai rifiuti, i cittadini si lamentano dei disservizi, alcuni territori sono zona franca per la camorra, i black bloc devastano tutto quando arriva Matteo Salvini ed eccetera eccetera. Ma guai a dirlo. E non solo per il rischio di diventare bersagli del "piagnisteo napoletano", ma anche perché ora, il sindaco-Masaniello Luigi De Magistris, ha deciso di querelare tutti coloro che criticheranno il gioiellino partenopeo. Già, il sindaco ex magistrato, piuttosto che occuparsi degli evidenti, cronici e macroscopici problemi della città, ha pensato bene di inaugurare lo sportello online "Difendi la città". A che serve? Presto detto: a segnalare "offese" a Napoli, a raccogliere i profili di tutti quelli che si "permettono" di dire che a Napoli ci sono cose che non funzionano. Dunque, scatteranno le querele. "Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità", ha affermato De Magistris commentando l'iniziativa. La presentazione dello “sportello” di cui si può fruire online è più che chiara: "Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell'ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online Difendi la Città per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo". Eccola, dunque, l'ultima "mirabolante" iniziativa del sindaco. Tempo, soldi e forze dedicati a questo fantomatico sportello, perfetta espressione del "piagnisteo napoletano". Dito puntato contro gli altri, autocritica zero. E soprattutto querele per tutti: italiani, stranieri, napoletani, nordici. E anche i cori da stadio rientreranno nella "valutazione dell'Avvocatura". Già, perché da che mondo è mondo, per quanto sbagliati e orribili siano, i cori da stadio sfottono, deridono e insultano le altre città. Tutte. Ma soltanto Napoli ritiene di dover querelare i tifosi per una canzoncina allo stadio...
Mille set da Gomorra alla Ferrante: così Napoli diventa Hollywood. Spot e serial televisivi. Fantascienza e commedie. La città è tutta una ripresa. Così rilancia la sua immagine nel mondo. Mentre il turismo scopre le zone meno note: il centro direzionale di Kenzo Tange, le “stazioni d’arte”, il porto, scrive Emanuele Coen il 6 aprile 2017 su "L'Espresso". Esterno giorno. Nello slargo con l'obelisco di San Gennaro le note di "Tu vuo' fa' l'americano" si confondono con il trambusto del mercato e le voci di decine di fan in attesa di Emilia Clarke, attrice britannica della serie "Il trono di spade" e ora protagonista del nuovo spot di un profumo di Dolce&Gabbana. A dieci anni dalle riprese del suo “Gomorra”, Matteo Garrone si muove con la camera a mano tra le comparse in costume, sul blindatissimo set in piazza cardinale Sisto Riario Sforza. Nel frattempo, tra i casermoni scrostati di Scampia, nella stessa mattina piena di sole Francesca Comencini gira un episodio della terza stagione della serie tv ispirata al bestseller di Roberto Saviano. E nella storica roccaforte del clan dei Casalesi un altro regista, Bruno Oliviero, è impegnato nel lungometraggio “Nato a Casal di Principe”, tratto dall’omonimo libro (Minimum Fax) di Amedeo Letizia e Paola Zanuttini. La storia di Paolo Letizia, fratello di Amedeo, rapito nel 1989 in circostanze misteriose e mai tornato a casa. Ogni giorno Napoli è un set a cielo aperto tra uno spot e una serie televisiva, un documentario e una commedia, un film d’autore e una grande produzione internazionale. In principio fu “Un posto al sole”, la più longeva soap opera italiana, quasi cinquemila puntate in oltre vent’anni, poi la serie televisiva “Gomorra” - prodotta da Sky e Cattleya in collaborazione con Beta Film - ha preso il sopravvento. Le riprese della terza stagione termineranno a giugno (in onda su Sky Atlantic in autunno), coinvolgendo 100 attori e 160 location in tutta la Campania. Da qualche tempo però l’atmosfera è cambiata e i ciak si moltiplicano nei quattro angoli della città, ribaltando l’immagine senza scampo di una terra soffocata dalla camorra. E così Joaquin Phoenix ha prestato il volto a Gesù per il kolossal “Mary Magdalene”, girato nel colonnato di piazza del Plebiscito trasformato nel tempio di Gerusalemme; Rupert Everett, in veste di attore e regista, si è innamorato di Napoli, dove ha realizzato “The happy prince”, film dedicato alla vita di Oscar Wilde con cast internazionale (Colin Firth, Emily Watson). E ora è in preparazione la serie tratta dal bestseller mondiale di Elena Ferrante, “L’amica geniale” con la regia di Saverio Costanzo, prodotta da Fandango e Wildside con partner stranieri e Rai Fiction. La scrittrice dall’identità misteriosa contribuirà alla sceneggiatura, mentre le riprese inizieranno a fine estate, nei luoghi più significativi della saga: dal Rione Luzzatti, periferia est, alla chiesa della Sacra Famiglia. Una, cento, mille Napoli. Quella borghese dei conflitti familiari nel nuovo film di Gianni Amelio, “La tenerezza” (al cinema dal 24 aprile) con Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti; quella intrigante di “Napoli velata” di Ferzan Ozpetek (primi ciak da maggio), che dal 23 aprile curerà la regia de “La Traviata” di Giuseppe Verdi al teatro San Carlo.
Attraversa la città l’onda nuova del cinema partenopeo, e svela al pubblico zone meno conosciute che diventano mete turistiche: i grattacieli del Centro direzionale orientale disegnato dall’architetto giapponese Kenzo Tange (nel film opera prima “I peggiori” di Vincenzo Alfieri, con lo stesso Alfieri e Lino Guanciale, nelle sale dal 18 maggio) e l’aeroporto di Capodichino, le “stazioni dell’arte” della metropolitana e il porto, il cimitero inglese e l’Ospedale degli Incurabili. Ma anche il Vomero e Posillipo. Perché Los Angeles sarà pure Los Angeles ma anche “Napollywood” ha le sue colline. Sulla sommità di quella di Pizzofalcone si trova il commissariato della serie tratta dai best seller di Maurizio de Giovanni, un successo su Rai1: “I bastardi di Pizzofalcone”, regia di Carlo Carlei, protagonisti Alessandro Gassmann e Carolina Crescentini. La fiction “anti-gomorra”, così come l’hanno ribattezzata - non necessariamente un complimento - si trova agli antipodi della serie tv ispirata al romanzo di Saviano: raffinati edifici ottocenteschi, panorami sul Golfo, delitti ordinari e, soprattutto, niente criminalità organizzata.
«Per le riprese abbiamo scelto zone e quartieri di straordinaria bellezza, poco rappresentati: Chiaia, Posillipo, Sanità. Abbiamo bussato ai portoni e ci hanno aperto con grande disponibilità», dice Massimo Martino, uno dei produttori, che aggiunge: «La vera novità riguarda le maestranze. Oggi a Napoli lavorano professionisti di alto livello: direttori della fotografia, scenografi, costumisti. La città è autosufficiente al 70-80 per cento, 10 anni fa sarebbe stato impensabile».
Eppure il cinema a Napoli c’è sempre stato - basti pensare a Totò, che nei prossimi mesi verrà celebrato a 50 anni dalla scomparsa - anche se l’attuale scena partenopea resta molto distante da quella, ad esempio, degli anni Novanta. «Erano i tempi di Martone, Capuano, Incerti, De Lillo. Autori con un immaginario personalissimo, nei film raccontavano il loro mondo e i loro sogni», dice a cena in un ristorante sul lungomare Cristina Donadio, la spietata boss “Scianèl” nella serie “Gomorra”, attrice diretta spesso da Pappi Corsicato. «Oggi è diverso: Napoli diventa protagonista, ognuno vuole narrarla a modo suo: c’è la Napoli di Castel Volturno, quella di “Gomorra” e quella di “Made in Sud”, quella delle periferie e quella del Vomero. I registi hanno voglia di raccontare questa contraddittoria, meravigliosa, insopportabile città», prosegue l’attrice, tra i protagonisti insieme a Pina Turco e Massimiliano Gallo de “La parrucchiera”, deliziosa commedia tra “Bollywood” e Pedro Almodóvar, canzoni di Tony Tammaro, Foja ed Emiliana Cantone, diretta da Stefano Incerti (al cinema dal 6 aprile).
Nel film Donadio indossa i panni e i capelli rosso fuoco di Patrizia, parrucchiera titolare insieme al marito Lello del negozio in cui lavora anche Rosa (Pina Turco), bellissima ragazza dei quartieri spagnoli. Per promuovere il film, la produzione ha affittato un camper che fino al 9 aprile sarà on the road: a bordo attrici, attori e parrucchieri faranno a chi ne avrà voglia un “taglio contro la crisi”.
Tra il mare e il Vesuvio si respira un’aria nuova, circolano storie originali raccontate con maestria. È il caso di “Indivisibili” di Edoardo De Angelis, 38enne regista napoletano tra i più brillanti della sua generazione (“Mozzarella Stories”, “Vieni a vivere a Napoli”): protagoniste Dasy e Viola, gemelle siamesi diciottenni, cantanti neomelodiche nella Castel Volturno di oggi, tra amore e sfruttamento. «A Napoli tutto assume un significato simbolico: la dimensione conflittuale, l’integrazione e disintegrazione delle etnie. E in un chilometro quadrato ritrovi il mondo intero», dice il regista del film, sei statuette ai David di Donatello 2017: «È il frutto delle innumerevoli dominazioni che questa città ha conosciuto. Nasce da qui l’idiosincrasia nei confronti del potere, che si manifesta sotto forma di anarchia sociale e culturale».
Su un punto concordano registi, attori, sceneggiatori e produttori: negli ultimi anni nel capoluogo campano è stato fatto molto, ma adesso bisogna dare continuità, formare le maestranze, lasciar sedimentare il fermento. Dopo sette anni di black out, la Regione Campania ha destinato un fondo di 4 milioni di euro al sostegno di progetti cinematografici, televisivi e web. Una boccata d’ossigeno, dopo l’approvazione della legge “Cinema Campania” da parte del Consiglio regionale, lo scorso ottobre, che finalmente riconosce la funzione e i compiti della Film Commission Regione Campania. A partire dal 2005 la Fcrc ha aiutato più di 600 troupe italiane e internazionali, tra film, fiction, documentari, programmi tv: da “Benvenuti al Sud” diretto da Luca Miniero a “Il divo” di Paolo Sorrentino e ora “Falchi” di Toni D’Angelo, con Fortunato Cerlino e Michele Riondino nel ruolo di due poliziotti della sezione speciale della squadra mobile di Napoli. «Finalmente possiamo programmare la nostra attività, che non è mai venuta meno perfino quando non avevamo un soldo», riflette Valerio Caprara, storico e critico cinematografico, presidente della fondazione Film Commission.
«Il brand Napoli è sulla cresta dell’onda, anche per le polemiche sull’immagine della città», aggiunge Caprara alludendo alla querelle infinita tra “Gomorra” e “anti-Gomorra” che conquista le prime pagine. «È una polemica sterile e provinciale. Napoli è una città stracolma di contraddizioni, dove generosità e allegria convivono con la criminalità: la fiction è obbligata a riappropriarsi di tutti i lati di questo prisma. È vergognoso prendersela con “Gomorra” perché danneggerebbe l’immagine della città, ma è ridicolo attaccare “I bastardi di Pizzofalcone” perché sciorina stupende case o dipinge i napoletani con uno sguardo affabile».
Di questa realtà complessa Maurizio Braucci ha scelto di raccontare il lato oscuro. Scrittore, co-sceneggiatore di “Gomorra” di Garrone e di “Nato a Casal di Principe” di Oliviero, in lavorazione in queste settimane, Braucci è anche direttore artistico di “Arrevuoto”, progetto di teatro e pedagogia attivo tra le periferie e il centro, che porta in scena tanti ragazzi di rioni difficili come Montesanto, dove Braucci è cresciuto e continua ad abitare. «Voglio restare qui per dare una mano. Napoli è madre di mille storie, luogo di contraddizioni e di vita, giovinezza e disoccupazione, povertà ed esclusione», dice Braucci, che chiama in causa il ruolo pedagogico della tv. «Non ce l’ho con le serie “Gomorra” e “I bastardi di Pizzofalcone”, ben vengano se portano lavoro. Certo, la televisione potrebbe fare di più: Vittorio De Seta diceva che è un mezzo straordinariamente educativo diventato diseducativo».
In questa “nouvelle vague” napoletana, infine, non manca neppure la fantascienza, anche se in chiave comica. Il gruppo di videomaker The Jackal ha realizzato il film “Addio fottuti musi verdi” diretto da Francesco Ebbasta, che uscirà in autunno: protagonista Ciro, grafico pubblicitario in cerca di lavoro che dopo averle provate tutte decide di mandare il suo curriculum agli alieni. Ciak sul Lungomare, Santa Lucia e sopra i tetti, come è naturale considerato il soggetto.
In piazza del Gesù Nuovo, invece, nel palazzo settecentesco dove fu girato “L’oro di Napoli”, si trovano gli studi di Mad Entertainment, factory di documentari, musica e cinema di animazione che sforna titoli di qualità come il pluripremiato “L’arte della felicità” diretto da Alessandro Rak, adesso al lavoro (con Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone) su un nuovo ambizioso progetto: “Gatta Cenerentola”, dalla favola che ha ispirato l’opera di Roberto De Simone, nelle sale dopo l’estate. «Per teatro, cinema e musica la Campania è un mercato a sé, fa grandi numeri con storie e beniamini di questa terra», riflette Luciano Stella, produttore di Mad insieme a Maria Carolina Terzi: «Qui c’è un pubblico molto attento e selettivo, che allena i talenti. Non a caso a Napoli nascono Pino Daniele, Alessandro Siani, Massimo Troisi, Mario Martone, Totò».
Agli studi Mad il produttore Rosario Rinaldo ha commissionato un breve inserto di animazione per “Sirene - Una storia d’amore con le pinne”, la prima serie tv “romantic-fantasy”, per usare il neologismo coniato dallo scrittore che l’ha creata, Ivan Cotroneo, napoletano come il produttore e come il regista, Davide Marengo. Una commedia sentimentale con sirene e tritoni protagonisti, ambientata nella città partenopea, in onda in autunno su Rai1. «Non c’è nostalgia in “Sirene”, ma uno sguardo rivolto al futuro, anche dal punto di vista produttivo. Napoli si presta: è la città più avanzata del mondo perché la più vicina all’apocalisse».
“A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” Napoli celebra Totò al Rione Sanità, scrive Imma Pepino il 29/04/2017 su “I Siciliani”. “Mi scusi, mi sa dire dov’è che hanno messo la statua di Totò?”. “Signurì è facile, deve andare diritto. Non il primo cortile, il secondo”. Il secondo cortile è l’interno di un palazzo antico: il palazzo dello Spagnuolo, come recita la targa in legno sul corrimano della scala. La statua di Totò – realizzata da Giuseppe Desiato, in collaborazione con la Fondazione San Gennaro – non si trova qui però. L’indicazione che però mi è stata fornita dal pescivendolo all’ingresso del Borgo Vergini non è del tutto sbagliata, o meglio ha una sua logica: proprio a palazzo dello Spagnuolo dovrebbe essere realizzato il museo dedicato alla memoria di Antonio De Curtis – come deliberato nel 1996 dalla Giunta regionale. Il progetto, voluto anche dai cittadini del quartiere che diede i natali all’artista, è però fermo da vent’anni – come denunciato il 15 Aprile scorso, all’inaugurazione delle celebrazioni, dai rappresentanti della Terza municipalità (di cui il Rione Sanità fa parte) e in particolare da Francesco Ruotolo, consulente alla memoria della Municipalità stessa, che ha affisso in alcuni luoghi simbolo del rione dei manifesti di denuncia rivolti a sindaco e presidente della regione affinché “Totò non muoia una seconda volta”. Un signore di mezz’età, anche lui deluso visitatore del museo fantasma, si sofferma a descrivermi il degrado in cui versa anche la casa in cui nacque l’artista. Mi dirigo verso Piazza San Vincenzo, il cuore del quartiere. Dopo aver percorso qualche metro giungo in Largo Vita: qui campeggia il monolite raffigurante la sagoma di De Curtis. La statua è molto bella, moderna nelle forme. Si trova poco distante dal viale di ingresso dell’ospedale San Gennaro, chiuso dalla giunta regionale De Luca. Il presidente, contestato proprio in occasione dell’inaugurazione della statua, aveva avvalorato la sua decisione pronunciando un solenne e istituzionale: “Signo’ ma l’avete fatta la pastiera?”. Potrei percorrere Calata delle fontanelle e ritornare a Materdei, ma decido di dare un’occhiata anche alla casa di Totò. La strada per arrivare è lastricata di opere dedicate all’artista, come il busto posto all’angolo di Salita Capodimonte. Il vecchio appartamento, in Via Santa Maria Antesaecula, è stato acquistato da un privato e si trova in condizioni di totale abbandono. “La proprietaria ha levato pure gli infissi alle finestre, però se entrate ci sta ancora la finestra del suo bagno che si vede dal cortile” mi dice, invitandomi a entrare, un vicino dell’appartamento accanto a quello di Totò. Un pezzo di memoria storica privatizzato e sottratto alla collettività. Tra il museo fantasma di palazzo dello Spagnuolo e la casa saccheggiata. Un patrimonio che potrebbe portare al riscatto di questo quartiere, e che invece rimane incastrato da anni tra il disinteresse delle istituzioni e il marchio impresso dalla camorra. Il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Totò sarebbe una buona occasione per spostare l’attenzione dal centro città “vetrina” a un quartiere popolare in cui l’impegno delle istituzioni arriva solo quando c’è da fare una passerella o raccattare un applauso, un voto. Il Rione Sanità non può ripartire solo dall’illustre concittadino ma da tutti i cittadini, da tutte le pance, da tutte le coscienze. Perché è “la somma che fa il totale!”.
Ascesa e caduta del Clan Potenza, scrive Roberto Saviano il 9 aprile 2017 su “L’Espresso”. Dai vicoli di Napoli ai conti in Svizzera. Dal contrabbando di sigarette a un patrimonio milionario. Che ora è sotto sequestro. Nella storia che sto per raccontarvi c’è tutto: rise and fall di una famiglia che aveva iniziato con il contrabbando di sigarette e ha finito con milioni di euro (per la precisione 8) stipati nelle intercapedini dei muri. C’è un capostipite dal soprannome risibile, Mario Potenza detto ’o chiacchierone, che però descrive perfettamente il personaggio e incredibilmente anche le sue attività: dal contrabbando di sigarette all’usura; da qualche cassa di sigarette fatta passare per gli anfratti più umidi e scuri del sottosuolo napoletano, alla “grande mamma”, la nave ancorata a largo, in acque extraterritoriali, al riparo dalla guardia di finanza, che inondava letteralmente la terraferma di bionde. E dalle sigarette si passa ai prestiti a usura per cui facevano da garante i capitoni di Miano, ovvero il clan Lo Russo. E poi il viaggio - e sono soprattutto i soldi a muoversi - lontano dal quartiere di origine, uno di quelli della Napoli bene, ma anche uno di quelli che a Napoli vedono ricchi e poveri campare gomito a gomito. A Santa Lucia ci vive chi può permettersi case milionarie o le famiglie più umili che abitano i palazzi sgarrupati, dalle facciate scrostate. Santa Lucia mostra l’anima di Napoli, la Napoli del troppo ricco o del troppo povero. Del colore locale, e il colore locale spesso è costituito da devastazione e delinquenza. Qui, a due passi dal lungomare liberato dalle automobili ma che sembrerebbe occupato dai capitali della camorra (non sono mie illazioni, ma quanto ipotizzato dall’esito di nuove indagini patrimoniali, coordinate dal capo del centro Dia Giuseppe Linares) a due passi da Piazza del Plebiscito, dal Teatro San Carlo, a due passi da dove solo pochi mesi fa è stato decimato dagli arresti il clan Elia - quello che faceva confezionare dosi di coca a bambini per via delle mani piccole e agili, quello che lasciava un tredicenne di notte solo in casa a spacciare - insiste il potere criminale di una famiglia nota a tutti, una famiglia che è arrivata finanche a possedere azioni di un ristorante accorsato nel centro di Milano e, secondo l’accusa, ha messo al sicuro ingenti somme di denaro presso l’istituto di credito Bsi Bank di Lugano. Il ristorante milanese in questione è il Donna Sophia, in corso di Porta ticinese, pieno centro, nel punto esatto in cui la folla dello shopping diurno lascia spazio alla movida serale. A due passi dalle colonne di San Lorenzo che il sabato sera i giovanissimi trasformano in una sorta di affollato locale a cielo aperto. Che tu sia un turista in visita al Duomo, un milanese reduce da un pomeriggio di shopping o uno studente fuori sede pronto per la serata, ti sarà facilmente capitato di passare davanti al Donna Sophia e magari sarai anche entrato a mangiare una pizza napoletana “a prezzi contenuti”, come avvertono le recensioni online. E così, un ristorante milanese rientra nei beni riconducibili ai fratelli Bruno, Salvatore e Assunta Potenza. Figli di Mario Potenza, morto d’infarto nel 2012 mentre era agli arresti domiciliari anche per quella storia degli otto milioni di euro nascosti fra le intercapedini delle mura di casa. Lui che aveva una pensione sociale Inps e un’altra da invalidità civile non si capisce come avrebbe mai potuto guadagnare lecitamente tutti quei soldi. Il nuovo sequestro è ancora più cospicuo e ammonta a 20 milioni di euro tra locali, autoveicoli, depositi bancari e polizze. La storia della famiglia Potenza fa pensare da una parte che la mobilità sociale, quella vera, quella che consente emancipazione, pare sia possibile ormai solo attraverso il crimine. Dite che esagero? Immaginate l’impatto che produce sul lettore la notizia di 20 milioni in beni mobili, immobili e titoli azionari sequestrati. 20 milioni di euro sono una cifra stratosferica, impensabile, inarrivabile. Per altro ormai sappiamo anche quando sia inutile mandare curriculum e quanto sia, a detta del Ministro Poletti, molto più proficuo partecipare a partite di calcetto per le relazioni che “notoriamente” si instaurano negli spogliatoi. Ché se fosse vero, uno come me nella vita non avrebbe avuto alcuna speranza, tanto sono negato per il calcio. Dall’altra mi tornano alla mente le parole di Roberto Maroni a proposito del Nord non infiltrato dalle organizzazioni criminali e l’irruzione che fece a “Vieni via con me” per dire che le mafie al Nord non ci sono. Maroni è stato smentito tante di quelle volte su questo punto, che se avessi una trasmissione televisiva lo inviterei solo per offrirgli la possibilità di chiedere scusa agli italiani per la cattiva informazione fatta da Ministro degli Interni. Ma magari questa volta resterebbe alla larga.
Comunali Napoli, tutte le liste di Valeria Valente: Pd, Napoli Vale, Udc, Napoli popolare, Psi e Cittadini per Napoli. Con la candidata anche Ala, Moderati per la Valente, Centro democratico ed En, scrive il 7 maggio 2016 “la Repubblica”. Valeria Valente, deputato del Pd, vincitrice delle primarie, è il candidato sindaco del centrosinistra: a suo sostegno, dopo le decisioni della commissione elettorale mandamentale restano dieci liste rispetto alle dodici presentate: escluse Pli-Pri e Lega Sud-Ausonia.
"Candidata a sua insaputa" alle Comunali di Napoli: "Denunciai per prima, ma nessuno ci credeva". Annachiara Sereni: "Scoprii di essere in lista mentre votavo al seggio", scrive Conchita Sannino il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". La Procura della Repubblica di Napoli «Era la domenica del voto, il 5 giugno. E proprio mentre eravamo al seggio, è stata mia madre ad accorgersi che tra i nomi pubblicati lì sui manifesti affissi al muro, nella lista “Napoli Vale”, figurava una candidata col mio nome, cognome e la mia data di nascita. Sembrava uno scherzo». Lo scandalo era esploso a giugno, ma nessuno lo aveva colto, o voluto capire. C’era una denuncia ufficiale trasmessa dai carabinieri alla Procura, ormai otto mesi fa. Lo scandalo era già stato segnalato da una famiglia napoletana. Ora lo racconta a Repubblica Annachiara Sereni 24 anni. Un’altra dei nove cittadini inseriti in lista alle comunali a sua insaputa. Annachiara, bionda e sottile come una modella, ha appena conseguito la laurea triennale in Economia e Commercio, alle spalle una famiglia solida, papà avvocato, mamma docente di italiano e latino, due fratelli e una bella casa a Santa Lucia. E sua madre, Alessandra, ancora non riesce «a comprendere come sia potuta accadere una cosa del genere. E soprattutto: perché».
Annachiara, per voi quella domenica del voto è stato un giorno indimenticabile.
«È avvenuta una cosa assurda. Tu entri in un seggio con tutta la famiglia, vai a votare e solo perché tua madre è una donna attenta, uno sguardo di lince dietro gli occhiali, ti accorgi che ci sei proprio tu in lista. Anche se tu non ne sai assolutamente nulla».
Quindi, la vostra scoperta è avvenuta esclusivamente per caso?
«Esattamente. Mia madre ha notato che tutto coincideva. Quindi, abbiamo subito segnalato la cosa al presidente del seggio...».
Quale seggio?
«L’Istituto d’arte di piazzetta Salazar». Interviene sua madre: «La cosa davvero avvilente è che il presidente di seggio, invece di allarmarsi e segnalare quell’inquietante faccenda, ci fa spallucce e dice che lui non può fare proprio nulla, non sa a chi dirlo, non sa neanche da dove cominciare. Allora lo segnaliamo agli uomini in divisa che stazionano a ridosso del seggio. Anche lì, spallucce e molta diffidenza. Della serie: ma siete sicuri che non avete messo qualche firma da qualche parte?».
Cosa decidete di fare?
La signora Sereni continua. «Mio marito e mia figlia impiegano alcuni giorni per venire a capo della vicenda. Vanno in Comune, accertano definitivamente che tra le persone in lista c’è una Annachiara Sereni, che tra l’altro è un’identità unica a Napoli e forse anche in Italia, con la data di nascita che è quella di mia figlia. Soltanto l’indirizzo è sbagliato. Il guaio è che, all’inizio, abbiamo dovuto superare molte diffidenze. Nessuno ci credeva, molti pensavano che tutto fosse capitato per qualche nostra leggerezza. Continuavano a chiedere a mia figlia: “Ma sei sicura che non hai dato qualche assenso, che non hai messo qualche firma in calce a un documento?” . Come se si trattasse di una ragazzina di 15-16 anni, e non di una giovane donna di 24».
Alla fine avete presentato una dettagliata denuncia.
«Devo riconoscere che alla stazione dei carabinieri di Chiaia abbiamo trovato accoglienza e anche un maresciallo che ha preso a cuore la cosa e dopo un accertamento di qualche giorno ci ha contattati e ci ha confermato quello che pensavamo: non c’erano nostre autorizzazioni, non figurava alcuna nostra iniziativa. Quindi abbiamo firmato una regolare denuncia il 20 giugno. E quando è arrivata la comunicazione della Corte d’Appello, noi abbiamo potuto mostrare che già da mesi ci eravamo accorti di quella candidatura falsa e abbiamo mostrato copia della denuncia».
Annachiara, a 24 anni qual è il suo rapporto con la politica?
«Diciamo che mi interessa, so che è importante ma non mi appassiona molto. E dopo questa disavventura, devo riconoscere, ancora di meno. Questa storia ha lasciato in tutti noi un velo di tristezza. E anche tante domande». Interviene sua madre: «Poi ci si lamenta della disaffezione verso la politica. Questa storia è davvero amara e grave. E mostra tutti i vizi della politica. E quanto sia da rifondare il rapporto tra partiti e territorio».
Napoli è una città con tanti volti. Un po’ giacobina e un po’ borbonica. Paolo Frascani, «Napoli. Viaggio nella città reale» (Laterza, pagine 232, euro 14). Paolo Frascani docente emerito di Storia della società europea in età contemporanea all’Orientale di Napoli. «Napoli. Viaggio nella città reale» di Paolo Frascani è un libro che esplora una realtà contraddittoria per capire cosa è accaduto negli utili anni all’ombra del Vesuvio, scrive il 18 gennaio 2017 Nicola Saldutti su "Il Corriere della Sera". Chiunque si accinga a scrivere di Napoli (o su Napoli) decide, più o meno consapevolmente, di assumersi un rischio. Quello di essere accusato di lesa maestà o di infilarsi nel lungo corridoio delle critiche dense di stereotipi. Un percorso a ostacoli, dunque. Che Paolo Frascani nel suo Napoli. Viaggio nella città reale (Laterza) mostra di volere (e sapere) affrontare senza timori. Un viaggio, appunto. Ma non di quelli del grand tour, pieni di riferimenti storici ma che raccontano di un fasto che fu. Un viaggio pieno di tappe, di immagini, di numeri. Di tentativi di comprendere che cosa è accaduto in questa città negli ultimi anni. Perché il sindaco, Luigi de Magistris, arriva a parlare di un progetto di città autonoma. Perché il progetto di Bagnoli, la fabbrica dismessa, fa tutta questa fatica a decollare. Perché la classe politica non riesce a governare processi che si fanno sempre più sfilacciati. È un testimone informato sui fatti, come si autodefinisce. E i fatti sono un insieme di osservazioni e cifre, analisi e domande. Per questa città spugna, come la definiva Ermanno Rea. Sempre in bilico tra delusione e speranza. Prendiamo l’industria. Da sola Napoli rappresenta il 18% dell’intera economia del Mezzogiorno. Eppure la fine del mito fordista, che aveva portato con se l’acciaio e l’industria dei trasporti, in qualche modo ha visto subentrare un altro modello. «Archiviata l’industrializzazione dall’alto sono le comunità locali a mobilitarsi per rimettersi in cammino sulla strada dello sviluppo», scrive Frascani. Una città che oscilla tra la Repubblica Partenopea del 1799 e i neo-tifosi del mito borbonico. Due verità entrambe presenti. Una città che appare sempre al bivio tra declino e movimento. Dove la comunità cinese conta 5 mila persone. Dove in certi tratti è diventata post popolare. Si fa un gran parlare del suo rinascimento turistico, delle migliaia di persone che hanno riscoperto l’antica capitale del Regno delle Due Sicilie. Iniziative come Monumentando, una formula che prevede il coinvolgimento dei privati nella valorizzazione del patrimonio cittadini e ha le sue radici nella Napoli Porte Aperte, inventata nel 1992 da Mirella Barracco. Piazza Plebiscito, cuore della città, quando venne liberata dagli autobus, non fu solo l’occasione per restituirle l’antico splendore, ma fu la liberazione di un pezzo del centro storico da un campo di battaglia (Nick Dines). Si può (e si deve fare) molto per i beni artistici, per il recupero della sua storia. Per attirare turisti. Ma guai a farla diventare un museo, lascia capire l’autore. Napoli «conserva i tratti della città industriale». La sua manifattura non è un ricordo del passato: il polo aeronautico, il polo calzaturiero, con settemila imprese e 15 mila addetti (prova di una certa fragilità). Solo due esempi tra i tanti che si incontrano nel viaggio di questo libro. L’alta tecnologia della Apple, che ha scelto la facoltà di Ingegneria a San Giovanni a Teduccio, e le sparatorie in pieno centro. Eccola Napoli. Che «la classe politica stenta a capire». Quello che è mancato, è stata «l’elaborazione di una specifica strategia di tutela e rigenerazione». Eppure il viaggio fa tappe nelle nuove possibilità, come quelle de L’Altra Napoli, nata con Ernesto Albanese e che vede in don Antonio Loffredo un punto di riferimento. Sono pagine che accompagnano il lettore nella scoperta mai banale di luoghi, persone, storie, fenomeni sociali come l’immigrazione. Con l’approccio dello studioso meticoloso. Che cerca di indagare una Napoli che «si presenta come un Giano bifronte. Da una parte sembra giunta al capolinea, come un pugile al tappeto. Dall’altro veste i panni della città allegra e chiassosa che si apre al turismo internazionale e morde la mela di Apple per rientrare nel paradiso terrestre...». Una città che non è ferma, che si compone e si ricompone continuamente. Per questo la bussola di questo viaggio reale assomiglia ad una guida, senza foto da cartolina, con tutte le domande che bisogna farsi. Per tentare di capire. Una lettura che aiuterebbe molto chi dice di governarla ad avvicinarsi a chi la vive.
Napoli si divide pure su Maradona nella disfida tra intellettuali (e no). Dopo gli attacchi a «Nalbero» sul lungomare, polemiche per il fuoriclasse al San Carlo Il nuovo fronte Al bar caro ai presidenti si sono riuniti quelli che si oppongono all’opposizione, scrive Fulvio Bufi il 17 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ora che finalmente Maradona ha recitato al San Carlo, magari si potrebbe discutere su quanto fosse utile per il teatro, inteso come arte, che uno capace fino a vent’anni fa di giocare a pallone come mai - e mai più - nessuno, vestisse oggi i panni del narratore, che è un altro mestiere e richiede altre doti e altro talento. Magari ci si dividerebbe comunque, ma sarebbe almeno una divisione basata sul gusto personale, e non sull’appartenenza a una categoria. Invece a Napoli - dove non ci si fa mancare niente, nemmeno le cose inutili - pare che per esprimere il proprio pensiero si debba prima aderire a un fronte. Quale? Fino a poco tempo fa era prevalente quello degli intellettuali, solitamente critici con il sindaco de Magistris. Ora ne è nato un altro, che sempre di intellettuali è, anche se fingono di negarlo, e che non sta dichiaratamente con de Magistris, anche se invece sì. Per capirci qualcosa bisogna tornare alle settimane precedenti le polemiche sulla rappresentazione al San Carlo dello spettacolo con Maradona, Tre volte 10, andato in scena ieri sera. Era il periodo delle feste, e la questione centrale per questi fronti contrapposti era Nalbero, il centro commerciale a forma di abete natalizio che il sindaco de Magistris ha voluto sul lungomare. «Torre di Babele», «baraccone psichedelico», «strapaesano Albero della cuccagna», tuonarono uomini e donne autorevoli come Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Mirella Barracco. L’iniziativa non riuscirono a fermarla, eppure non fu Nalbero la peggiore conseguenza del loro intellettuale grido di dolore. Infatti mentre l’intera città precipitò all’improvviso nel dilemma se dedicarsi a struffoli e rococò o buttare il cuore oltre l’ostacolo e trovare anch’essa il coraggio di dire sì o no a quel grande coso a punta affacciato sul mare davanti via Caracciolo, ecco che vennero fuori, dai loro non libri, dalle loro non università, dalle loro non gallerie d’arte, i «Non intellettuali». Chiamati a raccolta dal conduttore di una trasmissione su una radio locale (Gianni Simioli) e da un consigliere regionale dei Verdi (Francesco Emilio Borrelli), si ritrovarono al Caffè Gambrinus i fondatori di un nuovo schieramento: quelli che dicono no a quelli che dicono no. Gente seria, intendiamoci: il rettore della Federico II Gaetano Manfredi, l’antropologo Marino Niola, lo scrittore Maurizio de Giovanni, i giornalisti Claudio Velardi e Eduardo Cicelyn. Pure loro intellettuali, chiaramente, ma col vezzo di dichiararsi «non intellettuali» per marcare la differenza da quelli che avevano detto no a Nalbero e poi no al San Carlo per Maradona. Tra i tavolini del bar caro ai presidenti della Repubblica si parlò di un ambizioso progetto per la Napoli del 2050 e anche di «che cosa significa oggi nella post modernità fare cultura in una città come Napoli guardando al cambiamento», riferisce il rettore Manfredi, che ammette di essersi lasciato etichettare non intellettuale «per provocazione», ma intanto si ritrova il suo predecessore, all’Università, Massimo Marrelli, che dalle colonne del Corriere del Mezzogiorno lo punzecchia e gli ricorda che uno come lui intellettuale lo è e lo sarà sempre. Mentre i colti dibattono, ecco che arriva Maradona, forse l’unico che a Napoli ha sempre unito tutti. E invece: «Il San Carlo non è un posto per il calcio», si lamenta il musicologo Roberto De Simone. E l’ex sovrintendente Francesco Canessa: «Così si riduce quel gioiello a mero contenitore di eventi». Ma, senza dichiararsi non intellettuale, ma anche senza sapere di esserlo diventato d’ufficio, ecco che sull’altro fronte entra in scena il direttore del Museo Archeologico Paolo Giulierini: «Maradona non poteva andare in un altro luogo se non al San Carlo che è la struttura più rappresentativa della città». Niente, non ci è riuscito nemmeno lui a metterli d’accordo. Intellettuali e non intellettuali saranno sempre contro. Napoli dovrà farsene una ragione.
NAPOLI CONTRO SALVINI. COMUNISTI NON MERIDIONALISTI. Solo gli atteggiamenti colti ed intelligenti battono gli ignoranti pregiudizi razzisti. Insomma, bisogna dimostrare di essere migliori, quali noi siamo, e smentire le loro menzogne. Solo i reazionari tolgono il diritto di parola agli avversari politici e si nutrono di pseudo cultura ideologizzata.
6 maggio 2014. Il segretario Lega rinuncia all’intervento in piazza Carlo III. Matteo Salvini insultato e contestato al suo arrivo a Napoli. Il segretario della Lega Nord è stato apostrofato da un gruppo di persone, è poi risalito in auto ed è andato via senza tenere il previsto intervento in piazza Carlo III.
20 gennaio 2015. Un centinaio di manifestanti in occasione della presentazione del movimento fondato dal leader della Lega. Matteo Salvini e la Lega contestati di nuovo a Napoli. Dopo il lancio di pomodori subìto in piazza Carlo III questa volta però il leader del Carroccio ha preferito disertare la presentazione del neonato movimento "Noi con Salvini", lunedì per la prima volta nel capoluogo partenopeo. Il segretario leghista ha mandato in avanscoperta il senatore Raffaele Volpi, coordinatore per il Sud. Ad attendere i partecipanti all'incontro anche uova e fuochi d'artificio. Davanti all'hotel Ramada si sono radunati un centinaio di contestatori che esponevano uno striscione con scritto: "Voi con Salvini, noi con Partenope. Napoli Antifascista". I manifestanti hanno anche intonato cori contro la Lega: "Ma ora i napoletani non puzzano più?". All'interno il senatore Volpi, interrogato sulle frasi dei leghisti contro i napoletani, risponde: "Abbiamo chiesto già scusa".
8 marzo 2017. Alta tensione per l'arrivo di Matteo Salvini a Napoli. Un gruppo di ragazzi, appartenenti ai centri sociali, ha tentato di bloccarne l'ingresso in via Chiatamone al Mattino, dove il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, è atteso per un forum con il direttore del quotidiano Alessandro Barbano e i cronisti della redazione. Le proteste all’arrivo di Matteo Salvini alla sede del Mattino di Napoli. “Eravamo seduti pacificamente davanti la sede per far capire che Salvini a Napoli non è il benvenuto – racconta Ciro del coordinamento “Mai con Salvini” e del centro sociale Insurgencia – La polizia ci ha presi di peso e portati via. Abbiamo visto manganellate anche nell’altro corto per l’8 marzo”.
9 marzo 2017. Continuano le proteste contro il leader della Lega Matteo Salvini che sabato 11 marzo sarà a Napoli. Un gruppo di antagonisti ha occupato la sala in cui parlerà Salvini: "E' un'occupazione pacifica ma determinata e a oltranza. Ci sarà un'assemblea per chiedere alla città se vuole il comizio del razzista e antimeridionale Salvini".
10 marzo 2017. Napoli, annullata la convention con Salvini: i centri sociali festeggiano. I centri sociali hanno liberato la sala occupata in mattinata alla Mostra d'Oltremare, in cui sabato era in programma una convention con Matteo Salvini. La manifestazione del leader della Lega è stata annullata in seguito alle tensioni, gli attivisti quindi hanno festeggiato davanti ai cancelli dell'ente con slogan e cori. Il leader della lega ha però annunciato che verrà lo stesso a Napoli. Napoli, annullata convention con Salvini. I vertici della Mostra: "Evitati danni". I vertici della Mostra, Donatella Chiodo e Giuseppe Oliviero, spiegano la scelta di annullare la convention con Matteo Salvini in programma nella fiera di Fuorigrotta. Video di Antonio Di Costanzo.
11 marzo 2017. Napoli, in soli duemila in corteo contro Salvini. Centri sociali, movimenti, associazioni e disoccupati: sono solo duemila i manifestanti che da piazza Sannazaro raggiungono piazzale Tecchio, in corteo contro Salvini. Video di Antonio Di Costanzo e Laura De Rosa.
Salvini a Napoli: partito il corteo, c'è anche una ruspa. Una ruspa in piazza per Salvini. È il benvenuto di comitati e centri sociali al leader della Lega. Da una parte striscioni e trovate goliardiche. Dall'altra caschi legati alla cintura di alcuni manifestanti. Video di Antonio Di Costanzo e Laura De Rosa.
11 marzo 2017. La manifestazione si fa. Il sindaco de Magistris sul caso della convention di Salvini alla Mostra d'Oltremare: "Lo Stato ha fatto prevalere il capriccio di Salvini".
Napoli, corteo anti Salvini: forze dell'ordine rispondono con manganelli a lancio di sassi e petardi. Si è trasformata in guerriglia la manifestazione organizzata da centri sociali, collettivi studenteschi e diverse formazioni politiche per protestare contro la visita del leader leghista nel capoluogo campano. Dai manifestanti sono partiti lanci di oggetti e petardi, polizia e carabinieri caricano e rispondono con manganellate.
Napoli: manifestanti lanciano sassi e petardi, polizia risponde con idrante e fumogeni. Scontri tra forze dell'ordine e manifestanti anti Salvini nei pressi della Mostra d'Oltremare di Napoli, dove è in corso una convention con il leader della Lega, con lanci di molotov e sassi da parte di giovani incappucciati e con gli agenti, in assetto anti sommossa, che hanno risposto con i lacrimogeni e con una carica. Poco prima, dal corteo, era partito un lancio di fumogeni e di petardi contro gli agenti che presidiavano l'ingresso dell'ente fieristico.
Da Eugenio Bennato a James Senese, "Terroni uniti" contro Salvini. Ecco l'inno contro Salvini, la canzone che sarà la colonna sonora del corteo in programma l'11 marzo contro l'arrivo del leader della lega a Napoli. Il brano intitolato "Gente do Sud" nasce da un'idea di Massimo Jovine, non è una canzone di odio ma un invito all'accoglienza che parla di fratellanza e solidarietà. Il collettivo di artisti fa sapere che l'arrivo di Salvini è solo il pretesto creativo. Il claim del corte dell'11 marzo sarà tuttavia: "Napoli non ti vuole". Terroni Uniti sono: Massimo Jovine (99 Posse), Ciccio Merolla, Enzo Gragnaniello, James Senese, O’ Zulu’ (99 Posse), Eugenio Bennato, Speaker Cenzou, Valentina Stella, Daniele Sepe, Franco Ricciardi, Dario Sansone (Foja), Valerio Jovine, M’Barka Ben Taleb, Pepp-Oh, Francesco Di Bella, Simona Boo, Tommaso Primo, Andrea Tartaglia, Tueff, Gnut, Nto’, Roberto Colella (La Maschera), Dope One, Gianni Simioli, Carmine D’Aniello (‘O Rom), Oyoshe, Djarah Akan, Joe Petrosino, Massimo De Vita, Giuseppe Spinelli, Alessandro Aspide (Jovine), Sacha Ricci (99 Posse).
Molotov e sassi al corteo anti Salvini. Napoli sotto scacco dei centri sociali. Feriti negli scontri con la polizia prima del comizio del leader del Carroccio. Chi sapeva dei rischi in corso. Il sindaco di Luigi De Magistris replica a chi lo accusa: non mi avete ascoltato, scrive Fulvio Bufi l'11 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Lo sapevano tutti. Lo sapevano in questura, lo sapeva il sindaco, lo sapevano i napoletani, sicuramente lo sapevano anche nei palazzi romani: con l’arrivo di Salvini a Napoli sarebbe finita male. È finita malissimo. Gli scontri causati dai contestatori sono avvenuti nel quartiere Fuorigrotta, nei pressi della Mostra d’Oltremare dove era in corso l’iniziativa con il leader della Lega. I manifestanti, aderenti per lo più ai centri sociali e alla Rete antirazzista, intendevano raggiungere la Mostra per contestare, ma il loro corteo non era autorizzato a raggiungere l’area fieristica. Già venerdì alcuni aderenti ai centri sociali avevano occupato il padiglione dove poi si è svolto il comizio. A seguito di questa iniziativa i responsabili dell’ente — che appartiene per il 70 per cento all’amministrazione comunale — avevano deciso di rescindere il contratto, temendo che le crescenti tensioni potessero provocare danni alle strutture. È però intervenuto il ministro dell’Interno Marco Minniti che ha dato disposizione alla prefettura di requisire l’area affinché la manifestazione si svolgesse così come programmato. Ieri mattina, quindi, ad aprire i cancelli della Mostra d’Oltremare ha provveduto la polizia. Il comizio era previsto per le 17 ma è iniziato con oltre sessanta minuti di ritardo. La manifestazione anti-Salvini, circa cinquemila partecipanti, il corteo era aperto da una ruspa su cui era affisso un grande manifesto che riproduceva un foglio di via nei confronti dell’esponente leghista. Presenti assessori e consiglieri comunali, assente il sindaco de Magistris (c’era invece sua moglie) che in serata ha dichiarato: «Prendo le distanze dai violenti ma critico il ministro Minniti che ha voluto imporre Salvini alla Mostra d’Oltremare». Il programma concordato con la questura prevedeva che il corteo si sciogliesse all’altezza di piazzale Tecchio. È stato invece proprio qui invece che sono cominciati gli scontri. Aperti dallo scoppio di due petardi che erano evidentemente un segnale concordato. In breve sono comparsi giovani con il volto coperto da caschi o da cappucci e fazzoletti, che hanno iniziato a lanciare contro la polizia sampietrini, bombe carta, cassonetti della spazzatura e segnali stradali divelti. Le forze dell’ordine hanno risposto con il lancio di lacrimogeni e l’uso di idranti. Successivamente i manifestanti hanno tentato di forzare il blocco ma sono stati respinti. Grazie al lavoro dei dirigenti della Digos, tutto si è risolto senza scontri corpo a corpo ma solo con cariche di alleggerimento. Bilancio finale: cinque fermati, un blindato dei carabinieri incendiato e molte auto, vetrine e arredi urbani distrutti.
Napoli: scontri al corteo anti Salvini, sassi e molotov. La polizia carica. Auto distrutte, cittadini si rifugiano nei negozi, scrivono Antonio Di Costanzo e Roberto Fuccillo l'11 marzo 2017 su “La Repubblica”. Tre arrestati, tre denunciati e 34 contusi. Tra i manifestanti anche ultrà armati di bastoni. All'interno della Mostra d'Oltremare il leader della Lega: "Porterò de Magistris in tribunale. E quando saremo al governo dopo aver eliminato i campi Rom elimineremo anche i centri sociali". Guerriglia urbana a Napoli. Un intero quartiere, Fuorigrotta, sotto assedio, con la polizia armata agli incroci stradali e manifestanti incappucciati che tentano ripetuti assalti. Salvini parla all'interno del Palacongressi e nella città la tensione è altissima. A fine serata tre persone vengono arrestate e tre vengono denunciate in stato di libertà. Si contano 34 feriti. "Solidarietà ai 400 agenti impegnati contro degli animali. Vuol dire che la prossima volta faremo la manifestazione a piazza Plebiscito, quando andremo al Governo. E dopo aver sgomberato i campi rom elimineremo anche i centri sociali. Complimenti a de Magistris sta tirando su una bella gioventù", è il commento a caldo del Leader del Carroccio. Per il sindaco Luigi de Magistris gli scontri sono stati causati da chi non ha ascoltato. Gli scontri. Tutto parte intorno alle 17 con due bombe carta lanciate vicino al commissariato di polizia di Fuorigrotta. Due esplosioni e la situazione precipita velocemente. Gli agenti in assetto anti-sommossa presidiano l'ingresso di viale Kennedy e le altre vie laterali che portano alla Mostra d' Oltremare a Napoli dove è in corso il comizio del leader della Lega Nord. Il corteo anti Salvini arriva e partono i lanci di pietre e petardi contro il cordone di forze dell'ordine. La polizia risponde con i lacrimogeni. Partono anche gli idranti contro i contestatori, che continuano a bersagliare i poliziotti con petardi e bombe carta, mentre la guerriglia si sposta rapidamente verso piazzale Tecchio e davanti alla stazione dei Campi Flegrei. I manifestanti indossano le maschere di pulcinella, rovesciano cassonetti, lanciano molotov. Alcuni sono incappucciati e armati di bastoni, potrebbero essere componenti del tifo ultrà. La polizia cerca di contenerli su più fronti. Intanto l'incitamento a sfondare il cordone arriva anche via megafono ed è un continuo susseguirsi di sassaiole, corse contro le forze dell'ordine e risposte con un idrante nel tentativo di disperdere la folla. Gli scontri si moltiplicano. Violente frizioni anche in via Giulio Cesare. Un gruppo di ragazzi assalta una camionetta dei carabinieri, che è rimasta bloccata davanti a dei cassonetti della spazzatura rovesciati. Contro il mezzo dei militari fermo petardi, bottiglie incendiarie e fumogeni. Terrore tra la gente che cerca rifugio nei palazzi circostanti. I negozianti abbassano le saracinesche. Un'ora di assalti e cariche. Poi la tregua. Alle 18 torna la calma. E mentre le strade rimangono ricoperte di cocci di bottiglie infrante, cassonetti dei rifiuti rovesciati, segnali stradali divelti, immondizia data alle fiamme e pozzanghere d'acqua (laddove sono intervenuti gli idranti) all'interno della mostra d'Oltremare il leader della lega Nord attacca il sindaco di Napoli. Poco dopo le 16, Matteo Salvini, leader della Lega Nord, entra nel Palacongessi alla Mostra d'Oltremare per tenere il suo comizio. In sottofondo la canzone degli Stadio "Ho bisogno di voi". É scandaloso, afferma il leader della Lega, "che un ex magistrato sfortunatamente sindaco, spero ancora per poco, si permetta di decidere chi può e chi non può venire a Napoli". Il fatto che il sindaco di Napoli oggi non abbia partecipato al corteo dei centri sociali a Salvini non importa: "Conta quello che ha detto in questi giorni", sottolinea Salvini. "Quello che ha dichiarato in questi giorni - annuncia - verrà portato in qualche tribunale dove, magari, qualche magistrato più equilibrato di lui deciderà se può insultare o no". E a proposito della polemica tra de Magistris e il ministro dell'Interno Minniti: "A Minniti dico grazie, ma in democrazia non deve essere un ministro dell'interno a garantire la libertà di pensiero". E sul razzismo antimeridionale di cui viene accusato: "Vent'anni fa - spiega Salvini - quando ho preso la tessera della Lega, l'Italia era diversa, ora l'Italia deve vincere tutta insieme e Napoli e il Sud sono troppo importanti per lasciarli in mano ai de Magistris o i Crocetta di turno. Napoli era una capitale mondiale prima che il centralismo romano negasse tutto e derubasse tutti e quindi penso che valorizzare questa Italia che è lunga e diversa sia importante. Vent'anni fa quando ho fatto la tessera della Lega avevamo in tasca la lira, non c'era l'Isis, l'immigrazione fuori controllo non c'era la legge Fornero, era un'Italia diversa. Io voglio parlare con i napoletani che sono fuori da questa sala e che non credono più a Renzi, de Magistris, Emiliano, a tutti questi chiacchieroni. A loro voglio parlare e sono felicissimo di essere qua". E il leader del Carroccio rotna a parlare di centri sociali e camorra: "Vorrei che i conigli dei centri sociali fossero scesi in piazza contro la camorra ma forse hanno paura perchè qualche mamma o papà con la camorra ci campa". Così Matteo Salvini a Napoli". Fermati e contusi. A fine serata sono tre le persone arrestate e tre denunciate in stato di libertà. I reati contesti, a vario titolo, sono radunata sediziosa, danneggiamento, lancio di oggetti contundenti, lesioni e violenza a pubblico ufficiale. Nei tafferugli sono rimasti contusi, complessivamente 28 componenti delle forze dell'ordine: tre funzionari e 25 tra poliziotti e carabinieri. Inoltre, altre sei persone, tra i manifestanti, sono rimaste contuse. Il corteo. Oltre duemila persone alle 14 hanno dato il via al corteo organizzato da centri sociali, comitati e associazioni contro il comizio di Matteo Salvini alla Mostra d'Oltremare. Ad aprire il corteo in mattinata una grande ruspa sulla quale i manifestanti hanno sistemato il simbolico foglio di via al leader della Lega. In piazza anche assessori comunali come Alessandra Clemente, Ciro Borriello, consiglieri comunali e Sandro Fucito, presidente del consiglio comunale. Presente anche il presidente della terza municipalità Ivo Poggiani. Mentre il corteo attraversa il tunnel Laziale, poco dopo le 16, Matteo Salvini arriva alla Mostra d'Oltremare. Bandiere e striscioni; da quella del Pci, insieme a quella palestinese, una nera con il teschio dei pirati, al movimento neo-borbonico, a quella dello Slai Cobas. C'è chi protesta provenendo da Caserta, chi da Catania, chi dagli altri capoluoghi di provincia della Campania e sono già centinaia i manifestanti radunati, alcuni dei quali vestiti di nero e con felpe col cappuccio. La decisione del prefetto di autorizzare la manifestazione con Salvini alla Mostra d'Oltremare non ha trovato d'accordo il sindaco de Magistris: "È un atto senza precedenti e lo abbiamo detto ai vertici del Viminale". Il sindaco annunciato che l'amministrazione comunale, azionista di maggioranza dell'ente, e i vertici dell'ente stanno stilando un verbale "nel quale si stabilisce la consegna delle chiavi della Mostra d'Oltremare alla Questura, delegata dal Governo e dalla Prefettura, allo svolgimento della manifestazione. Noi non disponiamo più della Mostra". Si tratta, secondo de Magistris, di un provvedimento che ricorda "quelli utilizzati all'epoca della emergenza dei rifiuti per le discariche. Non voglio ritenere che la Mostra d'Oltremare sia una discarica, perché non lo è e non posso ritenere che Salvini sia considerato un rifiuto proveniente dal Nord. Quindi respingiamo questo tipo di provvedimento dal punto di vista politico e istituzionale, perché c'era la possibilità di contemperare tutte le esigenze. Evidentemente si è ritenuto di far prevalere il capriccio di Salvini di fare la manifestazione alla mostra e per potervi e la consentire addirittura è dovuto scendere in campo il ministro dell'Interno".
De Luca: "Solidarietà a Matteo Salvini, a Napoli sono in corso scontri alimentati da centri sociali e forze estremistiche che impediscono all'onorevole Salvini di parlare. Io non la penso come lui ma Salvini ha diritto di parlare come e dove crede. La mia solidarietà anche alle forze dell'ordine, ci sono stati lanci di molotov, vittime di aggressioni irresponsabili. Mi auguro che a Napoli trovino il senso della misura". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, aprendo il suo intervento al Lingotto di Torino.
Lady De Magistris, dall’ombra al corteo: «I violenti? Sono infiltrati». La moglie del sindaco ha sfilato: i violenti? Infiltrati da fermare. Di Maria Teresa Dolce finora si è saputo pochissimo, né lei ha cercato di conquistarsi la scena mediatica, scrive Fulvio Bufi il 12 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Di Maria Teresa Dolce, moglie del sindaco di Napoli Luigi de Magistris, e presenza a sorpresa nel corteo di sabato contro Salvini, fino a oggi si è sempre parlato e saputo pochissimo, né lei ha mai fatto nulla per conquistarsi la scena mediatica. Un paio di interviste — una al Mattino, confluita poi in un libro di Maria Chiara Aulisio, e una a Vanity Fair – sempre in qualità di moglie. E poi una polemica con il sito Dagospia, che adombrava una corsia preferenziale quando lei ottenne la cattedra di Diritto (incarico di ruolo) in una scuola superiore di Napoli («Ero informata di tentativi di trovare qualcosa di losco nella mia vicenda professionale, come del resto fanno da anni nelle nostre vite. Non trovate niente. Potete solo fare allusioni ed insinuazioni»). Per il resto solo qualche foto durante le feste in occasione delle due elezioni del marito e nient’altro. È solo per questo che sorprende che sabato abbia scelto di partecipare al corteo, come almeno altre cinquemila persone estranee agli scontri e alla violenza: perché lei in passato aveva sempre preferito stare fuori dagli appuntamenti politici. Ora però qualcosa è cambiato. Maria Teresa Dolce non è più solo la professoressa che a Catanzaro, quando ancora faceva pratica in uno studio legale, conobbe l’allora pm Luigi de Magistris, se ne innamorò e poi lo sposò nel 1998 a Soverato, e infine lo seguì a Napoli dopo la sua elezione a sindaco. Oggi Maria Teresa Dolce è una aderente all’associazione e futuro movimento politico DemA, di cui sabato era la rappresentante al corteo. Assente il sindaco, assente suo fratello Claudio, che di DemA è il segretario, c’era lei. Che, come gli assessori e la gran parte dei consiglieri comunali che pure hanno sfilato per le strade di Fuorigrotta, si è allontanata prima che la manifestazione fosse travolta dalla violenza di un gruppo piccolo ma molto agguerrito e attrezzato. Lei dalla sua pagina Facebook attacca quel gruppo ma anche altri, evidentemente i responsabili dell’ordine pubblico: «Corteo pacifico, i black bloc li abbiamo visti e non erano nel corteo. Potevano essere fermati prima che si infiltrassero. Perché non è stato fatto? Sempre la stessa storia, ma non provate a stravolgere la Storia: il corteo non era violento e, se lo è diventato, è stato per infiltrazioni esterne. Questi sono i fatti, io c’ero». Lei c’era e, giustamente, difende il diritto di esserci. Ma anche il (presunto) diritto di non volere che ci fosse Salvini: «La libertà di manifestazione del pensiero è tutelata dall’ art. 21 della Costituzione Repubblicana, certamente, ma con dei limiti. È giusto che nel nostro Paese si possa ridere del diritto alla vita altrui, solo perché di colore della pelle diverso? È giusto non rispettare la dignità della persona umana? Per me no».
Maria Teresa Dolce, chi è la moglie di De Magistris, scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. Si chiama Maria Teresa Dolce ed è la moglie del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. C'era anche lei al corteo di sabato 11 marzo contro Mattel Salvini. Di lei si sa poco, solo un paio di interviste a Il Mattino e Vanity fair, sempre come first lady del primo cittadino partenopeo, e una polemica con Dagospia, che insinuava una corsia preferenziale quando la signora De Magistris ottenne la cattedra di Diritto (incarico di ruolo) in una scuola superiore di Napoli ("Ero informata di tentativi di trovare qualcosa di losco nella mia vicenda professionale, come del resto fanno da anni nelle nostre vite. Non trovate niente. Potete solo fare allusioni e insinuazioni"). Riporta il Corriere della Sera che qualcosa è cambiato visto che la Dolce ha deciso di partecipare al corteo insieme ad altre cinquemila persone. Insomma, non è più solo la professoressa che a Catanzaro, si innamorò dell'allora pm De Magistris e poi lo sposò nel 1998 a Soverato, e infine lo seguì a Napoli dopo la sua elezione a sindaco. Oggi è una aderente all'associazione e futuro movimento politico DemA, di cui sabato era la rappresentante al corteo. Ha detto: "La libertà di manifestazione del pensiero è tutelata dall'art. 21 della Costituzione Repubblicana, certamente, ma con dei limiti. È giusto che nel nostro Paese si possa ridere del diritto alla vita altrui, solo perché di colore della pelle diverso? È giusto non rispettare la dignità della persona umana? Per me no".
Scontri a Napoli, il poliziotto accusa: "Colpa di De Magistris, ci ha abbandonato", scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. Mantengono l'anonimato. Ma sono furiosi. Si parla dei poliziotti che, a Napoli, hanno dovuto fronteggiare teppisti e black bloc i quali, "benedetti" dal sindaco Luigi De Magistris, hanno esercitato tutta la loro violenza pur di non far parlare Matteo Salvini. "A pagare siamo sempre noi. Sempre noi. Sabato a Fuorigrotta abbiamo subito di tutto. Insulti, sputi, aggressioni: ci hanno lanciato sassi, spranghe di ferro, bombe carta, bottiglie - raccontano a Il Mattino -. In piazza due giorni fa c'erano sempre loro: i professionisti della guerriglia". Così gli agenti del IV Reparto mobile di Napoli. Dunque, l'accusa si fa circostanziata. A puntare il dito ci pensa un ispettore che ha alle spalle 20 anni di ordine pubblico. "Nessun lamento. Siamo abituati ai sacrifici. A noi viene chiesto ogni giorno di tutto e di più. Sia chiaro: io non ce l'ho con l'amministrazione ma con i politici. La politica fa finta di non vedere". Ogni riferimento non è puramente casuale. E ancora: "I parlamentari si vadano a guardare i turni che siamo costretti a fare. Sabato alla Mostra d'Oltremare era schierato in completo tutto il Reparto; e molti di noi, ieri mattina, dopo appena sette ore di riposo, sono tornati in servizio allo stadio per la partita del Napoli con il Crotone". Quindi Aldo e Bruno, due poliziotti che hanno meno di 30 anni. E che sono furibondi. "Quello che è successo è gravissimo. E però ciascuno si assuma le proprie responsabilità: a cominciare dal sindaco di Napoli, che volente o nolente ha avuto un ruolo fondamentale fomentando la piazza". Accuse durissime, dunque, da napoletano a napoletano, dagli agenti a Luigi De Magistris. Il sindaco, continuano "ha dimenticato, peraltro, che noi siamo gli stessi che ogni mattina siamo in servizio a palazzo San Giacomo per preservare e tutelare la sicurezza sua e dell'amministrazione comunale".
Disordini di sabato a Napoli. Renzi: "De Magistris allucinante". Ma il sindaco: "Io non sto con i violenti". E' scontro tra l'ex premier e il primo cittadino, scrive il 12 marzo 2017 "La Repubblica". Gli scontri di sabato pomeriggio a Napoli "Quando un sindaco di una delle città più belle si schiera al fianco di chi non vuole far parlare qualcuno e sfascia la città è allucinante". Così Matteo Renzi al Lingotto facendo riferimento ai fatti di sabato a Napoli. "Quando un parlamentare chiede di parlare, anche se dice cose che non stanno né in cielo né in terra, noi del Partito democratico lo lasciamo parlare", ha aggiunto. "Non possiamo fare alleanze con chi non accetta il principio della legalità in questo Paese. Non si sfascia Napoli per un principio ideologico". Ma de Magistris risponde: "Renzi e Salvini dicono che sto con i violenti. Falso. Non sto con i violenti. Mai. Le mie mani sono pulite e non colluse. Sto con la mia città, che amo e difenderò sempre, e con i napoletani, popolo difficile ma ricco di pace e amore, sto con il popolo tradito dai poteri con le mani sporche di sangue. Sto con le vittime degli atti di violenza. Non me la faccio con chi è accusato di corruzioni come fa Renzi, travolto dalla questione morale, nè sto con razzisti come Salvini". "La vicenda di ieri - commenta il ministro dell'Interno Marco Minniti, anch'egli presente al Lingotto - rappresenta un punto cruciale per la mia idea e la nostra concezione della democrazia. E' importante che i diritti costituzionali siano garantiti per tutti ed è altrettanto che sia chiaro che in democrazia c'è un confine non valicabile: la violenza. Chi pratica la violenza è contro le nostre libertà e non può pensare di zittire l'altro". La vicenda è stata commentata nche Antonio Bassolino su Facebook. "I centri sociali hanno fatto i centri sociali, i black bloc si sono infiltrati e hanno fatto i black bloc, lo Stato ha fatto lo Stato, de Magistris non ha fatto il sindaco". Questo il post dell'ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania. Con de Magistris si schiera invece Michele Emiliano, governatore della Puglia e sfidante di Renzi nelle primarie per la segreteria del Pd. "Mi dispiace per quello che è accaduto ma era assolutamente prevedibile", ha detto Emiliano, presente anch'egli al Lingotto. Salvini conosce il meccanismo, lo innesca, lo fa detonare e poi finge di essere la vittima. Questa tecnica è vergognosa. Napoli è una bellissima città che non va nè irrisa nè provocata. E' evidente che chi semina vento raccoglie tempesta". Per Giuliano Pisapia, con la protesta dei centri sociali e l'appoggio del sindaco de Magistris "è stato fatto un regalo a Salvini perché un comizio che avrebbe avuto poche presenze si è trasformato in un rapporto su cosa è la democrazia". Il leader di Campo progressista ha rilasciato questa dichiarazione a Lucia Annunziata, nel corso della trasmissione "In mezz'ora". De Magistris, prosegue Pisapia, "ha fatto una scelta politica diversa dalla mia. Lui non crede che possa nascere un nuovo centrosinistra ampio, aperto e capace di governare, ha scelto di essere vicino a realtà che credono che il centrosinistra attuale sia il nemico, e spesso quello principale, mentre per me il nemico o l'avversario dovrebbe essere quello di destra".
Napoli, guerriglia contro Salvini. La vergognosa frase di De Magistris, scrive “Libero Quotidiano” il 12 marzo 2017. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris? "Da rimuovere", "Da commissariare". Dal centrodestra al centrosinistra, in tanti si schierano contro il Masaniello ex pm dopo il disastro di Fuorigrotta e la guerriglia di strada scatenata da antagonisti e black bloc che volevano impedire il comizio di Matteo Salvini alla Mostra d'Oltremare. Centinaia di migliaia di euro di danni, paura per i residenti, la sensazione che la democrazia sia stata sospesa per qualche ora, con un manipolo di qualche decina di delinquenti in grado di decidere chi deve parlare in pubblico e chi no. Scene già viste, ma stavolta il caso politico coinvolge direttamente il sindaco, che nei giorni scorsi ha cercato di impedire al leader della Lega di fare il suo primo comizio a Napoli e si è schierato apertamente con i centri sociali. Dopo le violenze in piazza, De Magistris non ha saputo commentare che con un vergognoso: "Non mi avete ascoltato". Come se uno dei compiti del sindaco non sia quello di garantire la sicurezza a chi arrivi in città, invece di lisciare il pelo ai violenti. E anche Salvini ora si dice disposto a denunciare il sindaco. "L'amministrazione non ha mai detto che Salvini non potesse fare la manifestazione", ha spiegato De Magistris, come in un abile gioco delle tre carte. "Noi dal primo momento abbiamo detto che, siccome Salvini impronta la sua politica e la sua propaganda in maniera profondamente razzista, xenofoba e antimeridionale, qualsiasi luogo che anche indirettamente dovesse comportare la potestà di autorizzazione da parte dell'amministrazione, noi non avremmo dato nessuna autorizzazione", Tradotto: "Salvini può venire a Napoli. Ma non può parlare a Napoli". Una presa per i fondelli, insomma. La decisione di Salvini legittima di fare campagna elettorale a Napoli è stata bollata dal sindaco arancione come "un capriccio". Roba inaudita. Tanto da costringere il ministro degli Interni Minniti e il prefetto a "requisire" la struttura comunale e metterla a disposizione del comizio leghista. La questione non riguarda solo il luogo scelto, ma è tutta politica. Alla manifestazione anti-Salvini poi degenerata erano presenti anche i consiglieri comunali di maggioranza Pietro Rinaldi ed Eleonora De Majo (che un mese fa scriveva cose tipo "Vieni bastardo, ti diamo una lezione"), l'assessore ai giovani con delega alla Polizia municipale del Comune di Napoli Alessandra Clemente, il presidente della III Municipalità di Napoli Ivo Poggiani e la moglie del sindaco, tutti alle spalle della "simpatica" ruspa portata in piazza dagli attivisti con tanto di "foglio di via dal Sud" per Salvini. Dopo il delirio di bombe carta, sassi e molotov, è partito il coro bipartisan contro Giggino. "De Magistris complice, si vergogni", ha scritto il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta. "De Magistris è responsabile di istigazione alla violenza. Le forze politiche democratiche chiedano unite le sue dimissioni", rincara il segretario nazionale di Rivoluzione Cristiana Gianfranco Rotondi. Anche Fabrizio Cicchitto di Ncd definisce il sindaco "un irreponsabile allo stato puro, venuto meno al suo ruolo istituzionale che deve essere quello dell'accoglienza di tutte le forze politiche e di tutela dell'ordine pubblico". E Maurizio Gasparri è lapidario: "Rimuovere De Magistris: chi alimenta violenza non può fare il sindaco. Napoli devastata da criminali da mettere in galera".
Impunità per i devastatori Nessuno finisce in carcere. I black bloc di Napoli rischiano poco: i giudici hanno lasciato a piede libero chiunque abbia distrutto le città, scrive Luca Fazzo, Lunedì 13/03/2017, su "Il Giornale". Possono dormire tranquilli. I guaglioni che sabato hanno messo Napoli a ferro e fuoco per contestare il comizio di Matteo Salvini forse non verranno mai identificati. Ma se invece - grazie alle tecnologie moderne e all'impegno di qualche poliziotto - dovesse scoprirsi chi si nascondeva dietro le maschere da Pulcinella, se si riuscisse dare un nome a chi ha incendiato le auto, lanciato bombe carta sulla polizia, terrorizzato una città, in galera non ci finirà nessuno. Se qualcun verrà arrestato, ci resterà ben poco, il tempo per venire scarcerato in attesa di giudizio, e vedere poi derubricate le accuse a reati da pochi mesi: sospensione condizionale, affidamento ai servizi sociali, e un augurio di ravvedimento. A rendere scontato questo esito del sabato di violenza di Fuorigrotta è, semplicemente, l'analisi dei precedenti. In un paese dove le imprese dei black bloc e degli antagonisti a mano armata si ripetono con frequenza e con copioni sempre uguali - cambiano solo la città e il pretesto - la risposta giudiziaria è ispirata sovente all'indulgenza: tanto che si contano sulle dita di una mano i violenti finiti a espiare la loro pena. Sono in carcere Marina Cugnaschi, Francesco Puglisi e Alberto Funaro, condannati (forse fin troppo duramente) per il G8 di Genova; è in carcere Davide Rosci, protagonista degli assalti alle forze dell'ordine a Roma nell'ottobre 2011; a Milano è finito dentro uno dei condannati per una delle giornate peggiori del capoluogo lombardo, la guerriglia in corso Buenos Aires nel marzo 2006: ma solo perché dopo avere ottenuto l'affidamento ai servizi sociali ha preferito non presentarsi. Per il resto, tutti allegramente a piede libero. È libero Fabrizio Filippi detto er Pelliccia, quello immortalato a Roma mentre lanciava un estintore sulla polizia; libero Marco Ventura, che durante il corteo no Expo del Primo Maggio a Milano prese a bastonate insieme ad altri un poliziotto steso a terra e indifeso; liberi qua e là per il paese una quantità di habitué del cappuccio nero identificati con certezza e con altrettanta certezza miracolati dal garantismo dei giudici. Quasi mai si tratta di assoluzioni con formula piena, va detto. La mossa vincente dei difensori degli antagonisti è quasi sempre quella di far cadere l'accusa di devastazione, l'unica che il codice penale colpisce con una certa severità. Sparita la devastazione, a carico degli imputati restano reati come il danneggiamento o la resistenza a pubblico ufficiale che consentono facilmente di restare sotto la magica soglia dei tre anni di condanna: niente carcere, e affidamento in prova per essere rieducati e reinseriti nella società (sarebbe interessarne indagare sulle modalità e sull'esito di tali rieducazioni). Il problema è che ai giudici il reato di devastazione non piace, e lo usano con grande parsimonia: dei cinque estremisti milanesi incriminati per il corteo No Expo del 2015, uno solo è stato condannato per questo reato, agli altri accuse ridotte e condanne blande; la Procura ha impugnato le assoluzioni spiegando che «ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione»; bisognerà ora vedere cosa ne pensano i giudici d'appello. Nel frattempo, tutti liberi, in attesa del prossimo corteo.
Mara Carfagna, l'articolo con cui seppellisce Luigi De Magistris, scrive il 13 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "Mamme terrorizzate che cercano di proteggere i bambini, ragazzi che trovano riparo negli androni dei palazzi, anziani che si coprono il volto con le mani restando fermi, impietriti per la paura". Esordisce così, Mara Carfagna, commentando su Il Tempo i fatti di Napoli, dove i centri sociali aizzati dal sindaco, Luigi De Magistris, hanno devastato la città pur di impedire a Matteo Salvini di parlare. La Carfagna, campana, parla dei "poliziotti e carabinieri che erano lì per difendere un principio costituzionale: il diritto di esprimere le proprie idee. E in 26 sono finiti in ospedale per questo. Eppure tale diritto - attacca - è stato di fatto messo in discussione dal vero responsabile politico di questo disastro: il sindaco Luigi de Magistris". Secondo la Carfagna, la difesa di Giggino "non regge e ha il sapore del ricatto di chi pensa di essere stato incoronato Imperatore di una Repubblica autonoma fondata sull'odio e sul disprezzo verso chi non la pensa come lui. Repubblica che - prosegue -, stando a quello che abbiamo visto anche sabato, dispone di una sua falange armata pronta a rispondere agli ordini di un sindaco, che pur di pescare consenso in quello stagno che lo ha portato alla rielezione nel 2016, non ha esitato a concedere loro l'utilizzo di immobili pubblici". L'attacco di Mara è durissimo: definisce "inquietante" il "sindaco della legalità che incoraggia l'illegalità sanando occupazioni abusive, in una città in dissesto finanziario". Per la Carfagna "siamo di fronte ad un sindaco che ritiene di avere le chiavi dell'ordine pubblico a Napoli e che non appare credibile nel suo ragionamento da improbabile Masaniello o paladino della sua identità napoletana. Spregiudicato e cinico come pochi, utilizza l'orgoglio dei napoletani solo per alimentare le sue convenienze politiche. Perché Napoli - sottolinea l'azzurra - non si difende dagli inaccettabili insulti e dalle vergognose offese che ha ricevuto negando una struttura per un comizio politico". Dunque, la conclusione: "La sceneggiata lasciamola ai professionisti del genere. Chi è chiamato ad amministrare lo faccia, con serietà. Forse però, considerato il soggetto, è chiedere troppo". De Magistris colpito, umiliato ed affondato.
Salvinius nella Contea del sud, scrive il 10 marzo 2017 Luigi Iannone su “Il Giornale”. Narrano le antiche cronache di un popolo gaudente e scaltro che abitava da tempo le pendici del Vesuvius; un monte che sbuffava con indolenza ed eruttava solo quando era infastidito del frastuono della città. Poveri in canna, ma famosi in tutto il Regno perché di buon cuore, gli abitanti di Neapolis erano talmente votati alla solidarietà e alla fratellanza da destare preoccupazioni alle varie dinastie di potenti che negli anni li governarono che, invece, volevano fare di quei sudditi razza organizzata e disciplinata. L’intento non fu mai raggiunto. I popolani si dedicavano alla pesca e al piccolo commercio ma passavano gran parte del giorno discorrendo di filosofia, arte e poesia. Per questo furono invidiati dai vicini e lo furono ancora di più quando si scoprì che la generosità nei sentimenti e la spensieratezza era frutto di una metafisica profonda e non di lascivo disfattismo. Popolo di cantori e di puri d’animo sempre pronti ad accogliere lo straniero da qualunque Contea provenisse, i neapolitani serbavano un segreto inconfessabile: la diversità derivava dalla “pigrizia’’, una virtù magica donata loro dal Dio Vulcano e che nel tempo si era secolarizzata in metafisica dell’esistenza. Grazie ad essa, erano in grado di incrementare naturalmente l’ozio creativo, combinandolo con riti pagani, superstizioni e credenze ma sempre liminare al fatalismo e mai oltrepassandolo. Neapolis era anche terra di fierezze inaspettate, di briganti e di capipopolo, di Masanielli e di rivolte. Ma era la pigrizia a dominare tutto. Regolava eccessi e faceva prevalere il buon senso. Passarono gli anni e le cose cambiarono. La virtù donata da Vulcano fu scoperta dai barbari delle terre confinanti. L’incantesimo svanì e si tramutò in corruzione dei costumi e dissolutezze. Neapolis divenne periferia fatiscente dell’impero e decadde al rango di cittadella. Ricettacolo per delinquenti e cantori volgari di neo-melodie. Non più dunque poesia ad allietare le radiose giornate ma sudicia prosa su bivacchi e meretricio, su furti e rapine; non soavi melodie modulate dalla sirena Parthenope ma stranianti e strazianti nenie gorgheggiate da adiposi giovincelli impomatati e sgraziate comari. Il morbo della decadenza la assalì velocemente e penetrò le zone collinari dove vivevano i ricchi signori. Obnubilò le menti anche dei più temprati nello spirito e impedì ai corpi di affrancarsi dal male come si era sempre fatto, e cioè con un giro di ‘taranta’ e riecheggiando ancestrali canti. Delle vecchie maschere e dell’arte finissima rimasero i cascami. Sopravvissero le imitazioni sbiadite di Masaniello incarnate di volta in volta dalle nuove dinastie regnanti e dagli ultimi reggenti: Laurus, il Comandante, poi Bassetino da Afragola, per lungo tempo contrastato da Musolina la sciantosa ed infine Demagistratus, signore nato in collina ma di mestiere finto ideologo dei rivoluzionari da vicolo. Narrano le antiche cronache che un giorno, un tal Matteuccio Salvinius venne dal nord per arringare le folle. Ma la ‘pigrizia’ non era più in possesso delle genti neapolitane e tutti i moderni abitatori del luogo uscirono dai nascondigli per scagliarsi contro il nuovo arrivato. Non lo avevano mai fatto contro i signori delle colline; non si erano mai rivoltati contro i finti artisti e i criminali saldatisi in associazione. Non avevano mai cacciato a pedate i vecchi reggenti e le storiche dinastie. Ma questa volta per i neapolitani fu diverso. Presero a scrivere pure una canzone che per un giorno diventò un inno. A capo dei rivoltosi si posero i 9999Poste i cui testi da qualche anno venivano declamati nelle scuole della Contea con grave spregio alle antiche liriche. Vi fu gran frastuono per tutta la serata e nulla più. Il giorno dopo Salvinius tornò nelle brume del nord, i 9999Poste e i Centri sociali si rinchiusero nelle loro fumisterie e tutti vissero felici e contenti, nascondendosi dietro finta pigrizia.
I tifosi del Napoli perdonano Quagliarella: "Fabio, sei figlio di questa città". I tifosi del Napoli hanno definitivamente perdonato Fabio Quagliarella per il suo addio agli azzurri nell'estate del 2010, scrive Marco Gentile, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Dopo le rivelazioni shock di Fabio Quagliarella, che ha raccontato dello stalking subito ai tempi del Napoli, i tifosi azzurri hanno pace con l'attaccante della Sampdoria. I supporters partenopei, durante il match giocato oggi pomeriggio contro il Crotone di Davide Nicola, hanno esposto uno striscione in Curva A: “Nell’inferno in cui hai vissuto… enorme dignità. Ci riabbracceremo Fabio, figlio di questa città”. Quagliarella ha giocato una sola stagione al Napoli, nel 2009-2010 e in estate, a sua insaputa, fu ceduto ai rivali storici della Juventus scatenando le ire dei tifosi azzurri che non capirono la scelta dell'attaccante di Castellammare di Stabia e lo riempirono di insulti. L'attaccante della Sampdoria ha prontamente risposto allo striscione dei tifosi del Napoli con il collega di Premium Sport, Valter De Maggio, che ha riferito del messaggio whatsapp ricevuto: “Sono emozionato e super felice. Questa è una domenica speciale per me: dopo la vittoria del derby, questo striscione è un bel gesto che mi fa finalmente riappacificare con la mia gente”.
Fabio Quagliarella, lacrime alle "Iene": "Ecco perchè ho lasciato il Napoli". Lʼex attaccante azzurro racconta alla trasmissione di Italia 1 un incubo durato cinque anni, scrive il 2 marzo 2017 TgCom24. "Sono passato per l'infame della situazione e farlo davanti alla propria gente fa male. Ogni volta che tornavo a Napoli cercavo di nascondermi, camuffarmi, per evitare che qualcuno mi dicesse qualcosa". Così il calciatore della Sampdoria Fabio Quagliarella, racconta alla iena Giulio Golia cosa significa essere perseguitati da uno stalker nascosto tra le sue amicizie più fidate: il poliziotto Raffaele Piccolo è oggi condannato a quattro anni di reclusione.
Fabio Quagliarella piange a Le Iene: “Io passato per infame, sono andato via dal Napoli perché vittima di stalking”. L'incubo di Quagliarella inizia quando un amico gli presenta Raffaele Piccolo, un poliziotto della postale di Napoli che avrebbe dovuto risolvere a Fabio un problema di password e che ora è stato condannato dal Tribunale monocratico di Torre Annunziata a quattro anni e otto mesi di reclusione, al risarcimento danni e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, colpevole di aver inviato lettere calunniose contro l’attaccante allora del Napoli e della Nazionale, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 2 marzo 2017. Fabio Quagliarella ha la voce rotta e gli occhi lucidi, articola le parole a fatica nel tentativo, vano, di trattenere le lacrime: seduto davanti a Giulio Golia de Le Iene, l’attaccante della Sampdoria racconta una storia, la sua, che in pochi conoscevano fino a pochi giorni fa ma che a lui è costata una gogna insopportabile: quella dell’addio forzato al suo Napoli, quella della parole durissime dei suoi tifosi. “Sono passato per l’infame della situazione. E credimi, passarlo davanti alla propria gente fa male”, inizia a raccontare Quagliarella. Ma qual è la vicenda che ha costretto l’attaccante a lasciare la sua città e che lo oggi lo porta a piangere davanti alla telecamere di ItaliaUno? È il 2009 quando Fabio indossa la maglia della squadra della sua città per dare il via a una stagione da tempo sognata e finita troppo presto: alla fine di quell’anno, l’attaccante lascia infatti la maglia azzurra per approdare alla Juventus di Conte. In molti lo chiamano “traditore”, in molti si chiedono il perché di questa scelta ma nessuna risposta arriva a sfiorare la verità: a costringere Quagliarella a prendere quella decisione è infatti una durissima vicenda di stalking. L’incubo di Quagliarella inizia quando un amico gli presenta Raffaele Piccolo, un poliziotto della postale di Napoli che avrebbe dovuto risolvere a Fabio un problema di password e che ora è stato condannato dal Tribunale monocratico di Torre Annunziata a quattro anni e otto mesi di reclusione, al risarcimento danni e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, colpevole di aver inviato lettere calunniose contro l’attaccante allora del Napoli e della Nazionale. Sì, perché quel Raffaele che avrebbe dovuto aiutare Fabio e con il quale Fabio aveva stretto un rapporto di amicizia era in realtà l’autore di lettere anonime in cui accusava l’attaccante di partecipare a party a base di droga con esponenti della camorra e di avere rapporti sessuali con ragazzine. “Che dicevano quelle lettere?”, chiede Golia a Quagliarella: “Tutto. Da foto di ragazzine nude, dove diceva sotto con tanto scritto che io ero un pedofilo, che io avevo a che fare con la camorra, che io avevo a che fare con la droga, che io avevo a che fare col calcio scommesse. Stiamo parlando di centinaia e centinaia di lettere. Non stiamo parlando di una o due lettere o due messaggi anonimi. A mio papà, quando io ero in giro gli arrivava un messaggio dove gli dicevano “Tuo figlio ora è in giro per Castellammare e ora gli spezziamo le gambe, ora lo ammazziamo”. A volte io ero fuori casa e avevo due o tre chiamate perse di mio papà perché io ero impegnato. Quando vedevo queste chiamate perse, la mente va subito a pensare cose brutte. Magari era successo qualcosa per esserci due o tre chiamate di mio papà senza risposta, c’è qualcosa che non va. Qualsiasi piccolezza nella tua testa era un pericolo, dicevi “È successo qualcosa”, perché sapevi che queste minacce… quando uscivi di casa, a un certo punto ti guardavi intorno, ti sentivi osservato, ti sentivi minacciato. Non sapendo chi fosse, guardavi tutti con altri occhi, con occhi dubbiosi, come a dire “E se è questo, e se è quello?” Non ti nascondo il clima di tensione che c’era in famiglia, lo puoi immaginare”. Anni che per l’attaccante della Sampdoria devono essere stati un incubo buono per un film di Polanski dove la verità e la menzogna non si fanno riconoscere e viene difficile perfino chiudere gli occhi per dormire. Anche perché Quagliarella, venuto a conoscenza di quelle lettere, finisce per chiedere aiuto proprio al “suo boia”, perché chi meglio di un agente della postale per aiutarlo a sporgere denuncia e a scoprire la verità? “Lo reputavo una persona di fiducia perché comunque faceva un lavoro importante, un lavoro che comunque… dove devi dare fiducia”, ha detto ancora a Le Iene. Fiducia, a chi lo stava rovinando. “Mandava le lettere alla Direzione Distrettuale Antimafia, mandava le lettere alla società, al Napoli. Mi ricordo che dovevamo andare a giocare in Svezia. Io ero uno dei titolari. Prima della gara mi chiamarono e mi dissero “No, tu non giochi, non giochi perché…. ti abbiamo venduto, quindi fai meglio a non giocare”, continua Quagliarella. Il racconto si fa a ogni parola più difficile: l’allontanamento da parte della società, il sospetto del padre di Fabio, primo a capire che forse dietro a quel Piccolo si nascondeva lo stalker, la scoperta in questura delle denunce mai depositate, la rabbia dei tifosi. “Io dico sempre, quando ripercorro la mia carriera, mi guardo dietro e dico: “Ho lasciato qualcosa di incompiuto”. Come se tu sei arrivato davanti alla porta e stai per tirare e ti tolgono il pallone”, conclude Quagliarella. Una storia raccontata con tale trasparenza ed emozione da spingere moltissimi tifosi napoletani a chiedere scusa a Fabio: “Perdonaci”, “Grande uomo”, “Sarà per sempre il 27 azzurro”, sono solo alcuni dei moltissimi commenti sul profilo Twitter dell’attaccante.
Napoli, come cambia il codice d'onore dei boss di strada. Marco Pirone, ex autista di boss, spiega: "Un tempo la malavita aveva delle regole: donne e bambini non si toccavano. Oggi non è più così", scrive Nadia Francalacci il 5 gennaio 2017 Panorama. "Ancora una volta il sangue di una bambina macchia le strade e i vicoli stretti del quartiere di Forcella. Ieri, per fortuna, è stata solo ferita ad un piede ma in quella zona della periferia di Napoli stanno prendendo il sopravvento bande di giovanissimi boss che si “vestono” di carattere e sparano a chiunque". Marco Pirone, ex autista di un boss oggi capotreno in servizio sulla Circumvesuviana, dopo l’episodio di ieri nel quale sono rimasti feriti una bimba di dieci anni e tre extracomunitari, spiega come è cambiata la malavita del napoletano e come sono cambiati i codici d'onore dei piccoli delinquenti di strada.
Annalisa, uccisa tra i vicoli di Forcella. Era il 27 marzo del 2004, nel quartiere di Forcella, quando due killer cercarono di colpire Salvatore Giuliano, detto "O rosso", all'epoca poco più che diciannovenne, nipote dei fratelli Giuliano considerato vicino al boss Ciro Giuliano conosciuto come "O barone", ucciso poi in un agguato nel 2007, quando sbagliarono mira e colpirono a morte Annalisa. “Annalisa prima di essere uccisa aveva immortalato in un diario molte considerazioni sul degrado del suo quartiere - spiega Pirone - diceva: "Le strade mi fanno paura. Sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio". Ma anche: "Vorrei fuggire, a Napoli ho paura". E Annalisa non è riuscita a fuggire, anzi, è rimasta uccisa proprio da quella violenza che tanto la spaventava. “Forcella non è cambiata. Anzi, forse è peggiorata" chiarisce Pirone. "Ma oggi a differenza del passato hanno preso il sopravvento giovani boss che non hanno una identità ma se la “creano” vestendosi di un carattere che non posseggono - prosegue Pirone – si esaltano da soli e si creano degli ideali che non esistono”. Pirone, una vita passata tra i vicoli di Scampia, spiega come oggi non esista più nessuna regola. “Una volta i boss avevano un codice d’onore che veniva applicato in modo ferreo. Le donne e i bambini non venivano mai toccati. Ad esempio, a Secondigliano, un affiliato piazzò su ordine di un boss una bomba in un vicolo. Poi vide arrivare una ragazzina e corse a togliere quella bomba. Nel tentativo di proteggere quella ragazza, il mafioso perse entrambe le mani. Oggi, non sarebbe mai accaduto. Non avrebbero mai tolto la bomba e quella bambina sarebbe morta”. Napoli è, dunque, destinata a rimanere la città dove i boss “sparano” in strada? “No, ma serve un impegno concreto da parte dello Stato e delle associazioni. Scampia è molto migliorata - conclude Marco Pirone – anche se sarà difficile estirpare completamente la cultura mafiosa, ma una forte presenza di associazioni sportive, culturali che tolgono i bambini dalla strada e danno loro un obiettivo di vita e degli ideali sani, assieme ovviamente alla presenza dello Stato, possono riuscire a cambiare il volto di questa città. Napoli è una città bellissima con tanta cultura e tantissime persone oneste che proprio come Annalisa Durante soffrono, in silenzio, di questa situazione”.
Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. “C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca”, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte”, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto”. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una “struttura” attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta “necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.
Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr)». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr)». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».
Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilità di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte. Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".
L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto, pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".
L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello". E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".
Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".
«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».
Magistratura corrotta e collusa con la camorra. Iovine, la procura di Roma indaga per corruzione e sentirà il boss pentito, scrive “Il Mattino”. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione alle dichiarazioni del pentito dei Casalesi Antonio Iovine che ha raccontato di una «struttura al tribunale di Napoli» per corrompere i giudici. Il pentito sarà ascoltato. Le carte trasmesse per competenza dai magistrati partenopei sono all'attenzione dei pm romani da alcuni giorni. Gli inquirenti capitolini, in base a quanto filtra, interrogheranno Iovine che nelle sue dichiarazioni tirerebbe in ballo anche un ex giudice della corte d'assise d'Appello di Napoli già sotto processo a Roma per il reato di rivelazione del segreto d'ufficio ed abuso d'ufficio. Quando il pentito del clan dei casalesi Antonio Iovine parla dei casi di presunti aggiustamenti di processi fa in particolare riferimento a due episodi. Si tratta di vicende che si erano concluse con la condanna in primo grado e con il ribaltamento della sentenza da parte della medesima sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli che lo assolse. Il 26 maggio scorso Iovine è stato interrogato dal pm della Dda di Napoli, Antonello Ardituro. «In alcune occasioni l'avvocato Michele Santonastaso - ha affermato Iovine - mi ha chiesto dei soldi per farmi avere delle assoluzioni». Il collaboratore si sofferma dapprima sul processo per l'omicidio di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca. Santonastaso, a suo dire, gli avrebbe consigliato un penalista «che aveva un buon rapporto» con il presidente della Corte di assise Appello. «Il discorso fu molto chiaro, mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte». Il pentito nei verbali fa i nomi del giudice e dell'avvocato che sarebbero stati coinvolti nella vicenda, ora all'attenzione dei pm della procura di Roma, cha ha la titolarità delle indagini in cui sono indagati magistrati del distretto partenopeo. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l'avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l'assoluzione. «Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascunò» Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l'assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti. «Al pm Ardituro il pentito (che fu condannato a 30 anni in primo grado e assolto in appello) ha ammesso di aver commesso il delitto con la complicità di altri tre camorristi. Iovine si sofferma poi su un duplice omicidio. Si tratta dell'uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985. Per tale delitto Iovine fu condannato all'ergastolo in primo grado e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. Quando seppe che il processo era stato assegnato allo stesso presidente» mi tranquillizzai molto «dice Iovine». Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto. Pagai i 200mila euro a Santonastaso in due rate da 100mila a distanza di una settimana l'una dall'altra «. Anche per il duplice omicidio Iovine ha ammesso la propria partecipazione diretta. Alla domanda del pm sul perchè avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima per» aggiustare «i processi, Iovine spiega:» Santonastaso mi faceva il ragionamento che per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua vetere non era sua competenza, perchè Santa Maria era un pò così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria». Le dichiarazioni del pentito di camorra Antonio Iovine coinvolgono anche l'ex presidente della corte d'assise d'appello di Napoli, Pietro Lignola. Il magistrato, per un'altra vicenda in cui gli viene contestato il reato di rivelazione di segreto d'ufficio e abuso d'ufficio, è attualmente sotto processo a Roma davanti alla II sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio.
Il caso Lignola: giudice integerrimo o corrotto? Chi è, si chiede “Caserta Monitor”. “Integerrimo e severo”: così Paolo Chiariello, ora a Sky Tg24 definisce Pietro Lignola, il magistrato finito nella bufera delle dichiarazioni del boss camorrista pentito Antonio Iovine perchè é in buoni rapporti con l’avvocato Sergio Cola, già parlamentare An, destinatario dei 200 milioni oggetto della richiesta del legale casertano Michele Santonastaso al boss per aggiustare il processo davanti alla Corte d’Appello presieduta da Lignola. Di ottima famiglia, con ascendenze nobiliari, ex allievo dell’esclusivo liceo “Pontano” di Napoli, retto dai Gesuiti, l’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Napoli Pietro Lignola, citato nei verbali dal boss pentito dei Casalesi Antonio Iovine, è un magistrato stimato, in pensione dal 2009. Colto, musicologo, esperto del teatro napoletano del ‘600 e animatore di una compagnia che portò’ in scena le fiabe del “Pentamerone” di Giambattista Basile, è collaboratore di quotidiani e periodici (proprio al Roma Chiariello lo ha conosciuto). Lignola è attualmente sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio e abuso d’ufficio, a Roma davanti alla seconda sezione penale. I pm della capitale gli contestano i reati aggravati anche dal vincolo mafioso. La prossima udienza del processo è fissata per il 10 luglio. In magistratura è rimasto 50 anni, giudicando importanti processi. Nel 1997 in primo grado presiedeva la Corte d’ Assise che condannò i killer del giornalista napoletano Giancarlo Siani. Aveva giudicato anche i sicari del sacerdote Don Giuseppe Diana e guidato il processo per l’omicidio del fratello del magistrato ed ex senatore dei Ds Ferdinando Imposimato. Noto per sentenze rigorose nei confronti della criminalità organizzata, aveva invece fatto discutere per l’assoluzione in appello, nel 2003, dell’agente di polizia Tommaso Leone, condannato a 10 anni in primo grado per l’omicidio di Mario Castellano, 17 anni, che guidava una moto senza casco e non si era fermato all’alt. I difensori della famiglia di Castellano avevano presentato istanza di ricusazione nei confronti di Lignola, che avrebbe anticipato il giudizio in alcuni articoli firmati come opinionista su un quotidiano cittadino. Spesso polemico nei suoi articoli anche nei confronti di altri magistrati, era stato querelato da alcuni colleghi per aver stigmatizzato la loro presenza in piazza in occasione delle manifestazioni contro il “Global Forum” svoltosi a Napoli nel 2001 e coinvolto in una richiesta di risarcimento economico avanzata dai magistrati, che aveva interessato anche altri giornalisti all’epoca al Roma.
TIZIANA CANTONE ED IL PREZZO DELLA NOTORIETA'. DELLA SERIE: CHI E' CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO.
Tiziana Cantone/ Video hard, nessun colpevole per il suicidio: "non è stata istigata ad uccidersi". Tiziana Cantone, ultime notizie: il Gip di Napoli ha deciso di disporre l'archiviazione dell'inchiesta per istigazione al suicidio nell'ambito della morte della 31enne di Mugnano, scrive il 14 dicembre 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli ha disposto oggi l'archiviazione dell'inchiesta per istigazione al suicidio relativa alla morte di Tiziana Cantone, la giovane 31enne di Mugnano di Napoli suicidatasi il 13 settembre di un anno fa. Tiziana decise di togliersi la vita in modo drammatico dopo non essere riuscita a sopportare l'umiliazione che per troppo tempo l'aveva travolta in seguito alla diffusione online di alcuni video hard che la immortalavano in suoi momenti di intimità. L'inchiesta avrebbe dovuto accertare se realmente ci fosse stato qualcuno ad istigare la 31enne a togliersi la vita ma nonostante le indagini in corso sul delicatissimo caso, nessuna persona era stata iscritta nel registro degli indagati. Da qui, la decisione del Gip di procedere all'archiviazione dell'inchiesta. La richiesta di archiviazione, come riporta Il Giorno, era stata avanzata dalla Procura in seguito ai risultati degli accertamenti eseguiti nei file audio risalenti alle ore precedenti alla morte di Tiziana. Dal loro contenuto si credeva (e sperava) di poter risalire alla verità sul gesto della giovane donna, ma invece non emerse nulla di utile ai fini delle indagini. Come riporta la trasmissione Chi l'ha visto in un suo servizio odierno, con la decisione del giudice di Napoli restano fuori dall'inchiesta i cinque ragazzi che la stessa Tiziana Cantone aveva indicato come i responsabili della diffusione di quei video su internet, dopo essere stati inizialmente ricevuti via Whatsapp. Proprio quei filmati avevano contribuito a trasformare la 31enne napoletana in una sorta di "celebrità" sul web, eppure per la stessa Tiziana erano apparsi così tanto infamanti da averla spinta a togliersi la vita. I cinque ragazzi indicati dalla stessa Tiziana come colpevoli - insieme ad una sesta persona - non sono più indagati per diffamazione. Per il giudice, dunque, non sono stati loro a mandare in rete quei video hot della ragazza. Si chiude così la vicenda giudiziaria iniziata proprio con la denuncia che Tiziana presentò nel maggio 2015, quando al magistrato avanzò cinque nomi (due dei quali sono fratelli). Secondo il giudice però, la Cantone aveva torto e la diffusione di quei video online non sarebbe da addebitare a loro. Se non sono stati i cinque soggetti indicati dalla ragazza morta suicida, allora che ha messo online i filmati che avrebbero poi rappresentato la condanna a morte di Tiziana?
Non c'è nessuno dietro il suicidio di Tiziana Cantone (sostengono i giudici). Ma noi non vogliamo dimenticarla, scrive Fulvio Bufi il 14 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Tiziana Cantone maturò senza alcuna pressione la decisione di uccidersi dopo la diffusione in Rete di alcuni video in cui si era lasciata riprendere durante scene di sesso, e dopo aver sostanzialmente perso la battaglia legale per essere risarcita dai social network, dove fu esposta a una vera gogna mediatica, e dai motori di ricerca che indicizzarono le pagine web con i suoi video. Questo ha stabilito il gip del Tribunale di Napoli Nord disponendo l’archiviazione dell’inchiesta per induzione al suicidio aperta dal procuratore Francesco Greco all’indomani del 13 settembre 2016, quando la trentunenne napoletana fu trovata impiccata nella tavernetta della casa in cui abitava a Mugnano con la madre e altri parenti. È l’epilogo giudiziario che ci si aspettava: l’inchiesta era rimasta sempre contro ignoti, e la stessa Procura ne aveva chiesto l’archiviazione. Come del resto è stato per l’altro procedimento aperto a Napoli sulla base della denuncia che Tiziana Cantone fece quando scoprì che i suoi video erano finiti online. Fornì ai magistrati i nomi di cinque uomini – conosciuti attraverso i social - ai quali lei stessa aveva inviato i file contenenti le immagini, indicandoli come i possibili responsabili della diffusione in Rete di scene che sarebbero dovute invece rimanere private. Sono stati tutti prosciolti e se Tiziana Cantone fosse viva, oggi sarebbe indagata per calunnia nei confronti dei suoi cinque amici virtuali, come è indagato il suo fidanzato, che l’accompagnò a fare la denuncia e secondo i pm le suggerì di fare quei nomi. Se di tutta questa vicenda contassero solo i risvolti giudiziari, la storia sarebbe finita qui. Nessun responsabile per la diffusione dei video e nessuno anche per la tragica scelta finale di Tiziana. Del resto l’induzione al suicidio è un reato complicatissimo da portare in giudizio, e tracciare i percorsi di ciò che finisce in Rete è ancora più complicato, in un caso come questo forse tecnicamente impossibile. Ma quella di Tiziana Cantone, in realtà, non è una storia di cronaca giudiziaria, come non lo è quella di Michela Deriu, la ventiduenne di Porto Torres che si è suicidata il mese scorso, anche lei dopo la diffusione di alcuni video che invece dovevano rimanere privati. In quest’ultimo caso ci sono degli indagati, sono emersi ricatti, una rapina: tutti elementi che potrebbero portare l’inchiesta verso un esito diverso rispetto a quella di Napoli. Ma il punto resta comunque un altro, perché c’è una cosa che non è perseguibile per legge: l’assenza di rispetto. Che si sia trattato di incoscienza, superficialità, esibizionismo, voglia di trasgressione, qualunque sia stato il motivo che ha spinto quelle ragazze a lasciarsi riprendere, l’unico prezzo che avrebbero dovuto pagare, peraltro consapevolmente, era l’esposizione della propria intimità. Loro invece hanno pagato con ciò che non ha prezzo. E se la verità processuale stabilisce che non ci sia stato qualcuno a indurre Tiziana Cantone a uccidersi, la realtà è che la ragazza si è ammazzata perché non è riuscita a reggere il peso della sua vita per come era cambiata dopo quei video. E quei video appena tre mesi fa erano ancora online sui siti porno, e probabilmente lo sono ancora.
Vengono i brividi a pensare che qualcuno possa eccitarsi guardando le immagini di una ragazza che oggi non c’è più, ma evidentemente accade. E l’unico modo per impedirlo è rimuovere quei video dal web. Sarebbe quell’atto di rispetto di cui Tiziana Cantone ha diritto. Almeno di quello.
La vergogna di Tiziana: «Ero fragile e depressa, i video sono 6». La denuncia della 31enne a maggio 2015: «Era un gioco». È lei stessa a fare i nomi delle quattro persone a cui aveva inviato i filmati hard: ora sono indagate per diffamazione. Il ruolo dell’ex fidanzato, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" il 16 settembre 2016. Tiziana Cantone è morta per una cosa che era cominciata come un gioco. Era un gioco fare sesso cambiando partner, era un gioco lasciarsi riprendere, era un gioco inviare poi i video ad altri uomini. Lei ha giocato senza rendersi conto di quanto fosse pericoloso. Non ha capito che mandare in giro quelle immagini significava mettere la sua intimità nelle mani di gente che avrebbe potuto farne qualsiasi cosa. Se ne è resa conto quando ha scoperto di essere finita sui siti porno. E ha provato, inutilmente, a fermare quel mondo incontrollabile che è il web. Quello che Tiziana oggi non può più raccontare — le sue libere scelte sessuali, la condivisione dei video e ritrovarseli online, e poi la vergogna e gli insulti e le battutacce, e la solitudine, la depressione, le lacrime, la voglia di farla finita — lo raccontano le carte giudiziarie dei procedimenti nati dalle sue denunce e dai suoi tentativi di far sparire dalla Rete quei filmati. È il maggio del 2015, quando Tiziana si presenta in Procura per fare una denuncia. Racconta di aver girato quei video e di averli poi inviati a persone con le quali, spiega al magistrato, aveva intrecciato «relazioni virtuali» sui social network. Era un periodo di «fragilità e depressione», fa mettere a verbale, e ancora peggio sta ora che ha scoperto che quei video sono su molti siti porno. Fa i nomi dei quattro a cui ha inviato le immagini, e tutti vengono indagati per diffamazione: sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano. Di uno viene indicato anche il nickname che usa su Facebook: Luca Luke. La donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video. Sono giorni in cui Tiziana fa di continuo scoperte che la avviliscono. Le racconta, una dietro l’altra, nella memoria che il 13 luglio 2015 presenta al giudice civile di Aversa per chiedere la rimozione dei video da siti e motori di ricerca. Anche qui premette di essersi fatta riprendere «volontariamente e in piena coscienza», e specifica che le registrazioni sono sei. Conferma anche i nomi contenuti nella denuncia di maggio come destinatari delle sue condivisioni. E racconta quello che le succede a partire dal 25 aprile, quindi pochissimo tempo dopo aver girato i video. Quel giorno la chiama un amico e le dice di averla vista in un filmato su un sito porno. Lei riconosce le immagini e ricorda pure a chi dei quattro amici virtuali le aveva mandate. Due giorni più tardi una nuova scoperta su altri due siti porno, e dopo meno di una settimana un’altra ancora. Tiziana comincia a passare il suo tempo a fare ricerche mirate. Scopre un forum per adulti in cui si parla di lei come della protagonista di video pubblicati da un sito di scambisti, e alcuni gruppi su Facebook dedicati a lei, ma soprattutto numerosi profili fasulli con il suo nome e le sue foto tratte dai frame di quei filmati, seppure parzialmente coperte per non incorrere nella censura del social network. Poi le arriva la telefonata di un altro amico che le racconta di aver ricevuto su WhatsApp una sua foto, sempre di quelle tratte dai video. Che ormai stanno girando all’impazzata. Tiziana torna in Procura, fa una integrazione alla denuncia di maggio e i pm aggiungono il reato di violazione della privacy, ma stavolta non iscrivono nessuno nel registro degli indagati. Intanto lei smette di uscire da casa perché le è capitato di essere «riconosciuta e derisa», scrive nella denuncia. Non va più al supermercato, né in palestra, al cinema o al ristorante. Gli amici spariscono, nessuno la chiama più, nessuno la invita a uscire. Lei comincia a stare male, ha attacchi di panico, piange, pensa al suicidio. Ci prova anche ma la fermano in tempo. L’unico che le è accanto e che la sostiene anche nelle spese per l’avvocato è l’ex fidanzato. Se per affetto o per altro non è chiaro. E anche questo, così come un suo eventuale ruolo in tutta la vicenda dei video, cercheranno di capire i pm della Procura di Napoli Nord che martedì hanno aperto un’inchiesta per induzione al suicidio. Per adesso senza nessun indagato.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano il 15 settembre 2016: valanga virtuale e cattiveria umana hanno travolto la vita di Tiziana. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell' hinterland napoletano. È di buona famiglia - l'espressione ha ancora un senso, lì - e ha la postura "aggressive" di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po' pantera ma non volgare, una donna che vuole piacere agli uomini e non ha problemi a riuscirci. Ha una specie di fidanzato, ma - non è chiaro se sia per qualche ripicca - sta di fatto che decide di fare sesso con altri, anche con due alla volta; e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. È lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l'espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. Ma pare che a diffonderli sia stata anche lei, benché a non più di cinque persone. A riceverli sono dapprima due fratelli che vivono in Romagna, poi un utente di Facebook di cui è noto solo il "nickname" e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c' è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l'inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c' è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama "meme", ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo». Che sta succedendo? Qualcuno parla di "revenge porn", categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l'apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l'operazione, ipotizzano l'efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare - come questo scritto farà, nel suo piccolo - nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell' automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei "click" che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d' origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l'icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il "meme" tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina "Fuori c' è il sole" di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video puoi trovarli direttamente su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un'impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può lavorare neppure nel locale di cui i genitori sono titolari. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Toscana lontano perlomeno da conoscenti e amici, gente in grado di associarla immediatamente a quel video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio: non è chiaro se prima o dopo la decisione di tornare a vivere nel napoletano in un'altra cittadina, Mugnano, da una zia, neanche lontano da dove stava prima. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo e chiede una serie di provvedimenti "d' urgenza", i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia è rivolta sia ai primi diffusori materiali dei video - quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network - e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas. Comunque il tribunale di Napoli Nord le dà ragione - un sacco di tempo dopo - e, con un provvedimento "ex articolo 700", riconosce la lesione del diritto alla privacy e contesta ai social di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose - e qui si capisce perché internet è un inferno - c' è che molti social network, per esempio Facebook, non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato. A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali - si legge - ma Tiziana dovrà pagare 3.645 euro a carico di quei social network che le varie pagine, intanto, le avevano già rimosse. Senza farla lunga: i dare e gli avere alla fine si sono equivalsi. Ma non è finita. Il diritto all' oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l'interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all' oblio - si legge ancora, - è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo». Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, che per metterci un'inutile pezza impiegano un anno e mezzo. E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all' oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c' è ancora l'attualità della "notizia". Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza - neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento - il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Ma, a proposito di tempi, è dopo di questo che Tiziana è scesa nello scantinato e si è impiccata con un foulard. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana. Filippo Facci
Questa è la versione meno censurata dello stesso Filippo Facci su “Il Post” del 15 settembre 2016. Storia di Tiziana Cantone di Filippo Facci. Filippo Facci ha ricostruito e messo in ordine quello che è successo alla donna che si è uccisa martedì, al suo fidanzato e al processo. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell’hinterland napoletano. Benché abbandonata dal padre una settimana dopo la nascita, è di buona famiglia – l’espressione ha ancora un senso, lì – e ha la postura «aggressive» di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po’ pantera ma non volgare, palestrata, esagerava col bere – per smettere andava da uno psicologo – e in sostanza era una donna che vuole piacere agli uomini e che non ha problemi a riuscirci. Diploma di liceo classico, studi interrotti di giurisprudenza. Ha una specie di fidanzato quarantenne, Sergio Di Palo, che sta a Licola con il suo cane: ci ha pure convissuto dall’estate 2015 al settembre 2015, e, secondo la madre – Maria Teresa Giglio, 58 anni – è stato lui a spingerla ad avere rapporti con altri e a filmarli. A loro piaceva così, ed era già successo nel novembre precedente. A dimostrarlo c’è il fatto che i video furono girati e diffusi mentre i due ancora convivevano. Così, in quell’aprile, Tiziana accetta di fare sesso con altri (anche con due alla volta: la condizione è che a sceglierli sia lei) e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. E’ lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l’espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. La madre, impiegata comunale, sospetta che a diffonderli sia stato il fidanzato, ma sicuramente è stata anche lei, anzi, è lei ad averli spediti al fidanzato. In una clip, ambientata in una cucina, secondo la madre s’intravede la sagoma di lui. A ricevere i video, sempre in quell’aprile, sono in seguito due fratelli che vivono in Emilia Romagna (amici del fidanzato, che lei aveva conosciuto) poi un utente di Facebook di cui è noto solo il «nickname» e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c’è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l’inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c’è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama «meme», ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo».
Che sta succedendo? Qualcuno parla di «revenge porn», categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l’apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l’operazione, ipotizzano l’efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare – come questo scritto farà, nel suo piccolo – nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell’automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei «click» che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d’origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l’icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il «meme» tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina «Fuori c’è il sole» di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video sono reperibili su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome, mentre vip e calciatori vengono intervistati a proposito della famosa frase. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un’impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può più lavorare neppure nei locali di cui gli zii sono titolari: un bar in zona porto e un negozio. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Emilia Romagna da amici del fidanzato, poi da parenti in Toscana, lontana perlomeno da concittadini in grado di associarla immediatamente al video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio. Due, secondo la madre: nel dicembre 2015 avrebbe ingerito barbiturici e fu salvata in extremis, chiamando il 118, poi tentò di lanciarsi da un balcone a casa del fidanzato. Il quale passa per cornuto d’Italia perché la faccenda è sfuggita di mano anche a lui: prima di cancellare il proprio profilo Facebook – come Tiziana – in un ultimo post rivolge minacce un po’ a tutti: «Vi veng a mangià o cor a piett… attenti». È di pochi mesi dopo la decisione di Tiziana di tornare a vivere nel napoletano in un’altra cittadina, Mugnano, da una zia, non lontano da dove stava prima. C’è anche la mamma. Una villetta a schiera con giardino e con la palestrina nel seminterrato. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo – segnalata, anche qui, dal fidanzato – e nell’aprile scorso chiede una serie di provvedimenti «d’urgenza», i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia ammette che lei dapprima fu consenziante alla diffusione, ma poi si rivolge sia ai primi diffusori materiali dei video – quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network – e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. A giugno c’è una prima udienza. Prosegue l’8 luglio. La sentenza, scritta il 10 agosto, è ufficialmente del 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord (di Aversa, cioè) le dà teoricamente ragione un sacco di tempo dopo: e, con un provvedimento «ex articolo 700», si rifà a un po’ di giurisprudenza (legge 70 del 2003, Privacy, limiti del diritto di cronaca) e in sintesi contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose – e qui si capisce perché internet è un inferno – c’è che alcuni dei social network non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato, cioè titoli tipo «il famoso video che sta facendo parlare l’Italia». A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali – si legge – ma paradossalmente Tiziana apprende la notizia per vie traverse: l’avvocatessa non l’ha neppure avvisata e ha postato la notizia direttamente su – sì – Facebook. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva a carico di 5 (su 10) dei social network citati. Google e Yahoo! vengono prosciolte per degli errori degli avvocati nell’indicare le società di appartenenza. Senza farla lunga: Tiziana – dice la sentenza – dovrà pagare 18.225 euro. Più Iva. La richiesta di un risarcimento è giudicata «inammissibile in sede cautelare», posticipando la questione ad altro momento: questo, del resto, prevede l’articolo 700 del codice di procedura civile. Non è finita. Il diritto all’oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». L’interesse. Della collettività. Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, inadeguati anche con «provvedimento d’urgenza». E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all’oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c’è ancora l’attualità della «notizia». Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza – neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento – il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e tutta la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Sicuramente lei era affranta dalla sentenza. E comunque, a proposito di tempi, è a margine di tutto questo che Tiziana è andata giù nello scantinato e si è impiccata con un foulard azzurro appeso a un tubo. Oggi alle 15 c’è il funerale. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana.
Verità, bugie e video: chi era e cosa ha fatto davvero Tiziana Cantone. E poi, giù il sipario. Su Tiziana Cantone si sono spesi fiumi di inchiostro e dette migliaia di bugie nelle ultime ore. Facciamo chiarezza. E poi, per favore, giù il sipario. Ma senza dimenticare, scrive Francesco Guarino il 15/09/2016. Una morte figlia dei nostri tempi. Una morte che ha occupato le prime pagine di tutte le testate, scalzando politica, scienza e sport e dividendo l’Italia in due. Partendo da una frase, pronunciata in un video hard divenuto virale nel giro di pochi giorni ad aprile 2015, che è stato l’inizio della fine di Tiziana Cantone, 31enne napoletana. “Stai facendo un video? Bravo!”: poche parole che Tiziana si lascia scappare nella concitazione, impegnata in un rapporto orale con un uomo e perfettamente riconoscibile in un video hard che doveva rimanere privato. Ma privato non è rimasto. Innescando una reazione a catena incredibile, in cui il web e il giornalismo hanno sì le loro colpe, ma con adeguati distinguo. Il dramma della morte di una ragazza, giovane e bella, divenuta suo malgrado uno dei volti più conosciuti del web, merita che ora le luci su di esso si spengano. E che la parola passi definitivamente ai tribunali, per accertare le possibili responsabilità della sua discesa negli inferi. Ma che Tiziana Cantone finisca nell’aldilà accompagnata da una marea di bugie, figlie del tam tam della rete e dell’incapacità dell’utenza di verificare correttamente una fonte, è indegno e ingiusto. Wakeupnews ha scritto due articoli sulla vicenda di Tiziana Cantone a suo tempo: uno quando il video iniziò a far notizia, un altro per palesare alcune anomalie nelle successive apparizioni a catena di nuovi video con Tiziana Cantone protagonista. In entrambi i casi è stata deontologicamente rispettata la privacy della diretta interessata, non mostrandola mai in volto anche quando le foto sono state prese da altri portali (che invece le avevano mostrate a volto scoperto). CRONISTORIA WEB E LEGALE DI TIZIANA CANTONE
Fine Aprile 2015: un video in cui una ragazza bella ed appariscente pratica sesso orale al partner, inizia ad apparire su diversi siti hard. Si vociferava da giorni nel napoletano di un video che stava passando di telefono in telefono tramite WhatsApp: quando il video arriva sui portali hard più noti, in alcuni casi reca nella descrizione la definizione generica di “coppia napoletana”, ma in quasi tutti i tag appare il nome di Tiziana Cantone. Quando il video viene scaricato da altri utenti (procedura basilare che può essere effettuata da chiunque con appositi programmi) e ricaricato su altri siti web, o sullo stesso sito del primo upload, il nome di Tiziana inizia ad apparire anche nella descrizione del video. Rendendola immediatamente riconoscibile. A rendere virale il video hard, oltre alla perfetta identificazione della ragazza e alla sua bellezza appariscente, c’è il fatto che Tiziana insulti il suo compagno, facendo capire che lo sta tradendo. Sul finire del video si aggiunge una componente comica, quando un abitante della zona – i due si sono appartati accanto alla macchina all’aperto – si accorge della loro presenza e li rimprovera. Il video gira senza tagli e diventa un piccolo cult, come forse in Italia era successo solo più di un decennio fa con “Forza Chiara”, video circolato anch’esso clandestinamente che ritraeva una coppia impegnata in un rapporto sessuale. Con l’aggravante che la lei fosse minorenne.
Inizio maggio 2015: il video e gli screen di Tiziana diventano oggetto di meme, sfottò ed entrano in pochi giorni a far parte dell’immaginario comune della rete. La bellezza della ragazza e il fatto che il video hard abbia forti componenti tragicomiche (l’apparente tradimento di un fidanzato e il momento in cui la coppia viene scoperta da un abitante della zona, il tutto immortalato in video senza tagli) rendono il filmato ancora più famoso e visualizzato.
Prima settimana maggio 2015: iniziano ad apparire nuovi video di Tiziana Cantone. In tutti i filmati Tiziana è sempre l’unica riconoscibile, ma stavolta la si vede impegnata in atti sessuali con più uomini. Diverse clip di pochi secondi, tra camere da letto e cucine. Trapelano foto personali dai suoi account Facebook e Instagram (chiusi nel giro di pochi giorni). Stampa e siti di gossip iniziano a parlare di Tiziana Cantone come una futura pornostar in cerca di visibilità o di un contratto. Nessuna casa di produzione confermerà mai di aver ricevuto proposte o video da Tiziana, né di averla mai contattata.
Seconda settimana maggio 2015: come segnalato a Wakeupnews (e confermato dalla foto nell’articolo), risulta un avvio di registrazione alla Camera di Commercio di un “marchio di abbigliamento donna di tendenza sexy” a nome Tiziana Cantone (N.B.: era il nome della linea di abbigliamento, non il nome della persona che l’aveva registrata). Su un portale lavorativo per agenti di commercio viene pubblicato l’annuncio per la ricerca di rappresentanti per la linea di abbigliamento. Seguendo la linea logica della pubblicazione dei video, tutto fa propendere verso un evento “commercialmente organizzato” e l’interesse giornalistico nella vicenda scema in attesa di nuovi sviluppi.
Estate 2015: di Tiziana Cantone non si hanno notizie. Prime voci iniziano a far trapelare il fatto che si sia trasferita in Toscana per allontanarsi dal clamore mediatico diffuso alla circolazione dei video, che sono uno dei tormentoni virali dell’estate. Sulla stampa nulla trapela, ma tramite il suo legale Roberta Fogli Manzillo è già partita una causa nei confronti dei siti hard che hanno pubblicato il video integrale, e ai danni dei siti e dei social che ne hanno pubblicato estratti non censurati, in cui Tiziana Cantone è riconoscibile. La legale sceglie di non parlarne con la stampa. Tra i vari siti, come riferito da Filippo Facci in un’ottima ricostruzione de il Post, ci sono Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. Il giudice negherà successivamente il sequestro dei siti: al netto delle visualizzazioni, il filmato era stato scaricato già oltre 200 mila volte. Ossia oltre 200 mila persone ne avevano una copia su un proprio dispositivo, senza che potesse esserne tracciato il percorso. Col passare dell’estate, il “fenomeno” Tiziana Cantone si attenua. Ma Tiziana per tutti è la “troia” e la “zoccola” che ha cornificato il suo compagno.
Dicembre 2015: Tiziana Cantone prova il suicidio ingerendo una dose massiccia di medicinali. (La madre lo riferirà agli inquirenti dopo la morte della ragazza).
5 Settembre 2016: un anno dopo arriva la sentenza ufficiale sulla causa intentata per diffamazione nei confronti dei soli siti internet. La sentenza, sempre riprendendo quanto scritto da il Post, è stata scritta il 10 agosto, ma appare ufficialmente dal 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord dà teoricamente ragione a Tiziana Cantone e contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma nei confronti di 5 dei 10 social citati, Tiziana perde la causa, sembra per un errore degli avvocati nel citare le società di appartenenza fatte oggetto della causa. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva per 5 dei 10 siti citati in giudizio: 18.225 euro più iva. In assenza di una legge sul revenge porn – e non avendo comunque proceduto contro un individuo, ma contro le società e i social che hanno pubblicato – è stato negato anche il diritto all’oblio dal giudice, seppur in maniera a dir poco opinabile: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge sempre dal Post, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». Dopo un anno, secondo il giudice, c’è ancora interesse verso dei video hard che la diretta interessata ha richiesto di far rimuovere un anno fa. Quando al web bastano poche ore per distruggere l’immagine di una persona, per la giustizia un anno non è un periodo di gogna sufficiente.
13 settembre 2016: Tiziana Cantone si toglie la vita impiccandosi nello scantinato della casa di Casalnuovo di Napoli, in cui era tornata a vivere da alcune settimane assieme alla mamma, Maria Teresa Giglio. Il padre, con cui Tiziana aveva smesso di avere rapporti da anni, non appare neanche tra i parenti che ne danno la notizia nel manifesto funebre.
15 settembre 2016: risultano indagati per diffamazione ai danni di Tiziana Cantone quattro uomini, quelli con cui la vittima ha intrattenuto rapporti sessuali in alcuni dei video circolati in rete. Tra questi non c’è il suo ex compagno.
TIZIANA CANTONE, VERITÀ E BUGIE. Dopo la notizia della morte di Tiziana Cantone, i pareri in rete si sono divisi tra coloro che chiedono giustizia per una donna la cui unica colpa era avere una vita sessuale dissoluta, finita in pasto al web, e chi invece sostiene che se la sia cercata. Ancor di più tradendo il suo compagno e vantandosene nei diversi video ripresi. Con i dati giornalisticamente e legalmente in nostro possesso, facciamo chiarezza.
TIZIANA CANTONE ERA CONSAPEVOLE DI ESSERE FILMATA MENTRE FACEVA SESSO CON DIVERSI PARTNER? Sì, ne era consapevole. Lo testimonia il tipo di interazione che ha con gli uomini (soprattutto nel primo video), la presenza di telecamere e telefonini ben visibili e non nascosti, ed il fatto che si rivolga di frequente al suo compagno, dileggiandolo e dandogli del “cornuto”.
TIZIANA CANTONE HA TRADITO IL PROPRIO COMPAGNO IN QUEI VIDEO? No: con S. D. P. (queste le iniziali fatte trapelare da alcuni siti), 40enne napoletano, Tiziana Cantone ha avuto una relazione durata almeno fino a settembre 2015. Secondo quanto fatto filtrare dalla deposizione della madre di Tiziana ai carabinieri, “S. il compagno di Tiziana per un anno e mezzo [...] aveva indotto Tiziana a girare i video con cinque o sei uomini, S. provava piacere nel sapere e nel vedere che lei si prestava a quegli incontri”. Alcuni degli incontri sarebbero stati organizzati addirittura in Emilia-Romagna dallo stesso S., che ha mandato Tiziana a casa di alcuni suoi amici per farla filmare mentre faceva sesso con loro. Una confessione pesante, che difficilmente una madre si sarebbe potuta inventare ex novo. Il compagno di Tiziana aveva impostato il rapporto con lei da cuckold: un cuckold, nel gergo sessuale, è un uomo che prova piacere nel vedere la propria partner avere rapporti sessuali con altri uomini. Sia in sua presenza che in sua assenza. E farsi mandare video in cui la partner lo tradisce sessualmente e lo deride, è una pratica comunemente diffusa – ed ampiamente documentata nel web – dai cuckold. È una informazione troppo specifica per poter essere campata in aria, e la dinamica dei video sembra corrispondere perfettamente a questa pratica. Tiziana Cantone è probabilmente stata vittima, ancor prima che del giudizio feroce del web e della gente, di un gioco sessuale che è degenerato.
TIZIANA CANTONE HA PUBBLICATO SPONTANEAMENTE QUEI VIDEO? No: i video sono inizialmente circolati all’interno di una cerchia di quattro o cinque persone (Tiziana, l’ex compagno e i diretti interessati presenti nei video). Anche questa è una pratica molto comune nel mondo delle “coppie aperte” o dei cuckold. Un conto è l’essere consapevoli di essere ripresi, un altro paio di maniche è diffondere pubblicamente su un sito web o di telefonino in telefonino un video in cui non c’è nessuno strumento a tutela dell’anonimità dei partecipanti. Il tutto si regge sulla fiducia reciproca, affinché i video non vengano diffusi all’esterno del “cerchio magico”. Qualcuno ha rotto il cerchio con il primo video tramite WhatsApp, che è circolato nel napoletano di telefonino in telefonino. Quando è finito sul web, probabilmente per mano di una persona completamente estranea ai fatti, ormai il danno era fatto. E sono saltati fuori tutti gli altri video, come se Tiziana a quel punto fosse la poco di buono da esporre al pubblico ludibrio. Tiziana Cantone ha cancellato nel giro di pochi giorni i suoi account Facebook ed Instagram. Tutto ciò che è apparso su Facebook con pagine che recavano il suo nome, è stato pubblicato da altre persone che erano entrate in possesso dei video.
QUAL È STATA LA POSIZIONE (LEGALE E NON) DELL’EX COMPAGNO DI TIZIANA CANTONE NELLA VICENDA? Oltre all’aspetto meramente sessuale, la madre di Tiziana chiama in ballo S.D.P. sempre nella deposizione dei carabinieri riportata da la Repubblica: “Secondo me i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei. Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi”. Sempre stando a quanto riferito dalla madre di Tiziana, S. le aveva procurato l’avvocato e aveva partecipato alle spese processuali della battaglia giudiziaria contro la diffusione di quei filmati. Compensazione per un senso di colpa diretto (ipotesi nel caso fosse stato lui a far circolare il video) o indiretto (lo hanno fatto circolare altri e se ne è sentito ugualmente responsabile)? Fatto sta che, al momento, l’uomo non è neanche indagato.
QUALI SONO LE COLPE DELLA STAMPA? Il giornalismo in Italia è attualmente un meccanismo perverso e spesso di qualità bassa. Soprattutto sul web, per guadagnare introiti pubblicitari e nuovi inserzionisti, conta fare visite. Un articolo su un avvenimento dai risvolti a luci rosse, magari correlato da video anche non sfacciatamente sessuale, può portare migliaia di visualizzazioni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che tutti hanno voluto fare visite su quel video. Ma un conto è tutelare deontologicamente la privacy dei protagonisti – e Wakeupnews lo ha fatto – ed un altro paio di maniche è gettare in pasto subito volti, nomi e cognomi senza che nessun reato sia stato commesso. Vale per qualsiasi tipo di reato, figurarsi per una vicenda sessuale.
QUALI SONO LE COLPE DEL WEB? In un mio post su Facebook molti mi hanno accusato di aver “assolto” il web. Nulla di più sbagliato. Io assolvo il meccanismo naturale del web, quello attraverso il quale una notizia virale, una foto, un filmato, una volta messi in circolo sono pressoché impossibili da far sparire. Che tutto ciò sia giusto o sbagliato merita una approfondita riflessione ed una legislazione moderna e specifica, che non debba passare dal reato di diffamazione e magari non debba impiegare un anno per obbligare un sito o meno a rimuovere immagini o video caricati senza autorizzazione. Non assolvo invece il senso di deresponsabilizzazione che la rete ha inculcato in molte, troppe persone. Basta leggere una notizia (spesso solo il titolo) per giudicare e farsi un’idea. Nulla di più sbagliato. Tiziana, nel mio post, è stata dipinta nel peggiore dei modi da uomini e donne, perché colpevole di aver tradito il proprio partner e di averlo denigrato. Oggi che abbiamo la pressoché totale certezza che fosse stato esplicitamente S. a chiedere a Tiziana di tradirlo, deriderlo ed umiliarlo, qualcuno ha ancora davvero il coraggio di darle della poco di buono? Ingenua, forse. Superficiale nel fidarsi di sconosciuti, sicuramente. Ma provate a digitare “cuckold Italia” su Google. Troverete 427.000 risultati. QUATTROCENTOVENTISETTEMILA. Tiziana Cantone ed il suo compagno erano un puntino in mezzo ad una galassia. Una galassia perversa, sottile, in cui basta che salti il dente di un ingranaggio per rompere il meccanismo perfetto. Siete liberi di non prenderne parte e di guardare con distacco chi sceglie di vivere così il sesso, certo. Ma no, non siete tenuti a dare della troia a chi ha deciso di entrare nel gioco. Ancor più – e qui fior di psicologi potrebbero dire la loro – in una ragazza che ha vissuto l’assenza totale di una figura paterna di riferimento.
CHIESA E MORALE – Nel mio post su Facebook ho anche chiamato in ballo la Chiesa, colpevole – a mio parere – di essere l’unica che parla di sesso in Italia. E quindi lo fa a modo suo. Un’affermazione che sfido chiunque a contestare, dato che nelle scuole non si fa educazione sessuale, e non si insegna al rispetto del proprio corpo e di quello altrui. Soprattutto in tempi in cui un video su un telefonino, come nel caso di Tiziana, può essere il confine sottile tra la vita e la morte. Un post su Facebook va inteso come tale, e nel mio caso specifico come un forte sfogo di pancia. Rabbioso e sicuramente incompleto, per una morte che sento troppo vicina ai miei tempi e al mio lavoro. So bene che non è la Chiesa la causa prima e unica di tutti i mali, ma è un dato di fatto che, in un paese di cultura fortemente cattolica come l’Italia, lo scandalo suscitato dal video hard privato di un uomo e di una donna, a parità di esposizione, ricade sempre di più sulla donna. Si insulta la donna troia, non l’uomo puttano.
Questo è quanto c’è da sapere su Tiziana Cantone. Una volta per tutte, verità per verità e bugia per bugia. I suoi funerali si sono tenuti oggi alle 15. E fino a quando le cose non cambieranno, continuerò sempre a sostenere che Tiziana è morta perché, in Italia, il piacere è ancora singolare maschile, e le tentazioni sono sempre plurale femminile. Francesco Guarino
La ragazza avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? Ma non è andata esattamente così, scrive "Next Quotidiano" giovedì 15 settembre 2016. Tiziana Cantone avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? La storia dei 20mila euro che Tiziana Cantone doveva pagare. Lo si legge nel dispositivo dell’ordinanza dal giudice del Tribunale Napoli Nord Monica Marrazzo. Il giudice infatti ha condannato Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) alle spese in favore della ricorrente liquidate “in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. Il giudice ha altresì condannato la ricorrente al rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese “che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. In pratica spiega Conchita Sannino oggi su Repubblica: Il giudice ha poi esaminato caso per caso i profili relativi alle testate giornalistiche on line, due delle quali condannate a rimuovere tutte le pagine riguardanti la vicenda. Nel dispositivo, il giudice condanna Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) anche alle spese in favore di Tiziana liquidate «in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Ma al tempo stesso impone alla ricorrente il rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese «che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Il giudice ha anche stabilito che per Tiziana non ci fosse alcun diritto all’oblio, perché la vicenda che la riguarda è troppo recente, risalendo soltanto alla prima metà del 2015. Su questo punto il passaggio della sentenza non lascia dubbi: «Non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività alla conoscenza della vicenda». Decisamente respinta, infine, anche la richiesta di risarcimento danni che il giudice definisce «evidentemente inammissibile in sede cautelare», rimandando la questione al «successivo eventuale giudizio di merito». L’indagine su Tiziana Cantone. Nel fascicolo dell’inchiesta che la Procura di Napoli nord ha avviato sulla morte di Tiziana Cantone saranno acquisiti anche gli atti della causa civile che la 31enne aveva intentato appellandosi al diritto all’oblio e chiedendo a vari social e motori di ricerca di rimuovere i video hard diventati virali. L’inchiesta, coordinata dal procuratore Francesco Greco e dal sostituto procuratore Rossana Esposito, segue per il momento l’ipotesi dell’istigazione al suicidio, ma non si esclude la possibilità di valutare altri reati come lo stalking. Due mesi fa, a luglio, la 31enne aveva ottenuto l’autorizzazione a cambiare il proprio cognome acquisendo quello della madre. Era stata la stessa Tiziana ad avviare la pratica per quel cambio di identità, lo aveva deciso a novembre 2015, cinque mesi dopo la diffusione sul web del video hot che la ritraeva in momenti di intimità con un uomo. Intanto la madre oggi a Repubblica lancia pesanti accuse nei confronti del fidanzato: «Secondo me, lui la plagiava. Andarono a vivere insieme, e durante la sua convivenza io la vedevo cambiata. Tra me e lei c’era un particolare legame eppure lei aveva deciso di allontanarsi e lui mi dava sempre una brutta impressione… anche se mia figlia non mi ha mai raccontato qualcosa in particolare. Solo una volta, prima del Natale del 2015, la vidi sconvolta». Il motivo? «Tiziana — continua sua madre — mi raccontò di alcuni giochetti fatti con quell’uomo. Una sera ritornò di notte, forse era il novembre 2015, riferì che aveva litigato con lui. Era ubriaca. Si rifugiò in casa mia per quella sera. Venni a sapere che avevano fatto un video che aveva avuto una diffusione virale. Voi mi chiedete dei video che poi uscirono… Io posso precisare che gli stessi video furono girati nel periodo della sua convivenza». La donna aggiunge alcuni nomi di uomini, dice che proprio S. la mandò in Emilia a casa di alcuni suoi amici. «Tiziana mi riferì che sempre il suo compagno l’aveva indotta a girare alcuni video per far piacere a lui, con altri uomini. Considerata questa costrizione, lei aveva deciso di avere rapporti sessuali, ripresi con una telecamera, quantomeno con persone che lei gradiva. Il suo compagno, in realtà, non era presente a quei rapporti sessuali, ma provava piacere a sapere che lei andava con altri e nel vedere i filmati. E anche nel filmato più diffuso, in cui si parla di tradire il fidanzato, posso dire che quell’uomo, per me, ne era a conoscenza. In un filmato, quello girato nella cucina della loro abitazione, si sente la voce dell’uomo e compare una sagoma riconducibile a mio avviso a questo suo compagno». Non solo. La madre riprende dopo un altro crollo. «Tra l’altro il compagno di mia figlia cercò di rassicurarmi, nel corso di un nostro dialogo, che nei video diffusi in rete non era presente Tiziana ma c’era un fotomontaggio e che avrebbero provveduto a difenderla». Poi lei lancia l’accusa più pesante. Ma tutta da provare. «Secondo me, i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei». Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi. La mamma sostiene che forse lui voleva lucrare. Quattro indagati per diffamazione. Ci sono intanto quattro persone indagate per diffamazione nei confronti di Tiziana Cantone, la 31enne morta suicida protagonista di un video hot diventato virale un anno fa sul web. E anche questa iscrizione nel registro degli indagati, a quanto si è appreso, risale ad un anno fa, quando cioè Tiziana presentò una querela contro le quattro persone alle quali aveva mandato via whattapp le immagini hard che poi hanno fatto il giro del web, con milioni di click, senza il suo consenso; l’origine della fragilità che poi portato la ragazza a impiccarsi con un foulard due giorni fa in uno scantinato. A indagare il procuratore di Napoli Fausto Zuccarelli e dal pm Alessandro Milita. La Procura di Napoli Nord invece, competente per territorio rispetto quel decesso, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
EDIT: In una precedente versione dell’articolo avevamo calcolato male il rimborso dovuto alla Cantone. L’edit con la citazione di Repubblica Napoli spiega invece come sono andate le cose.
EDIT 2 (16 settembre 2016): Elisabetta Garzo del tribunale di Napoli spiega oggi a Repubblica perché la sentenza condannava la Cantone al risarcimento delle spese: Quando si è rivolta a voi? «Il ricorso è stato presentato circa un anno fa. Le parti in gioco erano tantissime. Una volta costituite ci sono state un paio di udienze, non di più. L’8 luglio il giudice Marrazzo le ha invitate alla discussione. Ha depositato il provvedimento ad agosto. È stato pubblicato il 5 settembre. L’iter è stato velocissimo». La ragazza è stata anche condannata a pagare alcune spese legali. Non è assurdo? «Nei confronti di alcuni siti internet è stata ritenuta soccombente perché in sede civile la domanda non può essere proposta in maniera non precisa. Ad esempio, per quanto riguarda Yahoo, è stata rivolta nei confronti di Yahoo Italia che non è responsabile del controllo e quindi non è stata accolta. Nel momento in cui il ricorrente è soccombente, viene condannato alle spese».
Tiziana Cantone, parla Luca: «Io, indagato ma ci scambiavo solo foto osé», scrivono Marco Di Caterino e Gigi Di Fiore il 16 Settembre 2016 su “Il Messaggero”. Sono partiti in cinque. Tutti uomini, tutte persone che, utilizzando la chat di Messenger, hanno dialogato con Tiziana dal dicembre del 2014 al gennaio del 2015. A loro, Tiziana inviava foto «in gran parte in costume da bagno e altre a seno nudo» come si legge nell'esposto denuncia presentato alla Procura di Napoli nella primavera del 2015. Cinque, due sono fratelli e di Salerno. Altri di differenti località. Dopo una prima scrematura, il pm Alessandro Milita decise di iscrivere nel registro degli indagati quattro dei nomi indicati nella denuncia. Uno dei fratelli salernitani, giovane imprenditore trentenne, si schermisce: «Non devo spiegare proprio nulla, la storia sta per essere archiviata e io non c'entro nulla con quello che si legge in queste ore». Poi il rinvio, per qualsiasi questione tecnico-giuridica, al difensore, l'avvocato salernitano Marco Martello che dice: «Contiamo di poter comunque arrivare all'archiviazione, dimostrando che, con il video, i miei assistiti non c'entrano». Gli avvisi di garanzia partono un anno fa. Da allora, la Procura non è riuscita ancora ad individuare con certezza chi tra i nomi segnalati nell'esposto sia andato oltre lo scambio di foto in chat e abbia diffuso il video che Tiziana aveva acconsentito a girare, ma senza aver mai avuto intenzione di diffonderlo in pubblico. La prima copia del video compare su un sito a luci rosse il 25 aprile del 2015. Tre giorni dopo, c'è già la moltiplicazione su altre pagine di Internet. I social network, come Facebook, vietano la pubblicazione in chiaro di video con immagini esplicite di sesso. La divulgazione segue altre strade, compresa l'applicazione WhatsApp degli smartphone. Insomma, una valanga inarrestabile, dove è diventato difficile scoprire chi è stato il primo a «postare» le immagini. C'è, però, la denuncia di Tiziana che fa in modo esplicito cinque nomi, come le persone che ricorda destinatari del video che aveva girato. Esclude, nell'elenco dei sospettabili, i presenti alle riprese del video. Uno dei cinque interlocutori di Tiziana in chat era Luca. Nell'esposto, viene indicato con il nickname scelto per aprire il suo profilo Facebook: Luca Luke. Con quel nome, hanno un profilo oltre una ventina di uomini. Luca è sereno, convinto di non avere nulla da nascondere. Non vuole rivelare la sua attività, né fornire dettagli sulla sua vita. Ma sulla vicenda in cui è indagato, invece, spiega: «Ricordo che all'epoca ci fu uno scambio di foto. E alla fine nella denuncia, che conosco bene perchè ho ricevuto un avviso di garanzia, vengono indicate una serie di persone cui sono state inviate proprio delle foto. E, per quanto mi riguarda, le cose stanno proprio in questo modo e cioè io ho ricevuto via chat delle foto, ma video assolutamente no».
Le colpe della Procura della Repubblica di Napoli. Tiziana, il pm attese un anno. I video hot rimasero in rete, scrive Gigi Di Fiore Venerdì 16 Settembre 2016 su "Il Mattino". L'inchiesta è stata aperta un anno fa. Subito dopo la presentazione della denuncia querela, che Tiziana affidò al suo avvocato penalista Fabio Foglia Manzillo. È un fascicolo sull'ipotesi di diffamazione per la diffusione del famoso video girato dalla ragazza con il suo consenso. Già un anno fa, il pm Alessandro Milita con il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli decise di inviare un avviso di garanzia a quattro dei cinque giovani segnalati nell'esposto. Nell'atto si parlava di «gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori». Che poi era essenzialmente lo scambio di foto, in prevalenza attraverso la chat di Facebook. Foto, si leggeva nell'esposto, «in gran parte in costume da bagno o a seno nudo». Poi, l'invio anche del video girato con il consenso di Tiziana. Cinque nomi, appunto, di sospettati della diffusione senza consenso, qualcuno indicato con il nick scelto per il profilo su Facebook. Due sono fratelli, giovani imprenditori salernitani. Dice il loro avvocato Marco Martello: «Gli avvisi, come atto dovuto, risalgono a diversi mesi fa. Eravamo convinti si andasse verso una richiesta di archiviazione. Presto, ci presenteremo in Procura chiedendo di essere di nuovo sentiti. Il mio assistito non c'entra con la diffusione via Internet di quel video». Il filmato, in un file su pennetta Usb, venne depositato in Procura. Inizialmente, l'avvocato Foglia Manzillo ne chiedeva l'oscuramento su Facebook. Spiega il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli: «Il collega Milita, oberato di fascicoli di rilievo come quello sulla ex Resit e sul processo Cosentino, si occupò anche di questa vicenda. Con una motivazione scritta, spiegò che non era possibile sequestrare le pagine del social network per un video che aveva subito moltiplicazioni successive in diversi siti Internet». Di fatto, dopo l'iscrizione nel registro degli indagati, il procedimento per diffamazione a carico dei quattro giovani è rimasto in sospeso. Poi, la drammatica evoluzione della vicenda, con il suicidio di Tiziana che, nell'esposto, indicava come suo domicilio effettivo la residenza del compagno Sergio Di Palo. In un'occasione, proprio Di Palo, imprenditore nel settore edile, aveva accompagnato Tiziana nello studio napoletano dei suoi avvocati. È ora probabile che, nei prossimi giorni, il fascicolo napoletano venga chiuso. Lunedì prossimo, ci sarà un incontro tra il procuratore capo di Napoli nord, Francesco Greco, e il procuratore aggiunto di Napoli, Fausto Zuccarelli. C'è da verificare l'ipotesi di una unione dei due fascicoli penali aperti nei differenti uffici. Quello della Procura Napoli nord ha appena due giorni. È scaturito dalla morte di Tiziana, è a carico di ignoti sull'ipotesi dell'istigazione al suicidio. Dopo dichiarazioni a verbale della mamma di Tiziana, che ha parlato di «plagio» dell'ex compagno sulla figlia, facendo quasi capire che sulla registrazione dei video fosse stata costretta proprio da lui, sicuramente Sergio Di Palo verrà sentito nei prossimi giorni come teste dal pm Rosanna Esposito della Procura di Napoli nord. Di lui gli inquirenti parlano come di un teste «figura essenziale» per la ricostruzione dell'accaduto.
Il mistero delle accise ritrattate. La ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale», scrive Next Quotidiano sabato 17 settembre. C’è ancora un mistero nella storia di Tiziana Cantone. Ieri sono i nomi degli indagati nel procedimento per diffamazione – che sono sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano; la donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video – ma oggi, come spiega Conchita Sannino su Repubblica, si comprende che tutto probabilmente finirà in un’archiviazione, visto che la Cantone ha ritrattato le accuse. Ecco cosa scrive Tiziana nella querela presentata in Procura il 20 maggio 2015. «Quello che sta accadendo assume i connotati di una totale devastazione nei confronti della mia persona, che già di per sé ha profili di psicolabilità». E aggiunge: «È vero che sono stata una stolta sprovveduta a fare giochetti stupidi con persone a me sconosciute, ma è anche vero, che quanto adesso sta accadendo mi avvicina in maniera veloce a istinti di suicidio». Non solo: «Questa gogna provoca danni incalcolabili in me, pregiudica in maniera assoluta e irreparabile il mio futuro di ragazza di 30 anni». Parole che, a rileggerle il giorno dopo i suoi funerali, consegnano l’immagine di una inesorabile solitudine. Quelle pagine stanno ora per essere acquisite dalla Procura di Napoli nord-Aversa, dopo che il procuratore capo Francesco Greco ha avuto contatti con l’aggiunto Fausto Zuccarelli e il pm Alessandro Milita (il magistrato dell’antimafia, che fu già nel mirino dei killer di Gomorra) che procedono, a Napoli, con l’accusa di diffamazione. Ma la ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale». Tre tappe. Tiziana chiede aiuto la prima volta il 29 aprile 2015. Si nasconde dietro una piccola bugia. «Ho smarrito il mio iPhone, e purtroppo stanno circolando delle scene intime, dei video e delle foto», è la denuncia. Passa un mese e il 20 maggio la storia cambia. Tiziana consegna 8 pagine durissime in cui punta il dito contro cinque uomini, ai quali ha inviato il materiale. Sono loro, per Tiziana, ad aver diffuso in Rete, presso altri utenti o siti quelle foto e scene di sesso. Lei fa i nomi di: Christian, Antonio, Enrico, Luca, e un altro Antonio. Ribadisce che loro le chiesero successivamente di incontrarla «per passare dal gioco virtuale all’incontro reale» e lei si rifiutò. Il sospetto è che, per sfregio e per punirla, li abbiano poi fatti circolare. Tiziana accusa: «Poiché questo video è stato inviato da me solo ai signori Christian, Antonio, Enrico, Luca e Antonio, i predetti lo hanno diffuso in Internet senza la mia autorizzazione. Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro». Quattro di loro sono ora indagati per diffamazione. È verosimile, tuttavia, che tutto finisca con un’archiviazione. Il motivo? Da ieri è noto. Passano quattro mesi e il 23 ottobre 2015 Tiziana va in Procura, viene sentita e ritratta il senso delle accuse. «Non era mia intenzione addita re le responsabilità delle diffusione su quegli uomini, loro possono solo essere a conoscenza e offrire elementi». Perché Tiziana Cantone ha ritrattato?
Tiziana, i verbali shock: "Gogna mediatica, mi stanno spingendo al suicidio". La denuncia, nel maggio 2015, della donna che si è tolta la vita per i video hard sul web: "Sono devastata, per strada mi aggrediscono", scrive Conchita Sannino il 17 settembre 2016 su "La Repubblica". Tre racconti, tre versioni diverse affidate alla Procura di Napoli. Ma in comune, tra i tre atti, c'era la disperata ricerca di aiuto da parte di Tiziana. E quelle parole firmate da lei che ora mettono i brividi: "Questa gogna mediatica cui sono sottoposta di ora in ora mi sta portando al suicidio". "Repubblica" è in grado di ricostruire qualcosa che assomiglia, complici anche le (incolpevoli) leggerezze di una bella e libera trentenne, a un calvario giudiziario: civile e penale. "La mia vita è devastata. Sono anche oggetto di episodi di aggressività perché mi riconoscono per strada", ecco cosa scriveva Tiziana nel suo appello-testamento. Parole che raggelano. Tutto comincia con una denuncia di aprile, in cui Tiziana racconta semplicemente di aver smarrito il suo Iphone. Racconta che aveva del materiale incandescente su quel cellulare, che ora sta girando. Ma ovviamente non è la verità. Si arriva al 20 maggio 2015: in questa data consegna la querela circostanziata. Otto pagine. Tiziana puntava con decisione il dito contro cinque uomini ai quali aveva inviato quei video hot - senza averli mai incontrati - e dei quali si dice sicura che sono stati loro a divulgarli su Internet. Forse per ripicca dopo i "no" che lei aveva offerto alle loro richieste di "incontrarsi dal vero". Poi accade un fatto strano. Dopo quattro mesi, ad ottobre 2015, per motivi che sono - sarebbero - tutti da spiegare, lei stessa si ripresenta in Procura, si fa sentire dalla Guardia di Finanza e ritratta quasi tutto. Dice che non voleva accusare quegli uomini. Dice che forse si è spiegata male. Racconta che i nomi di quegli uomini sono veri, che davvero "essi sono stati gli unici" destinatari dei suoi video e foto hot: ma che lei ne ha fatto il nome non per accusarli, ma perché ipotizza che, a loro volta, quelle persone "potevano essere a conoscenza di elementi utili a ricostruire" l'identità dei veri responsabili della divulgazione. In pratica, consegna ai pm qualcosa che assomiglia a una remissione di querela. Ora resta il dubbio di difficile soluzione, anche negli inquirenti: qualcuno ha indotto Tiziana a rimangiarsi le accuse? Qualcosa, o qualcuno, l'aveva spaventata? Ecco il racconto (quasi) integrale di Tiziana, datato maggio 2015. "Voglio premettere che io ho intrattenuto un gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori: Antonio ed Enrico; Luca e Antonio. Il gioco consisteva nell'inviare via internet agli stessi mie fotografie provocanti, poiché gran parte sono in costume da bagno ed altre a seno nudo. Inoltre, io ho fornito loro video pornografici nei quali chiaramente compio qualche atto sessuale. Questo gioco virtuale è durato un paio di mesi, precisamente da dicembre 2014 a gennaio 2015. Nel febbraio ho interrotto i rapporti con costoro, perché essi mi chiesero di incontrarci e di trasformare il nostro rapporto virtuale in qualcosa di reale. Ma io mi negai, poiché non era mia intenzione trasformare il gioco da virtuale in reale e conseguentemente furono interrotti i rapporti in via telematica". Passa poco tempo, rispetto al rifiuto di Tiziana, e cominciano a girare i video e le foto su siti porno, profili personali. Sta cominciando la tempesta. È quella che la porterà alla tomba. Aggiunge Tiziana: "Devo precisare che i rapporti tra di noi erano esclusivamente via telefonica, o meglio attraverso l'app Whatsapp e con lo scambio di messaggi con foto e filmati allegati e con l'intento che questi rimanessero esclusivi tra di noi e non venissero divulgati in rete o con altri mezzi di comunicazione". Invece non andrà così. E lei li accusa: "Poiché questo video è stato da me inviato solo ai signori Christian, Antonio ed Enrico, Luca e Antonio, con la mia esplicita intenzione che tale video rimanesse in esclusività tra di noi, i predetti Christian, Antonio ed Enrico, Luca Luke e Antonio lo hanno diffuso in internet senza la mia autorizzazione. Questa vicenda mi sta ammazzando la vita". Aggiunge ancora Tiziana: "È vero che sono stata una stolta, sprovveduta a fare giochetti stupidi, di invio - scrive - con persone che neanche avevo incontrato, a me sconosciute. Però la mia vita ora ne è devastata". Ottobre 2015. Tiziana torna in Procura, e stavolta alleggerisce di molto il peso delle accuse contro quegli uomini. Racconta: "Non intendo accusare quelle persone della divulgazione. A rileggere ora la querela del maggio scorso, mi accorgo di averli additati come responsabili, ma ribadisco che coloro che ho citato potevano solo essere a conoscenza" di come fossero andate le cose". E ancora: "Anche se ho agito su un impeto, non è mai stata mia intenzione di indicarli come responsabili". Sedici mesi dopo, l'unica certezza è che Tiziana è morta. Suicida. Condannata dalla solitudine in cui è finita. E che i suoi amanti virtuali incasseranno, verosimilmente, un'archiviazione.
IL MEA CULPA DEI MEDIA.
Tiziana Cantone: il caso sul web, il suicidio e le nostre negligenze, scrive Peter Gomez il 14 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Ilfattoquotidiano.it, al pari di molte altre testate e siti online, si è comportato in maniera gravemente negligente sul caso di Tiziana Cantone, la ragazza di Napoli che si è suicidata dopo la diffusione sui social network di una serie di suoi video hard. Nella primavera del 2015, quando Tiziana era già diventata suo malgrado una star del web, anche il web-giornale che dirigo ha pubblicato un pezzo sul suo caso. Un articolo che dava conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Nel pezzo si raccontava come venissero vendute magliette che riportavano una frase da lei pronunciata, si parlava dei gruppi Facebook a lei dedicati, delle parodie e dei tanti video satirici che spopolavano su YouTube. Sbagliando avevamo trattato la cosa come una sorta di fenomeno di costume e avevamo come altri ipotizzato che la vicenda potesse essere un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice. L’errore commesso è evidente e innegabile. Non eravamo davanti a un caso di costume, ma un caso di cronaca che come tale andava trattato e approfondito per poi avere in mano elementi sufficienti per decidere se pubblicare o meno. Detto in altre parole non ci saremmo dovuti accontentare del fatto che la povera Tiziana fosse introvabile, ma avremmo dovuto chiedere ai nostri collaboratori di cercare i suoi amici e familiari per capire cosa era realmente accaduto. E credo che se avessimo fatto fino in fondo il nostro mestiere quel pezzo del 2015 non sarebbe mai finito in pagina. La scorsa settimana un giudice, su richiesta dei legali della ragazza, ha ordinato di rimuovere i contenuti su Tiziana a Facebook, Google, Yahoo e YouTube e a due giornali online che avevano anche ripreso i suoi video. In seguito alla notizia della sentenza – che a noi era francamente sfuggita – nei giorni successivi centinaia tra siti e testate online hanno cancellato quello che in quella primavera avevano scritto. Ieri notte poi, dopo la morte della giovane donna, da internet sono sparite altre centinaia di migliaia di pagine. Alcuni quotidiani hanno oggi ipotizzato che il suicidio sia stato deciso dalla ragazza per lo sconforto di vedere nuovamente la sua storia riprendere vigore in Rete in seguito alla notizia della sentenza. Non sappiamo come siano andate le cose. E davanti alla tragedia non crediamo che sia nemmeno importante capirlo. È giusto e doloroso dire però che anche noi abbiamo avuto una parte, sia pur piccola, in questo misfatto compiuto dal web. Poco importa che senza il nostro pezzo del 2015 le cose non sarebbero cambiate di una virgola. Quanto accaduto non può e non deve essere risolto con la semplice cancellazione di ciò che era stato scritto. Impone una riflessione, già iniziata, su quello che possiamo fare qui a ilfattoquotidiano.it. Anche davanti a storie e vicende già pubblicate da altri o già conosciute tramite i social da milioni di persone, il nostro giornale online deve riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare. Non per dare lezioni a nessuno (che evidentemente mai come in questo caso non siamo in grado di dare), ma per poter dire a noi stessi che abbiamo fatto fino in fondo, con correttezza, il nostro dovere. Ogni giorno pubblichiamo più di 120 contenuti. A ciascuno di essi dobbiamo dare la medesima cura. E se non siamo in grado di farlo, a causa del super-lavoro, dobbiamo non pubblicare. Il dibattito, che come sempre in questi casi, si è aperto sulla forza distruttrice dei social è senza dubbio importante. Così come sono importanti tutte le raccomandazioni ripetute agli utenti sugli enormi rischi legati alla diffusione di filmati e immagini potenzialmente imbarazzanti. Ma oggi è il caso che qui si parli di noi, delle nostre responsabilità e delle nostre manchevolezze. Questo solo mi sento di dire a chi ci legge, convinto che ogni altra parola sia di troppo.
Tiziana Cantone: quando gli sciacalli si riscoprono moralisti, scrive Stefano Casagrande il 15 settembre 2016. All’indomani del suicidio di Tiziana Cantone sul banco degli imputati ci sono due categorie. Gli uomini (tanto per non generalizzare, ne abbiamo già parlato qui) e i social media. O più generalmente “il popolo del web”, termine che personalmente ritengo un abominio ma è tanto caro ai giornalisti mainstream. Qualcuno s’è addirittura spinto indicando quali sono le pagine Facebook che avrebbero spinto Tiziana all’insano gesto, indicando nomi e cognomi degli admin. Ora, intendiamoci: esistono pagine Facebook che hanno la potenzialità di creare veri e propri tormentoni giovanili (Escile, Andiamo a comandare, Ti ammazzo ucciso e amenità varie) ed esistono collegati a queste pagine gruppi più o meno nascosti dove i fan si ritrovano per discutere e lanciare le nuove mode. Ma il loro ruolo (che esiste, sia ben chiaro) è minoritario nella gestione e nell’esplosione di fenomeni di costume. Lo stesso “Andiamo a comandare” ne è un esempio: nato in una di queste pagine Facebook come “tormentone” allegato a qualche immagine è arrivato al successo nazionale solo tramite una canzone prodotta da Fedez, cantante “nazionalpopolare” e giudice di X Factor. Non propriamente un fenomeno underground. La stessa cosa per il video di Tiziana Cantone. La sua viralità è cominciata con l’arrivo del video in una di queste pagine stile Mad Magazine (o come direbbe qualcuno meno attempato: 4Chan)? Sì, probabile. Ma la sua esplosione non è stata causata dal “popolo del web” ma dai media ufficiali. Quelli bravi e responsabili. Elisa D’Ospina, giornalista de Il Fatto Quotidiano, aveva scritto un articolo dove il video veniva indicato come possibile azione di “marketing di una futura pornostar”. Ora la stessa twitta addolorata “La storia di #TizianaCantone è l’esempio di quanto in fondo siamo schiavi del giudizio altrui e mai realmente liberi”. Radio Deejay, terza radio più ascoltata a livello nazionale, aveva fatto diventare parte del video un jingle per “Deejay Chiama Italia”. E se la cava con un post di scuse talmente generiche da non dire assolutamente niente. FanPage, il cui direttore da 24 ore non riesce a twittare altro che accuse verso la metà del genere umano di cui fa parte, aveva dedicato più articoli al fenomeno con descrizioni morbose del video, video pixellati e titoli inquietanti come “Napoli, dopo il video hard su Whatsapp è “caccia” ai due amanti focosi”. In un momento dove l’informazione “tradizionale” rincorre i fenomeni web e concede loro una vetrina nazionale per non bucare nessuna news e recuperare ogni singolo click dove inizia la colpa del “popolo del web” e dove quella dei media ufficiali? Stefano Casagrande
TIZIANA, SUICIDA PER VIDEO HARD: TOSCANI SHOCK, "È UN PO' FESSACCHIOTTA". Scrive Giovedì 15 Settembre 2016 “Leggo”. Ancora un parere discutibile riguardo il suicidio di Tiziana Cantone. «Non voglio insultarla, ma è un pò fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale?». È il commento choc del fotografo Oliviero Toscani sul caso della ragazza suicida per i suoi video hot diffusi in rete. «È colpa sua, solamente sua», è l'affondo di Toscani. «Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L'ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo». «I cretini - ha detto ancora Toscani - sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare». «Devi sapere che può accadere - ha aggiunto - non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l'ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso». Il fotografo non è nuovo a prese di posizioni provocatorie, che in alcuni casi gli sono costate anche delle querele, come quando definì i veneti «un popolo di ubriaconi, alcolizzati atavici» (il processo è finito con un'archiviazione). Ma sono state soprattutto le sue foto, usate per le campagne pubblicitarie o come manifesti di film (per Amen di Costa Gavras trasformò una croce cattolica nella svastica nazista), a fare «scandalo». I casi sono numerosissimi. Basti citare il fotomontaggio (per una campagna Benetton) che ritraeva il bacio tra Benedetto XVI e l'imam di Al-Azhar, e quello tra Obama e il presidente cinese Hu Jintao: un caso che fece infuriare tutti, dalla Sante Sede alla Casa Bianca.
Consigliere PD attacca Tiziana Cantone: “Cercava notorietà, non era una santa”. Walter Caputo, consigliere del PD a Torino, ha scritto su Facebook: "Lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa", scrive "FanPage" il 15 settembre 2016. Sta facendo discutere l'affermazione fatta da Walter Caputo, consigliere per il Pd alla circoscrizione 4 di Torino, che ha deciso di dire la sua sulla vicenda sul suicidio di Tiziana Cantone, la ragazza che si è tolta la vita dopo che filmati in atteggiamenti intimi che la immortalavano sono stati diffusi sul web. Secondo il democratico "lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa".
Tiziana Cantone, anche i vip scherzarono sul video hard, scrive Veronica Cursi il 14 Settembre 2016 “Il Gazzettino”. «Stai facendo un video? Bravo»: quel tormentone che era passato di social in social, che aveva macinato migliaia di click e che si è trasformato in una trappola mortale per Tiziana Cantone, la ragazza di 31 anni che si è suicidata ieri per la vergogna di un suo video hard circolato in rete, aveva contagiato anche qualche vip. Su Youtube tra decine di parodie, fotomontaggi, spuntano infatti ben due video postati circa 8 mesi fa: protagonisti sono due calciatori Paolo Cannavaro e Floro Flores. Nel primo filmato parodia si vede l'attaccante del Chievo dentro un supermercato mentre si domanda: «Ma dove sta che non riesco a trovarlo?». Poi il telefonino riprende Cannavaro accovacciato vicino ad alcuni succhi di frutta: «Paolo ma dov'eri?», domanda Flores e lui risponde: «Ma stai facendo un video? Bravo», mostrando il contenitore del succo di frutta, la cui marca si chiama appunto "Bravo". Nel secondo filmato invece la coppia Cannavaro-Flores è stesa su due letti. Cannavaro guarda in camera sotto le lenzuola e dice: «Stai facendo un video? Bravo». Risate, imitazioni, prese in giro. Come tante, troppe, finite sul web. Video che ancora oggi, dopo la sua morte, circolano liberamente in rete. Tiziana era diventata un "fenomeno" a sua insaputa. Era diventata famosa. Lei che in realtà aveva cambiato nome, città, lavoro, lei che avrebbe fatto di tutto pur di scomparire per sempre. E alla fine, purtroppo, ci è riuscita.
"L'ha rimosso subito il vigliacco": Lucarelli contro chi insulta Tiziana. Selvaggia Lucarelli non ci sta e dalla sua pagina facebook smaschera un musicista dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Spero che la famiglia di Tiziana lo denunci", scrive Marta Proietti, Mercoledì 14/09/2016, su "Il Giornale". Gli insulti nei confronti di Tiziana, la 31enne campana che si è suicidata ieri sera dopo essere diventata famosa sui social per un video hot, non si placano neanche dopo la sua morte. Selvaggia Lucarelli non ci sta e pubblica sulla sua pagina facebook il commento di un musicista membro dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Ti è piaciuto zocciliare e farti guardare?!?Adesso non ti resta che da un foulard penzolare...stai facendo il video?!? Brava...ahahahahah Spero che da domani tutte quelle come lei facciano la stessa fine!!! Tutte da un foulard a penzolare!!!". Immediata la risposta di Selvaggia: "Caro Antonio Leaf Foglia, visto che godi del suicidio di una ragazza (anzi, di una troia come la definisci più volte nei commenti) e visto che sei anche un musicista presso l'orchestra sinfonica a Salerno e non solo per cui immagino che un po' di popolarità non ti dispiaccia, eccoti servito! Ti regalo un giorno da "Tiziana Cantone". Sperimenta sulla tua pelle come ci si sente ad essere lo zimbello o la merda del giorno suo web. Stai facendo il video? Bravo! Ps: spero che la famiglia di Tiziana lo denunci". L'uomo ha subito cancellato il post ma, si sa, sul web è inutile. Qualcuno l'ha già letto e fotografato. E così la Lucarelli affonda il coltello: "L'ha rimosso in 10 minuti il vigliacco. Troppo tardi Antó. E chiudi la bacheca la prossima volta se non vuoi condivisioni ai tuoi status. Intanto sperimenterai due cose: a) sul web tutto resta. Specie quando si tengono le bacheche aperte come la tua B) quello che scrivi qui ha delle conseguenze. Le ha avute per Tiziana. Spero che l'orchestra sinfonica di Salerno si vergogni, come dovrebbe essere in memoria di Tiziana e per rispetto di tutte le donne, di averti tra i suoi musicisti, così una piccola conseguenza tocca pure a te. Spero che si vergogni la curva del Salerno calcio ad ospitarti allo stadio. E che anziché suonare in un tributo a Vasco da ora in poi, al massimo, ti facciano suonare in un tributo a Tiziana".
TIZIANA CANTONE NON L’ABBIAMO AMMAZZATA NOI, scrive Flavia Piccinni il 14 settembre 2016. Questa mattina non avevo idea di chi fosse Tiziana Cantone, e ancora adesso non l’ho ben capito. Tiziana Cantone come ce la raccontano oggi i giornali è una ragazza campana di 31 anni protagonista di quattro video pornografici amatoriali, che dopo la loro diffusione ha ricevuto migliaia di offese, è stata investita da parodie, ha lasciato il suo paese di provincia e il ristorante dei genitori dove lavorava per cercare una nuova vita e una nuova identità in Toscana. Di Tiziana Cantone non sappiamo niente altro. Non abbiamo idea di chi fosse. Non abbiamo idea nemmeno di quella lunga sfilza di idiozie che costruiscono l’empatia: non conosciamo quale fosse il suo piatto preferito, cosa amasse guardare in televisione, se le piacesse il cinema o la musica. Sappiamo che ha fatto del sesso (e chi non lo fa?) e che è stata ripresa, sbattuta online senza il suo consenso, trattata come merce di scambio e come oggetto di irrisione. Bullismo. Vittima. Diritto all’oblio. Privacy online. Mancanza di privacy online. Italia bigotta. Italia assassina. I killer siamo noi. No, i killer sono quegli uomini bastardi: quelli che hanno messo il video online, quelli che l’hanno guardato, quelli che l’hanno condiviso, quelli che l’hanno parodiato. Facciamo tutti sesso e video fino a quando non perdano significato. Se lo meritava. Non se lo meritava. Regaliamo più foulard alle troie. Un fiume di parole ci ha sommerso. Abbiamo tutti cercato il video, alcuni l’hanno trovato, altri non l’hanno comunque guardato. Abbiamo tutti pensato che una cosa del genere non ci potrà mai accadere, perché noi siamo troppo per bene. E abbiamo pensato che non è giusto giudicare, giudicando. Tiziana Cantone si è ammazzata per essere lasciata in pace. Si è ammazzata per mettere la parola fine a quel “Stai facendo un video? Bravoh!” che invece continuerà a rappresentarla per sempre. Insieme ai frame che la immortalano con gli occhi bassi, le labbra umide, l’aria eccitata. Tiziana Cantone distesa su un divano. Tiziana Cantone immortalata nella sua vita privata, che diventa pubblica per un sinistro e perverso gioco moderno. Almeno, facciamole un favore: evitiamo di scandalizzarci, smettiamo di essere ridicolmente puritani. Ipocriti. Tiziana Cantone ha rinunciato a lottare, stremata, quando è stata ritenuta consenziente (dobbiamo ancora capire di cosa) e condannata a pagare 20mila euro per le spese processuali ai motori di ricerca che aveva portato in tribunale. Adesso tocca a noi prendere il testimone. Fare in modo che il diritto a fare sesso con chi vogliamo, a essere protagoniste di video pornografici, a venire dimenticate e ancora a vestirci come vogliamo, a praticare fellatio a chi crediamo, a tradire e ad amare diventino una realtà anche nel nostro bigotto Paese. Dentro questa storia c’è tutta la nostra insicurezza di persone. La nostra necessità di sentirci meglio degli altri. Il nostro bisogno di giudicare. Eppure, fino a quando non capiremo che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di Paese vogliamo costruire, non potremo dire che Tiziana Cantone siamo noi. Fino a quando giudicheremo un video rubato, le fotografie della nostra vicina di casa in biancheria intima, una coppia che fa sesso, due uomini che si baciano, due donne che si baciano saremo soltanto la fotografia in bianco e nero di quello che l’Italia nel 2016 dovrebbe essere: un Paese libero, non giudicante, aperto all’amore e alle forme di espressione sessuale di ognuno. Il sociologo del web: «Gli unici anticorpi della rete siamo noi».
Dopo il caso della ragazza che si è suicidata perché alcuni suoi video hot erano finiti in rete e lei era stata sottoposta alla gogna, abbiamo sentito Giovanni Boccia Artieri: «Il colpevole non è il mezzo la responsabilità è di un unico e complesso ecosistema», scrive Andrea Scutellà il 15 settembre 2016 su “Gazzetta di Reggio”. I suoi video hard finiscono in rete, giovane si suicida per la vergogna. Aveva anche cambiato identità. Lei stessa avrebbe inviato per gioco quelle immagini ad alcuni amici, uno dei quali l'avrebbe tradita trasmettendo il video che a catena è diventato virale. Messa alla gogna aveva provato a cambiare identità, poi non ha resistito. Aveva anche vinto una causa con Facebook per far rimuovere i contenuti nei quali veniva presa in giro. «Qui c’è la responsabilità di un unico e complesso ecosistema». La tragedia della ragazza campana che si è uccisa in seguito al video hard virale che le ha rovinato la vita, porta sul banco degli imputati non solo i new media, ma un cortocircuito dell’informazione per cui il sociologo Giovanni Boccia Artieri vede un’unica soluzione: gli utenti. «Il diritto all’oblio - spiega - è una falsa illusione, gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
Cosa ci insegna questo evento tragico sui new media?
«Questi mezzi amplificano i comportamenti sociali, un fenomeno come quello che è accaduto ha diversi livelli di responsabilità. Vanno dal singolo che produce il contenuto fino a chi partecipa condividendolo, a chi mette il “mi piace”, a chi ricercando su google lo rende ancora più visibile perché aiuta un algoritmo a portare notorietà al fatto».
Dal punto di vista morale, la semplicità del gesto della condivisione, il clic, non rischia di farci sentire meno responsabili di quello che pubblichiamo sulle nostre bacheche?
«Sì, è chiaro. Chi condivide un contenuto, spesso lo fa senza neanche aprire o approfondire, ma non è questo il caso. La logica di condivisione dei social si inserisce nella volontà dei singoli di stare dentro le conversazioni del momento: quello di cui parlano tutti, di cui parlano i tuoi amici, è un modo di “partecipare a”. Il fatto che questo abbia delle conseguenze è poco trasparente. Noi siamo abituati a commentare ogni cosa anche con toni accesi nella comunicazione interpersonale, spesso viene detto “è una chiacchiera da bar”. Ma lì non c’è una visibilità di massa e aggregata della nostra opinione, mentre nei social media sì».
Quindi la cattiva informazione diventa la cassa di risonanza del rumore di fondo dei social network?
«Un caso come questo, che era noto nei flussi dei social network locali, per diventare una notizia da quotidiano nazionale deve avere almeno la visibilità che gli è data da uno locale. In questo video ci sono tutti gli elementi di piattaforme che lavorano su un certo tipo di ironia e che propongono video di nicchia a un pubblico di massa. C’è una donna vittima di un atteggiamento maschilista, c’è un modo dire scherzoso, quel “bravoh” che è diventato un hashtag, un tormentone. Qui c’è la responsabilità di un intero sistema che è complesso».
C’è una confusione tra la dimensione pubblica e quella privata all’interno dei social media?
«Il digitale ci libera dal contesto. In realtà non esiste veramente un privato in spazi che sono pubblici o semi-pubblici. Se io litigo con lei in un commento sulla mia pagina Facebook, chiunque può vederlo e riportarlo. Le contromisure con l’uso, anche biografico, stanno venendo fuori. Mi vengono in mente gli adolescenti che costruiscono con Instagram profili chiusi. Snapchat rende deperibile un video e avverte se qualcuno fa screenshot. Gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
La ragazza si era appellata al “diritto all’oblio”, aveva chiesto e ottenuto in tribunale di essere dimenticata. Ma è possibile nell’era dei social e dei motori di ricerca?
«Anche qui viviamo una specie di falsa illusione. Il diritto all’oblio non ha a che fare con il cancellare cose che ci riguardano dalla rete, può essere applicato quando qualcuno cerca un’informazione su di noi per evitare che venga agganciata a un contenuto esistente, ma il contenuto continua ad esistere. Se io non cerco il nome e cognome della ragazza ma un’altra parola chiave, il video esiste e si può prendere e condividere. Per come funzionano i social le informazioni che ci sono su ognuno di noi si annidano nelle conversazioni di chiunque: è impossibile cancellarle definitivamente».
La paranza dei bambini: adda murì mammà. Giovanissimi, veloci, violenti. Sono i protagonisti dell'atteso romanzo di Roberto Saviano che uscirà per Natale. Eccone un assaggio in esclusiva, scrive Roberto Saviano il 31 luglio 2016 su "La Repubblica". È il 31 maggio 2013, Anna chiama Antonella poco prima di mezzanotte per dirle di non uscire di casa. La conversazione si interrompe per il rumore fortissimo di spari in strada, nei pressi di via Sant'Arcangelo a Baiano, pieno centro storico di Napoli, zona universitaria, a due passi da via dei Tribunali e dai luoghi del turismo. A poche centinaia di metri da lì hanno sfilato gli abiti di Dolce e Gabbana. Il mattino dopo, prestissimo, alle 5.40 Antonella sente al telefono un'altra donna, Angela, che abita a vico Carbonari, prolungamento di via Sant'Arcangelo a Baiano. Anche Angela ha sentito gli spari. Parlano proprio di quello:
Angela: Comunque mi sono scioccata stasera.
Antonella: Qui mi sembra il Far West. Mi hanno detto che stanno tutti(incomprensibile), pure i bimbi... pure...
Angela: Ma è una paranza nuova?
Antonella spiega ad Angela che a Forcella c'è una nuova paranza dove ci sono "pure i bimbi".
Queste intercettazioni telefoniche sono presenti nelle oltre 1.600 pagine dell'ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli, nell'ambito dell'inchiesta sulla "Paranza dei bambini" (condotta dai pm della Dda Henry John Woodcock e Francesco De Falco), che ha portato a 43 condanne, quasi tutte nei confronti di giovanissimi. Nel gergo camorristico "paranza" significa gruppo criminale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L'espressione "paranza dei bambini" indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l'immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell', proprio come questi ragazzini. 1987, 1989, 1991, 1993, 1985, 1988, 1995, 1994: queste le date di nascita dei ragazzi della paranza. "Ciro Ciro", "'o Rerill", "'o Pop", "'o Russ", "'Nzalatella", "Recchiolone" i loro soprannomi. Studiare la paranza dei bambini significa tratteggiare la nuova forma che la camorra napoletana ha assunto: barbe lunghe e corpi completamente tatuati, ma giovanissimi. Queste storie, tra doglie, sforzi, lacrime e muscolose spinte di rabbia, diventeranno il mio prossimo romanzo (questa volta di fiction e non più non-fiction). Si intitolerà La paranza dei bambini e uscirà a dicembre per Feltrinelli. Qui, oggi, trovate una anticipazione il cui titolo è Adda murì mammà, espressione che a Napoli i ragazzi usano di continuo per giurare che ciò che stanno dicendo è vero. Espressione che descrive meglio di molte altre lo spirito della paranza, pronta al sacrificio estremo - perdere la propria madre - per affrontare ciò che nel resto d'Italia sarebbe impensabile. Pronta a perdere tutto, libertà, affetti, vita. Per comandare.
Adda murì mammà. "Dobbiamo costruire una paranza tutta nostra. Nun amma appartenè a nisciuno, sule a nuje. Non dobbiamo stare sotto a niente." Tutti guardavano Nicolas in silenzio. Aspettavano di capire come avrebbero potuto emanciparsi senza mezzi, senza un cazzo. Nemmeno votare potevano, erano in pochi ad aver compiuto diciott'anni. Patenti manco a parlarne, sì e no qualche patentino per i 125. Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L'unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d'uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d'istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte. Diventare mostruosi, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate. "Se creren' ca simm' creature, ma nuje tenimm' chest'... e tenimm' pur' chest'." E con la mano destra Nicolas prese la pistola che teneva nei pantaloni. Uncinò il ponticello con l'indice e iniziò a far roteare l'arma come se non pesasse niente mentre con la sinistra indicava il pacco, il cazzo, le palle. Tenimm' chest' e chest': armi e palle, questo era il concetto. "Nicolas..." Agostino lo interruppe, qualcuno doveva farlo, Nicolas se l'aspettava. L'aspettava come il bacio che avrebbe fatto identificare Cristo ai soldati. Aveva bisogno che qualcuno si prendesse il dubbio e la colpa di pensare: un capro espiatorio, perché fosse chiaro che non c'era scelta, che non si poteva decidere se essere dentro o fuori. La paranza doveva respirare all'unisono e il respiro sul quale tutti dovevano calibrare la propria necessità di ossigeno era il suo. "...Nico', ma non s'è mai visto che facciamo da soli una paranza, così, da subito. Adda murì mammà, Nico', dobbiamo chiedere il permesso. Proprio mo' che alla Sanità la gente pensa ca nun ce sta cchiù nisciun', se ci sappiamo fare ci danno una piazza, fatichiamo per loro." "Agosti', è gente come a te che non voglio, la gente come te se ne deve andare mo' mo'..." "Nico', forse non mi sono spiegato, sto solo dicendo che..." "Aggio capit' buon', Austi', staje parlann' malament'." Nicolas si avvicinò, tirò su col naso e gli sputò in faccia. Agostino non era un cacasotto e provò a reagire, ma mentre stava caricando la testa in direzione del setto nasale, Nicolas lo prevenne e si scostò. Si guardarono negli occhi. E poi basta, finito il teatro. A quel punto Nicolas continuò. "Agosti', io non voglio gente con la paura, la paura non deve venire nemmeno in mente. Se ti viene il dubbio, allora per me non sei più buono." Agostino sapeva di aver detto ciò che tutti temevano, non era l'unico a pensare che bisognasse trovare un'interlocuzione con i vecchi capi e quella sputata in faccia più che un'umiliazione fu un avvertimento. Un avvertimento per tutti. "Mò te ne devi andare, tu nella paranza non ci puoi stare più." "Siete solo una vrancata di merdilli," disse Agostino, paonazzo. Enzuccio 'o Rentill'si intromise, e cercò di placarlo. "Austi', va vattenne, che ti fai male..." Agostino non aveva mai tradito eppure, come tutti i Giuda, fu strumento utile per accelerare il compimento di un destino: prima di uscire dalla stanza regalò inconsapevolmente a Nicolas ciò di cui aveva bisogno per compattare la paranza. "E vuje vulesseve fa 'a paranz' cù tre curtiell'e doje scacciacani?" "Cù 'sti tre curtiell't'arapimm' sano sano." Esplose Nicolas. Agostino alzò il dito medio e lo fece roteare in faccia a quelli che un momento prima sentiva sangue del suo sangue. A Nicolas dispiaceva lasciarlo andare: non si butta via così una persona di cui conosci ogni giorno, ogni fratcucin', ogni zio. Agostino era con lui allo stadio, sempre, al San Paolo e in trasferta. Un brò lo devi tenere vicino, ma era andata così e cacciarlo serviva. Serviva una spugna che assorbisse tutte le paure del gruppo. Appena Agostino ebbe sbattuta la porta, Nicolas continuò. "Frate', 'o cacasott' ten' ragione... Non la possiamo fare la paranza con tre coltelli da cucina e due scacciacani." E quelli che un attimo prima erano pronti a combattere con le poche lame e i ferri vecchi che avevano, perché Nicolas li aveva benedetti, dopo l'autorizzazione al dubbio confermarono tutti la delusione: sognavano santebarbare ed erano ridotti a maneggiare giocattoli che nascondevano in cameretta. "La soluzione ce l'ho," disse Nicolas, "o m'accireno oppure torno a casa cù 'n arsenale. E se questo succede, qua adda cagnà tutte cose: con le armi arrivano pure le regole, perché adda murì mammà, senza regole simm' sule piscitiell' 'e vrachetta." "Le teniamo le regole, Nico', siamo tutti fratelli." "I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. "L'avete visto Il camorrista, no? Quando 'o Prufessor' fa il giuramento in carcere. Veritavell', sta 'ncopp a YouTube: noi dobbiamo essere così, una cosa sola. Ci dobbiamo battezzare coi ferri e colle catene. Amma essere sentinelle di omertà. È tropp' bell guagliu', veritavell'. Il pane, che se uno tradisce diventa piombo e il vino ca addivent' veleno. E poi ci deve uscire il sangue, amma ammiscà 'e sang' nuoste e non dobbiamo tenere paura di niente." Mentre parlava di valori e giuramenti, Nicolas aveva in mente una cosa sola, una cosa che gli creava disagio e gli svuotava l'addome. Le palle, se davvero ce le aveva ancora, dopo quella storia, una storia di niente, se le poteva appendere al collo come cravatta al prossimo sposalizio. Faceva caldo e c'era la partita, giocava l'Italia, ma lui tifava contro, perché lui e i compagni suoi non si sentivano italiani e per la partita avevano strafottenza. Tenevano una cosa da fare e pure urgente. Erano in sei su tre scooter. Il suo lo guidava Enzuccio 'o Rentill', gli altri due sfrecciavano dietro. Dal Moiariello era una strada sola in discesa. Vicoli stretti stretti - "il presepe", lo chiama la gente che ci vive. Se passi di là fai prima e per piazza Bellini, marciapiede marciapiede, eviti traffico e sensi unici, ci metti un attimo. A piazza Bellini c'era il contatto con l'Arcangelo e Nicolas doveva fare presto. È vero, si sentiva un padreterno, ma quel contatto gli serviva. E quella non è gente che aspetta. Dieci minuti e doveva stare là. L'ultimo tratto di via Foria, prima di arrivare al Museo, i tre scooter lo percorsero su marciapiedi larghie illuminati, zigzagando a clacson spiegati. Chi li guida a Napoli è un Minotauro: metà uomo e metà ruote. Si sorpassa ovunque, non c'è sbarramento o isola pedonale. Per loro valgono le regole dei pedoni e nessun'altra. Questa volta avrebbero potuto anche andare per strada, perché in giro non c'era anima viva e quei pochi che non si erano organizzati per la partita stavano fermi davanti agli schermi che a Napoli si trovano a ogni pizzo. Di tanto in tanto, se sentivano esultare, fermavano gli scooter e chiedevano il risultato. L'Italia era in vantaggio. Nicolas imprecò. Via Costantinopoli la imboccarono contromano. Salirono sui marciapiedi che questa volta erano stretti e bui e qui c'era più gente. Ragazzi, per lo più universitari e qualche turista. Stavano andando anche loro, ma con maggiore calma, a piazza Bellini, a Port'Alba, a piazza Dante, dove c'erano locali con televisori in strada. Andavano troppo veloci e non videro due passeggini fermi sul marciapiede, accanto adulti seduti al tavolino di un bar. Il primo scooter a frenare non ci provò nemmeno, il manico del passeggino più esterno arpionò lo specchietto dello scooter e il passeggino iniziò a muoversi veloce finché non si staccò, cadde di lato, sembrava come planare sul ghiaccio. Si fermò solo quando arrivò al muro: l'impatto fece un rumore sordo. Un rumore di sangue, di carne bianca e pannolini. Di capelli appena cresciuti, disordinati. Un rumore di ninnananne e notti insonni. Dopo un attimo si sentì il bambino piangere e la madre urlare. Non si era fatto niente, solo spavento. Il padre invece era impietrito, immobile. In piedi, guardava i ragazzi che nel frattempo avevano parcheggiato gli scooter e se ne stavano andando via con calma. Non si erano fermati. E nemmeno erano fuggiti in preda al panico. No. Avevano parcheggiato e si erano allontanati a piedi, come se tutto ciò che era accaduto rientrasse nella normale vita di quel territorio, che appartiene a loro e a nessun altro. Calpestare, urtare, correre. Veloci, strafottenti, maleducati, violenti. Così è e non c'è altro modo di essere. Nicolas però sentiva il cuore pompare sangue all'impazzata. Non era cazzimma la sua, ma calcolo: quell'incidente non doveva modificare il loro percorso. C'erano due macchine della polizia - da un lato e dall'altro di via Costantinopoli - ferme proprio dove i ragazzi avevano parcheggiato. I poliziotti, quattro in tutto, stavano ascoltando la partita alla radio e non si erano accorti di nulla. Erano a pochi metri dall'incidente ma quelle urla non li avevano strappati alle loro macchine. Cosa avranno pensato? A Napoli si urla sempre, a Napoli urla chiunque. Oppure: meglio stare alla larga, siamo pochi e qui non abbiamo alcuna autorità. Nicolas non diceva niente e mentre con lo sguardo cercava il suo contatto, pensava che avevano rischiato di farsi male, che a quel passeggino un calcio dovevano dare e non portarselo appresso per dieci metri. A Napoli tutto era loro e i marciapiedi servivano, la gente questo lo doveva capire. Eccolo il suo contatto con don Vittorio Grimaldi, cappello in testa e spinello in bocca. Si avvicinava lento, non si tolse il cappello e non sputò lo spinello: trattò Nicolas come il ragazzino che era e non come il capo che fantasticava di essere. "L'Arcangelo ha deciso che puoi andarlo a pregare. Ma per entrare nella cappella bisogna seguire bene le indicazioni." Indicazioni in codice che Nicolas seppe decifrare. Il boss l'avrebbe ricevuto a casa sua, ma che non gli venisse in mente di passare dall'entrata principale perché lui, don Vittorio, era agli arresti domiciliari e non poteva incontrare nessuno. Le telecamere dei carabinieri non si vedevano ma c'erano, ficcate nel cemento, da qualche parte. Ma non erano quelle che Nicolas doveva temere, piuttosto gli occhi dei Colella. Il contatto di piazza Bellini fu chiaro: "Se ti vedono i Colella, tu diventi un Grimaldi. E le botte che buttano su di noi, le buttano pure su di te. Punto. L'Arcangelo vuole che stai avvisato, poi fai tu". La verità era un'altra: Nicolas e il suo gruppo erano delle teste di cazzo e i Grimaldi non volevano che, per colpa loro, i sospetti di inquirenti e rivali si concentrassero sull'Arcangelo che era già pieno di guai. L'appartamento di don Vittorio, detto l'Arcangelo, era a San Giovanni a Teduccio. In via Sorrento, in un palazzone ocra con ferri alle finestre. San Giovanni ha le dimensioni di un paese e venticinquemila abitanti, ma è un quartiere di Napoli, un quartiere della periferia orientale. Una strada con case basse, paesane e qualche parallelepipedo. È tutto giallino a San Giovanni, pure il mare. Nicolas arrivò in scooter, tanto non era famoso come avrebbe voluto e lì, lontano da casa sua, nessuno dei guaglioni di Sistema lo conosceva. Di nome forse, ma la sua faccia poteva passare inosservata. Vedendolo, avrebbero pensato che era lì per comprare del fumo, e infatti si accostò col motorino ad alcuni ragazzi e subito fu accontentato: "Quant' 'e ave'?". "Cient' eur'." "Azz', buon'. Ramm' 'e sord'." Qualche minuto dopo il fumo era sotto il suo culo, sotto il sellino. Fece un giro e poi parcheggiò. Mise un lucchetto vistoso e andò a passo lento verso la casa dell'Arcangelo. I suoi movimenti erano chiari, decisi. Niente mani in tasca, gli prudeva la testa, stava sudando, ma lasciò perdere. Non s'è mai visto un capo grattarsi in un momento solenne. Citofonò all'appartamento sotto quello di don Vittorio, come da indicazioni. Risposero. Pronunciò il suo nome, ne scandì ogni sillaba. "Professore', sono Nicolas Fiorillo, aprite?" "Aperto?" "No!" In realtà era aperto ma voleva prendere tempo. "Spingi forte che si apre." "Sì, sì. Ora si è aperto." Rita Cicatello era una vecchia professoressa in pensione che dava ripetizioni private a prezzi che qualcuno definirebbe sociali. Andavano da lei tutti gli allievi dei professori amici suoi. Se andavano a ripetizione da lei e da suo marito, venivano promossi, altrimenti piovevano i debiti e poi da lei ci dovevano andare lo stesso, ma d'estate. Nicolas raggiunse il pianerottolo della professoressa. Entrò con tutta calma, come uno studente che non avesse voglia di sottoporsi all'ennesimo supplizio; in realtà voleva essere certo che la telecamera piazzata lì dai carabinieri riprendesse tutto. Come un occhio umano, la considerava capace di battere le palpebre e quindi ogni suo gesto doveva essere lento, che restasse impresso. La telecamera dei carabinieri, che sarebbe servita anche ai Colella, doveva vedere questo: Nicolas Fiorillo che entrava dalla professoressa Cicatello. E basta. La signora aprì la porta. Aveva un mantesino che la proteggeva dagli schizzi di salsa e olio. Nella piccola casa c'erano tanti ragazzi, maschi e femmine, in tutto una decina, seduti alla stessa tavola da pranzo rotonda, con i libri di testo aperti, ma con la testa nell'iPhone. A loro piaceva la professoressa Cicatello perché non faceva come tutte le altre, che prima di iniziare la lezione sequestravano i cellulari, costringendoli poi a inventare scuse fantasiose - mio nonno è in sala operatoria, mia madre se non rispondo dopo dieci minuti chiama la polizia - per poterli guardare, ché magari era arrivato un messaggio su WhatsApp o qualche like su Facebook. La professoressa glieli lasciava in mano e la lezione nemmeno la faceva, se li teneva in casa davanti a un tablet - regalo del figlio per l'ultimo Natale - collegato a un piccolo amplificatore da cui usciva la voce di lei che parlava di Manzoni, del Risorgimento, di Dante. Tutto dipendeva da cosa dovessero studiare i ragazzi; la professoressa Cicatello, nei tempi morti, preregistrava le lezioni e poi si limitava a urlare di tanto in tanto: "Basta cù 'sti telefonini e ascoltate la lezione". Nel frattempo cucinava, riordinava casa, faceva lunghe telefonate da un vecchio telefono fisso. Tornava per correggere i compiti di italiano e geografia, mentre suo marito correggeva quelli di matematica. Nicolas entrò, biascicò un saluto generale, i ragazzi nemmeno lo degnarono di uno sguardo. Aprì la porta di vetro e la varcò. I ragazzi vedevano spesso entrare e uscire gente che spariva, dopo un rapido saluto, dietro la porta della cucina. La vita oltre quella porta era loro sconosciuta e, siccome il bagno era sul lato opposto, della casa della professoressa conoscevano solo la stanza del tablet e il cesso. Sul resto non facevano domande, non era il caso di essere curiosi. Nella stanza del tablet c'era anche il marito, sempre dinanzi a un televisore e sempre con una coperta sulle ginocchia. Anche d'estate. I ragazzi lo raggiungevano sulla poltrona per portargli i compiti di matematica. Lui con una penna rossa che teneva nel taschino della camicia li correggeva, punendo la loro ignoranza. Bofonchiò verso Nicolas qualcosa che doveva somigliare a un "Buongiorno". Alla fine della cucina c'era una scaletta. La professoressa senza fiatare indicò verso l'alto. Una piccola e artigianale opera in muratura aveva realizzato un foro che collegava il piano di sotto al piano di sopra. Così, semplicemente, chi non poteva raggiungere don Vittorio dalla porta principale, andava dalla professoressa. Arrivato all'ultimo piolo, Nicolas batté il pugno un paio di volte sulla botola. Era lui stesso, don Vittorio, che quando sentiva i colpi si chinava lasciando che dalla sua bocca uscisse un gorgoglio di fatica che veniva dritto dalla spina dorsale. Nicolas era emozionato, don Vittorio non l'aveva mai incontrato di persona, ma visto solo sui giornali delle capuzzelle - così si chiamano in gergo quei giornali locali che pubblicano tutti i giorni le foto segnaletiche dei camorristi della zona. Quelli arrestati, quelli condannati, i latitanti e i morti uccisi. Vederlo da vicino non gli fece l'effetto che aveva creduto. Era più vecchio rispetto alla foto che conosceva, che risaliva al primo arresto. L'aveva visto poi al processo, ma da lontano. Don Vittorio lo lasciò entrare e con lo stesso gorgoglio di schiena richiuse la botola. Non gli strinse la mano, ma gli fece strada. "Vieni, vieni..." disse solo, entrando nella sala da pranzo dove c'era un enorme tavolo d'ebano che in quella geometria assurda riusciva a perdere tutta la sua cupa eleganza per diventare un monolite vistoso e pacchiano. Don Vittorio si sedette alla destra del capotavola. La casa era piena di vetrinette con dentro ceramiche d'ogni tipo. Le porcellane di Capodimonte dovevano essere la passione della moglie di don Vittorio, di cui però in casa non c'era traccia. La dama col cane, il cacciatore, lo zampognaro: i classici di sempre. Gli occhi di Nicolas rimbalzavano da una parete all'altra, tutto voleva memorizzare; voleva vedere come campava l'Arcangelo e quello che vedeva non gli piaceva. Non sapeva dire esattamente perché provasse disagio, ma certo non gli sembrava la casa di un capo. C'era qualcosa che non tornava: non poteva essere, la sua missione in quel fortino, cosa tanto banale, scontata, facile. Un televisore a schermo piatto circondato da una cornice color legno e due persone con indosso pantaloncini del Napoli: in casa sembrava esserci solo questo. Non salutarono Nicolas, aspettando un cenno di don Vittorio che, presa posizione, indice e medio uniti come a scacciare tafani, fece loro un segno che inequivocabilmente interpretarono come "jatevenne". I due si spostarono e passò poco che, da un'altra stanza, si sentì arrivare la voce gracchiante di un attore comico - doveva esserci un altro televisore - e poi risate. "Spogliati" ordinò l'Arcangelo. 2016 Roberto Saviano. All rights reserved. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016
La paranza dei bambini. L'Arcangelo e il Marajà. Un'anticipazione dal prossimo romanzo di Roberto Saviano. "Sono vecchio, vero? Ma devi essere vecchio e brutto per fare paura. E tu infatti stai tremando, guaglio'...". Due generazioni criminali si confrontano sullo sfondo di una Napoli feroce, scrive Roberto Saviano il 7 agosto 2016 su “La Repubblica”. Nel gergo camorristico “paranza” significa gruppo criminale. Il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci piccoli per la frittura di paranza. L’espressione “paranza dei bambini”, fenomeno emerso relativamente di recente, indica invece una batteria di fuoco, ma restituisce anche l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell’, proprio come i ragazzini protagonisti del prossimo romanzo di Roberto Saviano (“La paranza dei bambini”, appunto) che la casa editrice Feltrinelli pubblicherà a dicembre 2016. Domenica scorsa abbiamo anticipato in esclusiva la prima parte di uno dei capitoli de “La paranza dei bambini”, intitolato “Adda murì mammà”. Lì il giovanissimo Nicolas decide di mettere in piedi “una paranza tutta nostra” ma per farlo ha bisogno di armi. Le chiederà a Don Vittorio, boss di camorra agli arresti domiciliari. L’incontro tra le due generazioni criminali è quanto racconta questa seconda e ultima parte dello stesso capitolo.
Ora riconosceva la voce di un uomo abituato comandare. "Spogliati? E cioè?". Nicolas accompagnò la domanda con un'espressione di incredulità. Non si aspettava questa richiesta. Aveva per cento volte immaginato come sarebbe andato questo incontro e per tutte e cento le volte mai aveva preso in considerazione l'ipotesi di doversi spogliare. "Spogliati, guaglio', chi cazzo ti sa. Chi me lo dice che non tieni registratori, cimici e maronne...". "Don Vitto', adda muri' mammà, ma come vi permettete di pensare...". Usò il verbo sbagliato. Don Vittorio alzò la voce per farsi sentire dalla cucina, per sovrastare la voce del comico e le risate. Un boss è boss quando non ha limiti a ciò che si può permettere. "Qua abbiamo finito". I due con i pantaloncini del Napoli non fecero nemmeno in tempo a tornare indietro che Nicolas già aveva iniziato a sfilarsi le scarpe. "No, no, vabbuo', mi spoglio. Lo faccio". Tolse scarpe, poi pantaloni, poi la maglietta e rimase in mutande. "Tutto, guaglio', ché i microfoni pure nel culo te li puoi mettere". Nicolas sapeva che non era questione di microfoni, davanti all'Arcangelo doveva essere solo un verme nudo, era il prezzo da pagare per quell'appuntamento. Fece una piroetta, quasi divertito, mostrò d'essere senza microfoni e microtelecamere, ma di possedere autoironia, spirito che i capi perdono, per necessità. Don Vittorio gli fece il gesto di sedersi e senza fiatare Nicolas indicò se stesso, come a chiedere conferma di potersi sedere così, nudo, su sedie bianche e immacolate. Il boss annuì. "Così vediamo se ti sai pulire il culo. Se lasci sgommate di merda significa che sei troppo piccolo, non ti sai fare il bidet e ti deve ancora pulire mammà". Erano uno di fronte all'altro. Don Vittorio non si era messo a capotavola di proposito, per evitare simbologie: se l'avesse fatto sedere alla sua destra, il ragazzino avrebbe pensato chi sa cosa. Meglio uno di fronte all'altro, come negli interrogatori. E nemmeno volle offrirgli nulla: non si divide cibo sulla tavola con uno sconosciuto, né poteva fare il caffè a un ospite da vagliare. "Allora sei tu 'o Marajà?". "Nicolas Fiorillo...". "Appunto, 'o Marajà... è importante come ti chiamano. È più importante il soprannome del nome, lo sai? Conosci la storia di Bardellino?". "No. "Bardellino, guappo vero. Fu lui che fece, di bande di bufalari, un'organizzazione seria a Casal di Principe". Nicolas ascoltava come un devoto ascolta messa. "Bardellino aveva un nome che gli fu dato quando era piccolo e se lo portava appresso pure da grande. Lo chiamavano Pucchiacchiello ". Nicolas si mise a ridere, don Vittorio annuì con la testa, allargando gli occhi, come a confermare di star raccontando un fatto storico, non leggenda. Qualcosa che fosse agli atti della vita che conta. "Bardellino per non tenere la puzza di stalla e terra addosso, per non stare con le unghie sempre nere, quando scendeva in paese, si lavava, si profumava, si vestiva sempre elegante. Ogni giorno come fosse domenica. Brillantina in testa... capelli umidi". "E come uscì 'stu nomm'?". "All'epoca era pieno di zappatori in paese. A vedere nu' guagliunciello sempre accussì, in tiro, venne normale: Pucchiacchiello, come la pucchiacca di una bella donna. Bagnato e profumato come la fica". "Ho capito, 'nu fighetto". "Fatto sta che 'stu nomm' non era nomm' 'e chi po' cumanna'. Per comandare devi avere un nome che comanda. Può essere brutto, può non significare niente, ma non adda essere fesso". "Ma i soprannomi non li decidi tu". "Esattamente. E infatti quando divenne capo, Bardellino voleva che lo chiamassero solo don Antonio, chi lo chiamava Pucchiacchiello passava 'e guaje. Davanti nessuno lo poteva chiamare così, ma per i vecchi del paese sarebbe rimasto sempre Pucchiacchiello ". "Però è stato un grande capo, no? E allora, adda muri' mammà, si vede che il nome non è così importante". "Ti sbagli, ha passato una vita sana a toglierselo di dosso...". "Ma che fine ha fatto poi don Pucchiacchiello? " lo disse sorridendo e non piacque a don Vittorio. "È sparito, c'è chi dice che s'è fatto un'altra vita, una plastica facciale, che ha fatto finta d'essere morto e se l'è goduta alla faccia di chi 'o vulev' accis'o carcerat'. Io l'ho visto solo una volta, quando ero ragazzo, è stato l'unico uomo di Sistema che sembrava 'nu re. Nisciun'comm' a iss'". "E bravo a Pucchiacchiello" chiosò Nicolas come se parlasse di un pari suo. "Tu ci sei andato bene, ti hanno azzeccato il soprannome". "Me chiamman'accussì perché sto sempre al Nuovo Marajà, 'o locale 'ncopp Posillipo. È la centrale mia e fanno i meglio cocktail di Napoli". "La centrale tua? Eh bravo", don Vittorio fermò un sorriso "è 'nu buon'nomm', sai che significa?". "Ho cercato su internet, significa 're' in indiano ". "È 'nu nomm' e re, ma statt' accuort' che può fa' 'a fine ra canzon'". "Qua' canzone?". Don Vittorio, con un sorriso aperto, iniziò a canticchiarla dando sfogo alla sua voce intonata. In falsetto: "Pasqualino Marajà non lavora e non fa niente... fra i misteri dell'Oriente fa il nababbo fra gli indù. Ulla! Ulla! Ulla! La! Pasqualino Marajà ha insegnato a far la pizza, tutta l'India ne va pazza". Smise di cantare, rideva a bocca aperta, in maniera sguaiata. Una risata che finì in tosse. Nicolas aveva fastidio. Avvertì quell'esibizione come una presa in giro per provare i suoi nervi. "Non fare quella faccia, è 'na bella canzone. La cantavo semp' quann'ero guaglione. E poi ti ci vedo con il turbante a ffa' 'e pizz' 'ngopp Posillipo". Nicolas aveva le sopracciglia inarcate, l'autoironia di qualche minuto prima aveva lasciato il posto alla rabbia, che non si poteva nascondere. "Don Vitto', devo restare col pesce da fuori? " disse solo. Don Vittorio, seduto sulla medesima sedia, nella medesima posizione, fece finta di non aver sentito. "A parte 'ste strunzat', le figure di merda sono la prima cosa da temere per chi vuole diventare un capo". "Fino a mo', adda muri' mammà, 'a merda in faccia non ce l'ha messa ancora nessuno ". "La prima figura di merda è fare una paranza e non tenere le armi". "Fino a mo', con tutto quello che avevo, ho fatto più di quello che stanno facendo i guaglioni vostri, e parlo con rispetto don Vitto', io non sono niente vicino a voi". "E meno male che parli con rispetto, perché i guaglioni miei, se volessero, mo', in questo momento, farebbero di te e della paranzella tua quello che fa 'o pisciaiuolo quann'pulezz' 'o pesce". "Fatemi insistere, don Vitto', i vostri guaglioni non sono all'altezza vostra. Stanno schiattati qua e niente possono fare. I Colella vi hanno fatto prigioniero, adda muri' mammà, pure per respirare vogliono che gli chiedete il permesso. Con voi ai domiciliari e il casino che ci sta là fuori, simm' nuje a cumanna', con le armi o senza armi. Fatevene una ragione: Gesù Cristo, a Maronn'e San Gennaro l'hann'lasciat' sule sule all'Arcangelo". Quel ragazzino stava solo descrivendo la verità e don Vittorio glielo lasciò fare; non gli piaceva che mettese in mezzo i santi e ancora di più non gli piaceva quell'intercalare, lo trovava odioso, "adda muri' mammà"... deve morire mia madre. Giuramento, garanzia, per qualsiasi cosa. Prezzo per la menzogna pronunciata? Adda muri' mammà. Lo ripeteva a ogni frase. Don Vittorio voleva dirgli di smettere, ma poi abbassò lo sguardo perché quel corpo di ragazzino nudo lo fece sorridere, quasi lo intenerì e pensò che quella frase la ripeteva per scongiurare ciò che più teme un uccello che non ha ancora lasciato il nido. Nicolas dal canto suo vide gli occhi del boss guardare il tavolo, "per la prima volta abbassa lo sguardo", pensò e credette in un'inversione dei ruoli, si sentì predominante e forte della sua nudità. Era giovane e fresco e davanti aveva carne vecchia e curva. "L'Arcangelo, così vi chiamano miez' 'a via, in carcere, in tribunale e pure 'ncopp a internet. È nu buono nome, è un nome che può comandare. Chi ve l'ha dato?". "Patemo, mio padre, si chiamava Gabriele come l'arcangelo, pace all'anima sua. Io ero Vittorio che apparteneva a Gabriele, quindi m'hanno chiamato accussì". "E questo Arcangelo", Nicolas continuava a picconare le pareti tra lui e il capo, "con le ali legate, sta fermo in un quartiere che prima comandava e ora non gli appartiene più, con i suoi uomini che sanno solo giocare alla PlayStation. Le ali di questo Arcangelo dovrebbero stare aperte e invece stanno chiuse come quelle di un cardillo in gabbia". "E così è: ci sta un tempo per volare e un tempo per stare chiusi in una gabbia. Del resto, meglio una gabbia comm' a chest', che una gabbia a Poggioreale". Nicolas si alzò e iniziò a girargli intorno. Camminava piano. L'Arcangelo non si muoveva, non lo faceva mai quando voleva dare impressione di avere occhi anche dietro la testa. Se qualcuno ti è alle spalle e gli occhi iniziano a seguirlo, significa che hai paura. E che tu lo segua o no, se la coltellata deve arrivare arriva lo stesso. Se non guardi, se non ti giri, invece, non mostri paura e fai del tuo assassino un infame che colpisce alle spalle. "Don Vittorio l'Arcangelo, voi non avete più uomini ma tenete le armi. Tutte le botte che tenete ferme nei magazzini a che vi servono? Io tengo gli uomini ma la santabarbara che tenit' vuje me la posso solo sognare. Voi, volendo, potreste armare una guerra vera ". L'Arcangelo non si aspettava questa richiesta, non credeva che il bambino che aveva lasciato salire in casa sua arrivasse a tanto. Aveva previsto qualche benedizione per poter agire nel suo territorio. Eppure, se mancanza di rispetto era, l'Arcangelo non ne fu infastidito. Gli piaceva anzi quel modo di fare. Gli aveva messo paura. E non provava paura da tanto, troppo tempo. Per comandare, per essere un capo, devi avere paura, ogni giorno della tua vita, in ogni momento. Per vincerla, per capire se ce la puoi fare. Se la paura ti lascia vivere o, invece, avvelena tutto. Se non provi paura vuol dire che non vali più un cazzo, che nessuno ha più interesse ad ammazzarti, ad avvicinarti, a prendersi quello che ti appartiene e che tu hai preso a qualcun altro. "Io e te non spartiamo nulla. Non mi appartieni, non sei nel mio Sistema, non mi hai fatto nessun favore. Solo per la richiesta senza rispetto che hai fatto, dovrei cacciarti e lasciare il sangue tuo sul pavimento della professoressa qua sotto". "Io non ho paura di voi, don Vitto'. Se me le pigliavo direttamente era diverso e tenevate ragione". L'Arcangelo seduto e Nicolas in piedi, di fronte, le nocche delle mani chiuse in pugno e poggiate sul tavolo nella speranza che quel gesto dissimulasse il tremore che aveva alle gambe, tremore di nervosismo. Non voleva, Nicolas, regalare quell'emozione all'Arcangelo, un'emozione che avrebbe potuto rovinare tutto. "Sono vecchio, vero?" disse l'Arcangelo. "Non so che vi devo rispondere". "Rispondi, Marajà, sono vecchio?". "Come dite voi. Sì, se devo dire di sì". "Sono vecchio o no?". "Sì, siete vecchio". "E sono brutto?". "E mo' che c'azzecc'?". "Devo essere vecchio e brutto e ti devo fare pure molta paura. Si nun foss'accussì, mo' quelle gambe tue, nude, non le nasconderesti sotto al tavolo, pe' nun me 'e ffa verè. Stai tremando, guaglio'. Ma dimmi una cosa: se vi do le armi, cosa ci guadagno io?". Nicolas era preparato a questa domanda e si emozionò quasi a ripetere la frase che aveva provato mentre arrivava col motorino a San Giovanni. Non si aspettava di doverla pronunciare da nudo e con le gambe che ancora gli tremavano, ma la disse lo stesso. "Voi ci guadagnate che ancora esistete. Ci guadagnate che la paranza più forte di Napoli è amica vostra". "Assiettete", ordinò l'Arcangelo. E poi indossando la più seria delle sue maschere: "Non posso. È come mettere 'na pucchiacca n'man''e criature. Non sapete sparare, non sapete pulire, vi fate male. Nun sapite nemmeno ricarica' 'nu mitra". Nicolas aveva il cuore che gli suggeriva, battendo con ansia, di reagire, ma rimase calmo: "Datecele e vi facciamo vedere cosa sappiamo fare. Noi vi togliamo gli schiaffi dalla faccia, gli schiaffi che vi ha dato che vi considera azzoppato. L'amico migliore che potete avere è il nemico del vostro nemico. E noi i Colella li vogliamo cacciare dal centro di Napoli. Casa nostra è casa nostra". L'ordine attuale non gli stava più bene, all'Arcangelo: un ordine nuovo si doveva creare e, se non poteva più comandare, almeno avrebbe creato ammuina. Le armi gliele avrebbe date, erano ferme da anni. Erano forza, ma una forza che non si esercita fa collassare i muscoli. L'Arcangelo aveva deciso di scommettere su questa paranza di piscitielli. Se non poteva riprendere il comando, almeno voleva costringere chi regnava sulla sua zona a venire e trattare per la pace. Non ce la faceva più a ringraziare per gli avanzi, e quell'esercito di bambini era l'unico modo per tornare a guardare la luce, prima del buio eterno. "Vi do quello che vi serve, ma voi non siete ambasciatori miei. Tutte le cacate che farete con le armi mie non devono portare la firma mia. I debiti vostri ve li pagate da soli, il sangue vostro ve lo leccate voi. Ma quello che vi chiedo, quando ve lo chiedo, lo dovete fare senza discutere". "Siete vecchio, brutto e pure saggio, don Vitto'". "Marajà mo', come sei venuto, così te ne vai. Uno dei miei ti farà sapere dove andarle a prendere". Don Vittorio gli porge la mano, Nicolas la stringe e prova a baciarla, ma mentre lo fa l'Arcangelo la sfila schifato: "Ma che cazz' fai?". "Ve la stavo baciando per rispetto". "Guaglio', hai perso la testa, tu e tutti i film che ti vedi". E invece a Nicolas 'o Marajà, una volta diventato capo, la mano tutti gliela dovevano baciare, la mano destra, quella con al mignolo l'anello che lo faceva cardinale della camorra. L'Arcangelo si alzò appoggiandosi al tavolo: le ossa gli pesavano e gli arresti domiciliari l'avevano fatto ingrassare. "Mo' ti puoi rivestire e fai presto che tra poco c'è un controllo dei carabinieri". Nicolas indossò mutande, jeans e scarpe più in fretta possibile. "Ah, don Vitto', una cosa...". Don Vittorio si girò stanco. "Nel posto dove devo andare a prendere le imbasciate... no?". Non c'erano cimici eppure Nicolas su certe parole manteneva un istintuale riserbo. Le armi non si pronunciano mai. "Allora?" disse l'Arcangelo. "Mi dovete fare la cortesia di mettere dei guardiani che io posso leva' 'a miez'. Devo fare almeno due pezzi per far vedere che le armi me le sono fottute. Così io non ho avuto le armi da voi e tutto quello che fa la paranza mia non sono imbasciate vostre" "Mettiamo due zingari con le botte in mano, ma sparate in aria ché gli zingari mi servono ". "E quelli poi ci sparano addosso". "Gli zingari, se sparate in aria, scappano sempre... cazzo, v'aggia 'mpara' proprio tutte cose". "E se scappano che li mettete a fare?". "Quelli ci avvertono del problema e noi arriviamo ". "Adda muri' mammà, don Vitto', non dovete tenere pensiero, farò come avete detto ". I ragazzi accompagnarono Nicolas alla botola, mentre aveva già messo i piedi sul primo piolo, sentì don Vittorio: "Oh!", lo fermò. "Porta 'na statuetta alla professoressa per il disturbo. Va pazza per le porcellane di Capodimonte". "Don Vitto', ma veramente fate?". "Tie', piglia 'o zampognaro, è un classico e fa fare sempre bella figura". Roberto Saviano. Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano 2016
Il carabiniere infedele e la camorra che fabbrica i dossier. Operazioni della Divisione investigativa antimafia contro la camorra. Sbirri "venduti" e faccendieri, la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan. L'ultimo caso è quello del maresciallo dei carabinieri arrestato a Napoli con l'accusa di avere passato informazioni riservate a Nicola Cosentino. C'è poi il copione visto negli affaire di Bisignani e Lavitola, due volti al centro di altri scandali, dalla P4 alla compravendita di parlamentari, scrive Roberto Saviano il 3 agosto 2016 su “La Repubblica”. La storia che sto per raccontare vi riguarda perché è storia del nostro Paese e di quei rapporti ambigui tra politica, giornalismo e forze dell'ordine che spesso ci sembra odioso persino descrivere. Figure che operano nell'ombra, che raccolgono informazioni riservate e sanno come manipolarle, amputarle, barattarle. Notizie che servono a ricattare, a disinnescare inchieste giudiziarie e a preparare agguati e che arrivano a favorire le organizzazioni criminali. Sì, perché nella storia che sto per raccontarvi c'entrano anche loro, i clan di camorra. E c'entrano politici sotto processo per presunti legami con le organizzazioni criminali, rappresentanti delle forze dell'ordine infedeli, faccendieri e giornalisti borderline. È quanto si può leggere nell'ordinanza cautelare emessa nei confronti del maresciallo dei carabinieri Giuseppe Iannini, arrestato qualche giorno fa. Il gip in uno dei passaggi più significativi del provvedimento così descrive l'indagato: "Emerge una personalità forte, arrogante e prevaricatrice con la criminalità da strada (il mondo dei pusher nel quale si impegna, anche oltre il consentito a quanto pare) e accondiscendente, disponibile e, peggio ancora, corruttibile nei confronti della criminalità di un livello superiore (...)". "Persone come Iannini Giuseppe sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti". Quanto oggi sappiamo su Iannini è frutto del lavoro dei carabinieri di Caserta, guidati dal colonnello Giancarlo Scafuri, e dell'ex comandante della stazione dei Carabinieri di Castello di Cisterna (dove Iannini ha prestato servizio fino al 2013), Fabio Cagnazzo. L'impressione è che ci sia ancora da scavare per capire se Iannini lavorava per se stesso o se fosse eterodiretto, lui che, secondo quanto ha ricostruito la Dda di Napoli, avrebbe fornito informazioni riservate e file relativi ad atti di indagine secretati a Nicola Cosentino, imputato per essere il referente politico del clan dei Casalesi. La personalità di Iannini, come descritta dal giudice, coincide con l'idealtipo dello sbirro, caratteristico di una cultura tradizionalmente di destra che ha trovato espressione politica nel centro-destra di governo, non solo in Campania. Forte con i deboli, debole con i forti e servile con i potenti. Questa politica ha riempito le carceri di tanti piccoli spacciatori e per lungo tempo ha fatto di tutto per rendere penalmente irrilevanti i comportamenti dei colletti bianchi, della politica e della camorra, quando le due non erano la stessa cosa. Questa tipologia di carabiniere corrotto, secondo le accuse dell'antimafia di Napoli, costruisce la propria credibilità negli arresti di pusher, per potersi meglio sedere al tavolo dei politici camorristi, dell'imprenditoria criminale che non sparando e non spacciando assume altro tipo di profilo. L'ordinanza offre uno spaccato desolante della situazione campana, e casertana in particolare, con un ospedale pubblico - che poi sarà di lì a poco oggetto di commissariamento per infiltrazioni camorristiche - che, nelle parole del gip, diviene quasi una "succursale" dello studio di Cosentino. L'oggetto dello scambio ipotizzato dal gip tra Iannini e Cosentino erano i documenti contenuti in una pen drive ricondotta al primo e trovata in possesso del secondo; Iannini e Cosentino, nel corso degli interrogatori, hanno poi confessato la consegna della pen drive. L'ex uomo forte di Berlusconi in Campania ha sostenuto di essere stato truffato dal carabiniere, poiché tra gli atti che gli erano stati consegnati ce n'era uno oggetto di contraffazione. Proprio così: nella memoria gli inquirenti hanno trovato un verbale che riportava dichiarazioni apparentemente riconducibili a un collaboratore di giustizia, Tommaso Prestieri, ma che in realtà era stato modificato, utilizzando il contenuto del verbale di un altro collaboratore. Ma il documento (questa volta) originale più importante tra quelli presenti nella memoria è un'informativa, al tempo del sequestro secretata, riguardante i rapporti tra la famiglia Cesaro e il clan Puca, secondo la quale "il clan Puca aveva stretto accordi con il clan dei casalesi che si manifestavano nei rapporti altalenanti tra Cosentino Nicola, ritenuto referente dei casalesi, e Cesaro Luigi, ritenuto referente del clan Puca". Luigi Cesaro è un deputato di Forza Italia, dal 2009 al 2012 presidente della Provincia di Napoli, prima fedele a Nicola Cosentino, poi suo acerrimo rivale. Cosentino, prima di confessare, era stato più volte sentito dagli inquirenti perché chiarisse l'accaduto e, secondo il gip, aveva fornito versioni ogni volta diverse e fantasiose, allo scopo evidente di proteggere Iannini. Perché esporsi tanto per un soggetto del quale secondo la prima versione di Cosentino, riportata dal giudice, gli era ignoto anche il nome? Il profilo personale del maresciallo Iannini è assai complesso e aiuta ad aggiungere un ulteriore tassello alla comprensione di quel sottobosco che trama contro la democrazia, attraverso il meccanismo tristemente noto con il nome di macchina del fango. Non è la prima volta che il carabiniere finisce nei guai negli ultimi anni, poiché da poco è stato assolto in una vicenda analoga, che lo ha riguardato assieme a un altro politico casertano in ascesa fino a qualche anno fa: Angelo Brancaccio, ex sindaco di Orta di Atella, con trascorsi nell'Udeur di Mastella e nel Partito Democratico. Anche quella volta Iannini era stato indagato e poi processato in relazione a un illecito traffico di notizie riservate, poiché avrebbe avvertito Brancaccio delle indagini a suo carico. Dalla sentenza di assoluzione si comprende che gli indizi in possesso della procura non sono stati sufficienti a provare i fatti contestati, anche grazie al silenzio di Brancaccio, che, prima e come Cosentino, ha preferito proteggere il maresciallo. Viene il dubbio che Iannini possa essere il terminale di una struttura più grande, anche se non ci sono, per adesso, elementi sufficienti per giungere a questa conclusione. E ciò che sempre conta di più per chi ha a che fare con ambienti mafiosi è darsi un'immagine antimafiosa. Questa è la prima regola. Come fare? Semplice: scrivere libri apparentemente antimafia, organizzare convegni sulla legalità, ridurre tutto il fenomeno criminale a un affare di strada, porsi in prima linea contro questi affari e poi essere referente invece della borghesia criminale. L'ordinanza cautelare dedica attenzione anche a un professore francese, Bertrand Monnet (totalmente estraneo e verosimilmente del tutto inconsapevole della reale identità dei soggetti con cui è entrato in contatto), che sarebbe stato presentato a Cosentino come esperto di dinamiche criminali. Effettivamente il nome di Monnet, insieme a quelli di Brancaccio e Iannini, si trova nel panel di un convegno (La giornata della legalità) organizzato ad Orta di Atella dalla giunta guidata dall'allora sindaco Brancaccio. La presenza del professor Monnet in questa vicenda mostra come l'intenzione di chi costruisce dossier sia quella di cercare costantemente sponde all'estero. Mancando in Italia gli anticorpi per distinguere una critica legittima da un attacco su commissione, è chiaro che un j'accuse che arrivi da lontano ha una efficacia maggiore. Quel giorno del 2012, Monnet era a Orta di Atella per la presentazione di un libro, Napoli in cronaca nera, scritto a quattro mani proprio da Iannini e da un giornalista di cronaca giudiziaria, Simone Di Meo. Insieme al carabiniere arrestato, Di Meo ha scritto due libri ed è stato in passato molto vicino a Sergio De Gregorio, senatore condannato con Valter Lavitola e Silvio Berlusconi nel processo per la compravendita dei voti che determinò la caduta del governo Prodi. Il tema dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria è assai rilevante nella comprensione della dinamica esemplificata da questa indagine. Ci sono diversi modi di fare cronaca giudiziaria e uno è chiaramente quello di sondare l'universo degli informatori, appartenenti alle forze dell'ordine e in qualche caso alla criminalità, comune o anche organizzata. L'equilibrio e la deontologia, su questo crinale, sono essenziali, poiché la possibilità di entrare in possesso di dati sensibili o di atti coperti dal segreto d'ufficio è alta: se mancano equilibrio e deontologia, si aprono le praterie del dossieraggio e del traffico di informazioni riservate; si apre il varco all'affermarsi di figure di confine, tra servitori infedeli dello stato e giornalisti pronti a costruirsi una identità parallela: informatori al soldo del migliore offerente, anche a rischio di favorire la criminalità organizzata. La procura della Repubblica di Napoli, prima che la Dda si interessasse a Giuseppe Iannini, aveva focalizzato la sua attenzione e in alcuni casi ha indagato e poi ottenuto importanti risultati su una serie di figure chiave, che in parte ritornano anche in quest'ultima indagine. I nomi sono tutti accomunati dalla raccolta illecita di informazioni, finalizzata a un utilizzo di queste nella lotta politica e in ambito economico-finanziario. Qualche settimana fa, in un'intervista rilasciata a Dario Del Porto per questo giornale, il procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, uno dei pilastri della procura partenopea, nel commentare l'esito di un processo su una fuga di notizie che ha visto condannati un avvocato e un cancelliere dell'ufficio Gip di Napoli, ha parlato chiaramente di una "operazione di spionaggio". Quell'intervista riguardava non una fuga di notizie qualsiasi, ma quella che aveva favorito la latitanza di Valter Lavitola: le informazioni riservate furono pubblicate da Panorama , settimanale di proprietà di Silvio Berlusconi (che personalmente aveva consigliato a Lavitola, sulla base di quell'informazione, di stare alla larga dall'Italia), e furono acquisite da un giornalista, Giacomo Amadori, inizialmente indagato insieme al direttore del settimanale, Giorgio Mulè; le due posizioni sono state poi archiviate. Il nome di Amadori ritorna anche in un'altra vicenda napoletana, quella relativa alle minacce contenute nell'istanza di rimessione letta dall'avvocato Michele Santonastaso, nel corso del processo di appello Spartacus. All'esito dell'istruttoria di quel processo, infatti, è emerso un rapporto assai stretto tra Santonastaso e Giacomo Amadori, finalizzato secondo quanto sostenuto da Santonastaso alla acquisizione, da parte del giornalista, di un'intercettazione telefonica tra due collaboratori di giustizia, nella quale si parlava di ipotetiche pressioni - mai accertate - perché gli stessi formulassero accuse dirette al premier in carica Berlusconi. Quell'intercettazione fu effettivamente pubblicata da Panorama, pochi giorni dopo l'istanza di rimessione, mentre il giorno successivo la lettura in aula, Santonastaso, nelle parole del tribunale che lo ha condannato per le minacce nei miei confronti, "sfruttava la propria conoscenza con il giornalista Amadori per rendere proprie dichiarazioni su quanto avvenuto il giorno prima in udienza e per aumentare il clamore mediatico della notizia". Questa conclusione è impressionante se letta insieme a un altro passaggio di quella sentenza, che chiarisce come quel clamore mediatico fosse stato appositamente cercato per pubblicizzare alla platea degli affiliati casalesi e "nel linguaggio della camorra", un "perentorio invito ai magistrati e ai giornalisti a non cooperare più tra loro e a rientrare nell'ambito delle rispettive competenze, mantenendo un profilo più basso e smettendo di operare con clamore". Anche nell'indagine che riguarda Iannini tornano nomi noti: quello di Valter Lavitola, la cui abitazione è stata perquisita, come quella di un altro carabiniere a suo tempo coinvolto nell'indagine sulla cosiddetta P4 (una struttura finalizzata alla acquisizione di informazioni riservate per aggredire politici e imprenditori), Enrico La Monica. In relazione a quella vicenda è stato condannato Luigi Bisignani (ha patteggiato una pena a un anno e sette mesi di reclusione, senza la condizionale, a causa di una precedente condanna), la figura più eminente di giornalista borderline attualmente attiva in Italia. Bisignani, fino a quella indagine, era un uomo di grande potere nel sistema berlusconiano, dopo aver mosso i primi passi all'ombra di Andreotti. Nonostante la pena, Bisignani continua a camminare per le stesse strade di sempre e il 5 maggio scorso, in un editoriale su Il Tempo, passato inosservato ai più, ma ancora disponibile online, ha mandato un messaggio durissimo a un fedelissimo di Matteo Renzi, Marco Carrai. Bisignani ha scritto: "Ora che da pochi mesi ha tra le braccia la sua bimba, Florence, chi glielo fa fare di mettersi in un "affaire" del quale sa poco quando invece ha dimostrato di essere un imprenditore di successo". Carrai era in procinto di assumere un ruolo di primo piano, di nomina governativa, nell'ambito della cyber security, incarico che ad oggi pare essere tramontato. Quell'editoriale è il modello fedele del lavoro che Bisignani ha svolto nell'ombra per molti anni. E mi viene in mente un paragone, per le allusioni utilizzate, per i riferimenti più o meno metaforici e il linguaggio criptico, tra lo scritto di Bisignani e la lettera inviata in carcere al boss Michele Zagaria. In quella lettera, secondo una mia interpretazione pubblicata su questo giornale, si faceva probabilmente riferimento a Nicola Cosentino (che mi ha citato in giudizio, ma ha perso). Anche in quel caso bisognava sapere leggere tra le righe. Le informazioni ridotte a minaccia, a dossier, manipolate sono il più grande pericolo per il giornalismo italiano. Questa inchiesta della Dda di Napoli, coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e seguita dai pm Alessandro D'Alessio, Fabrizio Vanorio e Antonello Ardituro (da due anni al Csm), ha una assoluta rilevanza, poiché sta disvelando l'esistenza di un sistema di dossieraggio, realizzato attraverso il furto di atti riservati e la manipolazione delle informazioni, il cui fine era la distruzione degli avversari politici. Le indagini delineano un quadro allarmante, ai limiti dell'eversione dell'ordine democratico, popolato di personaggi inquietanti, spesso millantatori o peggio estorsori travestiti da giornalisti, e purtroppo anche da molti che dovrebbero servire lo Stato e che invece, come scrive il gip nell'ordinanza di arresto di Iannini, "sono funzionali ad un sistema che si oppone alle forze sane della polizia che ogni giorno si sacrificano per accertare non chi spaccia in strada, ma chi reinveste quei profitti con l'aiuto di imprenditori e amministratori compiacenti".
Napoli, le case popolari occupate dalla Camorra. Fuorionda del dirigente: «Cacciarli? Sarebbe una manovra di guerra». Secondo l'Osservatorio sull'abitare sociale, il patrimonio immobiliare del Comune di Napoli ha un valore di 1,081 miliardi di euro ma rende solo 1,7% del suo valore. Inchiesta di Antonio Crispino su CorriereTv del 22 giugno 2016. Se chiedete quanti immobili pubblici hanno un regolare contratto di affitto, al Comune di Napoli vi diranno che non lo sanno: «Stiamo verificando». Se domandate quante sono le case vuote pubbliche vi risponderanno lo stesso: «E' difficile, le dobbiamo individuare». Se infine chiedete di consultare l'elenco dei canoni riscossi per ogni singolo immobile vi diranno che «…non è possibile perché manca un software aggiornato capace di aggregare tutti i dati». E questo nonostante da tre anni ci sia una nuova società pubblica, la Napoli Servizi (che costa 34 milioni di euro l'anno) a gestire il patrimonio immobiliare napoletano. Sostituisce la Romeo Gestioni dell'avvocato Alfredo Romeo (che, tra gli altri, gestisce anche il patrimonio del Comune di Roma) e che ha lavorato a Napoli per un ventennio. Una situazione di stallo certificata anche dalla Ragioneria generale dello Stato che in una relazione scrive: «Non risultano tutt'ora approvati, a seguito di un contenzioso con il vecchio gestore, i rendiconti degli anni 2010, 2011, 2012, 2013 e 2014». Così come i Revisori dei conti del Comune denunciano di non ricevere l'adeguata documentazione da parte della società di servizi totalmente partecipata dal Comune. Accuse a cui l'amministratore unico della società Domenico Allocca risponde così: «Io sono in carica solo da due anni. Non ho mai presentato rendiconto perché non me lo hanno mai chiesto. Tra l'altro vorrei che mi spiegassero che cosa intendono per "rendiconto". Meglio che non mi fanno parlare, diventerei pericoloso perché conosco benissimo le loro responsabilità». Secondo l'Osservatorio sull'abitare sociale, il patrimonio immobiliare del Comune di Napoli ha un valore di 1,081 miliardi di euro ma rende solo 1,7% del suo valore. Infatti gli ultimi dati forniti dalla società di gestione immobiliare indicano un incasso mensile medio di 1,2 milioni di euro, frutto unicamente delle locazioni. Vale a dire circa il 55% delle bollette emesse. La restante parte sono persone che non pagano o contenziosi che si trascinano da anni. Un dato che non sorprende e che alcuni ritengono anche sovrastimato visto che fino al 1990 il Comune di Napoli sapeva di possedere solo 5300 immobili dei circa 30.000 esistenti, cifra a cui si arriva appena sei anni fa. Alle abitazioni sconosciute al censimento vanno aggiunte quelle occupate abusivamente. Sono il 13%. E poi c'è un dato che sfugge a tutte le statistiche: gli appartamenti gestiti dalla camorra. Sono quelli dove abitano i boss, gli affiliati, le "paranze". E coincidono quasi sempre con i loro centri di potere. «Basta guardare la mappa criminale disegnata dalla Direzione Investigativa Antimafia per accorgersi che ogni clan controlla una porzione di alloggi popolari, sia per una questione di potere ma soprattutto perché il territorio da comandare deve essere sicuro» denuncia Domenico Lopresto, segretario cittadino dell'Unione Inquilini. Il riferimento è a qualche anno fa quando centinaia di nuclei familiari, dalla sera alla mattina, furono deportati da via Comunale limitone d'Arzano. «Lo prevedeva la faida di camorra - continua Lopresto -, chi non era allineato al clan non poteva risiedere nello stesso quartiere, men che meno nello stesso palazzo del boss». Lo conferma anche il procuratore aggiunto della DDA di Napoli Giuseppe Borrelli: «Diverse inchieste hanno accertato che soprattutto nella zona orientale della città i clan gestiscono l'ingresso e l'uscita dalle case popolari. Dopodiché, però, nulla è cambiato». In altri casi la camorra ha trovato uno stratagemma legale. «C'era una legge regionale del 2000 che consentiva la voltura a favore di chi per almeno due anni risultava nello stato di famiglia di un altro soggetto- spiega Alessandro Fucito, assessore al Patrimonio del Comune di Napoli -. Ci fu un boom di richieste da parte di persone che chiedevano il subentro al posto del legittimo assegnatario che, guarda caso, sceglieva di andare a vivere altrove lasciando libero l'appartamento». Qualcosa oggi è cambiato, c'è una delibera che mette mano al mare delle morosità, una maggiore attenzione nelle assegnazioni di nuovi alloggi (circa settanta nuove assegnazioni sono state bloccate per infiltrazioni dei clan al rione De Gasperi) e un nuovo impulso per giungere a una rendicontazione patrimoniale più efficace. Anche se persistono situazioni paradossali, come un'organizzazione scoperta da poco che affittava appartamenti comunali a studenti dell'università. Ma c'è un'altra legge regionale di cui nessuno parla, quella che prevede la decadenza dal titolo di assegnatario per coloro che hanno ricevuto una condanna per associazione camorristica. «Stimiamo che sono almeno 5000 le persone appartenenti ai clan, condannate e che dovrebbero essere cacciate via - denuncia Lopresto -. Al Comune ci ripetono che non sanno dove sono ma è abbastanza inverosimile visto che il gestore delle case popolari ogni mese spedisce loro il bollettino per pagare l'affitto. Basterebbe chiedere alla Prefettura il casellario giudiziario di chi le abita. L'ultima volta che ho sollecitato questo intervento mi hanno risposto che ci sono problemi tecnici che impediscono di procedere». Lo andiamo a chiedere a un dirigente comunale muniti di una telecamera nascosta e quello che risponde è abbastanza sconcertante: «Problemi dal punto di vista tecnico non ne vedo, piuttosto manca la volontà di farlo perché sarebbe una manovra di guerra, una dichiarazione di guerra. Se io oggi faccio un provvedimento di decadenza nei confronti del camorrista di turno e non lo eseguo, lei capisce che boomerang diventa questa cosa? Perché io non lo eseguo. Oggi almeno posso dire "non so chi siano"…». E poi ci saluta segnalandoci che il problema vero è l'infiltrazione all'interno della macchina comunale: «Sarno non è un cognome qualunque, nel momento in cui ricevi una richiesta con questo nome, vuoi chiedere un certificato?». Una dichiarazione che fa il paio con un altro fuorionda, stavolta dell'assessore Fucito: «Sa quante volte ho segnalato queste situazioni alla Prefettura? Proposi gli sgomberi al prefetto Musolino, mi rispose "Ma no, ma che ci mettiamo a fare?". La verità è che sono dei cialtroni, non si attivano». Poco dopo un altro dipendente comunale rincara la dose: «Abbiamo inviato segnalazioni precise di compravendite (di alloggi, ndr) con i nomi dei soggetti ma la Prefettura e la Questura non ci hanno mai convocato, non lo ritengono meritevole di attenzione».
Garante minori da shock: Napoli, allarme incesto, scrive Valeria Chianese il 21 giugno 2016 su Avvenire. La prima ricerca in Campania sugli abusi intrafamiliari sui minori, condotta dal Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Campania, Cesare Romano, in collaborazione con la ricercatrice Ida Romolini e l’Associazione di volontariato Iuvare, ha rivelato risultati sconvolgenti. Sarebbero oltre 200 i casi stimati di abusi intrafamiliari subiti dai minori in Campania. Maltrattamenti e violenze tra le mura domestiche, trasformate in stanze di tortura e di orrori. Le vittime sono per lo più minori in età preadolescienziale, pari all’80% e, nell’87% dei casi si tratta di bambine tra i 6 e i 10 anni. «Abbiamo fatto questa ricerca per evidenziare che il fenomeno è abbastanza consistente, è trasversale ed è molto sommerso – è la sconcertante affermazione di Cesare Romano. – Abbiamo testimonianze dirette e indirette, anche se non compaiono nella ricerca, che ci sono intere zone in cui l’abuso sessuale, l’incesto, è elevato a normalità». Il rapporto, presentato ieri, è cominciato nel novembre 2013 ed è proseguito per tutto il 2014. Ha interessato, a campione con questionari anonimi, 45 Comuni (il 12% delle amministrazioni locali) e 31 Ambiti territoriali (il 60% di tutti gli Ambiti). Ma diversi enti secondo il Garante campano non hanno collaborato. Romano ha precisato di avere chiesto, tramite la Curia di Napoli, la collaborazione delle parrocchie, da cui non ha avuto risposta. Due anni fa il cardinale Sepe indicò un sacerdote all’interno della commissione del Garante, nomina non formalizzata. «Essendo dati sensibili – precisa Enzo Piscopo, portavoce della Curia – i parroci non possono comunque divulgarli». Il Garante ha anche elencato alcune zone "critiche": le Salicelle ad Afragola, Madonnelle ad Acerra, quartieri di Napoli, e il Parco Verde a Caivano. Tutte zone di degrado, di povertà, dove sono assenti i servizi sociali e lo Stato. Considerazioni che amareggiano don Maurizio Patriciello, parroco al Parco Verde che ribatte: «Uno sciacallaggio mediatico impressionante, frutto di un discorso pigro e disonesto che ha voluto equiparare la povertà, che diventa miseria, alla pedofilia». Si tratta invece di un fenomeno che riguarda «ricchi, professionisti, persone che conoscono bene i posti dove le ragazzine, le bambine, si possono comprare per pochi euro. Non ci si rende conto che così facendo – sottolinea don Patriciello – si fa un piacere ai pedofili di tutto il mondo». Gli fa eco un altro sacerdote in prima linea contro la pedofilia. I bambini vanno anche educati – dice don Fortunato Di Noto, fondatore e presidente dell’Associazione Meter Onlus – credo che occorra lavorare molto su questo fenomeno aberrante che richiede tanta determinazione». L’obiettivo del Garante campano è andare verso un sistema regionale di raccolta dati per arrivare all’istituzionalizzazione di sistemi e procedure che siano in grado di individuare le giovani vittime, tutelarle e perseguire i responsabili. «Vogliamo accendere i riflettori su questo fenomeno – ha sottolineato Romano – e fare qualcosa che sia non solo un approfondimento, ma soprattutto prevenzione e contrasto a un fenomeno che va sicuramente combattuto». Sui dati è intervenuto anche Andrea Orlando, ministro per la Giustizia, a Napoli per una iniziativa della Comunità di Sant’Egidio: «Pensare di risolvere solo con le norme è illusorio oltre che fuorviante. C’è un tema della scuola, dei servizi sociali, di sottosviluppo». Poi c’è un ambito «che riguarda il degrado sociale e che può essere affrontato solo attraverso strumenti diversi dalla giustizia». Da Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, la richiesta di maggiore consapevolezza e "una più adeguata offerta di servizi, unita alla predisposizione di sensori efficaci in grado di cogliere i segnali d’allarme". Creando una cultura del rispetto del bambino, con il contributo di insegnanti, pediatri e figure a contatto con le famiglie.
Napoli, l’allarme dei magistrati. Liberi migliaia di condannati. Il Csm: 50 mila sentenze non eseguite, tra cui 12 mila con pene detentive, scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera” il 17 giugno 2016. A volerla guardare in positivo si può mettere così: nei tribunali di Napoli (la sede centrale e quello di Aversa-Napoli Nord istituito tre anni fa) la tanto vituperata lentezza dei giudici produce sentenze a un ritmo più alto di quanto il sistema giustizia sia in grado di assorbire. Ma sui dati forniti dal presidente della Corte d’Appello, Giuseppe De Carolis, in una lettera al ministro Andrea Orlando e rilanciati ieri dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, il campanello d’allarme suona forte: «Nel distretto ci sono oggi 50 mila sentenze definitive non eseguite, di cui 20 mila di assoluzione e 30 mila di condanna», sottolinea Legnini. E tra le condanne, ribadisce De Carolis, «12mila riguardano esecuzione di pene detentive. Migliaia di persone che — se le condanne superano i due anni — dovrebbero essere in carcere e invece non ci sono i mezzi per dare seguito alle sentenze. Le soluzioni ci sono, ma occorre far presto». Il ministro Orlando ha già disposto l’invio degli ispettori: «Stiamo prevedendo una serie di misure di rafforzamento della presenza del personale di cancelleria, ma distretti che hanno uguali scoperture non hanno accumulato questo ritardo». «Una nuova ispezione è inutile. La causa è chiara: la mancanza di personale amministrativo», ribatte il consigliere del Csm, ed ex pm anticamorra, Antonello Ardituro. Navigando più in profondità nei dati, la situazione si aggrava. Intanto le condanne ineseguite riguardano spesso più persone alla volta, quindi il numero di «detenuti virtuali» va rivisto al rialzo. Poi c’è un fattore economico, sottolineato dal procuratore generale di Napoli, Luigi Riello: «Si parla anche di confische non eseguite, con il duplice aspetto che beni sotto sequestro restano a carico dello Stato per la gestione e non producono introiti con le possibili vendite. E mancata esecuzione significa anche mancato incasso delle pene pecuniarie». Le ragioni di questo disastro sono diverse. Il blocco delle assunzioni che risale al 1998, salvo quelli che Riello definisce «pannicelli caldi» forniti sporadicamente negli anni. Il Csm fa una stima tra il 20 e il 40% di personale mancante negli uffici. E quello che c’è, aggiunge De Carolis, «spesso non è formato a sufficienza o è calcolato su piante organiche stimate per carico di lavoro precedente alle ultime riforme». Una metafora del presidente della Corte d’Appello sembra efficace: «È come avere i chirurghi in sala operatoria senza il decisivo apporto degli infermieri». Le sentenze non eseguite nel 2009 erano 15mila. Sono quindi aumentate al ritmo di cinquemila l’anno. E sulla Corte d’Appello, competente per le delle esecuzioni, grava ora anche Napoli Nord, che include il territorio dei Casalesi, città come Caivano, la Terra dei Fuochi, e su cui gravita un milione di persone. Il neonato tribunale è già in apnea. «A Napoli si concentrano tutte le criticità ma anche le positività del sistema giudiziario per l’impegno dei magistrati che ci lavorano», sottolinea Legnini. «Il distretto giudiziario di Napoli è il più grande d’Italia — ragiona Riello — e nell’ultimo anno ha prodotto la cattura di 55 latitanti, il sequestro di beni per 1,3 miliardi di euro e, a conferma indiretta del lavoro svolto, un attentato sventato al procuratore Giovanni Colangelo. Siamo di fronte a un’emergenza nazionale, con magistrati frustrati e cittadini senza risposte».
Sos dalla Corte d'Appello: incontro con il Csm per il caso delle 50mila sentenze definitive mai eseguite, scrive Dario Del Porto il 17 giugno 2016 su "La Repubblica". La giustizia degli impuniti. Almeno 12 mila persone, condannate con sentenza passata in giudicato a pene che prevedono la reclusione in carcere, sono tuttora tranquillamente a piede libero e risultano incensurati. I verdetti di colpevolezza, pur definitivi, sono infatti fermi in Corte di Appello in attesa di esecuzione. È questo il dato più aggiornato, di sicuro il più allarmante, emerso dal monitoraggio disposto dal presidente della Corte, Giuseppe De Carolis, per provare a fare chiarezza sul caso delle sentenze non eseguite a causa della gravissima carenza di personale amministrativo che grava sull'ufficio. "Un buco nero", lo aveva definito nei giorni scorsi il presidente De Carolis a Repubblica. L'alto magistrato ha completato lo screening avviato con la collaborazione della cancelleria e, come anticipato, ha scritto al ministro della Giustizia Andrea Orlando e al Consiglio superiore della magistratura per segnalare la situazione. E Orlando oggi rende noto di aver chiesto all'ispettorato del ministero di "svolgere accertamenti per individuare tutte le cause che nel distretto di Napoli hanno generato il problema di decine di migliaia di sentenze ineseguite". Al ministro replica il consigliere del Csm Antonello Ardituro: "Gli accertamenti sono inutili, l'ispezione c'è stata da poco. La causa si conosce già: la carenza di personale amministrativo". Le sentenze d'appello già definitive ma non ancora eseguite sono in totale circa 50 mila così suddivise: 20 mila sono di assoluzione e prescrizione. Le altre 30 mila si riferiscono a verdetti irrevocabili di condanna. Parliamo dunque di processi definiti in primo e secondo grado, scampati alla prescrizione e per i quali non è stata proposta impugnazione davanti alla Corte di Cassazione Di queste sentenze, almeno 12 mila prevedono la pena della reclusione dell'imputato. Il numero è evidentemente approssimato per difetto, perché nulla esclude che ogni singolo processo si sia concluso con la condanna alla reclusione di più di un imputato. La pena non è stata ancora eseguita perché non è stato emesso l'estratto esecutivo, indispensabile per completare formalmente il procedimento e trasmettere gli atti alla Procura per l'ordine di carcerazione. Più tempo passa, più aumentano le possibilità per il condannato di farla franca, perché la legge prevede che anche la pena possa estinguersi se non sia stata data esecuzione alla sentenza entro certi termini. Senza contare altre ricadute di carattere economico, ad esempio le pene pecuniarie che non vengono riscosse, spese di giustizia non recuperate e beni non confiscati. Alla base di questo ingorgo, aveva ricordato il presidente De Carolis, c'è un paradosso: la grande produttività dei magistrati napoletani che si scontra con la carenza di personale amministrativo. La questione è stata ribadita questa mattina dal presidente della Corte nell'incontro con il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, a Napoli, accompagnato dai consiglieri "togati" Antonello Ardituro, Lucio Aschettino e Francesco Cananzi, per incontrare i capi degli uffici giudiziari del distretto. "A Napoli si concentrano tutte le criticità e le emergenze, ma anche le positività del sistema giudiziario italiano - ha detto il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini- Il Csm ribadisce le richieste sugli organici del personale amministrativo e dei magistrati evidenziate nella delibera assunta il 15 giugno scorso". Nel dettaglio "la scopertura degli organici dei soli magistrati - ha detto il consigliere Antonello Ardituro - oscilla tra il 20 ed il 40 per cento". La delegazione ha visitato anche il tribunale di Aversa Napoli Nord, il più giovane ufficio giudiziario d'Italia, partito a carico zero ma a sua volta alle prese con enormi vuoti nell'organico amministrativo.
Le donne di Scampia, il vero nemico della Camorra. Casalinghe che non lasciano i figli per strada e li invogliano a studiare. Le mamme del quartiere spiegano come combattono la criminalità, scrive Nadia Francalacci il 27 maggio 2016 su "Panorama". C’è un’apparente indifferenza e un silenzio surreale mentre varchi la soglia del quartiere di Scampia. Un’indifferenza che in realtà è tutto meno che indifferenza. Le persone ti osservano, spiano ogni tuo movimento. Non parlano. Sei un forestiero che entra a Scampia, in quella terra ai margini della Napoli “bene”, abbandonata dalle Istituzioni e sembra anche da Dio. La gente vuole prima capire chi sei. E’ diffidente. Ma non ci vuole poi molto perché quella diffidenza e quel silenzio si trasformi in accoglienza, sorrisi e disponibilità. La gente che ti guarda da dietro le finestre non ha problemi a scendere in strada e a parlare ma soprattutto a denunciare. Non ha paura. Anzi. Non vede l’ora di parlare del disagio e della ghettizzazione di Scampia come “il quartiere” della Camorra anzi di Gomorra. La gente di Scampia è coraggiosa. E odia Gomorra perché ha distrutto e continua a distruggere tutto il bello che c’è a Scampia. “E ce n’è assai di cose bbuone a Scampia”. Ci dicono. La gente è stanca di sentire in televisione o di leggere sui giornali che il loro quartiere è il ‘male assoluto’ di Napoli, “è Camorra”. “A Scampia ci vive tanta gente perbene che lotta ogni giorno contro la Camorra- racconta a Panorama.it, Assunta, una casalinga che abbiamo incontrato in un parcheggio davanti alle Scuole Medie “Virgilio 4”, a pochi metri dalle Vele - gente con dei valori morali che lotta veramente contro la mafia e la criminalità. Non siamo mica tutti i personaggi di Gomorra. Qui non c’è lo Stato che combatte i boss ma noi mamme che gli togliamo i nostri figli”. Sono le 12.30 e Assunta è seduta all’interno di una Fiat Punto di colore blu, vecchio tipo, parcheggiata nel cortile davanti alla scuola. Ci vuole almeno un quarto d’ora prima che decida di scendere. Aveva abbassato tutto il finestrino e parlava con le braccia appoggiate fuori. “Sto aspettando che esca mio figlio – continua- l’ho accompagnato questa mattina e adesso lo vengo a riprendere”. Lo fa tutti i giorni? “Spesso” Abitate lontano da qui? (Indica con un dito una parte delle Vele che non distava più di 80-100 metri dalla scuola, ndr.) Laggiù. Perché lo viene a prendere? Non è molto distante... Perché non deve stare in mezzo alla strada. E poi parlo con le insegnati quando escono. Assunta non è la sola mamma che aspetta il proprio figlio. In una mezz’ora arrivano anche altre decine di donne tutte a riprendere i propri figli e tutte residenti all’interno delle Vele. In tre si avvicinano. “Ho tre figli e li seguo tutti: li accompagno e li vado a riprendere- continua Vanessa, una donna che ha 31 anni nata a Casalnuovo di Napoli e trasferita a Scampia a 19 anni appena sposata – e il pomeriggio li porto in palestra o a calcio. Se stanno in mezza alla strada non ritornano più”. “Non bisogna lasciarli soli- continua Assunta, che dopo essere scesa dall’auto faceva fatica a stare zitta – sappiamo che non possiamo proteggerli ma l’unico modo per non farli diventare camorristi, non farli finire in carcere o ammazzati, è farli studiare”. Quelle di Vanessa e Assunta non sono solo parole. A Scampia ci sono centinaia di donne che seguono i propri figli fin all’interno delle classi, vanno a parlare periodicamente con le insegnanti o la preside e si accertano che i figli facciano tutti i compiti a casa. Ma soprattutto non facciano deviazioni sul tragitto casa-scuola-casa. Non solo, sono le prime a partecipare a gare o corsi di cucina organizzati dagli istituti. “Le donne di Scampia sono la vera ricchezza di questo quartiere – ci conferma Lucia Vollaro, Preside dell’Istituto Comprensivo Statale “Virgilio 4” di Scampia – sono le mamme che con la loro presenza costante evitano la dispersione scolastica e di conseguenza la nascita di piccoli criminali, spesso destinati ad una vita per strada”. “Le mamme di Scampia sono davvero donne molto coraggiose – conclude la preside – lottano davvero contro la Camorra e la criminalità organizzata e lo fanno quotidianamente mandando i figli a scuola. Le donne hanno capito che per sconfiggere la mafia bisogna combattere l’ignoranza”.
Brogli a Napoli, il Pd trema. I pm setacciano i computer. La procura partenopea ha acquisito nelle ultime ore le immagini del video del sito Fanpage.it su presunti scambi di soldi davanti ai seggi. Si aggrava la posizione delle due donne perquisite, scrive Simone Di Meo, Venerdì 10/06/2016, su "Il Giornale". Napoli Fioccano le inchieste a Napoli. La procura partenopea ha acquisito nelle ultime ore le immagini del video del giornale Fanpage.it su presunti scambi di soldi davanti ai seggi, in occasione del voto di domenica scorsa. Il filmato, realizzato da cronisti con telecamere nascoste in diverse zone della città, si sofferma in particolare su un Caf del rione Sanità dove si vedono entrare diverse persone munite di schede elettorali. È il terzo filone aperto dagli inquirenti dopo quello sulle monetine da un euro regalate alle primarie Pd del 6 marzo scorso e quello che vede indagate due candidate del Pd per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Su quest'ultima tranche potrebbero arrivare ben presto sviluppi alla luce dell'analisi dei due computer e degli elenchi che sono stati sequestrati, l'altro ieri, nelle abitazioni e nei comitati di Anna Ulleto (eletta al consiglio comunale con 2200 preferenze) e di Rosaria Giugliano; in corsa, quest'ultima, invece, alla Municipalità Mercato-Pendino. Sono entrambe accusate di aver rastrellato voti in cambio secondo la ricostruzione del pm Francesco Raffaele e dell'aggiunto Alfonso D'Avino dell'inserimento in «Garanzia Giovani», il progetto finanziato dalla Regione Campania che prevede un sussidio di tremila euro per sei mesi a favore di giovani allocati, per progetti a tempo, in aziende pubbliche o private. Dal fronte giudiziario a quello politico, la temperatura resta sempre alta in vista del ballottaggio del 19 giugno prossimo. Il candidato del centrodestra Gianni Lettieri analizzando i flussi elettorali dei quartieri di Scampia, San Pietro a Patierno, San Giovanni a Teduccio e Barra ha alzato il tiro contro lo sfidante Luigi de Magistris: «Non è certamente una coincidenza che il 5 giugno si è registrato un voto massiccio in favore del sindaco uscente proprio in determinate zone della città, da sempre, a rischio di inquinamento nell'espressione del voto ha attaccato. C'è da pensare che preferiscono un sindaco e un'istituzione debole che non controlla il territorio, rispetto a chi, come me, ha sempre tenuto la schiena dritta contro la criminalità organizzata». Il colpo più profondo l'ha sferrato però Antonio Bassolino nei confronti del suo stesso partito con cui è ormai in guerra da mesi. «Renzi intervenga con determinazione, prima che il Pd precipiti in un burrone politico e morale ha denunciato l'ex sindaco. Per rimetterlo in piedi si deve rifare tutto: commissariare il Pd provinciale e regionale con persone autorevoli e fuori dalle rigide correnti. Azzerare l'attuale tesseramento militarizzato e lottizzato».
Benvenuti ad Acerra, dove il voto si compra con 20 euro. Il voto di scambio è prassi nel napoletano: «Qui tutti fanno così. Il più ricco offre di più e in genere è quello che vince.» - di Antonio Crispino/Corriere TV del 24 maggio 2016. In molti ad Acerra non vedono l'ora di tornare a votare. Passione civile? «No. Ci sono troppi disoccupati e almeno in quel mese vediamo qualche euro» risponde un ragazzo sui trent'anni nel rione Madonnelle, uno dei tanti rioni di questo popoloso comune alle porte di Napoli che reclama i natali di Pulcinella. Sessantamila abitanti. Gli euro di cui parla sono quelli che elargiscono i vari candidati in campagna elettorale. Un argomento convincente per tanti che ormai non ne fanno più un mistero: «Io li ho presi perché non ho un lavoro e venti euro mi fanno comodo». Venti euro? «Sì, questo pagano per ogni voto dato in cambio. Qualche altro un po' più ricco offre cinquanta euro e in genere è quello che vince. Ma qui tutti fanno così». Quella del ragazzo sembra una provocazione ma non lo è. Continuiamo le nostre interviste in giro per il rione e la maggior parte confermano tutti: «Sì, abbiamo avuto soldi in cambio dei voti, non è una novità, a ogni elezione è così» dice una donna con la figlia sotto al braccio. Ma non solo soldi. Secondo gli inquirenti che hanno avviato un'inchiesta (che ad oggi non ha portato ad alcun esito), in campagna elettorale fioccano i posti di lavoro. Incontriamo il testimone chiave. Racconta di come sia stato assunto in cambio di voti: «In un primo momento venne la mamma di Nicola Ricchiuti, candidato consigliere (Ricchiuti fu eletto in consiglio comunale con 341 voti, poi dichiarato decaduto in seguito all'inchiesta della magistratura, ndr). Disse che il figlio mi avrebbe dato un lavoro se mi fossi impegnato per la campagna elettorale. E così fu». Il candidato lo convocò il giorno dopo presso l'ufficio della Metronotte, un istituto di vigilanza privata, e gli consegnò la divisa. La stessa settimana iniziò a lavorare, sia come vigilante che come procacciatore di voti. Poco importò se la persona in questione aveva precedenti per droga e falso. Quello che emerge dall'inchiesta però è solo la punta di un iceberg più grande dove la regola sembra essere la sistematica compravendita del voto. Bisogna andare in città, quartiere per quartiere, casa per casa; la gente lo ammette in modo cristallino. A libro paga ci sarebbero bollette della luce, affitti di locazione e buste della spesa. Proprio così. Cinquanta euro di spesa gratis in cambio del proprio voto. Ecco cosa ci racconta un altro testimone: «Fui avvicinato dal proprietario del supermercato che si trova proprio qui nel rione. Mi chiese se volevo fare la spesa gratis in cambio del voto per un consigliere comunale. Sinceramente accettai. Anzi, portai anche mia sorella, mia mamma, la mia vicina di casa…». E chi è questo consigliere comunale? «Si chiama Puopolo, poi è stato eletto. Ma nello stesso periodo venne anche la mamma di un altro candidato consigliere, Antonio L., e ci propose il pagamento del pigione in cambio dei voti per il figlio». Pino Puopolo è un consigliere di maggioranza eletto nelle liste dell'Udc. Il più votato. La media dei suoi voti è di 9 per ogni seggio. Ma nel quartiere dove realizziamo le interviste i voti si quintuplicano e toccato il picco: 54. Lo incontriamo nella sede del Comune dopo un lungo corteggiamento ma evita qualunque risposta. Anzi, quando gli riferiamo le testimonianze raccolte iniziano spintoni e aggressioni. Non prima di aver negato di conoscere qualsiasi supermercato e di non aver mai comprato buoni spesa. Poco dopo ci rechiamo nel market che tutti ci indicano, e il titolare, ignaro di essere ripreso da una telecamera nascosta, ci racconta tutta un'altra storia: «Certo che lo conosco Puopolo. Nel periodo elettorale mi limitavo a ritirare i buoni che lui regalava e a consegnare la spesa. Mi pagò anticipatamente e mi disse: "Questo è il numero di buoni che ho consegnato, quindi da te devono venire queste persone"». Prima di andare via ci viene spontanea una domanda: alla fine lei lo ha votato questo consigliere? «Ora vuoi sapere troppo. Io lo dovevo fare con discrezione perché oltre a lui qui viene anche un altro partito che mi consuma tanta merce e non posso far vedere che sto schierato con uno piuttosto che con un altro». Infatti i periodi elettorali qui sono una guerra e bisogna stare attenti da che parte stare. Ne sanno qualcosa almeno otto candidati che prima del voto hanno ricevuto schiaffi, minacce, proiettili sotto casa, lettere minatorie, abitazioni danneggiate. Come Paola Montesarchio, candidata in una lista civica e oggi segretario cittadino del Pd. Le serrature di casa sua e poi quelle dei suoi genitori sono state sigillate con il poliuretano. È andata peggio a una sua collega che vuole restare anonima per paura di altre ritorsioni. La sua auto è stata bloccata in strada da due uomini su una moto. «Uno di loro mi disse chiaramente di andare via altrimenti mi sarei fatta male. Volevano che mi ritirassi da quel partito. Alla fine mi ritirai anche perché mi resi conto che non potevo competere con gli altri: persone che conoscevo benissimo davano anche 300 euro in cambio dei voti». Tra questi ci sarebbe l'attuale sindaco, Raffaele Lettieri. «Non veniva lui personalmente ma c'erano dei ragazzi che ti fermavano e proponevano 20 e 50 euro in cambio di un voto per lui». Lettieri è un geometra che, secondo un'informativa dei carabinieri, ha curato alcune pratiche edilizie per la nipote di Mario De Sena, camorrista di spicco della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e a suo tempo inserito tra i 500 latitanti più pericolosi (oggi in carcere). Gli stessi inquirenti segnalano come nelle sue liste fossero presenti numerosi pregiudicati. Cerchiamo un incontro per chiedergli conto di questo e di altro ma quando gli spieghiamo di cosa vogliamo parlare il sindaco scappa letteralmente. Il suo antagonista alle ultime elezioni Antonio Crimaldi va ben oltre. In un esposto lo accusa di brogli elettorali e di condizionare appalti, incarichi e assunzioni. Non una novità per i carabinieri che in un'informativa citano il parere di un ispettore del ministero dell'Economia in visita al Comune: «… ci sono numerose anomalie nei concorsi, negli incarichi esterni e nell'avanzamento di carriera da parte di dirigenti che sono stati assunti con contratto a termine e successivamente stabilizzati proprio dai politici citati». Ma «attenzione», dicono gli inquirenti. «Ad Acerra anche coloro che apparentemente denunciano le illegalità sono parte dello stesso sistema». Infatti a ben vedere Crimaldi e Lettieri facevano parte dello stesso partito. Gli investigatori evidenziano come anche Crimaldi «elargiva favori in cambio del voto» addirittura presso l'ufficio di un geometra comunale. Oltre a notare il coinvolgimento del noto pregiudicato Tortora Gaetano detto «o' bob» a favore delle sue liste. E poi viene intercettato mentre cerca di convincere Nicola Ricchiuti, l'imprenditore della vigilanza privata di cui abbiamo parlato all'inizio, a passare nelle sue liste: «Tu decidi che cosa vuoi fare… se vuoi crescere a livello lavorativo… se vuoi crescere a livello politico… si possono aprire tanti discorsi.» E il consigliere risponde: «Antonio, non ho ideali né con la sinistra né con la destra… per il momento corro dove sto correndo, sempre per i miei interessi… Io voglio stare con chiunque se mi dà qualcosa…». Da un paio di mesi il comune di Acerra è sotto la lente d'ingrandimento della Prefettura di Napoli assieme ad altri 26 comuni della provincia. Un'attenzione che si aggiunge a quelle delle procure che indagano dal 2012. L'anno prossimo si ritorna al voto.
Pd, tra veleni e signori delle tessere. Un partito scalabile con 21 mila euro. Nel capoluogo campano 2.800 tesserati, ogni iscrizione costa 15 euro. Il nodo trasparenza: il potere di veto in mano a pochi e il senso delle primarie, scrive Marco De Marco il 9 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". Le primarie annullate cinque anni fa a Napoli e quelle, su cui infuria la polemica, di domenica scorsa, più o meno compromesse, nonostante l’app anti-brogli, dal cliccatissimo video accusatorio di Fanpage. Il caso Salerno, dove in provincia e città sono molti gli episodi di opacità elettorale di cui si sta occupando la magistratura: dalle urne «insaccate» di schede prevotate, agli elettori pagati con le monete del «Bingo». I fatti di Casavatore, che vedono come protagonista il capogruppo Pd (poi dimessosi) indagato per voto di scambio con l’aggravante del metodo mafioso. Sono tutti segnali di una falla apertasi nel sistema di raccolta del consenso. E tutti suggeriscono un’unica domanda: che fine ha fatto il voto d’opinione? Un partito come il Pd, che sul tema della trasparenza elettorale si è sempre proposto come modello e ha appena impartito una lezione ai grillini a proposito di Quarto, difficilmente potrà ora limitarsi alle solite formule di rito, ai vedremo, faremo e via minimizzando. E tantomeno alle sdrammatizzanti battute di Vincenzo De Luca. I fatti di Napoli? «Babbarìe», da babbà. Sciocchezze, dice il governatore campano ricorrendo al dialetto in uso nell’Agro Nocerino-sanese. Cosa è dunque accaduto in casa Pd? Quale anello della catena, e perché, si è spezzato? Era opinione assai diffusa, tra i politologi e non solo, che la caduta del muro di Berlino avrebbe favorito flussi elettorali dal voto ideologico o di appartenenza a quello di opinione. Ed era ancor più forte la convinzione che un altolà alle pratiche del voto di scambio, specialmente nei territori di camorra, avrebbe ancor di più liberato il voto. La primavera dei sindaci, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, apparì come una conferma di queste ottimistiche previsioni. La realtà è invece andata da un’altra parte, come confermano i recentissimi fatti di Napoli, per quanto marginali e ancora tutti da accertare. A Napoli, e forse non è un caso, è da dieci anni, dalla riconferma di Rosa Russo Iervolino, che il centrosinistra, di cui il Pd è massima parte, non vince. Il Pd si sta ora arricchendo con forze nuove, naturalmente, ma intanto ha progressivamente allentato i rapporti con molti non professionisti della politica. Tra gli attuali parlamentari non c’è un solo professore universitario; molte personalità di un tempo (l’ex presidente del Cnr Gino Nicolais, il filosofo Eugenio Mazzarella, l’italianista Emma Giammattei) sono impietosamente scivolate ai margini della scena pubblica, mentre hanno conquistato le prime file i figli d’arte, a cui i padri hanno trasferito ingenti pacchetti di tessere. E gli iscritti si sono ridotti al minimo storico. A duemilaottocento, per la precisione, e senza che mai si sia riflettuto sufficientemente su cosa questo comporti. Su cosa può produrre, cioè, il combinato disposto di un partito non più di massa e non ancora di opinione, viste le note difficoltà del renzismo di estendersi in periferia. La prima conseguenza, come si è visto proprio in occasione delle primarie di domenica, è che tutto il potere di veto è tornato nelle mani di pochi signori delle tessere. L’ex sottosegretario Umberto Ranieri, tante per dirne una, non è riuscito a presentarsi alle primarie di Napoli proprio perché ormai fuori da questo giro: servivano 400 firme di tesserati, ma non ce n’erano più di disponibili, avendo già tutti sostenuto altre candidature. Il partito è diventato così un meccanismo perfetto, ma nel senso di perfettamente manovrabile, come può esserlo, insomma, quello di un orologio a cui puoi caricare la sveglia, rinviarla o, se ormai inutile, annullarla. Del resto, come è stato possibile indicare in anticipo quanti sarebbero stati quest’anno i votati alle primarie? Si è detto che trentamila (cioè suppergiù il numero delle tessere moltiplicato, come prassi, per dieci) sarebbe stato un buon risultato. E guarda caso tanti sono stati. E come ha fatto Valeria Valente a stappare lo spumante e a dare l’annuncio della vittoria, con assoluta certezza, a scrutinio ancora in corso, e nonostante si sapesse del risicatissimo margine di vantaggio (452 voti, alla fine)? Mistero. Un partito dove tutto è già scontato non esclude il voto d’opinione, ma certo è difficile che lo incoraggi. Ma per paradosso, un partito così perfettamente controllabile è anche un partito facilmente scalabile. Vuol dire questo. I tesserati, si è detto, oggi a Napoli sono 2.800, ogni tessera costa in media 15 euro. In linea teorica potrebbe bastare un investimento di 21 mila euro per garantire a chicchessia il controllo del 51% del partito. E cioè per rivendicare una adeguata rappresentanza negli organismi dirigenti, indicare le candidature nelle istituzioni, orientare le scelte politiche locali e condizionare quelle nazionali. Un film di fantapolitica? Certo. Eppure ne stiamo già vedendo i primi trailer.
Primarie truccate a Napoli, aperta un'indagine, scrive “Libero Quotidiano” l’8 marzo 2016. Non si placano, come è naturale che sia, le polemiche derivanti dal video pubblicato da Fanpage riguardo lo scandalo che ha visto protagoniste le primarie del Pd a Napoli. Nel filmato si vede come consiglieri comunali e municipali Pd erano piazzati fuori dai seggi a distribuire monete da un euro per poter votare, come previsto dal regolamento. I casi individuati dai giornalisti napoletani prevedevano che il voto fosse indirizzato verso la Valente, candidato vincente di misura contro Antonio Bassolino. In merito alla vicenda l'entourage di Bassolino sta pensando ad un ricorso mentre la procura di Napoli aprirà un'indagine conoscitiva: il procuratore aggiunto Alfonso d'Avino acquisirà il video incriminato e aprire un'inchiesta. Convocata anche la direzione del Pd dal presidente Matteo Orfini per il prossimo 21 marzo per discutere di quanto successo all'interno del partito negli ultimi giorni.
Suore, boss, caffè pagati Consultazione viziata da trucchi e mancette, scrive Simone Di Meo, Martedì 08/03/2016 su “Il Giornale”. Napoli Perde il pelo ma non il vizio, il Pd. Nel 2011 furono cinesi e camorristi a inquinare le primarie per la scelta del candidato sindaco di Napoli, oggi - cinque anni dopo - le ombre tornano ad allungarsi in particolare sui quartieri controllati dai clan: Scampia, Secondigliano e San Giovanni a Teduccio. I rioni dove la deputata renziana Valeria Valente ha probabilmente conquistato la vittoria grazie a una rete di «galoppini» e di sostenitori dai modi assai disinvolti. Giovani che non hanno avuto remore a distribuire monete da 1 euro ai votanti davanti ai seggi, come testimoniato da un filmato del giornale online Fanpage.it. In un'immagine è addirittura il consigliere comunale Antonio Borriello, ex bassoliniano di ferro tra gli artefici del successo della candidata di apparato, a consegnare i soldi a un uomo. Il mercato delle preferenze dem stavolta è stato meno sfacciato ma non meno movimentato rispetto al passato. Per portare gli elettori a depositare la scheda nelle urne - confida al Giornale un testimone oculare - c'è chi ha distribuito addirittura biglietti per il trasporto pubblico, dal bus al tram alla funicolare. Un piccolo regalo per chi non voleva spendere nemmeno i soldi per titolo di viaggio. Per strappare un voto anche snack da offrire dopo pranzo o di buon mattino. Nei quartieri del centro storico, alcuni fan hanno corteggiato i passanti con la classica tazzulella di caffè. L'aggancio, una chiacchierata veloce al bar di fronte per convincere l'improvvisato elettore con un caffè, e poi di corsa al gazebo a esprimere la preferenza a costo zero. In fila, nella zona del Pendino, dove risiede la Valente, si sono messe pure due suore - immediatamente ribattezzate «le sorelle dem» - che hanno versato l'obolo da 1 euro. Sempre a Secondigliano sono stati visti leader delle cooperative di detenuti, immigrati e disoccupati storici. Erano state presentate come primarie ad alta tecnologia (la segreteria provinciale aveva speso 8mila euro per acquistare 80 tablet su cui installare una app per evitare doppi o tripli voti, mettendo in rete tutti i seggi della città) ma la speranza è durata appena 600 secondi. Dieci minuti dopo l'apertura dei seggi la app è andata in tilt e sono ritornati i vecchi sistemi di conteggio con carta e penna.
Napoli, le pistole dei ragazzi invisibili e quelle vittime senza colpa. Il racconto. Dal negoziante colpito per caso al giovane ucciso per sbaglio a due passi da una pizzeria famosa. Gli ultimi morti di camorra spesso sono incensurati. Il loro errore? Trovarsi sulla traiettoria dei proiettili delle gang che la città fa finta di non vedere, scrive Roberto Saviano il 6 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Napoli è tornata a sparare? No, non ha mai smesso: si è solo spenta l'attenzione nazionale. Napoli, 31 dicembre 2015, piazza Calenda, pieno centro storico. Fai due passi e sei da Michele Condurro, la storica pizzeria di Forcella, quella con i tavolacci, sempre affollata di turisti fino a esaurimento pizze. Alle 19.30 entrano in un bar e iniziano a sparare. Muore Maikol Giuseppe Rossi, 27 anni, pregiudicato. Fine. Pregiudicato: non serve aggiungere altro. Questa definizione, purtroppo, ci tranquillizza: "Ah, era uno di loro....". E invece no. Rossi aveva precedenti per scippo, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, ma non era lui nel mirino dei killer che forse quella sera non avevano nemmeno un obiettivo preciso. Rossi è stato colpito per sbaglio. E per sbaglio è morto, la sera di San Silvestro, nel centro storico di Napoli. In una zona che in genere è piena di turisti (motivo di vanto per il sindaco De Magistris), ma dove quella sera non c'era nessuno, non una telecamera né forze dell'ordine (promesse dimenticate del presidente della Regione De Luca). Dopo l'omicidio pare che il proprietario del bar non abbia chiamato i carabinieri, ma semplicemente abbassato la saracinesca. Chiuso. Questa è Napoli. Sapevo di quest'omicidio prima che ne scrivessero i giornali, perché un amico, passando nella zona del Trianon in macchina, voleva fermarsi a prendere una bottiglia d'acqua per il figlio, ma la polizia aveva già transennato la piazza, e il bar era irraggiungibile. Mi ha scritto dicendomi che non era sorpreso, che queste cose possono capitare. Aveva visto un omicidio di camorra nel parco di fronte casa qualche anno prima, un sabato a mezzanotte. Poi la morte di un camorrista che aveva deciso di stabilirsi nel quartiere, uno di quelli che falsificavano assicurazioni, pianto come persona per bene: "Non ha mai accis'a' nisciun', era una persona per bene". A Napoli si fanno gli scongiuri, si spera sempre di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mi chiedo come faccia la città ad accettare tutto questo. Il 30 gennaio viene ucciso a Ponticelli Mario Volpicelli, l'uomo che gestiva un negozio "tutto a 50 centesimi". La sua morte è quanto di più simile possa accadere a chiunque viva in un territorio in guerra. Finiti i Sarno, a Ponticelli ci si spartisce il regno a colpi di tatuaggi che segnano l'appartenenza a due clan avversi: i D'Amico e i De Micco. Volpicelli era cognato dei Sarno e parente dei De Micco, questo è bastato per essere condannato a morte. Questo basta per essere nella lista nera della faida: ogni faida ne ha una, vi sono scritti i nomi di parenti anche lontani, l'obiettivo è sfidare l'avversario colpendo chi è indifeso; decimare il nemico partendo da chi non si sente in pericolo. Conoscete voi un vostro cugino di secondo grado? Il nipote del fidanzato del cugino di vostra moglie? In tempo di faida si è ucciso per questo. I cadaveri sono lettere che vengono spedite. L'obiettivo è terrorizzare. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, azioni dimostrative in tutta la città, dalla zona di Cavalleggeri d'Aosta a due passi dallo stadio San Paolo alla centralissima Materdei: bottiglie incendiarie e sventagliate di kalashnikov per avvertire, intimidire, annunciare rappresaglie. Il primo febbraio, una "paranza" di dieci ragazzi legati al clan D'Amico, armati fino ai denti sugli scooter, ha invaso e terrorizzato San Giovani a Teduccio: l'obiettivo era Raffaele Oliviero, vicino al clan Rinaldi-Reale. Se guardiamo le azioni di rappresaglia degli ultimi sei mesi, noteremo come la città sia coinvolta tutta, come nessuno possa dirsi al sicuro, e come arresti, processi e condanne, da soli, non abbiano alcun potere di fermare una guerra che va combattuta anche e soprattutto con altri strumenti. Non è possibile leggere questi dati e non comprendere quanto la politica, quella locale e soprattutto quella nazionale, abbia tragicamente fallito. Maggio 2015, Ponticelli: Ciro Rivieccio, 43 anni, pregiudicato, è ferito con tre colpi d'arma da fuoco. Nella stessa notte di giugno, un 23enne con precedenti penali è colpito alla coscia da un proiettile in via Pallonetto a Santa Lucia, luogo di spaccio, e un altro di 32 anni, neanche lui incensurato, è ferito alla gamba destra durante una sparatoria in via Sant'Anna di Palazzo (dove abitavo quando ancora ero a Napoli). E poi un 15enne ferito alle gambe nei Quartieri Spagnoli; era incensurato, ma era con un cugino con piccoli precedenti. E ancora, Soccavo: 46enne con precedenti penali raggiunto da proiettili mentre cammina per strada. Via Costa, quartiere San Lorenzo: feriti in una sparatoria tre minorenni a bordo di uno scooter. Il giorno dopo, e siamo a luglio, nella stessa strada colpi d'arma da fuoco contro un'abitazione al piano terra: è la risposta. A sparare, due ragazzi su un motorino. E poi le "stese" - le chiamano così - di luglio: baby camorristi che mirano a finestre e ad antenne paraboliche trasformando il centro storico in un poligono a cielo aperto. A Fuorigrotta un ragazzo di 21 anni viene raggiunto da un proiettile a una spalla. Si tratta forse di un episodio connesso alla guerra tra ex affiliati ai D'Ausilio, clan di Bagnoli in auge ai tempi della Nuova Mafia Flegrea. In centro, in via Salvator Rosa, un 24enne in scooter viene affiancato da altri ragazzi, anche loro in scooter, che gli sparano. Nella stessa notte, in vico Nocelle, un 25enne viene ferito da colpi di pistola. A Ponticelli, due ragazzi di 19 e 15 anni restano feriti in una sparatoria. Ad Afragola, un uomo di 50 anni con precedenti per estorsione e ricettazione viene colpito a una coscia da un proiettile. Ad agosto muore Luigi Galletta, il meccanico vittima della faida di Forcella, un ragazzo per bene, ucciso perché non voleva truccare i motorini della "paranza". E poi Roberto Rizzo, un ragazzo con piccoli precedenti penali, ferito da colpi di arma da fuoco mentre di notte era in strada con amici. Agli inizi di settembre un uomo con precedenti per droga viene ferito alla gamba da un colpo di arma da fuoco. Ha detto nell'immediato di avere solo avvertito un bruciore, di non essersi accorto dello sparo. E poi Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso in piazza San Vincenzo alla Sanità: i killer in sella a due moto sparano ovunque, il loro obiettivo è fare morti. Segue un raid agghiacciante al Rione Traiano: un numero imprecisato di ragazzi, armati fino ai denti, sparano ininterrottamente facendo esplodere anche una bomba carta. Sul selciato restano circa 60 bossoli di arma da fuoco tra cui quelli di un kalashnikov. E poi, di nuovo a Fuorigrotta, viene ferito Nicola Barbato, poliziotto impegnato nell'operazione antiracket. A ottobre la prima vittima eccellente è Annunziata D'Amico, detta Nunzia la Passilona, reggente dei D'Amico, condannata a morte dal clan nemico di Ponticelli. Poi Ciro Rosano, pregiudicato, ferito nel quartiere San Pietro a Patierno, mentre a Giugliano due persone in sella a una moto esplodono colpi d'arma da fuoco: nel mirino il figlio di un affiliato al clan Mallardo. A novembre a Capodimonte quattro uomini armati di pistole e a bordo di due moto seminano il terrore esplodendo colpi in aria. Un ragazzo di 22 anni viene gambizzato ad Acerra e due persone ferite a Miano. A dicembre, un uomo resta ferito in un agguato a Pianura, un altro ad Afragola. Il 25 gennaio in un agguato a Fuorigrotta viene ferito un 16enne. Poi c'è Giuseppe Calise, 24 anni, ucciso al rione don Guanella mentre il ministro Alfano era in prefettura a parlare della necessità di "far tacere le pistole". E nella notte ammazzano Pasquale Zito, 24 anni: suo zio era stato ucciso nel 2007. Dopo quest'omicidio, a Bagnoli diversi cittadini hanno dichiarato che "non usciremo di casa" rispettando una sorta di coprifuoco imposto dalla faida. Ecco: il catalogo della violenza è questo. E probabilmente è incompleto. Sulla stampa nazionale se ne parla solo quando a morire sono minorenni o incensurati. Gli altri agguati sono cancellati, derubricati a normale amministrazione. Qui la normale amministrazione è una guerra quotidiana legata alla droga e nutrita di omertà, combattuta da centauri non ancora maggiorenni. Ho parlato a lungo con il capo della squadra mobile di Napoli: Fausto Lamparelli conferma che si tratta di ragazzi "giovanissimi, disposti a tutto. Sanno di poter ottenere nel breve periodo potere e soldi pagati poi con la vita o l'ergastolo. Qui non si può procedere solo con l'attività di polizia giudiziaria, noi facciamo la nostra parte, ma la camorra va combattuta con lavoro, impegno, investimento. Cose facili a dirsi, ma difficilissime a realizzarsi". Certo, se ammettessimo che si tratta di un territorio in guerra, capiremmo come non basta affatto avere ex magistrati alla presidenza del Senato, a capo dell'Autorità anticorruzione, alla guida della città per pensare che tutto quello che si più fare lo si sta già facendo. Non basta. Dobbiamo smettere di trattare Napoli come una città normale. Non lo è: i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun'altra città italiana. La politica locale sta mostrando il volto peggiore nell'imminenza del voto. E il territorio è abbandonato, nelle mani dei nuovi capi, ragazzini che contano molto più dei rappresentanti politici. Intere aree della Campania sono nelle loro mani, le abbiamo irrimediabilmente perse, e ancora la politica nazionale pretende di fare campagna elettorale fingendo di non vedere. Mi chiedo perché la città non si ribelli: non si è stancata di valere qualcosa solo sotto elezioni e meno di niente a giochi fatti? Dovremmo pretendere che la nostra città torni a noi. Smettiamo di pensare che l'unico modo che abbiamo per viverci è farlo con un ideologico amore struggente: "Napoli è meravigliosa, chi parla di faide la sta insultando. Questa è romantica omertà che ha come unica conseguenza la rassegnazione. L'Italia sta morendo, lentamente, silenziosamente, e la ripresa non potrà esserci se metà del suo territorio è completamente fuori gioco perché mancano infrastrutture, investimenti e per di più è prigioniera del potere dei clan in guerra. Pubblicavo Gomorra dieci anni fa, i magistrati che ora il governo utilizza per darsi un Dna antimafioso dissero che era un libro importante non solo per quello che avevo scritto, ma perché avevo ricostruito un quadro d'insieme che mancava e, soprattutto, perché finalmente aveva portato attenzione. Dopo dieci anni, di quell'attenzione non è rimasto nulla.
L’affittopoli napoletana finisce in Procura. Aperta un’inchiesta sul patrimonio pubblico. Da anni partiti politici ma anche associazioni occupano immobili pubblici senza pagare il canone d'affitto. La denuncia partita da un'inchiesta giornalistica è arrivata in comune e poi sul tavolo dei magistrati, scrive Vincenzo Iurillo il 3 settembre 2011 su "Il Fatto Quotidiano". Il caso è approdato sulla scrivania del pm di Napoli Ettore La Ragione, della sezione reati contro la pubblica amministrazione guidata dall’aggiunto Francesco Greco. Non poteva essere altrimenti, perché la vicenda è quella dei 31 casi della Affittopoli politica partenopea scoperchiata dal cronista Ciro Crescentini: partiti di tutti gli schieramenti che per anni non hanno pagato i canoni di locazione di appartamenti e locali di proprietà del Comune di Napoli, fino ad accumulare un debito complessivo di oltre un milione di euro, come denunciato dall’assessore al Patrimonio della giunta de Magistris, il dipietrista Bernardino Tuccillo. Il pm La Ragione infatti ha già in corso da quasi due anni un’inchiesta sulla gestione complessiva del patrimonio pubblico napoletano. Quindi ha di fronte a sé due strade: aprire un fascicolo stralcio, oppure far confluire la documentazione dei fitti ai partiti in quello già istruito. In ogni caso, la Procura ha deciso di procedere con approfondimenti e accertamenti per verificare se siano stati commessi reati. Nei prossimi giorni il sostituto procuratore disporrà l’acquisizione formale di atti, delibere, contratti di affitto, e la convocazione dei rappresentanti legali dei partiti che hanno aperto le sedi negli immobili comunali senza pagare un euro o corrispondendo affitti irrisori. Si cercherà di capire attraverso quali criteri case, negozi e locali del Comune di Napoli siano stati assegnati e perché questo andazzo sia durato per anni senza che nessuno sia intervenuto per avviare le procedure di sfratto o per tentare di riscuotere i crediti. Dal tono irritato e dalle numerose smentite pervenute in questi giorni da parte di alcuni esponenti politici, si vuole infine verificare se questi immobili, ufficialmente assegnati alle forze politiche, non siano in realtà finiti in subaffitto. Su questa ipotesi lavora l’assessore al Patrimonio. L’inchiesta madre nacque nel 2010, dopo la decisione dell’amministrazione Iervolino di vendere gli immobili più prestigiosi del Comune di Napoli per fare cassa. Le indagini della magistratura stanno affrontando anche il contenzioso in corso con la ‘Romeo’, la società che ha in concessione la gestione del patrimonio immobiliare napoletano. La Romeo vanta oltre 40 milioni di credito dal Comune. E’ in corso un giudizio, con l’amministrazione che si oppone e contrattacca lamentando presunte inadempienze. Il contenzioso tra la ‘Romeo’ e il Comune ha reso ancora più difficili i controlli dell’amministrazione comunale sui casi di morosità. Ed è anche per questo che l’assessore pare disponibile a un accordo transattivo che preveda un miglioramento dei servizi, la riscrittura e il rinnovo del contratto, in scadenza nel 2012.
Otto mesi di carcere al magistrato Luigi Bobbio: diffamò Carlo Giuliani, scrive "Articolo 3" il 28 gennaio 2016. Aveva offeso su Facebook la memoria di Carlo Giuliani definendolo "feccia" e "teppista". Querelato dai genitori del 23enne rimasto ucciso a Genova il 20 luglio del 2001, durante la manifestazione contro il G8, il magistrato Luigi Bobbio è stato riconosciuto colpevole di diffamazione aggravata condannato a otto mesi di reclusione (con sospensione della pena) e una provvisionale (somma di denaro stabilita dal giudice per la parte danneggiata) di cinquemila euro ciascuno ai genitori di Giuliani, più un risarcimento di danni da stabilire in separata sede. La sentenza è stata emessa dal giudice monocratico Procolo Ascolese, del Tribunale di Torre Annunziata, che ha accolto le richieste del pubblico ministero Mariangela Magariello e delle parti civili rappresentate dagli avvocati Gilberto Pagani e Liana Nesta. Attualmente giudice civile al Tribunale di Nocera, Bobbio è stato attivo in politica per lunghi anni: già esponente di Alleanza nazionale, senatore e capo di gabinetto del ministro Meloni, poi consigliere comunale a San Giuseppe Vesuviano e sindaco di Castellammare di Stabia. Chiusa la lunga parentesi politica, è poi tornato in magistratura. Luigi Bobbio aveva definito Carlo Giuliani “feccia di strada”. Ora il giudice (ed ex politico) è stato condannato per aver offeso la memoria del ragazzo morto durante il G8 di Genova nel 2001. Bobbio aveva insultato Giuliani in un post su Facebook ed è stato condannato a otto mesi. Attualmente è giudice civile al tribunale di Nocera Inferiore.
Scrive Dario Sautto sul Mattino: il giudice Procolo Ascolese del tribunale di Torre Annunziata ha ritenuto offensiva una sua frase pubblicata sul profilo pubblico di Facebook «Luigi Bobbio Due», da lui gestito secondo l’accusa rappresentata dalla pm Mariangela Magariello. «Giuliani era una feccia di teppista di strada» è la frase comparsa sul social network dell’ex primo cittadino stabiese il 28 luglio del 2014. Un’affermazione segnalata ad un comitato e poi ad Adelaide Gaggio e Giuliano Giuliani, i genitori del 23enne, morto durante gli scontri del G8 di Genova nei pressi della stazione Brignole alle 17:27 del 20 luglio del 2001. Di lì la decisione dei coniugi Giuliani di sporgere querela, la costituzione di parte civile affidata ai legali Gilberto Pagani e Liana Nesta, e oggi la sentenza contro Bobbio: 8 mesi di reclusione, pena sospesa, provvisionale da 5mila euro e risarcimento dei danni da stabilire in separata sede.
Aggiunge Fabrizio Geremicca sul Corriere del Mezzogiorno: “Siamo molto soddisfatti di questa sentenza – commenta l’avvocato Nesta”. Aggiunge: “Durante il dibattimento il legale di Bobbio ha provato a sostenere che il profilo dal quale furono lanciati gli insulti fosse stato clonato, che a scrivere quelle parole non fosse stato l’ex senatore. Tentativo non riuscito, anche perché sarebbe stato ben strano che un magistrato, se davvero avesse subito un furto di identità informatica, non avesse presentato un esposto, una denuncia”. Non è la prima volta che i genitori del ragazzo genovese ucciso 14 anni fa sono costretti a rivolgersi ad un tribunale, per tutelare la memoria del figlio. Lo avevano già fatto con Alessandro Sallusti, il direttore de Il Giornale, che versò 35.000 euro per evitare il processo. La somma è stata poi devoluta all’ambulatorio di Emergency a Ponticelli.
LA CAMORRA BORGHESE.
Adesso a Napoli c'è la camorra borghese. Avvocati, medici, imprenditori, notai: il nuovo blocco di potere tra professionisti e malavita organizzata, scrive Giovanni Tizian il 20 luglio 2018 su "L'Espresso". Notai, avvocati, medici, commercialisti. All’ombra del conflitto fra le paranze dei bambini, che tanto clamore mediatico hanno suscitato, cresce il Sistema. Un Sistema che prolifera tra i professionisti, si alimenti delle insospettabili complicità dei colletti bianchi. Il ruolo che si sono ritagliati i clan storici della camorra è stato agevolato da una società civile spesso indifferente, da una borghesia indolente che spesso vede nell'illegalità una possibilità di arricchimento. Così, corrotti e camorristi si incontrano, due forme di criminalità che si saldano e diventano due facce della stessa medaglia. L'Espresso in edicola domenica 22 luglio pubblica un'inchiesta sui re di Napoli. Capi di quei clan del gotha della camorra che hanno siglato con pezzi della borghesia napoletana un patto d'acciaio. Con l'obiettivo di concludere affari. Affari milionari: dal petrolio ai grandi appalti, dalla ristorazione a noti brand di giocattoli commercializzati in Italia e in Europa. Le paranze dei bambini hanno deposto le armi. La guerra tra le gang di adolescenti, che aspirano a un ruolo nel gotha della camorra, è cessata. Ma non per volere loro. Hanno desistito dopo l’intervento dei pezzi da novanta del “Sistema”: un network di clan con decenni di storia criminale alle spalle e di boss eredi di dinastie camorristiche degne del film Il Padrino. «Belli guaglioni, vedete di apparare, altrimenti il problema adesso lo avete anche con noi». L’ultimatum è dell’emissario del clan Contini. Ed è rivolto ai baby boss delle paranze dei bambini che avevano messo a soqquadro l’armonia criminale della città. I re della camorra napoletana, irritati da soldatini insolenti e senza una strategia di lungo termine, hanno recapitato un messaggio chiaro: cessate il fuoco, altrimenti noi, i Contini e quindi l’Alleanza di Secondigliano, saremo il vostro più grande problema. Grazie a questo intervento «hanno fatto pace», si legge negli atti dell’indagine su tre imprenditori di successo, i fratelli Esposito, legati ai Contini. Il padre dei tre, intercettato, sintetizza così il potere del clan: «Solo questi qua contano, tengono i soldi assai». C’è un gruppo che incarna alla perfezione il concetto di camorra borghese. È l’Alleanza di Secondigliano, dal nome dell’omonimo quartiere in cui comandano i Licciardi, fondatori del cartello insieme ai Contini del centro città e ai Mallardo di Giugliano. Questa triade di camorra gode anche dell’appoggio esterno di un altro potentissimo brand criminale, quello della famiglia Di Lauro di Scampia, padroni del famigerato quartiere del film e della fiction Gomorra. I Di Lauro, camorristi da tre generazioni. Che oggi vantano il latitante più giovane e tra i più ricercati d’Italia, Marco Di Lauro. Introvabile come Matteo Messina Denaro. In alcuni rapporti della Direzione investigativa antimafia si citano episodi in cui non è il Sistema a cercare i professionisti, ma questi ultimi a bussare a casa dei boss. C’è un anziano avvocato d’affari, per esempio, che propone un business da 20 milioni a un luogotenente dell’Alleanza di Secondigliano. Discutono di scarti petroliferi e grandi appalti. Un pianeta sommerso attraversato anche da consulenti finanziari, che offrono la loro merce migliore: società estere, holding maltesi e londinesi, scatole vuote da utilizzare per far perdere le tracce del denaro sporco. Il disordine delle paranze dei bambini per loro è stato un beneficio. Sono loro i veri vincitori di un conflitto che non li ha neppure sfiorati. Perché mentre tra i vicoli del centro di Napoli i ragazzini sparavano e morivano, i re di Napoli si sono inabissati. A debita distanza dall’attenzione dei media, delle istituzioni e della politica, tutti concentrati sull’acuirsi del gangsterismo urbano. Nello scacchiere del crimine organizzato napoletano troviamo famiglie che gestiscono veri e propri imperi. Un Sistema moderno, flessibile, fatto da reti di imprese. Con società di capitali utilizzate per riciclare i soldi della droga e per trafficare carburante sull’asse Malta-Est Europa. Senza dimenticare le ramificazioni finanziarie fuori confine, che arrivano fino a Dubai.
Napoli, la borghesia al servizio dei re della camorra. Notabili, costruttori e imprenditori, commercialisti e medici, servitori dello Stato infedeli e avvocati avvezzi al doppio gioco. All’ombra del conflitto fra le paranze cresce il Sistema. E prolifera tra i professionisti, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" il 26 luglio 2018. Le paranze dei bambini hanno deposto le armi. La guerra tra le gang di adolescenti, che aspirano a un ruolo nel gotha della camorra, è cessata. Ma non per volere loro. Hanno desistito dopo l’intervento dei pezzi da novanta del “Sistema”: un network di clan con decenni di storia criminale alle spalle e di boss eredi di dinastie camorristiche degne del film Il Padrino. È l’aristocrazia della camorra, che esercita un controllo asfissiante su Napoli grazie anche a complici insospettabili. Nelle rubriche dei contatti in mano ai boss troviamo notabili e professionisti, costruttori e imprenditori, commercialisti e medici, servitori dello Stato infedeli e avvocati avvezzi al doppio gioco. Sono clan di una camorra borghese che sta al vertice del Sistema. Con capi nelle cui vene scorre il sangue blu di re e prìncipi del crimine organizzato. Il disordine delle paranze dei bambini per loro è stato un beneficio. Sono loro i veri vincitori di un conflitto che non li ha neppure sfiorati. Perché mentre tra i vicoli del centro di Napoli i ragazzini sparavano e morivano, i re di Napoli si sono inabissati. A debita distanza dall’attenzione dei media, delle istituzioni e della politica, tutti concentrati sull’acuirsi del gangsterismo urbano. Nel caos, i clan dell’aristocrazia criminale di Napoli e dell’hinterland hanno consolidato il loro potere, forti di contiguità insospettabili, che hanno garantito la blindatura del tesoro dei camorristi. Nello scacchiere del crimine organizzato napoletano troviamo famiglie che gestiscono veri e propri imperi. Un Sistema moderno, flessibile, fatto da reti di imprese. Con società di capitali utilizzate per riciclare i soldi della droga e per trafficare carburante sull’asse Malta-Est Europa. Senza dimenticare le ramificazioni finanziarie fuori confine, che arrivano fino a Dubai.
“Notabilato violento”. C’è un gruppo che incarna alla perfezione il concetto di camorra borghese. È l’Alleanza di Secondigliano, dal nome dell’omonimo quartiere in cui comandano i Licciardi, fondatori del cartello insieme ai Contini del centro città e ai Mallardo di Giugliano. Il regno dei Licciardi è Masseria Cardone a Secondigliano. Questa triade di camorra gode anche dell’appoggio esterno di un altro potentissimo brand criminale, quello della famiglia Di Lauro di Scampia, padroni del famigerato quartiere del film e della fiction Gomorra. I Di Lauro sono una delle dinastie che da un trentennio dettano legge a Napoli. Camorristi da tre generazioni. Che oggi vantano il latitante più giovane e tra i più ricercati d’Italia, Marco Di Lauro. Introvabile come Matteo Messina Denaro. La Di Lauro’s family pur mantenendo una sua autonomia è ritenuta vicina all’Alleanza, con la quale si spartisce il territorio. «Le famiglie di questo cartello criminale non provengono da situazioni di emarginazione sociale», spiega all’Espresso Luciano Brancaccio, ricercatore di sociologia dell’ambiente e del territorio alla Federico II di Napoli. «Sono presenze storiche nei mercati legali. I Licciardi, per esempio, nascono come affermati imprenditori dell’abbigliamento». Una genesi opposta alla convinzione diffusa di una camorra figlia della povertà sociale ed economica. Esiste anche questa, certo. Ma è composta dalla manovalanza, da tenere ai margini. Chi comanda, invece, vanta pedigree imprenditoriali di un certo peso. Anche Edoardo Contini, “’o Romano”, proviene dalla rete dei magliari, ossia i commercianti di tessuti e abbigliamento. Così come i Di Lauro. «I Mallardo, invece, in origine erano commercianti nel settore alimentare. I Nuvoletta di Marano - affiliati peraltro anche a Cosa nostra siciliana - nascono come proprietari terrieri. I Polverino, prima di diventare costruttori e narcotrafficanti, erano impresari dell’agroalimentare. Insomma famiglie con un curriculum elitario. Una caratteristica che ha permesso loro di mescolarsi alla borghesia». L’élite della camorra simile a un potere feudale. Famiglie regnanti che governano il territorio. A questa conclusione è giunta Gabriella Gribaudi, storica della Federico II, secondo cui la «signoria territoriale» è la metafora più suggestiva della camorra napoletana: «Una sorta di sistema feudale con famiglie regnanti in lotta per il controllo dello spazio e vassalli, valvassori, valvassini che si contendono il favore delle case regnanti». Osserva Brancaccio: «In provincia e nella cintura urbana di Napoli esiste, poi, un modello che nelle nostre ricerche abbiamo definito “notabilato violento”, una vera e propria borghesia camorrista». Tornando, però, all’intreccio tra camorra e professionisti c’è un elemento che colpisce. «La questione è totalmente ignorata», spiega Stefano D’Alfonso, docente di diritto amministrativo alla Federico II e già consulente per la commissione antimafia. Una sua ricerca, scritta insieme all’ex magistrato Aldo De Chiara e al rettore dell’Università Giacomo Manfredi, affronta il tema “Mafie e libere professioni”. «Il fenomeno non è percepito nonostante siano provati i rapporti con notai, avvocati, medici, costruttori, ingegneri. Di questa promiscuità non si parla. Eppure il professionista assume il ruolo strategico di cerniera tra due mondi». Chi ha indagato su questa contaminazione tra camorra e borghesia a partire dagli anni ’80 è l’ex magistrato Aldo De Chiara. Da pretore ha messo sotto accusa il periodo in cui la camorra aveva messo le mani sui grandi appalti della città, delle periferie, della provincia. «Nel fenomeno dell’abusivismo non c’era solo la camorra. I clan erano appoggiati da esperti professionisti che suggerivano ai boss come aggirare le regole sull’edilizia. Specialmente dopo il terremoto, c’era un bisogno estremo di case, e qui che nasce una collaborazione strutturata tra potere criminale e pezzi della borghesia». Una mistura molto attuale. Lo rivelano recenti inchieste della procura antimafia di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, che negli anni ’90 da pm ha processato il gotha della camorra e l’ex ministro democristiano Antonio Gava. Cosa è cambiato da allora? Sicuramente i meccanismi, ma il Sistema gode sempre di ottime entrature nella pubblica amministrazione e nella politica. Perché la camorra è un cliente affidabile. In alcuni rapporti della Direzione investigativa antimafia si citano episodi in cui non è il Sistema a cercare i professionisti, ma questi ultimi a bussare a casa dei boss. C’è un anziano avvocato d’affari, per esempio, che propone un business da 20 milioni a un luogotenente dell’Alleanza di Secondigliano. Discutono di scarti petroliferi e grandi appalti. Un pianeta sommerso attraversato anche da consulenti finanziari, che offrono la loro merce migliore: società estere, holding maltesi e londinesi, scatole vuote da utilizzare per far perdere le tracce del denaro sporco. Le prove dello stretto rapporto dei padrini con la borghesia cittadina sono cristallizzate in tre indagini non ancora concluse, firmate da diversi pm coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Le intercettazioni confermano l’indissolubile intreccio tra i due mondi. Il 17 maggio scorso sono finiti in manette due stimati medici napoletani. I fratelli Luigi e Antonio D’Ari. Il primo è anestesista, il secondo chirurgo plastico. Camici bianchi di cliniche private note in città. Ma anche riciclatori di denaro per conto del clan Lo Russo, secondo l’accusa della procura. I Lo Russo sono stati “soci” dell’Alleanza di Secondigliano, oggi, però, sono lacerati dal pentitismo interno. I Lo Russo, amici di alcuni ex calciatori del Napoli, contano su appoggi dei notabili locali. Come i fratelli D’Ari, appunto. I medici-imprenditori indagati per riciclaggio dei quattrini della camorra.
Pax e affari. «Belli guaglioni, vedete di apparare, altrimenti il problema adesso lo avete anche con noi». L’ultimatum è dell’emissario del clan Contini. Ed è rivolto ai baby boss delle paranze dei bambini che avevano messo a soqquadro l’armonia criminale della città. I re, irritati da soldatini insolenti e senza una strategia di lungo termine, hanno recapitato un messaggio chiaro: cessate il fuoco, altrimenti noi, i Contini e quindi l’Alleanza di Secondigliano, saremo il vostro più grande problema. Grazie a questo intervento «hanno fatto pace», si legge negli atti dell’indagine su tre imprenditori di successo, i fratelli Esposito, legati ai Contini. Il padre dei tre, intercettato, sintetizza così il potere del clan: «Solo questi qua contano, tengono i soldi assai». Il capostipite si chiama Edoardo Contini, detto “’o Romano”. Qualche anno fa un’inchiesta ha ricostruito l’impero economico della famiglia dell’Alleanza di Secondigliano. La magistratura ordinò il sequestro di decine di ristoranti e locali alla moda. Tra questi la nota catena “Pizza Ciro”, molto in voga nel centro di Roma, frequentata da politici, ministri e personaggi in vista della Capitale. Ma torniamo per un attimo ai fratelli Esposito, amici di molti calciatori del Napoli, da Gonzalo Higuain a Paolo Cannavaro al portiere, oggi al Milan, Pepe Reina. Per la procura sono potenti imprenditori al servizio della camorra. Uno di loro nelle intercettazioni è definito il più importante «discotecaro» della città. E in effetti tra le società finite sotto sequestro c’è anche la discoteca Club Partenopeo, locale della movida chic di Napoli tra le ville di Posillipo. Il Club era meta fissa delle stelle del calcio e dei giovani della borghesia napoletana. Non solo un investimento, dunque, ma un salotto dove dialogare con l’upper class cittadina, orgogliosa di sfilare in quel tempio della camorra. A detta del titolare - intercettato - la discoteca fruttava 140 mila euro a serata. Tuttavia il business che ha reso famosi i fratelli Esposito è un altro: i giocattoli. Con un loro marchio hanno conquistato fette importanti di mercato. Forniscono negozi in Italia e all’estero. Ma è un sito di merchandising del Napoli calcio a rivelare un dettaglio interessante: «La linea Paggio giocattoli (uno dei brand di proprietà degli Esposito, ndr) è sponsor ufficiale della società sportiva calcio Napoli». Imprenditori ben voluti da tutti, quindi. Accolti nel salotto buono della città, più preoccupata dallo scorrazzare disordinato delle baby gang che dai camorristi in doppio petto. Figure a metà tra leggenda e realtà. Come l’Ambasciatore. Nel milieu camorristico lo chiamano così. È un distinto e sconosciuto signore che si occupa di mediare tra i clan interessati al grande scalo marittimo della città. Di lui si sa pochissimo. Di certo è emerso in alcune informative degli investigatori e si sa che di mestiere mette d’accordo i boss delle famiglie più in vista del Sistema che usano lo scalo per gestire grandi traffici: dalla droga alla contraffazione. L’Ambasciatore fa convergere gli interessi di tutti, nel nome del benessere collettivo. Anche perché da qualche anno c’è un affare molto ghiotto in ballo. Il carburante illegale che arriva dall’estero, di scarsissima qualità ma molto economico. E che viene commercializzato alla luce del sole, spesso nelle pompe bianche di proprietà degli imprenditori collusi con il Sistema. È più di un semplice sospetto. Ci sono indizi di un vero e proprio cartello di camorra creato da più famiglie dell’élite criminale di Napoli e provincia, tra cui uomini dell’Alleanza di Secondigliano. Il business ha il suo snodo centrale a Napoli. Ma l’origine è all’estero e passa dal Centro e Nord Italia, dove c’è stato già qualche arresto. La convinzione è che esista una strategia più ampia, con una regia criminale di altissimo profilo. Alcune delle società coinvolte utilizzate per la triangolazione della merce hanno sede a Malta, altre nell’Est Europa. L’isola del Mediterraneo è il ponte per l’Europa del petrolio libico di contrabbando. La giornalista maltese assassinata, Daphne Caruana Galizia, ne aveva intuito la portata. Le società create a Est invece servono per importare l’oro nero da Iraq e Siria. Una volta che la merce raggiunge l’Italia, una buona parte finisce in depositi del napoletano, la cui proprietà è riconducibile a uomini del cartello camorristico. Il traffico riguarda tutta Italia. Sulle tracce dell’oro nero illegale c’è la Guardia di finanza che indaga senza sosta. Anche perché l’evasione delle accise ammonta a centinaia di milioni di euro. Il giro d’affari per i clan che tengono i fili di questo business è da capogiro. E comporta meno rischi del traffico di droga. Insomma, l’ultima frontiera della camorra. Con un ruolo rilevante ricoperto dai professionisti. Di nuovo loro, gli insospettabili uomini cerniera. Ingranaggi vitali del Sistema governato dai re di Napoli.
Chi si nasconde dietro Gomorra. Sparatoria in centro a Napoli. E i politici tornano ad accusare le serie tv. Segno che non conoscono la realtà dove vivono, scrive il 13 aprile 2018 Roberto Saviano su "L'Espresso". Sono iniziate le riprese della quarta stagione di “Gomorra” ed ecco che, puntuali, arrivano anche le solite accuse. In prima fila i politici che si riciclano critici - magari parlare di serie tv gli riesce meglio che governare - in cerca di notorietà o di qualcosa che allontani da sé ogni possibile responsabilità. A Napoli domenica scorsa c’è stata una sparatoria su un lungomare assolato e quindi gremito di napoletani e turisti. Una sparatoria che è stata drammatica anche per il panico che ha generato. Nei momenti più critici, le reazioni delle massime cariche politiche locali sono le stesse da decenni, e francamente non se ne può più di sentir dire che le responsabilità stanno sempre altrove e che chi commette atti criminali non va considerato di Napoli, benché a Napoli sia nato e cresciuto. E poi arrivano altre considerazioni che bisogna con forza rispedire al mittente. Vincenzo De Luca, a quanto pare, avrebbe banalmente constatato che i napoletani per bene hanno paura di uscire di casa e che bisogna avere a cuore i destini della povera gente, la sola a frequentare i luoghi in cui la violenza si manifesta. Qualcuno lo informi che Napoli è una città assai complessa, dove non esiste, in nessun luogo, una netta divisione tra poveri e ricchi. Zone popolari si trovano anche a Posillipo, figuriamoci se il lungomare e la Villa Comunale si possono definire zone frequentate solo da “povera gente”. Quindi la tesi di De Luca sarebbe questa: «Spesso si confonde la sicurezza con l’autoritarismo e la repressione mentre io cerco di spiegare da vent’anni che è un tema per la povera gente, perché chi ha soldi vive in luoghi separati, non va alla Villa Comunale». Ecco, questo significa parlare senza cognizione di causa, e, perché sia lampante la frattura che esiste tra la classe politica e il territorio su cui amministra, De Luca si affretta a puntare come sempre il dito contro «prodotti tv che diventano una falsificazione della realtà. Se faccio un telefilm e per tre ore non compare un uomo con una divisa dei carabinieri, allora sto falsificando la realtà». Questo è un transfer interessante tra la vita reale e la finzione televisiva: vuoi vedere che il problema di Napoli è che in “Gomorra” non compaiono uomini in divisa? Ma possibile che ci sia chi ancora riesce, senza vergogna, a dire tali idiozie? Forse - ma la mia è solo un’ipotesi - il problema di Napoli e della Campania è che non c’erano uomini in divisa mentre il figlio di De Luca riceveva l’ex boss del ciclo dei rifiuti Nunzio Perrella, ecco, questo credo abbia un effetto maggiore sulla collettività, rispetto a una serie tv che diventa il capro espiatorio di incompetenze e cinismo. Ma quello che risulta evidente è ormai l’attitudine della classe dirigente che, sempre più incline a distinguere tra noi persone per bene e loro criminali, ha abdicato a rappresentare tutti e a interessarsi anche dei destini di chi, meno per inclinazione e più per mancanza di reali prospettive, per vivere commette reati. E se “Gomorra” descrive uno spaccato di realtà, se a Napoli la serie è un vero e proprio romanzo popolare, visto da tutti, quello che mi spaventa è l’attitudine delle sedicenti élites di considerarsi le uniche in grado davvero di recepirne il senso. Mi spiego meglio: noi - dicono - abbiamo cultura e strumenti e quindi possiamo vedere la serie. Voi no. Voi non avere cultura, non avete mezzi, non potete discernere. Voi “Gomorra” non lo potete vedere perché vi fa male. Perché imitate, emulate. Ma dove vive chi dice questo? Prima di vedere “Gomorra” non si rendevano conto che Gomorra ce l’avevano attorno, che ci stavano dentro? Questo è il classismo di una città che vede le sue Padanie (i cosiddetti quartieri collinari, i quartieri bene) espugnate dalle infrastrutture, dalla metropolitana che collega il centro alle periferie, dalla modernità. Questa è la Napoli che si lamenta perché il centro storico è popolare, povero, criminale. Questa è la Napoli che sale in cattedra senza averne le competenze. Questa è la Napoli che nega fino a quando non è costretta a parlare perché sente gli spari, vede il panico e talvolta il sangue. E alla distrazione, all’incompetenza, all’indifferenza segue la colpevolizzazione degli altri, mai di se stessi. La violenza di oggi è una ribellione al disagio, ma una ribellione distruttiva alla quale si sta ancora una volta rispondendo in maniera sbagliata. Fino a ieri la criminalità non esisteva, oggi esiste ma è colpa delle serie tv.
Il rione Sanità di Napoli, luogo fuori dal tempo, dalla legge e dalla speranza. Nell’antichità era zona di sepolture. E ancora oggi c’è il culto dei defunti. Viaggio nei bassi del capoluogo partenopeo, sintesi delle contraddizioni della città, scrive Nello Trocchia il 17 maggio 2018 su "L'Espresso". I vivi qui interrogano i morti. Le “cape” (teste) dei morti, i teschi, vengono celebrati come oracoli in un pellegrinaggio spirituale che glorifica il riposo eterno, cosparso però di vita terrena. Sono i due mondi che siedono a fianco, e si intrecciano, in uno stesso quartiere. Qui la morte e la vita, del resto, si confondono da secoli, in epoca greco-romana era luogo di sepoltura, tra necropoli ellenistiche e catacombe cristiane, fino al lazzaretto per l’epidemia di peste del 1656 e il cimitero che ne accolse le vittime. È attorno alla morte che è nato il rione Sanità, è attorno alla morte che vive. Un quartiere meglio di ogni altro riassume Napoli divisa in due, come due città sovrapposte e distanti, ma che non possono ignorarsi. Il rione Sanità è sospeso tra la rivalsa della città, Capodimonte e il suo museo, e la condanna alla marginalità. Qui la camorra sparge ancora terrore e oggi si fronteggiano clan un tempo alleati: i Vastarella e i Sequino. Saltati gli equilibri e la stagione dei capi carismatici, il quadro è in continua mutazione e quando gli assetti sono instabili le tensioni sfociano in sparatorie in strada. Droga e racket sono i mercati contesi. Le “stese”, raffiche di proiettili per segnare un territorio, sono la cifra delle bande criminali. Nel settembre 2015 alla Sanità fu ucciso Genny Cesarano, vittima innocente della camorra, ammazzato a 17 anni. Nel quartiere una statua lo ricorda davanti alla basilica di Santa Maria. Il processo si è chiuso con quattro condanne all’ergastolo. Il padre di Genny ha spiegato dopo la sentenza: «Non bisogna fare un processo alla città. Pur tra mille difficoltà, Genny è diventato simbolo del riscatto del quartiere». Marco si è fatto tatuare il nome di sua figlia sul braccio destro: Elena. Vive qui insieme alla compagna Rita. Hanno due bambine, sono disoccupati, ma si arrangiano. Marco di notte lavora. Gira per il quartiere, raccoglie il ferro, lo seleziona e poi lo rivende. Rita, che non ha ancora compiuto 30 anni, spera di potersi realizzare diventando parrucchiera. Qui vivere è un mestiere difficile. Totò, che nacque alla Sanità, e viene celebrato con una cappella votiva, lo diceva: «Io so a memoria la miseria; non si può far ridere, se non si conoscono il dolore, la fame, il freddo». La miseria, rifuggita come un morbo dalla politica che in questi anni ha relegato la marginalità a suppellettile di scarto. Gennaro ha un anello per ogni mano. Tira fuori l’accendino e fuma una sigaretta. «Vivo qua da decenni», racconta, «ma non sono stabile: una casa non la tengo». Cambia spesso abitazione, ma non sempre trova un alloggio e talvolta dorme per periodi più o meno lunghi in strada. Gennaro è solo. Ha perso la moglie da circa cinque anni, mentre i suoi figli non li vede più da tempo. Per tirare avanti, anche lui mischia il giorno con la notte. Raccoglie oggetti per strada, rovista nei cassonetti della spazzatura. Cerca, raccoglie, riutilizza e ripara. Nel rione Sanità «la guerra con la vita», come la chiamava il principe Antonio De Curtis, la conosci da piccolo. Molti bambini sono cresciuti senza lo scudo dei genitori, divisi tra carcere e distacco. Ogni vicolo, con i suoi bassi, case rimediate ai piani terra della strada, depositi trasformati in alloggi, è incrocio di vite. M. la sua infanzia l’ha vissuta da sola, senza padre, senza madre. Entrambi hanno avuto problemi con la legge, e lei, come tanti suoi coetanei, è stata allevata in questo quartiere, che è strada prima che privato. Qui il privato, nei bassi, a un soffio dai vicoli, non c’è. Ma neanche il pubblico. Nonostante gli sforzi, le iniziative, manca ancora un asilo nido. «C’è solo una scuola elementare», spiega padre Alex Zanotelli, che dopo l’Africa è venuto a fare il missionario qui, «e un istituto superiore, record per dispersione scolastica a livello nazionale. Lo scorso anno, nel primo biennio, che è scuola dell’obbligo, c’è stato il 50 per cento di evasione scolastica e il 74 per cento di bocciati. Ora: è normale che se l’offerta scolastica è così ridotta», conclude padre Alex, «i giovani vivano la strada e qui entrino in contatto con realtà criminali di ogni genere». Ma quello che sorprende è che questo quartiere, senza uno stato sociale, ha comunque allevato un modello di convivenza. Così, Carlo, nato nel rione, carnagione scura, stringe suo fratello Renato. È cresciuto senza la madre, Lucia, di origini somale, che è andata via quando Carlo ne aveva tre. Dieci anni lontano prima di tornare. Ora si sono ricongiunti e vivono in un basso della Sanità. Tra le comunità etniche più numerose, nel rione Sanità, ci sono i rom. Qui è venuto a vivere anche Alfonso. Pino Daniele degli Alfonso di Napoli scrisse: «Chill è nu buon guaglione, e vo essere na signora. Chillo è nu buono guaglione, crede ancora nell’amore» («Lui è un bravo ragazzo, e vuole essere una signora. È un bravo ragazzo, crede ancora nell’amore»). Era il 1979 e i “femminielli”, i travestiti, erano da cacciare. Pino Daniele diede loro voce, la voce che Alfonso per anni non ha avuto. Ha fatto la vita in strada, sotto un lampione. Guadagnava bene, ci campava, ma il prezzo erano gli insulti, le molestie. E i soldi li bruci; gli sputi, le offese, quelli no. Ti si appiccicano addosso e Alfonso ancora oggi è vittima di attacchi di panico. Da tempo non lavora per strada e s’arrangia con qualche sporadico cliente, leggendo le carte, vendendo sigarette sfuse e ospitando per pochi soldi qualcuno nel suo piccolo basso. Nei bassi che odorano di sugo, di fumo, di antico, c’è una cosa che non manca mai: il culto dei morti. Quadri, foto, immagini di chi non c’è più, eppure aleggia come fantasma. Può essere un figlio, marito, fratello, un padre mai completamente perduto. Solo qui poteva sorgere un luogo chiamato Cimitero delle Fontanelle, l’ossario dove si trovano i resti dei defunti della peste del Seicento, ma anche delle carestie che colpirono in seguito la città. I cadaveri furono raccolti e conservati in quello che oggi è un luogo di pellegrinaggio turistico, ma intriso di spiritualità e compassione. Il luogo dei morti, in una cava di tufo, buia e pur attraversata da fili di luce. Morti ossequiati dai vivi. Un posto che è ricordo di tragedie di popolo. Un popolo, quello della Sanità, che oggi affronta una tragedia diversa eppur spaventosa: l’abbandono. Un abbandono violato da questo spettro di varia umanità che fa della Sanità un mistero magico.
NAPOLI CAMORRIZZATA? UN ESPRESSO 40 ANNI DOPO. Scrive il 23 luglio 2018 Paolo Spiga su "La Voce delle Voci". Meglio tardi che mai. L‘Espresso caldo caldo domenica 22 luglio scopre “La Borghesia Camorra” made in Napoli. Sottotitolo: “Notai, avvocati, medici. All’ombra del conflitto tra le paranze cresce il ‘Sistema’. E prolifera tra i professionisti”. Peccato si tratti di notizie vecchie di almeno 40 anni fa. Ma tutto fa brodo. Spulciamo, fior tra fiori. Di ‘O Sistema fatto di collusioni fra camorre e colletti bianchi ha scritto venti anni fa un libro che aveva proprio quel titolo firmato da due giornalisti Rai. Delle seconde generazioni di camorristi che frequentano le università svizzere o americane scriveva – cifre alla mano – Amato Lamberti, il grande docente di sociologia e fondatore dell’Osservatorio sulla Camorra il quale, in svariati interventi sulla Voce, dettagliava come la camorra fosse diventata la “più grande Fiat del Sud” capace di dar lavoro senza alcun controllo. Tutti felici e contenti. A cominciare dai partiti. Va ricordato che all’Osservatorio di Lamberti collaborava il giornalista Giancarlo Siani, ammazzato dalla camorra: mandanti dell’esecuzione sempre a volto coperto, come per i colleghi Alpi e Hrovatin, Falcone e Borsellino & sangue continuando. Di camorristi e “occasionisti” sulle catastrofi e sulle emergenze ha scritto per una vita sulla Voce Isaia Sales, uno dei più acuti osservatori sulla genesi del fenomeno malavitoso (proprio come Lamberti), il quale vedeva proprio nei giganteschi flussi di danaro pubblico l’occasione per la malavita organizzata fino a quel momento ‘ruspante’, a livello di clan familistico della NCO di Raffaele Cutolo, il modo per spiccare il salto (a partire dal dopo sisma), di farsi spa, of course, anche nel mondo della politica, in una sorta di eterodirezione osmotica. Ancora. Tra le più acute indagini, targate anni ’80, vi furono quelle del pretore d’assalto Aldo De Chiara,il primo a vedere nella speculazione edilizia e in mattone selvaggio – soprattutto nella zona occidentale di Napoli – il modo non solo di dare lo storico assalto alla città (“Le Mani sulla città” di Francesco Rosi), ma anche quello di imporre regole a botte di illegalità diffuse in fette sempre più ampie della città, da est a ovest. La Voce, a partire dal 1984, ha fatto decine di inchieste sulla camorra imprenditrice, soprattutto dedicandosi al fronte del riciclaggio spinto, a partire dal dopo sisma per passare ai traffici da monnezza tossica, subappalti a go go e abusivismi d’ogni risma: ovviamente con la complicità di colletti bianchi. Con tutte le connection massoniche del caso, a partire dai frequenti summit fra Cicciotto e’ mezzanotte (al secolo Francesco Bidognetti) e il Venerabile Licio Gelli in quel di Villa Wanda. Ora il settimanale diretto da Marco Damilano scopre l’acqua calda, o meglio l’Espresso tiepido, il caffè sospeso da oltre vent’anni. “I nuovi re di Napoli”, il titolo: andava bene nel ’90. Ora non più.
Racconta un napoletano che certo non se la passa male ma ne ha le scatole piene: “E’ ormai inutile anche raccontare lo sfascio di Napoli tra crac finanziari, servizi che fanno schifo, sanità da brividi, trasporti horror, monnezza da tutte le parti. Siamo tornati dietro di vent’anni tanto da rimpiangere perfino Bassolino e la Iervolino, che è rievocare l’inferno. Di camorra non ne parliamo nemmeno.”. E aggiunge: “Ma sapete quando salterà il coperchio? Quando succede il ’48? Quando non viene pagato il primo stipendio ai dipendenti di Palazzo San Giacomo, un esercito da 20 mila persone e passa che sarà un fiume in piena a reclamare il suo stipendio, per come arrivare a fine mese. Questo alza la quota – viene ancora spiegato – perchè fino ad oggi siamo metà e metà: metà chi frega, ruba, ha le sue prebende, le sue consulenze, fa il colletto bianco. E l’altra metà che non ce la fa più, che non ha più ormai che fare per mettere il piatto a tavola o pagarsi il fitto o le medicine. Quando la bilancia va dall’altra parte, con l’esercito dei comunali non pagati vedrete cosa succede, ‘O 48. Fino ad oggi è arrivato il governo, con l’ultima pezza Gentiloni, a salvare la baracca. Vedrete la prossima volta…”. E al fiume in piena si uniranno tutti gli altri disperati senza un salvagente o una scialuppa – proprio nella città del mare – cui aggrapparsi. Uno tsunami. Esattamente 40 anni fa la Voce scrisse una cover story firmata da Giuseppe D’Avanzo e Andrea Cinquegrani titolata “Perchè non scoppia ‘O Quarantotto”. Tante cose sono cambiate da allora. Purtroppo in peggio. A voi giudicare. Vi vogliamo riproporre quell’inchiesta di copertina sulla sgrarrupata Napoli di allora. E’ “memoria storica”. Ma anche un confronto con il presente.
L’INCHIESTA DA “LA VOCE DELLA CAMPANIA” DI DOMENICA 19 FEBBRAIO 1978
La camorra borghese è pericolosa quanto i clan, scrive su "huffingtonpost.it" il 13/11/2014 Titti Marrone, Giornalista. Non è più tempo di boss con la coppola storta e la lupara, scrive Rosaria Capacchione commentando la sentenza che ha condannato l'avvocato Michele Santonastaso e assolto i capoclan Iovine, Bidognetti e D'Aniello con l'accusa di minacce in aula a lei, Roberto Saviano e ai magistrati Cantone e De Raho. Così, non sarebbe improbabile che l'iniziativa della gravissima intimidazione non sia stata ispirata dai boss ma sia stata presa in proprio dall'avvocato, "vero borghese mafioso, professionista prestato alla mafia". Ora, al di là della circostanza che pone Rosaria Capacchione in contrapposizione polemica con l'autore di Gomorra, convinto invece della colpevolezza dei boss, quello che colpisce in un simile giudizio sono due circostanze. La prima è che a formularlo sia la vera maggiore conoscitrice delle dinamiche camorriste, il che in sé impone di considerarlo con grande attenzione: infatti nessuno come Rosaria ha indagato nel mondo della criminalità organizzata. E la gran mole dei suoi articoli ha fornito più di qualche spunto per la scrittura del bestseller mondiale di Roberto Saviano. Chi come me ha lavorato con lei al Mattino di Napoli quando pochi conoscevano la pericolosità dei Casalesi, negli anni in cui quei clan rafforzavano la loro egemonia sul territorio, sa come anche di fronte al delitto apparentemente più isolato Rosaria riusciva a costruire una vera genealogia di circostanze, un mosaico fittissimo di rimandi, una rete di possibili moventi e relazioni capaci di delineare un quadro d'insieme, fino a "ambientare" il delitto nel tempo e nel luogo indicando in aggiunta più che plausibili piste utilizzabili a fini investigativi. Il metodo di lavoro di Rosaria è sempre stato quello di una sorta di storico del presente: la raccolta meticolosa, perfino ostinata, di ogni sorta di dati, spie, tracce di "camorrosità", la full immersion - da vera cronista - nei meandri dell'organizzazione criminale, scrutandone le ramificazioni con la politica, le trasformazioni e la penetrazione in settori economici sempre più complessi. I suoi articoli, anche quello sul caso a prima vista più banale, hanno sempre avuto il respiro complesso di una ricostruzione a più strati: storico, sociologico, economico e psicologico, aspetto quest'ultimo mai trascurato. In un libro pubblicato qualche anno fa da Rizzoli, L'oro della camorra, è molto evidente l'intreccio di questi piani, insieme con un'altra caratteristica di Rosaria: raccontare la camorra fuori dai comodi schemi e soprattutto mai come "cancro" o accidente sociale, ma al contrario come prodotto di complicità e connivenze collettive. E proprio a questo si lega la seconda cosa che colpisce nell'affermazione di Rosaria Capacchione: la gravità della circostanza adombrata dalla plausibilità della sentenza. Che a minacciare uno scrittore, una giornalista e dei magistrati, che a tentare di togliere loro la parola siano dei boss, s'inscrive in un'ordinarietà tale da non destare meraviglia. Ma che sia un avvocato, un "colletto bianco" non armato né acquattato nel suo bunker, senza ghigno malefico ma dall'aria distinta, nel bel mezzo dell'aula di un tribunale, è di certo assai più inquietante. Sta a segnalare quanto avanti sia andata la trasformazione già indicata da Pino Arlacchi nel 1983, l'anno de La mafia imprenditrice. Il potere criminale produce ormai da tempo figure sociali complesse, tanto da far annoverare sempre più tra le file dei camorristi esponenti delle professioni definite "libere", tanto da rendere possibile che un rappresentante della legge abbia con i capoclan, come scrive Rosaria Capacchione, "un rapporto fiduciario di pari grado". Queste figure sono tra noi, sono parte della borghesia meridionale, di quel ceto medio al Sud sempre in bilico tra lazzaronismo e aristocratico distacco ma oggi dall'identità in inquietante ridefinizione.
La camorra borghese… a macchia d’olio, scrive Fabrizio Feo il 21 ottobre 2016 su "Libera Informazione. Il clan dei Casalesi, prima che tutti i suoi capi storici fossero catturati, ha fatto in tempo a mettere radici in buona parte della Campania. Alleanze, spesso storiche, scambi di favori, affari in comune con le famiglie più importanti di Napoli e provincia ma anche con quelle di Salerno e provincia. Agli uomini di Zagaria, Iovine, Bidognetti e Schiavone non interessava però conquistare territori ma aree di influenza, poter fare soldi, reinvestire capitali, conquistare appalti. Le inchieste e gli arresti degli ultimi tre anni dicono che lo sbarco è avvenuto in grande stile in particolare a Battipaglia e a Scafati. Ma interessi delle cosche che fanno parte del cartello sono segnalati praticamente in tutta la provincia, dal Cilento all’agro Nocerino Sarnese, passando per la città capoluogo. Ma sbaglia chi crede che sia tutto è accaduto manu militari, cioè con ambasciatori armati fino ai denti. La politica di conquista nel salernitano l’hanno condotta contando su solidi appoggi politici, soprattutto uomini di Forza Italia, ma non solo. E mandando in avanscoperta affaristi e imprenditori: almeno fin dove non hanno finito col guardarsi dritto negli occhi con la ‘ndrangheta, cioè nel Vallo di Diano. Ma la gran parte del lavoro di penetrazione l’hanno fatto professionisti legati a filo doppio con i boss: ingegneri, architetti, commercialisti e avvocati, funzionari pubblici di alto rango e dirigenti di istituti di credito. Così a Scafati a guardare l’elenco dei direttori dei lavori nel cantiere di un’opera pubblica poteva capitare di trovare l’architetto Carmine Domenico Nocera, l’uomo che aveva curato in tutto e per tutto la realizzazione del covo bunker del padrino Michele Zagaria. I colletti bianchi sono la carta vincente dei casalesi, quella su cui puntare per sopravvivere a se stessi e alla guerra con lo Stato. Dicembre 2011. È stato appena catturato Michele Zagaria, indicato come l’ultimo dei grandi capi del cartello dei Casalesi ancora in libertà, ma Federico Cafiero de Raho, allora procuratore aggiunto a Napoli, sa che non ci si può fermare. Così va dritto al punto: “Dovremo anche concentrarci su quella zona grigia composta da insospettabili che hanno consentito ai Casalesi di fare il grande salto di qualità, diventando camorra imprenditrice. Mi riferisco a quella ‘borghesia mafiosa’ che oggi è il vero nemico, sia nostro che di tutta la società”. Cafiero de Raho indica un pericolo non meno grande: usa il termine borghesia mafiosa, parla addirittura della necessità di un’opera di bonifica sociale. Dice in sostanza il procuratore: sbaglia chi pensa che il più è fatto. Ma cosa intende il procuratore per borghesia mafiosa? Non parla solo dei tantissimi politici e imprenditori che hanno stretto accordi o sono stati letteralmente arruolati dai clan. Del resto sono già molti quelli che affollano le carceri o siedono nelle aule di un tribunale sul banco degli imputati. Il procuratore pensa a quella rete fatta di alcune figure che compaiono in vicende criminali e spesso appaiono secondarie ma non lo sono. A volta vittime, spesso complici, finiscono per formare il tessuto connettivo che asseconda, aiuta, sostiene l’azione quotidiana e i progetti criminali del cartello di clan dei Casalesi e di altre cosche del casertano. Esaminando le storie di ognuno, ci si imbatte in persone che non hanno saputo opporre un no alle richieste di prestanome o rappresentanti, più o meno ripuliti, degli Schiavone, degli Iovine, degli Zagaria e dei Bidognetti, ma anche dei Belforte e dei La Torre, per fare i nomi delle famiglie di camorra casertane di maggior rilievo. Personaggi disponibili: che si trattasse di costruire un bunker, di riciclare danaro, di ottenere notizie riservate, di modificare una decisione, il percorso di una pratica o di una gara d’appalto. O ancora di falsificare una perizia o un certificato medico. Basta pensare alla storia di Michele Santonastaso, ex avvocato di Francesco Bidognetti, boss dei Casalesi arrestato dalla Dia di Napoli nel settembre 2010, per le accuse di corruzione, falsa perizia e concorso in falsa testimonianza, e per aver di volta in volta agevolato proprio Bidognetti, il clan Cimmino ed il clan La Torre. Santonastaso l’anno successivo era stato arrestato dai carabinieri di Caserta per associazione a delinquere di stampo camorristico, corruzione in atti giudiziari, induzione a non rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria e poi condannato a un anno di reclusione con l’accusa di aver minacciato magistrati e giornalisti. E proprio Zagaria, secondo gli investigatori della Dia di Napoli, era riuscito, con i suoi uomini, a controllare il tessuto politico-amministrativo dell’Ospedale di Caserta al punto da pilotare appalti per milioni di euro. Un’operazione che sarebbe stata impossibile se non avesse potuto contare sulla complicità non solo di politici ma anche di un buon numero di professionisti. Un fenomeno di dimensioni macroscopiche che ha indotto alcuni ordini professionali ad avviare una discussione, per quanto spesso timida e formale sulla possibilità di adottare contromisure. Un tentativo che ha attirato l’attenzione di Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, a lungo sostituto procuratore della Repubblica alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. “È emersa in modo evidente, negli ultimi tempi, sia la capacità delle organizzazioni camorristiche e mafiose di essere presente nelle varie professioni che il corrispondente tentativo degli ordini professionali di far fronte in qualche modo alle infiltrazioni criminali, soprattutto perché in ambito provinciale essi svolgono un ruolo sociale fondamentale. C’è chi ha proposto un’antimafia degli ordini, e va bene. Ma dobbiamo anche dirla tutta e ricordarci cosa spesso sono diventati gli ordini professionali. Se omettiamo questa parte facciamo un’operazione di non verità”. Cantone invita al realismo e fa un esempio: “Non è possibile che un professionista radiato, ad esempio, dall’ordine di Palermo possa poi iscriversi all’albo di una provincia calabrese e continuare così ad esercitare. Per fare un’antimafia degli ordini dobbiamo quanto meno creare dei meccanismi disciplinari identici e caratterizzati da autonomia”. Dal 2010 in poi molte inchieste hanno rivelato infatti che ad orientare le scelte strategiche dei clan sono state spesso proprio figure professionali, sedute al tavolo al quale si prendono le decisioni. Diventando determinanti. All’occorrenza pronti anche ad entrare in politica, o a gestire nuove iniziative imprenditoriali, impegnandosi a renderle più impermeabili alle indagini. Figure che entrano così a far parte di un circuito: compongono una borghesia che vive in un’area grigia o decisamente sul terreno della devianza. Quello della borghesia camorrista. Tutto questo è accaduto e accade in provincia di Caserta, 104 comuni, poco meno di un milione di abitanti. È quello che sappiamo. Anche se, forse, manca una reale e diffusa consapevolezza delle dimensioni e della gravità di quanto è emerso. Ma se questo è il quadro di quanto avviene in provincia di Caserta, cosa succede nella vicina provincia di Napoli, oggi Città metropolitana, più di tre milioni di abitanti in 92 comuni, con i suoi 115 clan di cui 50 solo nel capoluogo? Le vicende criminali del napoletano si intrecciano assai spesso, e da sempre, con quelle della provincia di Caserta. Non solo per patti di non belligeranza, scontri o alleanze, ma anche per veri e propri accordi operativi, compartecipazioni, consorzi nelle attività illegali e in affari che sono solo in apparenza legali. Così molto spesso è accaduto di veder comparire la borghesia criminale della provincia di Caserta, non solo in vicende della camorra casalese ma anche in quelle dei clan della provincia di Napoli. Il clan Mallardo di Giugliano, per fare solo un esempio. Quando si tratta di affari non esistono linee di confine, di nessun genere. Ma dicevamo questo è solo un esempio. Se ne potrebbero fare tanti. Come sono tantissimi i casi in cui appartenenti a categorie professionali o ad alcuni salotti buoni della borghesia napoletana sono comparsi in storie di camorra. Nel ruolo di comprimari o protagonisti assoluti.
La Camorra borghese: rumore d’armi e fruscio di soldi, scrive Fabrizio Feo il 5 novembre 2016 su "Libera Informazione". A Napoli si spara. Certo. Non si ammazza più come un tempo. Sicuro. Ma è grave lo stesso anche se i morti non sono centinaia ogni anno, come accadeva tra il ‘79 e l’84 durante la guerra tra cutoliani e anti cutoliani, e poi anche tra l’87 e il ‘90. Si discute, e anche animatamente, sul susseguirsi dei delitti, sulla giovane età di chi spara, “la paranza dei bambini”, sulle loro barbe che evocano certi guerriglieri dell’Isis. E così via. Copertine, pagine, pagine, titoli e servizi di tg. Sono camorristi o gangster? Giocano in proprio o lavorano per i clan, quelli “veri”, spesso in affanno o colpiti da arresti e alla ricerca di stabilità, ma con trent’anni di storia. Una cosa è sicura: le bande che scaricano i kalashnikov su avversari e innocenti o a casaccio nelle finestre catalizzano l’attenzione dei media ben più, e più a lungo, di una camorra che non spara, non è riconoscibile né secondo i canoni lombrosiani, assai silenziosa e insidiosa, non riconoscibile come tale e non solo perché non esibisce alcuno dei segni distintivi della camorra “da strada”, ma perché parla italiano correttamente, è ben vestita educata, ha studiato. Anzi ha un alto tasso di specializzazione: a scelta affari legali, sanità, ingegneria, informatica, economia e finanza. Nutrita la schiera dei professionisti che consigliano i clan e ne seguono i conti e gli investimenti. È accaduto solo qualche settimana fa: a settembre i nomi di alcuni imprenditori e quelli di tre commercialisti, Giovanni, Andrea e Luca de Vita, compaiono nelle carte dell’indagine di Guardia di Finanza e Polizia sul clan Polverino, cosca della zona nord di Napoli, un tempo il feudo incontrastato della famiglia dei Nuvoletta, cosca di rango, “doppia tessera” di camorra e di mafia. È la stessa inchiesta in cui è comparso il nome del generale della Guardia di Finanza Giuseppe Mango, comandante interregionale del Nordest, tirato in ballo dopo che un suo amico avvocato, era stato coinvolto nell’indagine. Ed un commercialista, Alfredo Aprovitola, di Giugliano, è comparso tre anni fa nell’inchiesta sulle imprese e gli affari – immobiliari e non solo- del clan Mallardo, oltre che su una serie di episodi estorsivi e l’imposizione del caffè “Seddio”, prodotto dai fratelli D’Alterio, nipoti del capoclan Feliciano Mallardo. E dei commercialisti, un paio di anni, fa giocano un ruolo decisivo in un’indagine della guardia di finanza su clan camorristici, tra gli altri la cosca dei Mazzarella, specializzati nella pirateria audiovisiva. Un’inchiesta che scopre una frode da 252 milioni di euro. La merce veniva esportata solo formalmente: in realtà veniva distribuita in Italia con documenti di trasporto falsi, evadendo totalmente le imposte dovute. Le indagini arrivano ad alcune aziende, italiane e straniere, che di fatto sono “cartiere”, cioè società prive di sede e contabilità, che servono a mettere a segno le frodi utilizzando fatture false. Tutto sotto l’attenta supervisione e con l’attiva collaborazione di commercialisti fidati. E poi arriva un caso clamoroso. Siamo ancora nel 2014. L’inchiesta dei carabinieri sugli affari del clan napoletano di Eduardo Contini porta al sequestro a Roma di numerosi esercizi commerciali nel settore della ristorazione. Vengono individuati gli interessi del clan in diversi altri settori economici e finanziari: dal commercio al dettaglio di carburanti, ai bar, al commercio di oro e preziosi, alla distribuzione di prodotti alimentari, agli investimenti immobiliari. Saltano fuori operazioni di riciclaggio ed evasioni fiscali per cifre da capogiro, gestite in particolare dai fratelli Antonio, Luigi e Salvatore Righi e rese possibili da spregiudicati professionisti. Così il giudice delle indagini preliminari, Raffaele Piccirillo (oggi direttore degli Affari Penali del Ministero della Giustizia), oltre ad ordinare l’arresto di 90 indagati, deve disporre per due persone una misura interdittiva particolare: il divieto di esercitare le professioni di commercialista, consulente contabile, revisore dei conti e intermediario finanziario. Ancora commercialisti. E comunque dagli elementi raccolti si intuisce agevolmente che i prestanome del clan Contini non godono solo della complicità di due commercialisti. Un testimone racconta agli inquirenti di aver stipulato nel 2000 l’atto di acquisto di una società proprietaria di un ristorante, a Roma in zona Prati. La società è intestata ad uno dei prestanome del clan Contini che pretende venga indicata nell’atto una cifra di cento volte inferiore alla somma realmente versata. ” …pagai un miliardo 250 milioni di lire, ma il notaio fece figurare 15 milioni… “, spiega nel verbale il testimone. La compravendita si era svolta alla presenza del commercialista di fiducia dell’imprenditore del clan Contini. Secondo carabinieri e magistrati, la rete di complicità tessuta dai Righi e dal clan Contini poteva contare su pubblici funzionari corrotti ad esempio per ottenere le licenze per i locali. I Righi poi, stando agli elementi raccolti dagli investigatori, si erano garantiti anche il sostegno di funzionari dello Stato.
La camorra che “pensa alla salute”. Non solo conti, ma anche sanità. Altro caso. A giugno scorso dalle indagini sulla società Kuadra, che opera tra l’altro nel settore delle pulizie- e ha sedi a Napoli, Genova, Roma- ed è finita, secondo gli inquirenti, sotto il controllo del clan camorristico dei Lo Russo – emerge un’intensa azione di infiltrazione della camorra in appalti per la pulizia di ospedali e anche aziende pubbliche a Napoli. Storie di corruzione e di gare di appalto pilotate. Le indagini della squadra mobile di Napoli ricostruiscono le attività di esponenti di vertice del clan Lo Russo, amministratori e consulenti dell’azienda, funzionari dell’Azienda ospedaliera Santobono – Pausilipon, centro pediatrico napoletano. I magistrati (l’inchiesta è condotta dai pm della Dda, Henry John Woodcock ed Enrica Parascandolo e coordinata dal procuratore aggiunto Filippo Beatrice) parlano di “connubio camorra-imprenditoria che ha consentito ad entrambe le parti, imprenditori e criminali organizzati, di ottenere vantaggi reciproci”. E questo non sarebbe stato possibile senza il “contributo” di funzionari pubblici che avrebbero favorito la Kuadra, e cioè componenti della commissione di gara per l’appalto di pulizie e altri servizi dell’azienda ospedaliera Santobono – Pausilipon che avrebbero fornito all’azienda controllata dai Lo Russo informazioni riservate sulle offerte di ditte concorrenti. Tra gli indagati manager, funzionari regionali ed ex amministratori del Comune di Napoli. Nell’inchiesta finisce anche l’appalto per la pulizia della rete ferroviaria dell’Eav (Ente Autonomo Volturno). Che la camorra sia in vario modo interessata ai soldi pubblici e agli appalti della sanità è cosa nota. Un anno fa ci è stata ricordata da un’indagine dei carabinieri: scoprono che Marco Mariano, fratello di Ciro, capo storico della famiglia di camorra che comanda ai Quartieri Spagnoli, ha ottenuto di rientrare a Napoli, dopo aver lasciato la casa di lavoro di Sulmona, grazie a certificati medici che parlano di un suo possibile rischio cardiaco. Marco Mariano si fa ricoverare per più di un mese all’ospedale Monaldi e da lì dirige e riorganizza clan. Il cardiologo che firma il certificato di Marco Mariano non è l’unico medico citato nell’inchiesta. Ne compaiono altri impegnati in politica: per loro Marco Mariano e la sua associazione camorristica raccolgono voti. Le intercettazioni rivelano che il clan vuole condizionare le elezioni con un preciso tornaconto. Gli appetiti dei Mariano sono robusti: pensano alle elezioni politiche -spiega l’ordinanza il gip Tullio Morello- vogliono creare imprese di servizi, vendere posti di lavoro. E puntano anche a controllare le imprese che operano nei cimiteri. Al boss – dicono gli atti- dovevano andare 2000 euro per ogni cappella. È proprio il boss a parlare e spiega ai suoi l’idea che ha in mente: “…noi votiamo… dobbiamo essere all’altezza di dire qua facciamo noi, stiamo formando una società nuova di servizi, voi l’appaltate, subappalto, le condizioni le dettiamo noi,… sub appalto a questi qua, che esce 100 posti di lavoro… voi fate le cose vostre senza rompere le scatole, nello stesso tempo noi abbiamo la possibilità di sistemare le persone che vanno accomodate, se no, qui vendiamo solo pacchi di Rolex”. Le elezioni però non vanno come il clan si augura. I voti raccolti non bastano.
Quelle reciproche utilità. La casistica è vasta, rammenta e rafforza l’idea che esistano camorre diverse, funzionali l’una all’altra e contemporaneamente capaci di agire separatamente. Una in doppio petto -per semplificare e usare una figura antica – e l’altra che “amministra la violenza”, non necessariamente con la pistola in pugno. Eppure non sono frequenti -o almeno non si vedono- azioni di contrasto di grande respiro, che mirino anche a scardinare quello che potrebbe essere definito una sorta di patto non scritto fondato su reciproche utilità. Azioni necessarie, sul fronte delle professioni della politica e delle istituzioni locali, infiltrate ma anche prese di mira dalla violenza dei clan, dove c’è anche solo il sentore del marcio. Guardiamo quello che è accaduto nelle pubbliche amministrazioni: tra il 1991 e il 30 giugno 2016 in provincia di Napoli sono stati adottati 52 decreti di scioglimento di consigli comunali per infiltrazioni della camorra. Sette provvedimenti sono stati annullati. Undici consigli comunali sono stati sciolti più di una volta (35 gli scioglimenti in provincia di Caserta e 7 quelli in provincia di Salerno).E qualcosa vorrà dire se nell’ultimo Rapporto sul fenomeno degli “Amministratori sotto tiro” di Avviso Pubblico la provincia di Napoli guida ancora una volta la classifica di minacce intimidazioni di vario genere con 46 casi censiti…Le inchieste individuano spesso figure professionali o politiche, burocrati di basso, medio e alto rango che, per scelta, perché hanno progetti precisi, o per paura, si piegano o passano armi e bagagli nella fila delle cosche. Ma la notizia e l’indignazione durano pochissimo. Azioni moralizzatrici di lunga durata e in profondità dei partiti, degli ordini professionali? Non pervenute. Sono casi trattati tutte le volte alla stregua di fatti episodici. Ma non lo sono. È un fenomeno carsico che pure molte, moltissime volte, sale in superficie, diventa assolutamente evidente, inquina e corrompe società civile e mercato, funzioni dello Stato e gestione di servizi essenziali. Eppure sparisce, l’attenzione di forze politiche e di governo delle strutture investigative e giudiziarie mobilitati dalla “paranza dei bambini”, dalle baby gang. Ti senti rispondere “ma quelli sparano, uccidono”. Per carità, e chi dice che non vadano individuati perseguiti messi tutti in galera. Posto che basti. E non basta. E se la risposta dello Stato deve essere ferma, allora deve andare in profondità: cominciando a riempire vuoti. Deve farlo sul fronte di istruzione e valori, ma anche sgombrando il terreno dagli alibi. E uno degli alibi è alimentato dalla percezione dell’esistenza di una “società illegale”, criminale, che fiancheggia, sostiene i clan, con loro lucra- quando non ne tira le fila-, e riesce a restare spesso impunita. Quante volte da quei ragazzi, che ostentano aspetto e metodi feroci, si ascoltano discorsi che suonano più o meno così: “E che sono io il bandito? E quelli che fanno soldi sulla pelle nostra e non vanno mai in galera? Che sono…? Che a Napoli i colletti bianchi, i burocrati e i politici che siedono al tavolo dei clan non vadano mai in galera non è vero. Ma è anche vero che tanti di quei “camorristi borghesi” si sporcano le mani e continuano a sporcarsele senza finire nei guai, o magari rimediando solo una citazione in un’informativa di reato, ma passandola liscia.
A NAPOLI CI SONO PIÙ CANTANTI CHE DISOCCUPATI: ECCO PERCHÉ È STRACULT IL LIBRO DELL’AMERICANO JASON PINE, “NAPOLI SOTTO TRACCIA”, SUL FENOMENO DEI CANTANTI NEOMELODICI TRA EVENTI BORDERLINE E BOSS IMPRENDITORI. Alessandro Chetta per il “Corriere della Sera” del 13 marzo 2015. A Napoli ci sono più cantanti che disoccupati» ripete la vox populi. Buon per me, ha pensato Jason Pine, che dal 1998 al 2011 s’è immerso curioso, stregato, nel mondo dei cantanti neomelodici e ha pure abbassato il numero dei disoccupati diventando regista di videoclip. Pine è un antropologo che insegna al Purchase College della State University di New York. Un «borghese bianco americano» che non è piombato a piazza Mercato per un bagno di folklore sulle voci più amate dal popolo. Nel suo libro Napoli sotto traccia. Musica neomelodica e marginalità sociale (Donzelli) lo studioso evita ogni moralismo e con disciplina si fionda su una sociologia pratica del fenomeno, da vivisettore di cause ed effetti. Tredici anni sono un’eternità, perciò il suo è innanzitutto un reportage sociale e simbiotico su quell’universo parallelo al mainstream musicale. L’autore inizia a seguire la carriera di un baby cantante. Va a casa sua, conosce i genitori-manager e soprattutto lavora da videomaker per loro, e per altri artisti pop. Diviene in pratica un minuscolo ma effettivo ingranaggio del settore. Racconta così delle tv clandestine: «Entrai in un appartamento dove c’erano persone che stavano cenando, ciascuno aveva nel piatto una grossa polpetta affogata nel sugo. In fondo al corridoio due uomini manovravano una videocamera e un mixer… lì si svolgeva la trasmissione». Il focus più in generale si concentra sull’arte di arrangiarsi dei protagonisti del sottobosco musicale. Lui la chiama the art of making do in Naples. La bussola è un po’ Pino Aiello, che anni fa scrisse della «comprensibile esistenza di una musica inaccettabile». L’indagine del prof newyorchese sotto il Vesuvio è fatta sul campo come non mai. Dagli studi di registrazione di Ponticelli e Secondigliano ai matrimoni. Jason vuol comprendere, appunto, i diversi piani di esistenza dell’abbondante sottoproletariato urbano partenopeo e la sua urgenza di possedere un filone canoro proprio attraverso un business ad hoc («dove ci sono i soldi c’è la camorra», annota più volte). Che poi sia musica inaccettabile questo è tanto scontato in un’ottica di classe quanto falso. Patrizio, Nino D’Angelo, Franco Ricciardi spuntano dalle ceneri del fu Festival di Napoli, finito nel 1970, con Sergio Bruni che stappava champagne. Il libro bilancia l’esperienza relazionale con i protagonisti della scena neomelodica e di apprendimento faticoso del dialetto — «il melodramma del contatto» — con brani sulla storia della criminalità organizzata e della città. Chi s’è distratto e non conosce la Napoli neomelodica può sfogliare Pine, non senza un certo impegno (il piglio di tanti passaggi è scientifico e il vocabolario sociologico), per farsi un’idea di questo spicchio di meridionalissimo e litigioso underground. Underground inteso anche come sommerso, visto che tanti dischi sono ignoti alla Siae. Quasi un do it yourself di matrice punk, però latino e più sfrontato. Attorno pulsa il giro d’affari, macchina fortemente indeterminata, intuisce l’antropologo, giacché il modus operandi del Sistema tra concerti e hit non sai dove inizia, se inizia, se è un bluff, se ci rientri in pieno. Questo contesto, inedito nel resto d’Europa, è popolato da organizzatori d’eventi borderline e boss-impresari che spingono e impongono i cantanti, osannati da migliaia di fan di tutte le età: basta dare un’occhiata alle visualizzazioni in Rete dei videoclip. Ambiente in chiaroscuro: plasticamente si può rappresentare l’ambiguità del factotum col volto da Sfinge di Ciccio Mira, fautore delle feste di piazza al quartiere Brancaccio di Palermo, apparso nel film Belluscone di Franco Maresco (in Sicilia amano alla follia i neomelodici). La differenza tra questo e altri lavori sul fenomeno sta nell’annullamento quasi totale del distacco. Pine non si limita ad osservare il guscio o ad inseguire la road map di ricevimenti kitsch. Diventa parte del circuito, ne tange umori e ambiguità, conosce di persona un boss. Proviamo a ripescare articoli, libri o documentari sui neomelodici di alcuni anni fa: ci troveremo, è molto probabile, un passaggio su di lui, Jason, il regista dei videoclip Siente a mè e Palcuscenico, l’americano che vo fa’ ’o napulitano e segue i cantanti.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
L’ignoranza d’Italia tutta nella domenica del pallone, scrive il 23 novembre 2015 Angelo Forgione. Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo. Sul campo del Bentegodi, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al Bentegodi con tutto Mandorlini. La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al San Paolo e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla. Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.
Verona-Napoli: prima la Marsigliese, poi i cori razzisti, infine Insigne. Dov'è finito il vero tifo? Scrive Giuseppe Annarumma su “Napoli Sport” il 23 novembre 2015. Ogni qualvolta che il Napoli affronta una trasferta a Verona è vittima dei cori razzisti dei tifosi avversari che inneggiano il Vesuvio e offendono i partenopei. Il problema è che oggi questi episodi non accadono solo al Bentegodi, ma anche a Milano, a Torino, a Bologna, a Bergamo, a Roma, a Firenze e chi più ne ha più ne metta. Nel match di ieri gli spalti dello stadio di Verona si sono colorati di vergogna e di incoerenza, visto che prima della partita tutti i presenti hanno espresso solidarietà nei confronti delle vittime di Parigi applaudendo la Marsigliese che ha accompagnato i calciatori prima del fischio iniziale, ma poi durante la gara i tifosi scaligeri non hanno risparmiato al Napoli i classici cori razzisti. L’anno scorso al Bentegodi Lorenzo Insigne pianse a fine partita, deluso dalla sconfitta e dalle offese ricevute, ancora una volta, e ieri ha ben pensato di reagire ai cori con il gol che ha portato gli azzurri in vantaggio, spianando la strada verso la vittoria finale. Cosa c’è di meglio per un napoletano doc come Lorenzo di segnare, interrompere le offese zittendo il pubblico di casa e regalare tre punti importantissimi al Napoli? Così dopo la rete lo ‘scugnizzo’ ha prima baciato la maglia azzurra, poi ha abbracciato colui che sta permettendo all’ambiente partenopeo di sognare lo Scudetto, Maurizio Sarri. La squadra risponde così ad ogni futile insulto razziale, secondo posto in classifica e lunedì, in caso di vittoria nel big match contro l’Inter, il Napoli potrebbe ritrovarsi a guidare la classifica del campionato italiano in solitaria. Già una volta un napoletano doc aveva zittito il Bentegodi, toccò ad Aniello Cutolo, il 16 settembre del 2011. L’attaccante partenopeo vestiva la maglia del Padova e i tifosi del Verona non gli risparmiarono i cori razzisti che in molti riservano ai calciatori napoletani. Al 29′ minuto del primo tempo, col Verona in vantaggio, Cutolo si inventa un gol fantastico e esulta correndo verso la curva dei padroni di casa con le mani dietro le orecchie, classico gesto per stizzire il pubblico avversario, zittendo anche Mandorlini con un gesto clamoroso verso l’allenatore. Un’esultanza polemica che gli valse il cartellino giallo ma che scaturì dagli insulti e dalla conseguente rabbia verso i tifosi veronesi, tra l’altro ex pubblico di Cutolo, visto che il giocatore aveva vestito la maglia scaligera in passato. Insomma di episodi di razzismo se ne contano tanti ma ciò che fa rabbia è che questi non vengono puniti, lasciando sempre correre, quando invece dovremmo soffermarci di più su questo aspetto vergognoso del tifo italiano.
Condò: “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?” Scrive Alessandra La Farina il 22 novembre 2015 su “Calcio Mercato”. “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?”, è la domanda che si pone il giornalista Sky Paolo Condò al termine di Verona-Napoli 0-2. Se da un lato allo stadio Bentegodi, prima del fischio d’inizio del match, i tifosi dell’Hellas cantavano la Marsigliese in ricordo delle vittime degli attentati in Francia, il coro “Vesuvio lavali” contro i napoletani (oggi loro avversari sul campo) cozza un po’ con quello che doveva essere il significato della “Marsigliese” a inizio di ogni partita di Serie A in questa tredicesima giornata. A sottolineare il totale controsenso dei tifosi veronesi è per l’appunto il giornalista di Sky Paolo Condò che, conclusa la partita, ha voluto accendere i riflettori su quanto accaduto sugli spalti nel corso dei novanta minuti. “È incoerente” grida il giornalista. E come dargli torto? I cori contro i napoletani, divenuti ormai scontati quanto fuori da ogni logica, appaiono oggi più che mai fuori luogo. Ricordare le vittime francesi per poi inneggiare la morte: qual è il senso logico? Un altro episodio di razzismo, l’ennesimo. Il “terrorismo” degli ultras.
"Napoli colera", siamo alle solite a San Siro: cori razzisti si levano dalla Curva Nord dell'Inter. Non solo Verona. Il cattivo gusto si è spostato anche allo stadio San Siro di Milano. Al minuto 82 di Inter-Frosinone si sono sentiti i soliti cori razzisti e discriminatori nei confronti della città partenopea: "Napoli merda, Napoli colera". L'atto vergognoso è partito dalla Curva Nord, già sanzionata in passato con pesanti ammende. Chissà cosa s'inventerà questa volta il giudice sportivo Tosel? E' giunto il momento di prendere provvedimenti drastici.
Napoli. Mandorlini e quell'insulto a Sarri: «Veste solo in nero e porta male», scrive Angelo Rossi. Non si sono mai presi. Ma si sono incrociati più volte. Nelle varie categorie e sempre a debita distanza, ognuno seduto sulla propria panchina. Salvo poi quando uno s'intromise nei fatti dell'altro. Storia di Mandorlini e di Sarri, semplici colleghi, non amici. Un feeling per niente sbocciato, colpa della lingua biforcuta del primo. «Sarri non porta bene», per intenderci lo etichettò come jettatore. Uscita inopportuna, sgradevole, di cattivo gusto. Un fatto che risale a oltre quattro anni fa, giugno 2011. Erano i giorni caldi dei playoff di Lega Pro. Il Verona fece sua la semifinale contro il Sorrento, la Salernitana la spuntò contro l'Alessandria, allora allenata da Sarri. Il quale si lamentò degli arbitraggi contro la propria squadra: quattro espulsioni in due gare. «Vogliono avvantaggiare formazioni più blasonate» fu il concetto espresso dal toscano per affermare che la finale era già scritta: Verona-Salernitana. E infatti andò così. Mandorlini sulla faccenda entrò a gamba tesa. Come quella volta nel novembre dell'85. Un intervento violento e fuori tempo. Si giocava Inter-Napoli (poi finita 1-1), Bruscolotti espulso per essere venuto alle mani con Altobelli, Garella colpito da una bottiglietta e partita sospesa, il solito ambiente ostile all'interno del quale l'entrata di Mandorlini a centrocampo fece la sua bella figura. Il centrocampista azzurro Ruben Buriani ci rimise tibia e perone, il suono sinistro del crac salì fin sulle tribune di San Siro. La carriera del centrocampista napoletano finì quel pomeriggio, Mandorlini si scusò in maniera gelida. «Non volevo fargli male», rispose a Maradona che chiedeva conto di quel comportamento. A parole quattro anni fa non è stato meno inopportuno riferendosi a Sarri nel 2011. «A me non piace parlar male di allenatori ma so che Sarri è uno che veste di nero e non porta proprio bene. Vede le cose negative»: uno schiaffo alla carriera di un collega fatta di sacrifici e costruita sulla passione. Dichiarazioni intempestive perché quella sterile polemica riguardava il tecnico toscano, gli arbitri e l'Alessandria. L'allenatore del Napoli sorrise senza replicare. Ha le sue scaramanzie, tra queste c'è quella di indossare spesso il nero. Alternandolo al blu. Insomma gli piace vestire scuro, un look che ha fatto suo da quando ha intrapreso la carriera in panchina. Ma quella non fu l'unica uscita infelice di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
E Ilaria D’Amico strizza l’occhio ai razzisti legittimandoli, scrive il 22 novembre 2015 su “Soldato innamorato”. “Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. E la colpa è di chi, pur avendo responsabilità per il ruolo che ricopre, anche mediaticamente, soffia sul fuoco invece che cercare di educare i tifosi ai valori dello sport. Per carità nello sport conta pure vincere, oggi noi napoletani ci saremmo inquietati non poco se gli azzurri non fossero riusciti a scardinare la difesa veronese. Però, prima di tutto, ci sono dei criteri di civiltà che non possono essere dimenticati. I napoletani vanno in tutti gli stadi del nord a beccarsi questo genere di razzismo. Ormai è diventata una moda. E’ vero pure che ingigantire questo fenomeno è sbagliato: pure io allo stadio canto Roma o Milano in fiamme, poi ho tra i miei amici sia romani che milanesi e mai mi sognerei di augurargli il male. Ma il razzismo verso i napoletani dura da troppi anni e non si può derubricare a semplice “coro da stadio”. Resiste in troppe città italiane questo pregiudizio nei confronti dei meridionali, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno il motivo per cui in Italia esista ancora un partito denominato Lega Nord che basa la sua politica proprio con l’odio verso chi viene dal sud. Tutto questo sentimento insopportabile alimenta (anche in me, non lo nascondo) un sentimento di anti-italianità da parte dei napoletani. E pensare che l’Unità d’Italia è avvenuta oltre 150 anni fa. E sorvoliamo sulle modalità di questa annessione perché altrimenti non la finiremmo più. Se però questo razzismo continua è anche grazie ai vertici del nostro sport che mostrano una totale incapacità nel punire certi comportamenti. Oggi a Sky, dopo che Condò ha fatto notare i soliti cori contro i napoletani, Ilaria D’Amico non ha potuto dire o biascicare nulla di più intelligente di “Vabbé succede anche a Napoli in particolare più volte”. Il tutto per strizzare l’occhio, in nome del Dio Denaro, a quella parte di pubblico (E SONO TANTI) che proprio non sopporta i napoletani. Qui a Napoli, anche attraverso il nostro sito con diversi articoli, non lodiamo i comportamenti beceri dei nostri ultrà quando commettono gesti incivili o intonano cori disdicevoli. Però questo lavoro va fatto ovunque, altrimenti la vinceranno sempre questi buzzurri che con lo sport non hanno nulla a che fare. I media, gli addetti ai lavori, la politica. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Cori, sfottò e insulti: Verona-Napoli, la storia infinita che vale uno striscione, scrive Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato a tinte azzurre, domenica alle ore 12:30, può essere definita una partita che vale uno striscione. Quanti ce ne sono stati, da quanti anni, al di là delle scaramucce che ci sono tra le due tifoserie che proprio non si amano e che, forse, mai lo faranno. Si parte nel 1983 quando Dirceu si trasferì dall'Hellas Verona al Napoli e fu accolto da un: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Poi ci fu la prima di Maradona, letteralmente massacrato al Bentegodi da Briegel, con i padroni di casa che vinsero per 3-1 e, a fine stagione, conquistarono lo scudetto. Ma gli striscioni orribili sono all'ordine del giorno a Verona, dal: “Vesuvio lavali col fuoco”, passando per“Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”, o ancora “Napoletani, stessa fine degli ebrei”: vero e proprio razzismo allo stato puro. Aggiungiamo a questi un “Benvenuti in Italia”, che fece scattare la grande magia delle menti napoletane, quello striscione della curva B, quel famoso, esilarante, divertentissimo striscione passato alla storia: “Giulietta è ‘na zoccola”. Finito qui? Per niente ci fu il seguito con 'offesa' shakespeariana: “Romeo è cornuto”. Anno 2001, gennaio: «Acqua e saon par el teron», tradotto: acqua e sapone, il resto è noia, recitava una canzone di diversi anni fa. Anno 1992, il Verona retrocede in B, a Napoli si festeggia: «Coloro che vogliono festeggiare si trovino oggi alle 19,30 in piazza del Plebiscito». Come in un vecchio film di Woody Allen, «Amore e Guerra», togliamo l’amore ed ecco cosa vi rimane: la storia di una fiamma belligerante mai spenta. «Facciamo il gemellaggio?», qualcuno dalla parte partenopea, ancora oggi, ci prova sui social network. Sì, certo, come no, ma bisogna cambiare sesso: ci vogliono le donne, quando a Verona, prima del match tra il Bardolino e il Napoli Carpisa Yamamay, al fischio finale ci furono applausi, brindisi e strette di mano con zero scherni in tribuna. Un gesto molto bello, portato avanti, nemmeno a farlo apposta dalla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attaccante del Napoli). Un messaggio per tutti...
La testa è altrove, a ciò che è accaduto a Parigi e a ciò che sta accadendo in giro per l'Europa. Sarebbe superfluo parlare di altro, ma si cerca di andare avanti e farlo nel rispetto di chi in questo momento non c'è più, che ha perso la vita per colpa di alcuni sciagurati. Ma gira e rigira,Verona-Napoli storica sfida tra striscioni e razzismo: da Dirceu all'offesa shakespeariana, su "Il Mattino del 16 novembre 2015. Gira e rigira, Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato degli azzurri (domenica alle 12,30) è una partita che vale uno striscione. La prima stoccata è del 1983 quando Dirceu, il delizioso brasiliano di Curitiba, si trasferì dal Verona al Napoli. Lo striscione scaligero che accolse Dirceu in azzurro recitò: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. L’anno dopo andammo in paranza al Bentegodi perché il campionato cominciava con la prima partita di Maradona in maglia azzurra. Il pibe fu massacrato da Briegel, il Verona vinse 3-1 e, a fine stagione, conquistò lo scudetto. Al Bentegodi si sprecavano gli striscioni orribili. “Vesuvio lavali col fuoco”. “Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”. “Napoletani, stessa fine degli ebrei”. Razzismo puro. L’ennesimo striscione del Bentegodi, “Benvenuti in Italia”, provocò l’immediata reazione, una genialata tutta partenopea dei ragazzi della Curva B del San Paolo presenti sugli spalti veronesi. Essi srotolarono il più famoso, spiritoso e incisivo striscione mai apparso in uno stadio: “Giulietta è ‘na zoccola”. Le partite fra Verona e Napoli sono questo. Fino alle ventimila banane di cartone giallo esposte al San Paolo in curva B, il giallo col blu è il colore delle maglie veronesi, accompagnate da una ulteriore “offesa” shakespeariana: “Romeo è cornuto”.
VERONA-NAPOLI, COME È NATO L’ODIO TOTALE. Era il nulla, per i tifosi partenopei: una squadretta del Nord. Con una tifoseria che però proprio per questo si rivelò più provinciale e razzista delle altre. E così, dopo gli striscioni “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”, cambiò tutto, scrive Errico Novi il 10 gennaio 2014 su “Extranapoli”. Perché proprio con il Verona? Cos’hanno di speciale gli scaligeri per suscitare un odio così viscerale? A poche ore dal ritorno di una partita che manca da 7 anni (in serie A addirittura da 13) qualcosa in proposito va detta. Innanzitutto che ai napoletani non gliene importava un tubo, del Verona e dei veronesi. I nemici erano altri: Juve, Inter, Milan (seppure ci fosse stato un timido tentativo di gemellaggio tra Blue Lions e Brigate nei primi anni Ottanta), al limite la Lazio. Ma il Verona, cosa significava per i partenopei? Niente. E in realtà fu proprio l’effetto sorpresa di quel 16 settembre 1984, prima partita di Maradona in serie A, a cambiare le cose.
Il primo conato gialloblù. Negli anni Settanta il Bentegodi è terra di conquista. I napoletani ci arrivano a frotte e occupano tutti i settori dello stadio. L’impianto è piuttosto capiente per una squadra di provincia, oltre 40mila posti (quanti ne fa oggi lo Juventus stadium), ma i supporters locali non riescono a riempirlo mai. Tra l’82 e l’84 però il club partenopeo conosce una grave crisi di risultati, ne risente anche il seguito che gli azzurri hanno in trasferta. E per partite come quella di Verona si muovono molti meno napoletani che in passato. Finisce così in secondo piano un primo conato fortemente razzista della curva sud del Bentegodi: che dopo il passaggio di Dirceu in azzurro dedica al campione brasiliano lo striscione “ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Se ne accorgono in pochi. Passa meno di un anno ed ecco la scena madre. La prima di campionato 84-85 è Verona-Napoli. È arrivato Diego, ha appena segnato in Coppa Italia alcuni dei suoi gol più incredibili, a cominciare dalla rovesciata di Pescara. Il Napoli è incompleto, schiera a centrocampo un metodista ormai avanti con gli anni come Walter De Vecchi, ma i tifosi azzurri hanno occhi solo per Lui. Nell’impianto scaligero sono almeno 15mila. I veronesi prendono male l’invasione. Il Veneto dei primi anni Ottanta non è il Nordest di oggi. È una provincia chiusa e povera rispetto alle ricche Milano e Torino, dove i meridionali sono entrati a far parte ormai anche della classe dirigente. Brigate e inferni gialloblù vari scaricano contro i tifosi partenopei cori xenofobi che neppure a San Siro o al Comunale di Torino si sentono: “Terremotati”, “benvenuti in Italia”, “quanto puzzate”. La tensione è accresciuta dalla vittoria per 3-1 che l’Hellas riporta sul campo. Molti supporters azzurri tornano a casa e raccontano la sconcertante accoglienza. Ma la delusione per il risultato anche stavolta oscura almeno in parte l’accaduto.
I cori razzisti in sovraimpressione sulla Rai. Un effetto in realtà c’è: l’anno dopo, è il 23 febbraio dell’86, a Verona non ci sono i gruppi ultras del San Paolo. Arrivano circa tremila tifosi azzurri da varie parti del Nord. Ma l’atteggiamento dei veronesi non cambia. Riecco gli insulti razzisti sugli striscioni: “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”. Stavolta la cosa non sfugge alle telecamere Rai. E così il servizio su Verona-Napoli 2-2 messo in onda alle 20 da Domenica sprint mostra non solo i drappi ma fa ascoltare ben bene anche i cori. E non solo: perché mentre va in onda sulle note di Guantanamera la canzoncina delle Brigate gialloblù Quanto puzzate, terroni quanto puzzate, la tivù di Stato mette addirittura le parole in sovraimpressione. Finalmente scoppia il putiferio. Non si parla d’altro per una settimana. E così la successiva partita in casa, Napoli-Torino, viene preceduta da quasi mezz’ora di cori di protesta scanditi dalle due curve del San Paolo.
Verona diventa il nemico. Solo a questo punto i napoletani, che l'anno dopo avrebbero festeggiato il primo scudetto, cominciano a mettere i veronesi in cima alla lista dei nemici. Prima di milanisti e juventini. Il prepartita di quel Napoli-Torino è una specie di rivelazione collettiva. In curva A compare uno striscione di risposta che non conquisterà la fama del ben più tardivo “Giulietta è ’na zoccola” (1996). Il drappo ideato dai Blue Lions di Tony Faiella, scritta rossa su fondo bianco, recita “Veronesi, torneremo per farci lavare le palle”. Violento, volgare, senza dubbio. Ma a noi quasi quasi piace più di quell’altro.
VERONA-NAPOLI, STORIE DI ODIO E DI ULTRAS. La rivalità con gli scaligeri, acquisita tra le più irriducibili d’Italia, passa anche per l’affronto dei tifosi azzurri che invadono il campo e corrono a far gestacci sotto la curva sud. Fino al famoso epitaffio a Giulietta, continua Errico Novi. Nella saga di Verona-Napoli si intromettono citazioni di ogni tipo: non c’è opinionista sportivo che manchi di ricordare lo striscione su Giulietta, ma spesso si confondono le date e i contesti. Sta di fatto che la rivalità viene annoverata ormai tra quelle storiche del calcio italiano. Con qualche buona ragione, evidentemente.
Il campo del Verona violato dagli ultras azzurri. Resta memorabile per esempio un’altra trasferta dei partenopei al Bentegodi, quella del 10 settembre 1989. Siamo a inizio campionato e gli azzurri si presentano privi di Diego (che alla fine della stagione precedente ha chiesto inutilmente di essere ceduto al Marsiglia). Il seguito di tifosi è massiccio ma ora prevalgono i gruppi ultras, rispetto all’eterogenea massa di aficionados che aveva invaso Verona nell’84. Una parte della tifoseria napoletana si sistema nell’anello inferiore della curva nord. Alla fine della partita, vinta per 2-1 dal Napoli, decine di ultras partenopei scavalcano le barriere e invadono il campo: non vanno a caccia di magliette e souvenir feticisti, e infatti Careca, Mauro e gli altri azzurri tornano abbastanza tranquillamente negli spogliatoi. I supporters napoletani vanno dritti verso la curva sud trascinati da un orgasmo adrenalinico a fare ogni genere di gestacci sotto il naso dei veronesi. E le immagini che postiamo sotto questo articolo mostrano come i butei impazziscano di rabbia con inutili invettive sacramentali all’indirizzo dei nemici. L’onta del terreno di gioco violato entra negli annali.
Le ventimila banane e i veronesi invisibili. C’è da dire che a Napoli non viene quasi nessuno in trasferta. Nell’anno del nostro primo scudetto, per esempio, si ricordano solo i romanisti da tempo gemellati (che si sistemano infatti a piccoli gruppi in vari settori del San Paolo, confusi senza problemi tra i tifosi del Napoli), i davvero eroici atalantini, che seppure in poche decine si appostano coraggiosamente nell’anello inferiore della curva A, e i viola che assistono alla festa tricolore del 10 maggio 1987. Veronesi non pervenuti neppure il 21 gennaio del 1990, quando la curva B accoglie i gialloblù con ventimila banane di cartone e il coro “veronese ciuccia la banana”. Ad apprezzare lo spettacolo sono appunto solo i giocatori di Osvaldo Bagnoli: di tifosi scaligeri non ce n’è manco mezzo. Le cose cambiano dopo i Mondiali del ’90. Strane coincidenze spianano la strada alla pay-tv con un’impressionante militarizzazione degli stadi. Da una parte seguire la propria squadra fuori casa inizia a richiedere la disponibilità ad essere sequestrati dalla polizia nel settore ospiti per almeno un paio d’ore oltre il 90°. D’altra parte tifoserie che si sentivano troppo esposte in determinati campi prendono coraggio proprio per il rafforzamento delle scorte ordinato dal Viminale. Succede anche ai veronesi, che si presentano al San Paolo in genere in un paio di centinaia.
Vengono giù dai monti del Tirolo. Di sicuro il campionario dei cori veronesi è tutto particolare. È sempre stato così, almeno da quando esiste il fenomeno ultras. La curva sud scaligera spedisce avanguardie a osservare le gesta delle firms d’Oltremanica e poi importa il repertorio al Bentegodi. Sono i primi a cantare l’inno inglese, per esempio. E quando tutte le curve d’Italia ancora adottano l’ecumenico “Alé-oò”, loro rivisitano il coro per farne esclusivamente un inno a un loro giocatore, Domenico Volpati. Negli anni questa ricercatezza si complica. In una delle prime apparizioni a Fuorigrotta, siamo nel settembre del ’91, i gialloblù esibiscono bandiere austriache e si lasciano scappare un “veniamo giù dai monti/ dai monti del Tirolo”. Se qualche napoletano si avvicina al divisorio del settore, loro gli cantano “facci la pizza/ terrone facci la pizza”. Una fantasia dark, diciamo. Quella partenopea è decisamente più lineare e divertita.
E venne il giorno di Giulietta. E così nella sfida che si gioca a Fuorigrotta a inizio dicembre del ’96 la curva B ripropone la coreografia delle banane ed espone l’ormai celebre striscione: “La storia ha voluto: Giulietta zoccola e Romeo cornuto”. Simboli apotropaici e citazioni shakespeariane portano bene: il Napoli vince quella partita per 1-0 con una bomba di Mauro Milanese a pochi minuti dalla fine. Balza al secondo posto in classifica: una specie di miracolo ad opera del serafico Gigi Simoni. Ma l’Italia s’accorge soprattutto dello sfottò su Giulietta e legittimamente ride. Gioco, partita e incontro, si direbbe. Eppure no, la storia va avanti. Dopo qualche anno infatti i gialloblù saranno i primi a cantarci Oj vita oj vita mia in segno di scherno.
’O surdato ’nnammurato in veronese. Ferlaino caccia Simoni pochi mesi dopo quell’1-0 contro gli scaligeri. Sì, il rendimento degli azzurri se n’è sceso, la zona Uefa scappa via, ma in un’indimenticabile notte di febbraio gli azzurri conquistano la finale di coppa Italia, con una vittoria ai calci di rigore contro l’Inter. Il presidente del Napoli accusa però l’allenatore di essere troppo distratto dall’accordo che lo porterà ad accasarsi a fine stagione proprio con i nerazzurri. E lo esonera. È l’inizio del nostro travaglio. Che conosce uno dei passaggi più dolorosi nel torneo 2000-2001, l’ultimo in serie A prima dell’avvento di De Laurentiis. Mondonico sembra aver risvegliato la squadra ma l’illusione si spegne proprio al Bentegodi, il 14 gennaio 2001. Azzurri in vantaggio a un quarto d’ora dalla fine con un capolavoro di Bellucci da 25 metri, poi frana tutto e il Verona rimonta: 2-1 finale e i gialloblù travolti dall’emozione intonano a squarciagola Oj vita oj vita mia. La cantano in ventimila, il coro rimbomba come un incubo nella testa dei cinquemila partenopei. Ma di lì a poco avremo ben altro di cui preoccuparci. E lo stesso Verona tornerà opportunamente in serie B.
La farsa del volantino. Ottobre 2002, Verona-Napoli è di scena nel campionato cadetto. Una settimana prima si gioca Napoli-Sampdoria al San Paolo, e gli ultras della curva A espongono uno striscione: “Tutti a Verona”. Diffondono pure un volantino con il testo di un coro, che non è molto conosciuto se non dai direttivi dei gruppi. Il motivetto è quello di “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e poveri, adattato così: “Passamontagna/ bastone nella mano/ È il momento/ che noi aspettavamo/ E col Verona/ c’è un odio che non muore/ Non ce ne frega/ di andare in prigione…”. Sì, pesante, ma l’idea è semplicemente quella di far cantare a tutti una canzoncina metricamente ben riuscita ed eccitare i dubbiosi sulla trasferta della domenica dopo. La Digos invece trova che il coro non suoni bene e individua nel volantino non uno spartito ma un dispaccio militare con invito ad armarsi di passamontagna e bastone. Vengono arrestati alcuni capitifosi azzurri. Al Bentegodi comunque si presenteranno quattromila partenopei, in gran parte partiti in treno da Napoli: un record di presenze per una trasferta così lontana e per una squadra che galleggia a metà classifica in serie B. Segno che l’obiettivo del volantino era semplicemente la mobilitazione di un numero più alto possibile di tifosi.
Bye bye Verona. Ci vogliono altri cinque anni per incontrarsi di nuovo. E sarà una goduria per noi indimenticabile. La fine di anni di sofferenze sportive, culminate nel fallimento del club e nella discesa in serie C. Il 26 maggio 2007 il Napoli va a prendersi a Verona 3 punti decisivi per il ritorno in A, e prefigura agli scaligeri la loro retrocessione in terza serie. Lì l’Hellas resterà per tre stagioni. L’1-3 del Napoli al Bentegodi è contrappuntato però anche dalle violente intimidazioni che alcuni telecronisti napoletani ricevono da esagitati scaligeri in tribuna numerata. Vecchi reduci delle Brigate che trovano doveroso accomodarsi nelle poltrone centrali, lontani dalle gradinate di un tempo. Carlo Alvino e altri colleghi vedono messa a rischio la loro incolumità. Ma in modo del tutto volontario la mette in pericolo anche l’attore veronese-partenopeo Francesco Brandi. Anche lui è in tribuna, in mezzo ai gialloblù. Al gol dell’1-3 di Dalla Bona, restituisce in versi tutte le maleparole udite in anni di becerume. E, come potete leggere nel suo splendido racconto pubblicato su #chevisietepersi del nostro Boris Sollazzo, comincia a correre per la felicità.
Verona-Napoli, la storia della lunga sfida tra razzismo e risposte geniali. E quelle parole di Maradona…Tra le due tifoserie c'è sempre stata ostilità, i napoletani hanno spesso risposto in maniera geniale, scrive il 15/03/15 “IamNaples”. La trasferta di Verona storicamente è sempre stata insidiosa per i colori del Napoli, sia dal punto di vista prettamente sportivo che da quello ambientale. In ogni trasferta, i partenopei sono stati sempre accolti nella città scaligera con un clima molto ostile tanto da attirare l’attenzione dei media anche a fatti extracalcistici. Nel tempo la sfida è diventata molto sentita da entrambe le tifoserie tanto da beccarsi reciprocamente con cori e striscioni molto offensivi. Anche dal punto di vista dell’inventiva, però, i napoletani hanno avuto la meglio con risposte su striscioni che hanno fatto il giro del mondo tanto da meritare una propria frase un titolo ad un libro sul mondo delle tifoserie. Andiamo con ordine. La fantasia prettamente napoletana si è spesso trasferita ed ha avuto una voce alquanto potente sugli striscioni esposti specialmente al San Paolo, soprattutto per rispondere a “messaggi” troppo spesso offensivi esposti dai sostenitori delle squadre avversarie, spesso striscioni ispirati al razzismo rivolti alla nostra amata terra. Intendiamo riferirci ai tifosi di Bergamo, Como, Brescia, Milano, Roma e Verona su tutti. Clima che molto spesso può far degenerare in scontri non solo verbali, ma il tifo napoletano cerca spesso di rispondere con ironia al torto subito, condannato soprattutto ora da quasi tutte le tifoserie europee. Verona spesso ha fatto registrare striscioni con su esposte le scritte: “Lavatevi”, “Vesuvio lavali col fuoco”, “Benvenuti in Italia”, “Vesuvio pensaci tu”, “Forza Vesuvio”. In occasione proprio della gara di andata della stagione 1988-1989 Verona – Napoli comparve questo striscione e dipinto sull’autostrada alle porte di Verona, con l’auspicio di un’eruzione distruttrice. Per la cronaca la sfida venne disputata l’11 dicembre 1988, diretta dall’arbitro Baldas. Il primo tempo finì a reti inviolate. Scocca il 53’: punizione dalla lunga distanza calciata da Renica che colpisce il palo e sul rimbalzo arriva in tuffo Crippa che ribatte di testa spedendo in fondo al sacco il gol partita. La gara però degenera non solo sugli spalti ma anche in campo. Al 78’ Crippa viene espulso per fallo da rigore su Galderisi che lo stesso tira. Giuliano, l’ex di turno, si supera deviando il calcio di rigore in corner. Nel finale viene espulso per gioco violento il tedesco Berthold. A fine gara Maradona si esprime così: “Abbiamo vinto meritatamente perché il Napoli è stata una squadra intelligente in campo. Vale molto questa vittoria perché l’anno scorso abbiamo perso lo scudetto proprio perdendo in questo campo”. Nella gara di ritorno, in una giornata piovosa, avviene la risposta dei tifosi partenopei che così accolgono gli scaligeri: curva B tutta “colorata di banane gialle” ed uno striscione inequivocabile che fa andare su tutte le furie il popolo gialloblu: “La storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto”. Per la cronaca la sfida venne giocata alla vigilia della finale di Coppa Uefa con lo Stoccarda, ossia il 10 aprile 1989 con il Napoli che vinse con il minimo scarto con una rete di Alemao. La sfida sugli spalti però non si conclude così ed i veronesi meditano ad una risposta su “pezza” per cercare di vendicare il loro onore e quello di “Sheakespeare”. La frase “Giulietta è na zoccola”, risposta geniale ed irridente nei confronti anche della letteratura, ha fatto il giro del mondo tanto da essere considerato lo striscione più divertente mai apparso al mondo sugli stadi. Qualche anno più tardi i veronesi si vogliono vendicare dell’affronto subito ed espongono un altro striscione ma fanno un autogol clamoroso senza meritare una risposta su pezza da parte del tifo partenopeo: “Siete tutti figli di Giulietta”. L’intento dei supporters scaligeri era quello di offendere il popolo napoletano, ma il fatto stesso ammette implicitamente l’ammissione originale dello striscione dei tifosi napoletani. La genialità dei napoletani continua qualche anno dopo. Il 5 maggio 1997 in Verona – Napoli segna per gli scaligeri De Vitis e dalle tribune compare lo striscione “Terroni, terroni”. La risposta non tarda a venire. I partenopei si vendicano il 17 gennaio 1999. Al San Paolo i tifosi azzurri rispondono così: “Giulietta, t’avevo lasciata zoccola e ti ritrovo puttana”. Per completare la storia delle sfide al Bentegodi vogliamo lasciare due ricordi. Uno riguarda Maradona che qualche anno dopo il suo esordio con la maglia azzurra in campionato proprio a Verona mette in evidenza la diffusa abitudine malsana del tifo becero di molti stadi italiani, il secondo riguarda uno dei tanti doppi ex che ci ha lasciati prematuramente, ossia Giuliani. Diego Armando Maradona esordisce con la casacca del Napoli nel 1984 proprio a Verona perdendo per 3-1. Di quella gara, dopo qualche anno, fece queste considerazioni: “Nel 1984, il mio primo campionato italiano, debuttammo a settembre in trasferta contro il Verona. Ce ne fecero tre. Loro avevano il danese Elkjaer Larsen e il tedesco Briegel. Il tedesco mi diceva “taci!”, e mi buttava a terra o fuori del campo. Ci ricevettero con uno striscione che mi aiutò a capire di colpo che la battaglia del Napoli non era solo calcistica: “Benvenuti in Italia” diceva. Era il Nord contro il Sud, i razzisti contro i poveri. Chiaro il messaggio. Loro finirono vincendo il campionato e noi ci salvammo nel girone di ritorno. Ma quello striscione di Verona che mi aveva colpito nella mia prima partita della carriera in Italia, non lo avevo dimenticato. Per quel “Benvenuti in Italia” indirizzato ai napoletani arrivò però subito il momento della rivincita, la vendetta. Accadde nel febbraio del 1986, il campionato successivo. Tutta la curva del “Bentegodi” gridava “Lavatevi! Lavatevi!”. Ci stavano battendo per 2 a 0, i napoletani erano offesi ed indignati. Ad un certo momento, nella ripresa, ci meritammo un rigore ed io spiazzai Giuliani e segnai. Poi a pochi minuti dalla fine, toccai io la palla, pim!, un difensore sbagliò, ancora un mio gol ed ecco il 2-2. Festeggiammo come se avessimo vinto la Coppa dei Campioni. E aggiungo che tutti quelli del Napoli che stavano in panchina, invece di venire ad abbracciare noi, andarono a mettersi sotto la curva che più di tutti aveva gridato “Lavatevi! Lavatevi!”. Eravamo così, così era la squadra e così era la città dove giocavamo e vivevamo”. Giuliano Giuliani nasce a Roma il 29 settembre 1958. E’ stato il portiere del Napoli dello scudetto 1989-1990 e sempre con il Napoli ha conquistato una Coppa UEFA nella stagione 1988-1989. Giuliani è stato un buon portiere, un pararigori, il primo con la maglia dei scaligeri fu parato proprio a Maradona la stagione precedente prima di passare al Napoli. Proprio con gli azzurri difende il successo della stagione 1988-89, parando il rigore a Galderisi, facendo rimanere il risultato di 0-1 con gol di Crippa. Cresciuto nell’Arezzo, ha esordito in Serie A nella stagione 1980-1981 con la maglia del Como. Nel 1985 è passato al Verona e nel 1988 al Napoli. Prima di passare al Napoli, quando ancora giocava con il Verona venne battuto da un pallonetto da centrocampo proprio di Maradona vedendo morire la sfera tra le maglie di una rete. Da centrocampo, infatti, vede la palla che vola sulle teste, supera anche la sua, tocca il palo e fa scendere il cielo. Nella vita privata sposò la showgirl televisiva Raffaella Del Rosario, divenuta poi conduttrice di programmi sportivi. Nel 1993 si ritirò dall’attività sportiva, ma nel frattempo si ammalò di AIDS e dopo una lunga malattia è morto a Bologna il 14 novembre 1996. In una sfida di calcio femminile tra la Bardolino Verona ed il Napoli Carpisa Yamamay è successo che al fischio finale venne effettuato il “terzo tempo” nello stile tipico del rugby. Applausi per tutti, brindisi e strette di mano fra calciatrici e dirigenti, zero scherni in tribuna. “Un gesto molto bello”, disse il sindaco Flavio Tosi prima di consegnare un premio alla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attuale attaccante del Napoli) e alla collega napoletana Valentina Giacinti. Tosi, sempre lui, aggiunse: “È normale che tra due piazze importanti ci sia rivalità, ma è fondamentale che non si degeneri: l’iniziativa servirà a diffondere questo messaggio”.
Ultras Verona, non solo Lampedusa: trent’anni di striscioni e razzismo, scrive il 7 ottobre Antonio Sansonetti su “Blitz Quotidiano”. Il minuto di silenzio per le vittime di Lampedusa violato all’inizio di Bologna-Verona 1-4 non è la prima discutibile provocazione degli ultras dell’Hellas Verona, curva da sempre di estrema destra. È una storia lunga, i cui primi passi salienti documentati sono negli anni 80. Sono anni indimenticabili per il calcio a Verona. Nel 1985 la squadra allenata da Osvaldo Bagnoli vince lo scudetto, a sorpresa, davanti al Torino, all’Inter, alla Sampdoria e al Milan. Resterà un’impresa ineguagliata del calcio di provincia: mai una società di una città non capoluogo di regione ha vinto lo scudetto. A Verona c’è una tifoseria molto calorosa. Veronesi tutti matti, si dice in Veneto. Dal 1971 è attivo un gruppo ultras: sono le Brigate Gialloblù. Inizialmente apolitiche, si spostano sempre di più a destra a partire dalla seconda metà degli anni 70. Nel decennio successivo lo slittamento a destra è definitivo e i supporter gialloblù si caratterizzano per la loro rivalità con le tifoserie meridionali, Napoli su tutte. Ma ci sono scontri pesanti anche con quelle del Nord: Brescia, Atalanta, Vicenza, Bologna, Juventus, Genoa, Milan, Torino. Nel 1983 il calciatore brasiliano Dirceu (un numero 10 che giocò 3 mondiali e 3 olimpiadi con la Seleçao) passa dal Verona al Napoli. I veronesi lo salutano così: “Dirceu ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel Continente Nero”. La rivalità con il Napoli è fonte d’ispirazione per la goliardia razzista dei veronesi, che sono stati i primi a cantare (poi purtroppo imitati da troppe tifoserie italiane) “Vesuvio bruciali tutti“, o “Vesuvio lavali col fuoco”, esponendo striscioni come “Forza Vesuvio” o “Vesuvio pensaci tu”: I napoletani sono stati accolti con un “Benvenuti in Italia” o “Lavatevi”: Provocazioni alle quali i napoletani hanno risposto con il celeberrimo striscione che attacca uno dei simboli di Verona, il dramma shakespeariano di Romeo e Giulietta: “Così la storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto“. Un botta e risposta fra veronesi e napoletani c’è anche quando i gialloblù iniziano ad esporre lo striscione “Noi odiamo tutti”: Striscione al quale i napoletani replicano con “Noi amiamo tutti”. Il discorso si fa più pesante quando gli ultras veronesi, che comunque non hanno mai rinunciato ad esporre svastiche e croci celtiche nella loro curva, contestano a modo loro l’acquisto di Maickel Ferrier. È la primavera del 1996 e l’Hellas sta per comprare Ferrier, giovane olandese di origini africane, che sarebbe il primo nero a vestire la maglia gialloblù. In curva compare un manichino di un giocatore nero con la maglia del Verona: è impiccato, sorretto da due tizi “goliardicamente” mascherati coi cappucci a punta del Ku Klux Klan. Ferrier finirà alla Salernitana senza passare dal Bentegodi, se non da avversario. A volte gli ultras Verona sono stati presi di mira in maniera eccessiva, come quando si è visto del razzismo anche nel coro “Ti amo terrone“, che in realtà è una canzone per niente razzista degli Skiantos, storico gruppo punk bolognese. Anche l’allenatore Andrea Mandorlini finì alla gogna perché cantava “ti amo terrone”. Spesso i veronesi scandalizzano non solo il grande pubblico ma anche gli altri ultrà: è successo quando hanno deciso di aderire in massa alla tessera del tifoso, infischiandosene della battaglia contro quella tessera che stanno facendo la stragrande maggioranza delle curve. Dimostrando così una certa astuzia, una certa duttilità tipica di una città di mercanti (lo erano gli Scaligeri, il cui stemma è lo stemma di Verona, lo erano sia i Montecchi che i Capuleti). È l’adesione alla tessera che dà ai veronesi la possibilità di spostarsi ancora in massa in trasferta, come a poche tifoserie è consentito fare. “Guerra al calcio moderno? Scusate non abbiamo tempo”. I veronesi son così: quasi sempre “Soli contro tutti”, spesso sono goliardi come questo ultrà che ha assistito nudo allo spareggio per la B fra Salernitana e Verona. Ma oltre a non rispettare le differenze di razza e di religione, oltre ad essere fascisti e solidali coi neonazisti greci di Alba Dorata gli ultras del Verona passano ogni limite quando non rispettano i morti. Era già successo con Piermario Morosini, il calciatore del Livorno morto in campo, durante Pescara-Livorno, per arresto cardiaco. La curva gialloblù, in trasferta a Livorno cantò “Morosini figlio di p…”. È successo di nuovo con i migranti morti al largo di Lampedusa. Gli ultras veronesi non si sono limitati a violare il minuto di silenzio, per farlo hanno deciso addirittura di cantare un coro funebre: “Io credo, risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvator”: L’allenatore del Verona Mandorlini ha detto che quel coro va interpretato alla lettera: un canto funebre per i poveri morti. Anche se, qualche giorno prima, il 4 ottobre, chi amministra la pagina facebook “Siamo l’armata del Verona” (oltre 5.000 fan) ha commentato così la notizia del disastro al largo delle coste siciliane: “SONO FINITE LE GITE A LAMPEDUSA”. Più di 250 “mi piace” e una dozzina di commenti che apprezzavano la battuta. Difficile interpretarla come solidarietà alle quasi 200 (per ora) vittime del naufragio.
«Che importa che muoia: tanto è un terrone!», scrive Concetta Centonze. Storie di razzismo antimeridionale. Una testimonianza di una meridionale trapiantata in Veneto. AVEVO anagraficamente ventisette anni, ma scarsa esperienza della realtà: avevo sempre studiato. Per questo, quando sono entrata, proveniente da Lecce, in una scuola superiore di San Donà di Piave ho impiegato un po’ di tempo a capire. Io tenevo le mie lezioni di lettere, ero stimata dai miei alunni e dai loro genitori, ma quando mi recavo a supplire in classi diverse dalle mie, in cui non avevo “l’arma” del voto facevo fatica a farmi ascoltare. Non era soltanto questo: le mie entrate e le mie uscite erano accompagnate da risatine. Non mi pareva di essere ridicola: certo non ero alta, portavo gli occhiali, ma sapevo il fatto mio. Ero aliena da ogni pregiudizio giacché, a causa dell’asma della mia sorellina, fin dagli anni cinquanta, la mia famiglia aveva sempre frequentato le Dolomiti: Faé di Longarone, Laggio, Auronzo. Avevamo molto sofferto per la tragedia del Vajont in cui avevamo perduto amici e conoscenti. Bambina ero venuta da turista nel Veneto e, conseguita la laurea, tornavo per lavorarci: mi sembrava logico e normale. Non ero forse italiana tra italiani? Probabilmente a causa di questa buona fede impiegai un po’ di tempo a capire le risatine. Lo capii quando, passando per il corridoio, durante un intervallo, sentii un “Concettina, ah Concettina” pronunciato con un accento che voleva scimmiottare quello di un immaginario meridione. Restai molto colpita dalla scoperta di essere una terrona e di essere oggetto di scherno. Mi tornò in mente di quando un mio cuginetto, colpito a sei anni da un tumore al cervello- erano gli anni 50- era stato portato a Milano per essere curato; era stato poi ricondotto a casa dove morì implacabilmente per il brutto male. Ricordo che i genitori, nonostante il dolore della perdita atroce, raccontavano a noi famigliari che un medico di quell’ospedale di Milano aveva detto ad un collega, riferendosi al loro piccolo e alla sua incurabile malattia: “Che importa che muoia: tanto è un terrone!” Nel corso della mia permanenza nel Veneto, dove ho messo su famiglia, ci sono stati presidi che mi hanno elogiata dicendomi che ero di “sangue buono” nonostante le origini. Altri che hanno affermato nei collegi dei docenti che da Roma in giù regna l’ignoranza più completa. Ho appreso tanti luoghi comuni sul Meridione che hanno piano piano costruito questa leggenda nera di cui io ero parte: sono stata intimamente umiliata. Il massimo della vicinanza umana l’ho percepita in frasi come: “Tu, però, sei diversa! E poi oramai sei Veneta!” Poi è venuta la Lega e la situazione è peggiorata ulteriormente: il pregiudizio strisciante è diventato aperto insulto e razzismo. Le trasmissioni delle radio o delle televisioni locali, i siti di queste organizzazioni sono spaventose per il nazileghismo di cui grondano. Ora ho sessant’anni, sono andata in pensione, osservo con minore sofferenza questo fenomeno doloroso. Da questo nasce il mio desiderio di dire agli italiani attenzione: là dove voi credete di votare per un dirigente liberista come Berlusconi o per un politico conservatore come Fini, in realtà date forza ad una formazione ed una mentalità- il leghismo- che vorrebbe epurare il sud e, per ora, lo riempie di insulti e di minacce di morte. Pensate bene quando voterete: questa destra non è la destra di nazioni come la Francia o la Germania. E’ una destra che vomita odio e per la quale il concetto di identità è sempre più circoscritto. Non c’è verso di far comprendere che il sud non è rappresentato soltanto da Mastella e Cuffaro. Concetta Centonze Martedì, 19 febbraio 2008 San Donà di Piave (VE)
“Africa! Terroni di merda”, foggiani cacciati dalla tribuna del Verona. “Mandati via con frasi oscene”, scrive “L’Immediato” il 16 agosto 2015. “Ieri sera abbiamo assistito alla partita del Foggia allo stadio Bentegodi. Dopo il gol del vantaggio rossonero, io e mio fratello abbiamo esultato e gioito ma in modo contenuto. Dopo qualche minuto, un addetto ci ha chiesto di allontanarci. Premetto che eravamo in tribuna est poltronissime. Da quel momento in poi non abbiamo potuto più vedere la partita. Vi chiedo di dare spazio a questo episodio intollerante, noi lo abbiamo fatto presente alle autorità allo stadio ma nessuno ha mosso un dito”. A scrivere questa segnalazione a l’Immediato è Michele Cocca, originario di Apricena. Lui e suo fratello Graziano, titolari del ristorante “Villa Cocca” a Gavirate in provincia di Varese, sono ancora allibiti dal trattamento ricevuto a Verona. Tre i biglietti acquistati, con loro c’era un bambino. Ma dopo la rete rossonera, uno steward ha preferito allontanarli noncurante del ticket in loro possesso. “Lo steward ci ha mandati via dalla tribuna mentre i presenti inveivano frasi oscene come “Africa” e “terroni di merda” – ci ha aggiunto Michele Cocca -. Abbiamo finito di vedere la partita in fondo alla tribuna est dove non ci si poteva nemmeno sedere. Saremo costretti a presentare denuncia”.
L'astrofisica Margherita Hack: ignoranti, non esiste il Regno di Padania, scrive A. Z. l'8 aprile 2011 su “Il Corriere del Veneto”. Margherita Hack, astrofisica di rinomanza internazionale e donna dichiaratamente impegnata a sinistra, viaggia a vele spiegate verso il traguardo dei novant’anni (li farà l’anno prossimo) ma non ha perso un briciolo della sua grinta. E del suo accento fiorentino, nonostante viva a Trieste praticamente da mezzo secolo: «O che si vuole, tornare all’eta dei ’omuni?», dice al telefono, con un tono a metà tra il beffardo e l’indignato. Perché la professoressa Hack è indignata per davvero. E la scelta degli aggettivi, riferiti ai leghisti trevigiani che si sono inventati la lista fiancheggiatrice con il marchio Razza Piave, è illuminante in tal senso: «Sono dei cafoni, ignoranti e buffoni». Così, tanto per rimanere sul generico. Signora Hack, cosa la disturba nella scelta della Lega di Treviso di denominare «Razza Piave» la lista d’appoggio alle elezioni provinciali? «Quel riferimento alla razza mi disturba parecchio. Ma di che razza parliamo? Mi è tornato alla mente Albert Einstein, costretto a fuggire dal suo Paese perché ebreo, che venne fermato alla frontiera dove i funzionari americani gli chiesero: "lei di che razza è?". E lui rispose: "l’unica razza che conosco è quella umana". Risposta perfetta. Abbiamo tutti lo stesso Dna, le differenze esteriori sono dovute all’adattamento al clima e all’ambiente, sono mutazioni superficiali. La base è uguale per tutti, Piave o non Piave». Le sembra una forma di razzismo elettorale, una lista con quel nome? «È una forma di razzismo, eccome. Questi leghisti, con la loro Padania, il loro Nord, vogliono tornare all’epoca dei Comuni? Oltre che razzisti, sono ignoranti e buffoni: non c’è il Regno di Padania, caso mai esiste la Val Padana». L’espressione, però, ha anche un significato nobile nella storia di queste terre: «razza Piave» erano quelli che, sul fiume trevigiano, difesero l’Italia dall’invasione austro-ungarica nella Grande Guerra. «Ma quelli erano soldati che si sono battuti eroicamente, era gente che veniva da tutta Italia per difendere il proprio Paese. L’esatto contrario di quello che vorrebbe significare il "razza Piave" della lista leghista». Lei conosce il presidente della Regione Luca Zaia? Lui, geograficamente parlando, è un «razza Piave» doc. «No, non lo conosco». È un fatto, comunque, che nella geografia trevigiana il Piave è l’elemento distintivo: da sempre si distingue tra Destra e Sinistra Piave, addirittura il dialetto cambia radicalmente di qua e di là. «Questa del dialetto ’un la sapevo. Sulla connotazione geografica nulla di dire, siamo d’accordo, e il dialetto va benissimo, è una ricchezza, anche a me fa piacere quando sento parlare un fiorentino. Ma questo non vuol dire essere razzisti. E quello dei padani è il razzismo più rozzo che ci sia».
La Lombardia è la regione più razzista, omofoba e misogina d’Italia. Un vasto studio ha analizzato la geografia dei tweet contro il “diverso”, attestando la Lombardia come l’area più degradata d’Italia. Ma perché? Si chiede Michela Dell’Amico su “Wired” il 29 gennaio 2015. Da quando vivo a Milano mi è capitato spesso di difendere la mia città d’adozione, bistrattata come la regione che la ospita: Milano e la Lombardia sono considerate brutte e cattive, abitate da gente scortese, scontrosa e chiusa, mentre la nebbia ti nasconde l’orizzonte e tu – emigrato – ti senti solo e non voluto. Invece per quanto mi riguarda ho solo esperienze positive da raccontare, di gente gioviale, che ama bere, mangiare e divertirsi, e di angoli meravigliosi. E invece. Analizzando per 8 mesi quasi 2 milioni di tweet oltraggiosi verso donne, stranieri, portatori di handicap e omosessuali, un’analisi dell’Osservatorio Vox sui diritti ha stabilito che questi messaggi di odio si concentrano in Lombardia sia per quanto riguarda la misoginia (seguono Friuli, Campania, Puglia) che per l’omofobia e il razzismo (seguono Friuli e Basilicata). Anche i tweet contro i disabili sono più frequenti in Lombardia, Campania, Abruzzo e Puglia. Lo studio è stato condotto dall’Università degli studi di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università di Bari, che ha messo a disposizione un software per analizzare il social network, capace anche di tenere in considerazione l’uso di Twitter – certamente minore nelle frazioni rispetto alle città – in relazione al numero di messaggi violenti. “Evidentemente la Lombardia è la regione che esprime di più questa intolleranza comunque molto diffusa”, mi dice Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano, fondatrice di Vox, esperta di pari opportunità e discriminazioni, “si vede anche a livello politico e istituzionale. Qui si è fatto meno rispetto ad altre regioni, come ad esempio il Piemonte, la Toscana o l’Emilia, che da tempo attuano politiche culturali e buone prassi contro la discriminazione”. “Qui manca la cultura della tolleranza: si vede anche dai recenti fatti riguardo l’approvazione di una “legge anti-moschee”, discutibile e con problemi di costituzionalità. Si vede dalle polemiche seguite al convegno sulla famiglia. È probabilmente la regione in cui c’è meno attenzione a queste cose. C’è una forte ideologia che spesso porta a enormi contraddizioni. Prendiamo le donne: la Lombardia è molto avanti per numero di donne che si laureano, che lavorano e che ricoprono ruoli di prestigio. Allo stesso tempo però ci sono casi di violenza elevatissimi, e questi risultati che abbiamo visto nel nostro studio. Purtroppo è l’ulteriore conferma che questo genere di ignoranza prescinde dalle classi sociali e dall’evoluzione delle conquiste. E’ una contraddizione enorme e difficile da spiegare: le donne vanno avanti e indietro contemporaneamente”. La mia domanda resta insoddisfatta: sono i lombardi il problema, che con il loro voto scelgono una politica che parla alla loro parte peggiore? Dipende forse dal ruolo particolarmente rilevante che ha qui la religione, rispetto ad altre regioni del Nord? “Quando ho lavorato nel consiglio comunale di Milano – ricorda D’Amico –Pisapia aveva appena stravinto. Abbiamo provato a lavorare a favore della tolleranza, ma ci siamo scontrati contro altri rappresentati, comunque certo specchio della società civile, che erano invece convinti del contrario. Diciamo che ho visto cose che oggi non mi fanno più stupire sul perché, ad esempio, l’Italia non riesca a lavorare a favore delle unioni civili. E questo anche a dispetto del voto dei cittadini”. Che fare? “Come madre posso dire che è importante insistere sull’autostima delle bambine e delle ragazze, è fondamentale stare vicini e far parlare i bambini e i ragazzi vittime di bullismo, e – d’altro canto – far capire loro che le parole non si usano a caso. Quel che serve da parte dei genitori e della scuola è un’educazione mirata all’uso dei social network, evitando magari, come alcuni genitori fanno, di controllare direttamente i figli sui social. Parlare è la risposta, e tenere le antenne alte, sempre. Mia figlia ha frequentato il liceo Parini, forse il più famoso e prestigioso liceo di Milano, ma ha vissuto casi di omofobia e bullismo talmente gravi che ho dovuto ritirarla”.
La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno. Il razzismo è una evidentissima defezione da ogni criterio di materialismo storico! Il razzista oggi sostituisce alla parola razza la parola cultura. Per Gramsci, il partito socialista ha anche commesso il gravissimo errore di aver consentito ad un diffuso pregiudizio contro i meridionali tra la stessa classe operaia del Nord. «E' noto - scriveva Gramsci - quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede tutto il suo crisma a tutta la struttura "meridionalista" della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci... ancora una volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta si ammantava dei colori socialisti, pretendeva di essere la scienza del proletariato.» A.Gramsci - Quaderni vol. III A.Gramsci - Alcuni temi della questione meridionale.
Altrove Gramsci ebbe a dire: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Ordine Nuovo" 1920 Antonio Gramsci Il Risorgimento Editore Riuniti 1979 pag.98/99
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. SALVEMINI[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81. Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2
E con l’Unità d’Italia nacque il razzismo antimeridionale, scrive Ignazio Coppola il 05 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che significativamente ed opportunamente avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: Ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare” il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura è come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a “farsi civili”. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio” a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva. “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene. “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “la popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa” e poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci - che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia già direttore della banca nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente: Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo “Il libro del riso e dell’oblio” un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia, e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella eurafricana (negroide) al sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 “L’Italia barbara contemporanea” descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli come questi “vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali” e ancora “non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie. Quella del Nord civile e progredita. Quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 -
Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di
Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali
un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
Alberto Angela: «Ecco perché Napoli mi ha emozionato tanto». Il presentatore commenta così il successo della puntata di Ulisse dedicata alla città, scrive Francesco Durante su “Il Corriere della Sera”. Alberto Angela è letteralmente entusiasta di Napoli.
«Ho 53 anni e ci vengo da quando ne avevo 14. Non posso quindi dire che per me sia stata una sorpresa. Insomma, l’ho sempre saputo che Napoli è una capitale, e che nella sua storia si è trovata tantissime volte all’avanguardia. Eppure, è stata un’esperienza magnifica. E alla fine penso che per Ulisse abbiamo fatto un buon lavoro. Del resto ci eravamo riproposti di guardare la città in una luce il più possibile diversa, battendo strade anche nuove. E certo non era facile».
In che senso?
«Sapevo che doveva essere una puntata dedicata tanto ai napoletani quanto ai non napoletani. Se, come me, non sei napoletano, descrivere Napoli non è facile. E infatti, costruendo la puntata, ci siamo accorti del fatto che fatalmente avrebbe finito per avere un doppio volto. Da un lato, dovevamo pensare ai non napoletani, cercando però di puntare anche sulle cose meno famose, adottando insomma quella che io chiamo la prospettiva del quarto giorno, cioè un giorno in più dei canonici tre dei week end turistici. L’idea, semplice, era quella di far vedere ai non napoletani anche tante bellezze che di solito ci sfuggono».
E quanto ai napoletani?
«Era importante, e inevitabile, parlare anche a loro. Trovare un modo per sollecitare il loro orgoglio civico. Napoli possiede cose così incredibili che, se si trovassero in qualsiasi altra città d’Europa, se ne parlerebbe ogni giorno. Per citare una cosa molto celebre: il Cristo velato, opera di un artista che di sicuro non ha la notorietà di un Michelangelo o di un Canova, è qualcosa di veramente stupefacente. E così è la Farmacia degli Incurabili, o il Museo di mineralogia. O la Stazione Dohrn, che non è solo un acquario, come lo chiama la gente di qui, bensì un centro iperspecializzato unico al mondo, in cui si studia specificamente il golfo di Napoli. E di cose così ce ne sono talmente tante che alla fine uno, magari anche un napoletano, non riesce mai a vederle tutte».
Ho letto le sue dichiarazioni sulla sua pagina ufficiale: la sua risposta ai tanti che le hanno scritto, e ai quali ha detto di aver scoperto a Napoli «qualcosa che rimarrà a lungo nell’anima».
«Lì parlo da un punto di vista più personale. E dico che questa esperienza ha veramente emozionato tutti noi di Ulisse. Il calore dei napoletani mi ha davvero impressionato. Lo so: può sembrare un luogo comune, però è così. È come se ci avessero adottato, è come quando senti che qualcuno ti vuol bene fin da subito: un percepirsi immediatamente accolti. E poi mi hanno colpito i giovani. Ho visto questi gruppi di volontari, ragazzi che si danno da fare per riportare alla luce strutture dimenticate, come giù alla villa della Gaiola. Sono giovani archeologi che hanno scoperto un calidarium di un genere che non avevo mai visto, tale da meritare una puntata a parte. È proprio bello vedere che ragazzi come quelli, facendo sacrifici, incontrando difficoltà burocratiche, logistiche, amministrative, con tenacia vanno avanti. E ti viene da pensare a quanto Napoli potrebbe e saprebbe offrire. Tantissimo».
C’è un aggettivo che lei ripete spesso parlando della nostra città: unica.
«Ma sì. Perché Napoli continua ad avere un’identità fortissima. Replicata e direi protetta dalle generazioni che si susseguono. A Roma, qualcosa di simile si può trovare ancora solo a Trastevere o a Testaccio. Altrove si è del tutto dissolta. A Napoli si rigenera. È come se non fosse una città, bensì un’unica grande famiglia».
Posso dirle che tanto entusiasmo da parte sua mi fa molto piacere, ma che vedere Napoli è cosa un po’ diversa dal viverci?
«Capisco. Le ferite di Napoli, le sue problematicità le conosciamo tutti. La mia, comunque, è l’impressione di una persona che ha viaggiato molto nel mondo, e che sa che non esistono città senza ferite né senza problemi. Una persona che dovunque vada si mette anche a guardare come vive la gente. E qui la gente ha un calore unico. Altrove si perde il senso di comunità, non ci si parla più; qui ti càpita d’incontrare gente che, mentre cammina, fischietta o canta. Credo che il valore di una città lo vedi nello sguardo delle persone».
Fino al terzo, fino al quarto giorno. E dopo? Che cosa potrebbe succedere il sesto giorno?
«Tutto è possibile, per carità. Perciò direi che a Napoli bisogna arrivarci già un po’ smaliziati. Dopodiché, non si può non restarne innamorati. Guardi: un nostro operatore è di Fuorigrotta, lavoriamo insieme da vent’anni, e da lui ho assorbito nel tempo tanto entusiasmo napoletano. Questa esperienza che abbiamo fatto insieme mi induce a dargli ragione fino in fondo, e su tutta la linea».
La creatività dei napoletani? Un luogo comune. Parola di De Masi. Il sociologo dedica un capitolo del nuovo libro alla città, scrive Giancristiano Desiderio su “Il Corriere della Sera”. I napoletani? Infantili. La pizza? Un affare sprecato. La creatività partenopea? Un compiacente luogo comune. La camorra? L’unica organizzazione professionale e meritocratica. Domenico De Masi nel suo ultimo libro - Tag , appena uscito per Rizzoli - dedica un capitolo a Napoli con la scusa che Napoli con i suoi primati negativi dell’immondizia e del sottoproletariato sia «metafora planetaria della parabola urbana» in realtà perché l’ama e l’odia. Goethe quando giunse da queste parti vi trovò l’industria più alacre non per arricchire ma per vivere senza pensieri. Ma dopo ben due secoli e oltre lo sforzo dei napoletani di trasformare la miseria in risorsa e la vita in teatro non ha sortito i godibili effetti descritti dal poeta tedesco. Ogni tentativo di progresso è destinato a fallire perché il nemico di Napoli non è esterno ma interno. Napoli è passata dall’economia preindustriale alla società postindustriale senza conoscere l’esperienza dell’organizzazione moderna del lavoro. Alla fine dell’Ottocento, posta dinanzi al bivio «industrializzarsi o decadere», Napoli decadde. La mancanza di modernità rende la stessa società postindustriale un insieme di patologie: sovrappopolazione, consumismo insostenibile, disastro ambientale, impotenza di fronte alla complessità, disarmata davanti al crimine. E come l’improvvisato sistema economico inclina verso il fallimento, così il sistema psichico napoletano e meridionale, sottomesso all’emotività, inclina verso l’infantilismo. La pizza, che è il simbolo gastronomico di Napoli, è un mito che racconta il fallimento napoletano. Forse, nulla più della pizza è globale ma in questa globalizzazione ci sono quelli che il sociologo chiama i cinque peccati capitali o i cinque inganni della pizza. Primo: la pizza è in apparenza «ubertosa e genuina» ma in realtà con la sua «mappazza pesante» e l’accozzaglia di «pasta, mozzarella, olio, sale e pomodoro» cela l’inganno della «finta sazietà» per un popolo affamato che crede di aver cenato e invece «si è fatto solo una pizza». Secondo: la Margherita - la pizza più famosa - è il frutto del «servilismo locale» con cui un suddito borbonico volle onorare Margherita di Savoia, proprio come la celebre Torna a Surriento non è una canzone d’amore ma una «squallida piaggeria» nei confronti del direttore generale delle Poste andato via da Sorrento. Il terzo inganno è l’ammiccante interclassismo che unisce in pizzeria ricchi e poveri e alimenta il napoletanissimo «vogliamoci bene» che smussa ogni vero conflitto e di una rivoluzione fa una rivolta consentendo «ai farabutti di proseguire indisturbati nelle loro farabutterie». Il quarto inganno: negati per ogni impresa razionale ed efficiente, i pizzaioli napoletani hanno presunto che solo loro avrebbero saputo cucinare in eterno un cibo per sua natura semplice e quindi riproducibile. Il risultato è che non hanno mai brevettato e industrializzato la pizza e ora sono «poveri nani» in mezzo a concorrenti giganti che vendono «pizze napoletane» in tutto il mondo. Il quindi inganno è il boccone più amaro da buttare giù: la pizza, con tutte le canzoni, i film, gli stereotipi, ha creato nel napoletano l’autoconvinzione che i napoletani siano creativi. Così mentre il resto del mondo inventava la plastica e i microprocessori, la pila atomica e i satelliti artificiali, le biotecnologie e i raggi laser, «a Napoli insistevano con questa benedetta pizza e con le sue scontate varianti». La fantasia se non si sposa con il concreto non è creativa. Ma nel paese del sole e del mare la fantasia è rimasta nubile.
Se il marcio vien dall’alto e la puzza dalla testa. Quei sindaci della Campania candidati con il trucco, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Sono sette i sindaci della cazzimma , che a Napoli è la potenza irridente del guappo, il superomismo nicciano del rione Sanità. Sette magnifici imbroglioni - ben quattro del Pd, due forzisti e un indipendente di sinistra - candidati incandidabili alle elezioni regionali. Sono finiti sulla prima pagina del Mattino di Napoli con tanto di foto segnaletiche sotto i titoli-gogna: "wanted", "non votateli", "combatteteli", "prendeteli". Ebbene, spernacchiando le lodevoli illusioni illuministiche del giornale, in meno di 24 ore i sette cazzimmosi sono diventati gli eroi dei loro paesi che da Vico Equense a Fratta Minore si sono accesi di rabbia campanilistica e di orgoglio fuorilegge. Anche loro, come gli inarrivabili diavoloni plebei Luigi De Magistris a Napoli e Vincenzo De Luca a Salerno, rivendicano il diritto alla prepotenza, si appellano alla piazza al di sopra della legge in nome della solita guapperia fondata sul consenso, sul controllo capillare del territorio, sulla soperchieria da notabile che si sta ormai contagiando come un'epidemia, come uno spillover italiano. Insomma la cazzimma politica è come il vaiolo delle scimmie, la tubercolosi bovina, la febbre emorragica del Nilo. Cosa hanno fatto di male i nostri sette "mascalzoni latini"? Con un trucco di minutissima furbizia avvocatesca meridionale - una multa non pagata, una buca non riparata, un conflitto di interessi bancario... - questi sindaci pazzarielli si sono autodenunziati e dunque, in attesa che si risolva il conflitto amministrativo con il Comune che governano, si sono autosospesi dalla funzione, si sono cioè nascosti sul lembo del Vesuvio, in una specie di limbo politico che consenta il passaggio di carriera senza rischi, senza pagare il dazio e, per di più, dedicandosi a tempo pieno alla campagna elettorale. Il trucco da dottor cavillo prevede infatti la temporanea promozione del fidato vicesindaco e intanto permette ai sindaci sospesi di candidarsi alle regionali senza dimettersi, come vorrebbe la legge qui aggirata e irrisa. Come potrebbero dimettersi se sono sospesi? Attenzione: non sospesi come gli ignavi di Dante ma come gli spavaldi, gli spacconi, i sindaci campieri, i mammasantissima del plebeismo carismatico meridionale, gli impuniti. Certo, il trucco della sospensione, come pure il sottosopra di popolarità provocato dal "wanted" del Mattino, è anche un'eruzione spontanea del pittoresco che rilancia l'eternità del destino meridionale, del folclore come sottosviluppo. Sembra una trama di Scarfoglio, un racconto di Marotta, il solito grottesco che ravvivò il razzismo nell'ottocento e poi nel novecento, e ora ritorna degradato a teppismo democratico, a presepe dell'immoralità politica. L'arte di arrangiarsi di Sofia Loren, che in Ieri, oggi e domani vendeva sigarette di contrabbando e per evitare la galera si faceva mettere incinta (19 gravidanze), era comunque un abuso del proprio corpo, una dissipazione di sé. Qui invece si abusa del corpo sociale, dell'istituzione, della legge. Addirittura i concittadini di Franco Alfieri, che ad Agropoli è chiamato "il santissimo", stanno organizzando una veglia di solidarietà con gli ologrammi: "Meglio che in Spagna". Di sicuro, da Giffoni Valle Piana a Fisciano non si parla che di loro. Sono ormai più popolari degli attori di Gomorra Genny Savastano e Salvatore Conte, sono i creativi figliocci di De Magistris e De Luca, gli scassatori, i sindaci di strada, i guappi e mammete ... Insomma si sono guadagnati una reputazione di uomini di rispetto. Ebbene, per solidarietà "a contrario" con i colleghi e amici del Mattino io ho deciso di non fare tutti i nomi dei 7 furbi e dei loro paesi che pretendono di essere zona franca, luoghi a statuto speciale. Non posso non citare tuttavia Pino Capasso, detto "o poeta", che sindaco da venti anni di San Sebastiano al Vesuvio è sospeso e al tempo stesso non sospeso. La sua sospensione infatti è stata sospesa. "O bandito poeta", come lo chiamerebbe Mario Merola, aveva pregato il capo dei vigili urbani di togliergli (sospendergli) una multa di ben 41 euro per divieto di sosta. Quindi ha denunziato se stesso aprendo il procedimento di sospensione. Mentre però il consiglio comunale decideva, il capo dell'opposizione "tomo tomo, cacchio cacchio" raggiungeva l'ufficio postale e pagava la multa del sindaco: tiè. Quesito giuridico: è lecito pagare la multa a qualcuno che non vuole pagarla? E la sospensione può essere sospesa iuris et de iure o è necessario un procedimento di revoca emesso dall'autorità competente? Certo, la cazzimma che diventa Codice può sembrare divertimento. E invece è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sull'Italia, quella dei notabili e dei capobastone, dei capitribù e degli stregoni di provincia, signori di una plebe affamata di favori. Cantava Pino Daniele: "Tengo 'a cazzimma e faccio tutto quello che mi va / Pecché sò blues e nun voglio cagnà".
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
I MAGISTRATI DI NAPOLI SE NON SON BUONI, LI MANDANO A SALERNO.
Napoli, “pm cercò di aiutare il suocero indagato”: trasferita dal Csm a Salerno. Ivana Fulco, magistrato della dda partenopea, farà il giudice del tribunale civile nella città campana dopo esser stata allontanata dal capoluogo a causa del troppo interesse circa un'inchiesta in cui è coinvolto il padre del marito. La notizia riportata da Il Messaggero e da Il Mattino, scrive Vincenzo Iurillo il 2 gennaio 2016 su “Il fatto Quotidiano”. Secondo il Csm provò a interferire in un’inchiesta che non le competeva, telefonando al Gip che avrebbe dovuto decidere sulla posizione del suocero. Per questo la pm Ivana Fulco della Dda di Napoli non può più far parte della magistratura inquirente e va trasferita a Salerno, con funzioni di giudice del Tribunale Civile. Così ha stabilito la sezione disciplinare dell’organo di autogoverno della magistratura con una sentenza depositata alla vigilia di Natale e rivelata stamane dai quotidiani Il Messaggero e Il Mattino. La Fulco, secondo il Csm, ha compiuto una “impropria commistione di interessi familiari e ruolo istituzionale” perché avrebbe provato ad aiutare Francesco Bottino, ex direttore generale della Asl di Caserta e padre del marito Marco Bottino, un altro pm di Napoli che lavora nella sezione criminalità economica. Francesco Bottino è indagato in un’inchiesta sui condizionamenti del clan dei Casalesi nella gestione dell’ospedale di Caserta che coinvolge una trentina di persone ritenute vicine al clan Zagaria. La Fulco chiamò il Gip Antonella Terzi alla vigilia dell’udienza preliminare raccomandandole di “guardare le carte con attenzione”, perché i pm titolari del fascicolo “non avevano capito niente”, nelle carte, da lei studiate, “non c’era niente” e l’accusa si poggiava su una base “fragile”. Fu la stessa Terzi a segnalare la telefonata al Csm. Secondo l’atto di incolpazione del pg della Cassazione, sul quale si fonda la sentenza del Csm, quella non sarebbe stata l’unica circostanza in cui la Fulco sarebbe intervenuta per provare a difendere il suocero. Nell’atto si circostanza una “attiva collaborazione” con l’avvocato di Francesco Bottino che “diede anche luogo a un diverbio col professionista circa la strategia difensiva da seguire”. L’articolo di Silvia Barocci sottolinea che la circostanza sarebbe emersa da una intercettazione del 29 dicembre 2013 di una conversazione tra la Fulco e la suocera, proprio nell’ambito delle indagini sul suocero. La trascrizione della telefonata venne trasmessa alla procura di Roma, che l’ha valutata priva di ipotesi di reato. Ma il Csm paventa comunque “il pericolo di una possibile nuova utilizzazione del ruolo istituzionale… per favorire interessi familiari” e questa storia ha in ogni caso “pregiudicato l’immagine del magistrato”. Di qui la decisione di trasferire d’ufficio il pm a Salerno e alla sezione giudicante. “Pur dandosi doverosamente atto – si legge nell’ordinanza disciplinare – delle ottime capacità tecniche, della dedizione al servizio e della rilevante laboriosità dell’incolpata”. La vicenda, con le dovute cautele e i doverosi distinguo, ricorda in qualche modo i casi di Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo sospesa dalla magistratura, e di Anna Scognamiglio, il giudice del Tribunale Civile di Napoli sotto inchiesta per la sentenza che ha mantenuto in carica il Governatore della Campania Vincenzo De Luca. Entrambi i magistrati sono accusati di aver favorito i familiari (nel loro caso i mariti). La Fulco ha lavorato nella sezione Dda diretta da Filippo Beatrice, che ha competenza sulla criminalità organizzata di Napoli e del napoletano, mentre è un’altra sezione Dda, diretta da Giuseppe Borrelli, quella titolare delle inchieste sul clan dei Casalesi, compresa quella dove è coinvolto il suocero della pm.
«Aiutò il suocero»: pm antimafia trasferito dal Csm, scrive Silvia Barocci il 2 gennaio 2016 su “Il Mattino” e su "Il Messaggero". Trasferita da Napoli a Salerno, dove non potrà più fare il pm ma solo svolgere le funzioni di giudice civile. E' una decisione cautelare durissima quella che la sezione disciplinare del Csm ha adottato nei confronti di Ivana Fulco, pm della direzione distrettuale antimafia di Napoli, titolare di importanti inchieste anticamorra, come quella sul racket negli ospedali del Vomero, magistrato al quale l'allora ministro della Giustizia Alfano telefonò, nel 2010, per esprimerle solidarietà dopo le minacce ricevute in aula per aver chiesto pene durissime nei confronti di imputati di usura ed estorsione. Alla Fulco il Csm addebita una «impropria commistione di interessi familiari e ruolo istituzionale». Una formula che rievoca sia il caso di Silvana Saguto, l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo sospesa dalla magistratura, sia quello di Anna Scognamiglio, l'ex giudice del tribunale civile di Napoli indagata a Roma per induzione alla concussione nell'inchiesta che coinvolge anche il governatore della Campania De Luca. Anche la vicenda Fulco, fatte le debite differenze, muove in ambito familiare. Stavolta non per aiutare i rispettivi mariti - come è stato per Saguto e Scognamiglio - bensì il suocero. Francesco Alfonso Bottino, ex direttore generale della Asl Caserta 1, suocero di Ivana Fulco e padre di un altro pm di Napoli, Marco Bottino, lo scorso giugno fu chiamato a rispondere davanti al gip di un episodio di turbativa d'asta assieme ad altri trenta imputati vicini al clan Zagaria imputati di associazione a delinquere. In vista dell'udienza preliminare, il pm Fulco - è scritto nella sentenza disciplinare depositata alla vigilia di Natale - telefonò al gip Antonella Terzi. Bisogna «guardare le carte con attenzione» - si raccomandò - perché i pm titolari dell'inchiesta «non avevano capito niente» e lei che invece aveva studiato gli atti si era accorta che «non c'era niente», nel senso che l'impianto dell'accusa era «fragile». Frasi, queste, che per il Csm rappresentano un «improprio tentativo d' interferenza, diretto ad influire sull'autonomo percorso decisionale» del giudice. Non per nulla a segnalare l'accaduto fu lo stesso gip Terzi. Nell'atto di incolpazione del pg della Cassazione, su cui si basa la pronuncia di palazzo dei Marescialli, viene sottolineato che quella non fu l'unica occasione in cui la Fulco sarebbe intervenuta per tutelare la posizione del suocero. Il pm avrebbe avuto un'«attiva collaborazione» con l'avvocato di Francesco Bottino che «diede anche luogo a un diverbio col professionista circa la strategia difensiva da seguire». La circostanza emerge da un'intercettazione telefonica del 29 dicembre del 2013 tra il pm Fulco e la suocera, Maria Rosaria Proto. Il colloquio in questione - captato nell'ambito di un'inchiesta su appalti irregolari di Asl e ospedali casertani che portò Bottino ai domiciliari - venne poi trasmesso alla procura Roma, che però non ravvisò ipotesi di reato a carico della Fulco. Secondo il Csm, l'intera vicenda ha in ogni «pregiudicato l'immagine del magistrato», senza contare il «pericolo di una possibile nuova utilizzazione del ruolo istituzionale», da parte del pm Fulco, «per favorire interessi familiari». Per questo deve lasciare Napoli e il settore penale, sia come pm sia come giudice, «pur dandosi doverosamente atto - è scritto nell'ordinanza disciplinare - delle ottime capacità tecniche, della dedizione al servizio e della rilevante laboriosità dell'incolpata».
Magistrato senza colpe....
Napoli. Lite in aula tra pm e avvocato: lo scontro finisce ora al Csm, scrive Viviana Lanza il 16 luglio 2015 su “Il Mattino”. Un diverbionato in aula tra pm e avvocato, originato nel contesto del normale confronto tra accusa e difesa, rischia di diventare un caso di cui dovranno occuparsi il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio dell’ordine degli avvocati. Aula 716, Palazzo di giustizia di Napoli. È nella torre dove ci sono le aule generalmente destinate alle udienze preliminari e riti abbreviati. Accade durante un’udienza del processo che si svolge dinanzi al giudice Pietro Carola. È il momento dell’arringa di uno dei difensori, Annalisa Senese. Il penalista affronta i singoli elementi emersi dalle indagini per contestare la ricostruzione accusatoria e sostenere la tesi della difesa del proprio assistito, Michele Puzio, imputato per un omicidio di camorra avvenuto nel 2005 a Cardito sullo sfondo di interessi di mala nelle estorsioni e regolamenti di conti tra ras della zona. Nell’arringa l’avvocato Senese ricorda passaggi delle dichiarazioni di Rocco D’Angelo, collaboratore di giustizia che, per quanto si sa, è morto suicida e riprende le sue dichiarazioni per dare una chiave di lettura del delitto in questione diversa da quella fatta dalla Procura. Il pm Ivana Fulco, magistrato del pool Antimafia che nel processo rappresenta la pubblica accusa, interviene asserendo che il collaboratore sarebbe stato ucciso da gente riconducibile ai Moccia. L’avvocato chiede a quel punto di non essere interrotto con quello che definisce «uno scivolamento volgare». È un’espressione che fa risentire il magistrato che non ci sta e replica. L’avvocato risponde. Le voci si scaldano, i toni delle due parti a confronto si alzano. Chi è fuori nei corridoi si affaccia nell’aula. Il giudice invita alla calma, l’avvocato prova a spiegare di non aver utilizzato quella espressione con l’intenzione di offendere il pm. Ma il pm Fulco decide di allontanarsi dall’udienza, fa mettere a verbale le proprie motivazioni e chiede la trasmissione del verbale al suo ufficio. L’avvocato Senese a sua volta chiede al giudice che il verbale sia trasmesso anche al Csm e al Consiglio dell’Ordine degli avvocati spiegando le proprie ragioni, messe a verbale anche quelle e relative alla volontà non già di offendere ma di non essere interrotta con riferimenti - è stato detto in aula - a fatti di cui nessuno ha conoscenza, che potrebbero essere oggetto di indagini. A fine udienza anche il penalista Vincenzo De Rosa, si associa alla richiesta dell’avvocato Senese. Ora la vicenda passerà all’attenzione di Csm e Consiglio dell’ordine forense. Il processo, che ha a oggetto l’omicidio di Mario Pezzella assassinato a Cardito nel gennaio 2005, è rinviato alla prossima settimana.
La fortuna di esser emagistrato...Due pesi e due misure.
La detenzione dell'Avvocato Trupiano, un caso su cui riflettere, parla il figlio, scrive Lunedì 10 Agosto 2015 Antonella Ricciardi su "Il Corriere di Aversa e Giuliano”. Un nuovo caso giudiziario che vede imputato l'avvocato napoletano Vittorio Trupiano sta assumendo un rilievo nazionale in questa estate del 2015, a distanza di quasi 12 anni da un primo arresto, nel 2003, rivelatosi ingiusto, e definito persecutorio dalla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo... considerando, quindi, più da inquisitori che da inquirenti un certo modo di procedere…e che a più riprese ha condannato radicalmente l'uso di determinati poteri in Italia. In quel primo caso, infatti, V. Trupiano era stato indagato per una questione di opinione, avendo portato avanti la tesi di una parziale incostituzionalità dell'articolo 41 bis, riguardo cui aveva promosso la possibilità di un referendum; inoltre, la candidatura del legale a Marano di Napoli nel 2001, che vide la sua Lista Trupiano apparentata con la Fiamma Tricolore, era stata erroneamente interpretata in quanto patto elettorale con boss locali. In realtà, la Lista Trupiano, formazione per la difesa dei diritti umani, soprattutto dei detenuti, portò avanti anche successivamente una attività di collaborazione in nome di tali ideali con formazioni sociali e politiche differenti, compresi i radicali e formazioni di sinistra alternativa. Nel 2003, quindi, Trupiano era stato arrestato con l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica, ed anche nel 2015 l'accusa è analoga, sia pur per circostanze ipotizzate diverse: ancora concorso esterno in associazione mafiosa (nella fattispecie camorristica). Il professionista, che si dichiara innocente, si è definito anche prigioniero politico, ed aveva iniziato anche uno sciopero della fame, nonostante le condizioni precarie di salute (già nel 2003 era affetto da formazioni tumorali glomiche). Oltre al capo di imputazione, è uguale anche il nome del magistrato alla direzione della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Napoli: Giuseppe Borrelli, che la guidava al tempo dell'arresto del 2003 di V. Trupiano. Più specificamente, attualmente Trupiano viene indagato, essenzialmente, per un gesto ritenuto ambiguo di un suo cliente, Antonio Caiazzo (non più tale dal 2013), durante un normale colloquio in carcere: un dito indice per qualche istante proteso in avanti, che nell'ipotesi di accusa segnalava un messaggio minaccioso, ad imitazione di una pistola. In tale dialogo si nominavo alcuni ospedali del Vomero, per cui l'accusa aveva ipotizzato un riferimento ad appalti illeciti al riguardo, ma tali parole non emergono apertamente nel colloquio. Inoltre, l'ipotesi di accusa prende in esame anche un possibile ruolo di intermediario di Trupiano tra il presunto clan Caiazzo del Vomero ed il clan Lo Russo di Miano (alcuni componenti furono suoi ex clienti, nel 2001), sulla traccia di intercettazione telefoniche nelle quali l'avvocato ricordava di averli conosciuti per motivi professionali, ma non sempre comprensibili ed univoche, a parere dello stesso gip Rovida. Per quanto, poi, il gesto del boss Caiazzo possa avere interpretazioni teoricamente non del tutto univoche (non è chiaro se fosse con certezza una minaccia, e verso chi, o se fosse un semplice indicare, ecc...), è interessante ricordare che lo stesso Caiazzo era stato indagato per parole ambigue verso i suoi stessi avvocati, forse per coprire i veri portatori di messaggi malavitosi, in un processo in cui lo stesso Vittorio Trupiano era parte lesa. Prima di approfondire la vicenda, molto preoccupante per il ruolo ed i diritti dell'avvocatura, attraverso un dialogo con il giovane Marco Roberto Trupiano, laureando in Giurisprudenza, e figlio di Vittorio Trupiano, è di primaria importanza ricordare alcune dichiarazioni dello stesso Marco Roberto a varie componenti della società civile, dalla quali traspare con limpidezza il dramma di un uomo e di una famiglia: "L'arresto di mio padre è conseguenza di un vero e proprio abbaglio da parte delle autorità inquirenti; si tratta un professionista, un maestro di diritto e principe del foro, i cui casi internazionali sono oggetto di studio presso le università di tutta Italia, trattato alla stregua del peggior delinquente del mondo. Possibile che Trupiano, già perseguito nel 2003, dopo essere stato assolto perchè il fatto contestatogli non sussiste, dopo aver ricevuto il riconoscimento della Corte dei diritti umani di Strasburgo per una vera persecuzione giudiziaria nei suoi confronti, si trovi oggi a sostenere un altro ingiusto procedimento ed un'altra ingiusta detenzione? Perchè in sede preliminare fu dichiarata non necessaria la carcerazione preventiva? Perchè in sede di riesame non furono acquisite le intercettazioni, che lo incastrerebbero, per intero? Perchè le conversazioni riportate sono così frammentarie e costellate di omissis ed incomprensibile? Può un uomo essere giudicato un pericolo per la società sulla base di omissis e vuoti? La questione non ha lasciato indifferenti né i colleghi, che stanno raccogliendo firme per presentare una petizione in favore della scarcerazione del Trupiano e ci stanno fornendo supporto attivo ai fini della difesa processuale e che stanno preparando un invocazione di incostituzionalità del concorso esterno, né tanto meno giornalisti, operatori del diritto, studenti e tutte le persone che conoscono mio padre per quello che è: un semplicissimo avvocato, innamorato del proprio mestiere e della propria famiglia; si intende quella biologica, non si fraintenda." Dopo avere riportato tali dichiarazioni, che ricordano l'impegno di Vittorio Trupiano per la famiglia nel senso di comunità degli affetti, e non in senso mafioso, ecco, di seguito, le nuove, molto importanti considerazioni, giuridiche, ed in generale, logiche, di Marco Roberto Trupiano.
A. Ricciardi:” Puoi spiegare in maniera organica per cosa sia, essenzialmente, indagato tuo padre, il noto professionista di Napoli Vittorio Trupiano, ed almeno alcune delle tesi a sua difesa?”
M. R. Trupiano: “A mio padre è contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ossia avrebbe, attraverso l'espletamento delle sue prerogative forensi, favorito le attività illecite dei clan Lo Russo e Caiazzo, in particolare facendo da mediatore tra le due parti nella spartizione degli appalti aventi ad oggetto le strutture ospedaliere della zona collinare napoletana. Secondo la procura, dunque, il personaggio Trupiano sarebbe di tale spicco nell'ambiente criminale cittadino, da poter fungere da organo super partes in una diatriba così delicata tra due sodalizi rivali. Va da sè che sia quantomeno strano il fatto che mio padre non fosse mai stato nominato da nessun collaboratore di giustizia, che sia stimato e rispettato dal foro di Napoli tutto e da molti colleghi avvocati appartenenti ad altri fori, che sia incensurato e che il suo lavoro sia oggetto di studio nelle facoltà di giurisprudenza italiane: un vero caso di sindrome bipolare, oserei dire.”
A. Ricciardi: “ V. Trupiano è tuttora incensurato, ma nei suoi confronti è stata addirittura applicata la custodia cautelare nella casa circondariale di Secondigliano...tutto ciò, nonostante la disponibilità dichiarata e verbalizzata dell'avvocato Trupiano ad un chiarimento con la pm, Ivana Fulco, la quale però non lo ha convocato allo scopo, e nonostante le intercettazioni che lo riguardino siano state acquisite non in maniera integrale, ma siano state trasmesse in forma frammentaria e decontestualizzata, costellata di omissis ed ammissioni di incomprensibilità...Puoi esporci di più di questa situazione, e che interpretazione ne offri?”
M. R. Trupiano: “Le incongruenze nella faccenda in questione si manifestano sin dalla nascita del caso giudiziario: mio padre ha saputo del procedimento a suo carico a mezzo stampa, non è mai stato sentito dalla procura, sempre a mezzo stampa è venuto a conoscenza di un rigetto di una ordinanza di custodia cautelare a suo carico e del successivo ricorso al riesame proposto dalla pm, in sede di riesame chi doveva difenderlo ha intenzionalmente presentato le prove a sua difesa in ritardo, nonostante le pressanti richieste di papà, in modo da non poter essere acquisite dai giudici, al ricorso in cassazione promosso da noi chi doveva difenderlo non era presente, tant'è che ne abbiamo ricevuto notifica. Il punto è che Trupiano oggi è in carcere perchè non ha mai avuto modo di difendersi e chi avrebbe dovuto farlo si è puntualmente tirato indietro tardivamente, senza che potessimo porvi rimedio. Benchè la buona fede dei protagonisti di queste fortunate coincidenza sia poco ravvisabile, vogliamo ancora concedere il beneficio del dubbio, pensando che siano tutti mossi da superficialità.”
A. Ricciardi: “Quando avevi soltanto 14 anni hai vissuto un dramma analogo, per un precedente arresto di tuo padre, nel 2003, con una analoga imputazione di concorso esterno in associazione camorristica, ad opera della DDA di Napoli, alla cui direzione vi era lo stesso magistrato di adesso: Giuseppe Borrelli (tornato alla DDA di Napoli nel 2014). In quel primo caso, V. Trupiano, già allora afflitto da formazioni tumorali che anche in seguito ne hanno parzialmente intaccato la salute, venne scarcerato dopo 18 giorni di prigionia, e successivamente venne assolto in tutti e tre i gradi di giudizio... Quali sono particolari analogie e differenze ti colpiscono di più tra queste due disavventure giudiziarie?”
M. R. Trupiano: “Volendo puntualizzare, il procedimento del 2003 culminò in una pronuncia a favore di mio padre da parte della corte europea dei diritti umani, la quale, citando, ravvisava nell'attività accusatoria contro papà un “chiaro intento persecutorio”. Si capirà come sia poco credibile un nuovo procedimento a suo carico promosso dallo stesso dott. Borrelli, il persecutore secondo la corte europea. La prima differenza che mi sovviene è il mancato linciaggio mediatico; nel 2003, nei diciotto giorni in cui papà fu ospite della casa circondariale di Poggioreale ci fu un gran numero di articoli di giornale e servizi televisivi sulla questione che, se all'inizio ne screditarono enormemente l'immagine, col passare del tempo misero grandemente in evidenza le nefandezze perpetrate contro un professionista innocente. Oggi non ne parla nessuno, giornali e tv si interessano del caso solo quando c'è da far rumore, senza esaminare la faccenda, senza riportare le parole dell'indagato, senza sentire qualcuno vicino alla vittima, perchè mio padre è questo, una vittima.”
A. Ricciardi: “Sei ottimista su una possibile liberazione e su una piena assoluzione di tuo padre? E ci sono aspetti particolari del caso che pensi, eventualmente, debbano essere maggiormente rimarcati sul piano giuridico e della comunicazione?”
M. R. Trupiano: “Per quanto riguarda il profilo giuridico, vorrei che si facesse luce sulla mancata disanima delle bobine utilizzate per incriminare papà e sul fatto, inopinabile, che tutt'ora non vi sono riscontri reali sulla condotta criminosa contestata allo stesso; si può privare un padre di famiglia della sua libertà solo sulla base di supposizioni prive di substrato fattuale? Non credo proprio. Ovviamente sono ottimista per un solo e semplice motivo: Trupiano è innocente e non ha nulla da nascondere; chi ha questa qualità ne uscirà sempre intonso e più forte di prima. Non importa quante altre “coincidenze” si verificheranno, non importa quanti altri disonesti doppiogiochisti incontreremo sul nostro cammino, la giustizia è imparziale e prima o poi colpirà come un maglio le coscienze di chi si ostina a voler vedere Trupiano in rovina.”
POTERE A 5 STELLE.
Pd e M5S, è guerra in nome della legalità. L'ombra della camorra sul comune di Quarto e la condanna dell'ex assessore Pd Ozzimo per Mafia Capitale incendiano lo scontro tra renziani e grillini. La campagna elettorale delle amministrative è così ufficialmente aperta, scrive Susanna Turco l'8 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Alla faccia dei Cinque stelle “stampella” del Pd: è invece guerra (mediatica) senza esclusione di colpi, quella che si combatte sotto la bandiera della legalità tra i democratici e i grillini. Chiamati in causa, entrambi, dall’azione della magistratura. Da un lato, infatti, c’è l’inchiesta sull’amministrazione comunale di Quarto, comune flegreo guidato dai Cinque Stelle su cui pesa l’ombra dell’infiltrazione camorristica nell’elezione e nell’attività dell’ex consigliere De Robbio (indagato dalla Dda); dall’altro, c’è la condanna in primo grado di Daniele Ozzimo, ex assessore Pd a Roma, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio nell’ambito di uno dei processi stralcio di Mafia Capitale. E se per la prima parte della giornata è il Pd che va all’attacco dei grillini, chiedendo chiarimenti sul caso, in un crescendo nel quale si invoca anche l’intervento di Alfano per valutare se sia il caso di commissariare il comune, nel pomeriggio invece, poco dopo la condanna di Ozzimo, sono i Cinque stelle a partire al contrattacco. Prima arriva il commento di Alessandro Di Battista, che parla di “macchina del fango” fatta partire dal Pd “contro M5S” “proprio nel giorno della condanna di Ozzimo” e attacca: “Accusano noi ma condannano loro!”. Poi, peraltro invocato più volte dai dem, interviene Beppe Grillo in persona. Con un post sul suo sito, fatto di otto domande e risposte, il leader pentastellato chiarisce che la camorra “non condiziona il M5S di Quarto”, che la sindaca Rosa Capuozzo “non ha mai ceduto alle richieste dell’ex consigliere” (sospeso una decina di giorni prima di essere indagato), e puntualizza che i voti raccolti da De Robbio non sono stati determinanti (ne ha presi 840, il M5S “ha vinto con 70.79 per cento, pari a 9.744 voti contro i 4.020 degli avversari”). Insomma, spiega Grillo, “sindaco e amministrazione sono parte lesa”, nella vicenda di Quarto. Anche se, fa notare il deputato renziano Ernesto Carbone, “esiste un dato politico sul quale sorvolano con leggerezza: Quarto è il feudo elettorale degli stessi Di Maio e Fico. Da quella sede, nella loro campagna elettorale, facevano grandi rampogne moraliste senza però mai accorgersi che l'onda che spingeva i 5 stelle era un'onda sporca”. Insomma, se la condanna di Ozzimo arriva a riaprire le ferite mai chiuse di un Pd romano devastato da Mafia Capitale, l’ombra della camorra – pur arginata quanto si vuole - tra le fila dei Cinque stelle, dove peraltro quattro su cinque componenti il direttorio è campano, è la novità che contribuisce a movimentare il quadro. Volano tra i due partiti accuse a tutti i livelli: i Cinque stelle rinfacciano al Pd l’elezione di De Luca, il salvataggio dell’Ncd Azzollini , la legge anticorruzione che “di anti ha solo il nome”, parlano di un partito di “condannati e rei confessi”, invitano Orfini a “portare le arance in carcere a Ozzimo”. Il Pd dal canto suo rinfaccia il no grillino alla legge sul reato per voto di scambio politico-mafioso, la mancata denuncia da parte di Rosa Capuozzo per le minacce ricevute e domanda perché i Cinque stelle, così pronti a invocare la “ghigliottina” per gli altri, stavolta non si pongano “neanche il problema delle dimissioni del sindaco”. Su twitter, giusto per la cronaca, l’hashtag lanciato da Grillo (#condannovoi) prevale come era prevedibile su quello dem (#malgoverno5stelle). Complessivamente, non un bel vedere. Probabilmente, al netto degli sviluppi giudiziari, un assaggio della campagna elettorale per le amministrative, ormai ufficialmente cominciata.
M5S e il caso dei voti camorristi. Le intercettazioni nel comune campano retto dai 5 Stelle. Gli uomini ritenuti vicini alle cosche: al sindaco Capuozzo l'assessore lo diamo in pratica noi...La replica: noi parte lesa, voi a braccetto con la mafia, scrive Alessandro Trocino su “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2016. Dopo un lungo silenzio, il Movimento 5 Stelle reagisce alle notizie sulle intercettazioni di personaggi in odore di camorra che avrebbero invitato a votare il sindaco M5S di Quarto. Accusati e sbeffeggiati per tutto il giorno dai parlamentari del Pd, i 5 Stelle reagiscono non sul blog di Beppe Grillo (che ancora riporta un post di novembre sulla «trasparenza di Rosa Capuozzo»), ma con una nota: «A Quarto abbiamo espulso Giovanni De Robbio prima ancora che fosse indagato e oggi siamo parte lesa. Fa ridere che sia il Pd, che con la mafia ci è andato a braccetto finora, a ergersi a cattedra morale della politica. Abbia la decenza di restare in silenzio». Nelle intercettazioni, presunti esponenti camorristici spiegano che porteranno a votare per il sindaco a 5 Stelle, Capuozzo, «anche le vecchie di ottant'anni» e che «l'assessore glielo diamo praticamente noi». Il sindaco spiega: «Dalle intercettazioni esce una visione distorta dei fatti». Per tutta la giornata, dal Pd è arrivata una gragnuola di tweet e dichiarazioni. Debora Serracchiani: «Inquietante, Di Maio e Fico, che hanno fatto la campagna elettorale a Quarto, chiariscano». Stefano Esposito: «A Quarto i 5 Stelle mangiano nello stesso piatto della camorra?». Simona Bonafè: «Perché Grillo tace?». Ettore Rosato: «Fatti gravissimi». Ernesto Carbone: «Chiederò che il sindaco sia audita in Antimafia». Matteo Orfini: «Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S». Ma proprio a Orfini è rivolto un passaggio della nota dei 5 Stelle: «Ha difeso fino all'ultimo l'ex presidente pd di Ostia Andrea Tassone, nonostante avesse avuto contezza dei suoi legami con i clan». I 5 Stelle ricordano che «dal '91 a oggi un centinaio di comuni amministrati dal centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose. E hanno il coraggio di parlare? La verità è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd, ci ha fatto affari. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S, invece, è stata messa alla porta». Alessia Rotta, Pd, commenta: «Dopo un assordante silenzio, i 5 Stelle se ne escono sotto tg con una nota anonima che non dice nulla sulle pesantissime accuse. Di Maio che faceva campagna elettorale ora fischietta, Fico starà in vacanza, Di Battista e la Ruocco dai loro amici a Ostia, Casaleggio nella sua azienda a epurare dissidenti, Grillo in tournée. Non hanno il coraggio di mettere neanche la faccia, si nascondono dietro alle veline anonime».
Orfini: "Di Maio mi criticò da Quarto, dove la camorra vota M5S". Tutto il Pd attacca la giunta M5S del comune campano dopo l'inchiesta del pm Woodcock. La replica: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". Il sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti", scrive Cristina Zagaria il 6 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il voto inquinato a Quarto diventa un caso nazionale. Basta un tweet e dall'inchiesta giudiziaria si passa allo scontro politico tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle. "A Quarto la camorra vota M5S", poco dopo le 13 il presidente del Pd Matteo Orfini in 140 caratteri cita le intercettazioni dalle quali emerge che alle comunali di Quarto del giugno scorso un clan camorrista locale avrebbe sostenuto il candidato pentastellato Rosa Capuozzo (poi eletta sindaco) e attacca i Pentastellati. Il Pd compatto lo segue. Sinistra Italiana e Verdi chiedono l'invio di una commissione d'accesso nel Comune, per valutare l'ipotesi di uno scioglimento anticipato. Ncd vuole le dimissioni del sindaco. Un attacco concentrico. E poco prima delle 19, un comunicato M5S - senza nessun nome - risponde alle accuse: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". E mezz'ora dopo la dichiarazione del sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti". Il Tweet di Orfini. "Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S". Così, in un tweet, il presidente del Pd Matteo Orfini fa diventare le intercettazioni dell'inchiesta sul Comune di Quarto un caso politico nazionale. Il PD si compatta. Sempre Twitter Ernesto Carbone, deputato del Pd e componente della segreteria nazionale del partito, chiede che il sindaco di Quarto sia ascoltato dalla commissione Antimafia, chiosando "spero che i colleghi del M5S non si oppongano". E il Pd fa quadrato e attacca i Cinque Stelle. Sandra Zampa, vice presidente del Partito Democratico pone l'accento di Di Maio e Fico: "Il quadro che le indagini della magistratura sulle amministrative del comune campano di Quarto ci consegnano è grave e inquietante. Ancora più grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l'attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico". Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd: "Ma come mai il movimento Cinque Stelle non manifesta davanti alla prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del comune di Quarto, da loro amministrato? Ma come mai? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri, i vari di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura, oppure ci impartirebbero lezioni di morale dai banchi parlamentari". Debora Serracchiani, vicesegretario Pd: "Di Maio e Fico a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni". Anche Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera chiede "ai vertici del movimento grillino di chiarire la natura di quei rapporti con personaggi collusi con la malavita capogruppo del Pd alla Camera". E Andrea Romano, deputato Pd, parla di "modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle". "Rosa, tu hai un problema". Così, alla fine di ottobre, il consigliere comunale pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si sarebbe rivolto a Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, cittadina dell'area flegrea, eletta con il Movimento fondato da Beppe Grillo. "Mi mostrò una foto aerea di casa mia sul suo cellulare", ha raccontato Capuozzo in Procura. Comincia così, l'inchiesta sul ricatto a "cinque stelle" coordinata dal pm Henry John Woodcock e condotta dai carabinieri di Pozzuoli. Secondo l'accusa, De Robbio avrebbe minacciato il primo cittadino mostrandole più volte una foto dell'area dove si trova la casa di proprietà del marito alludendo a un presunto problema di abusi edilizi. Nella ricostruzione della Procura, De Robbio voleva imporre in questo modo al sindaco l'affidamento ad un imprenditore di sua fiducia, Alfonso Cesarano (titolare e gestore di fatto di una ditta di pompe funebri) il campo sportivo di Quarto, la struttura, ora di gestione comunale, che fino all'insediamento della giunta Capuozzo era affidata alla Nuova Quarto calcio per la legalità, la squadra antiracket che, una volta privata del campo, ha dovuto chiudere i battenti. A questo capitolo dell'inchiesta è strettamente collegato l'altro filone al vaglio degli investigatori, quello sul voto di scambio. Il fulcro delle indagini è appunto una intercettazione telefonica che risale al primo giugno scorso, tra il primo e secondo turno delle comunali di Quarto, unica città della Campania amministrata da una giunta del M5S. Un imprenditore legato al clan camorrista dei Polverino, Alfonso Cesarano, dà indicazioni di appoggiare il candidato a sindaco dei Cinque Stelle, Rosa Capuozzo: "Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stel". Capuozzo, che non aveva denunciato De Robbio, è stata sentita due volte dal pm Woodcock. Nel secondo verbale ha parlato espressamente di "ricatto" specificando di avere "paura" di De Robbio. Anche se poi in un secondo momento ha corretto il tiro e ha dichiarato di "non aver mai subito minacce". E oggi dice: "Le intercettazioni telefoniche non aggiungono nulla a quanto già letto nei giorni scorsi. Sono le stesse già note da 15 giorni. C'è solo una visione distorta dei fatti. Riguarda il campo sportivo di proprietà comunale. Ne abbiamo ripreso la gestione non per affidarlo a privati ma per promuovere lo sport per il sociale". Il campo sportivo era stato gestito negli ultimi anni dalla Nuova Quarto calcio per la legalità, sodalizio nato dopo le indagini della Dda di Napoli che avevano scoperto collusioni della vecchia società col clan Polverino. "Ci siamo mossi - dice la Capuozzo - nella direzione di creare una rete di associazioni che operano anche nel settore sociale. Con quote basse possono usufruire della struttura. Inoltre le società e le associazioni che accoglieranno casi di ragazzi indigenti, su indicazione dei nostri servizi sociali, potranno usufruire di ulteriori sconti. Ciò - aggiunge - per operare in senso sociale e puntare a togliere i ragazzi dalla strada". La Capuozzo insiste: "Sin dal primo momento ci siamo mossi in questa direzione non prendendo in considerazione un affidamento a privati". "Con De Robbio - aggiunge- il rapporto tra noi si era deteriorato proprio per la questione dello stadio. Io sentivo la pressione politica, non le minacce. Mi chiedeva di programmare una gestione affidata a privati. Non ero d'accordo. Era anche contro il nostro programma amministrativo. Per questo motivo non appoggiai la sua candidatura a presidente del consiglio comunale. Si era creata una situazione, come dire, non simpatica". "L'espulsione dal movimento - conclude il sindaco - è avvenuta perché si era allontanato dal piano operativo predisposto per amministrare e rilanciare la città e dalle linee guida del movimento". Intanto De Robbio, il più votato tra i candidati al Consiglio comunale di Quarto alle ultime elezioni amministrative, dopo le polemiche seguite all'inchiesta della Dda di Napoli, già espulso dal partito il 14 dicembre 2015, si dimette dal Consiglio comunale il 28 dicembre. Il 31 dicembre, nel pieno della bufera scatenata dall'inchiesta condotta dal pm Henry John Woodcock, la giunta della Capuozzo perde altri pezzi: rassegnano le dimissioni anche l'assessore al Bilancio, Umberto Masullo ed il consigliere comunale Ferdinando Manzo. Masullo e Manzo hanno escluso collegamenti tra l'indagine e la scelta di dimettersi. L'assessore Masullo parla di "motivi professionali ", mentre il consigliere Manzo scrive una lettera in cui indica "ragioni familiari". In precedenza si era dimesso anche l'assessore alla Cultura, Raffaella Iovine. Oltre a De Robbio, sono indagati anche il geometra Giulio Intemerato, coinvolto nel filone del tentativo di estorsione ai danni del sindaco, e Mario Ferro, il cui nome entra invece nella vicenda del voto di scambio perché sospettato di aver ricevuto, da De Robbio, la promessa di assunzione del figlio presso il cimitero di Quarto in cambio di sostegno elettorale. "Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che con la mafia ci è andato a braccetto finora, che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Luca alla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita. Fa ridere sì, che sia il Pd, che oggi ha fatto della questione morale una reliquia, ad avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell'unica forza politica onesta e pulita, qual è il M5S". Dichiara il M5S. "Per non parlare di Orfini - aggiungono i parlamentari - colpevole non solo di aver trascinato Roma nel fosso, ma soprattutto di aver difeso fino all'ultimo l'ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante - come lui stesso dichiarò - avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale. Dal 91 ad oggi - prosegue il 5 Stelle - circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l'amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose ed hanno anche il coraggio di parlare, di dispensare lezioni di democrazia". "La verità - prosegue il 5 Stelle - è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa. Questa è la grande differenza tra una forza di cittadini onesti e puliti come il 5 Stelle e la vecchia classe politica: noi - conclude la nota - camminiamo a testa alta, loro dovrebbero avere almeno la decenza di restare in silenzio". Appena uscito da un commissariamento per infiltrazioni camorristiche, il Comune è per questo "sorvegliato speciale" da parte della prefettura e vive l'incubo di un nuovo scioglimento. Arturo Scotto capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana chiama in causa l'invio di una commissione d'accesso al Comune: "A Quarto da anni la sinistra si batte a viso aperto contro la camorra. Vedere in questi mesi le ambiguità del movimento Cinque stelle è davvero insopportabile. Serve subito una commissione d'accesso in comune". Anche i Verdi locali si chiedono perchè non venga nominata la commissione. Luigi Barone, componente della direzione nazionale del Nuovo Centrodestra e dirigente campano del partito chiede le "dimissioni" del sindaco Capuozzo. E sul caso Quarto interviene anche Fi, con i vicepresidente della Camera, Simone Baldelli: "E poi i vertici di M 5s vanno in tv a Difendere le preferenze...".
M5S e camorra, Pd all’attacco: “Vertici in silenzio su Quarto”. La replica: “Fate ridere, avete sostenuto De Luca”. Grillo e i parlamentari campani Di Maio e Fico accusati di non aver preso posizione sulle infiltrazioni camorristiche che emergono dall'inchiesta che vede indagato per voto di scambio e tentata estorsione il più votato del movimento, già espulso. Serracchiani: "In campagna elettorale davano lezioni di onestà". Carbone: "Audire il sindaco in Antimafia". Sel prefigura lo scioglimento per mafia. La nota M5S: "Molti comuni di centrosinistra già sciolti", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 gennaio 2016. Il Pd va all’attacco del Movimento 5 Stelle sui rapporti con la camorra. Il caso è quello di Quarto, in provincia di Napoli, dove un’inchiesta della magistratura ha fatto emergere le pressioni sulla nuova giunta comunale grillina da parte di un imprenditore ritenuto vicino al clan Polverino. E dove il più votato del Movimento, Giovanni De Robbio, già espulso, è indagato per voto di scambio tentata estorsione nei confronti del sindaco Rosa Capuozzo. I dem contestano soprattutto “il silenzio dei vertici”, da Beppe Grillo ai parlamentari campani Luigi Di Maio e Roberto Fico e rinfacciano due pesi e due misure rispetto alle tante denunce di malaffare provenienti dal Movimento. E ci si mette anche Sinistra Italiana, prefigurando lo scioglimento per mafia del Comune conquistato dall’M5s appena sei mesi fa. In serata arriva la replica, in una nota del Movimento: “Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Lucaalla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita”. Ad accendere lo scontro un articolo della Stampa che riporta alcune intercettazioni agli atti dell’inchiesta coordinata da Henry John Woodcock, già pubblicate da ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre. Conversazioni nelle quali il figlio dell’imprenditore Alfonso Cesarano, Giacomo, afferma di aver spinto il boom elettorale di De Robbio e di voler continuare a sostenere i 5 Stelle al ballottaggio: “Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stelle”. Convinto della vittoria finale, Cesarano aggiunge: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui – il riferimento è ancora a De Robbio – ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”. “Dite a Grillo che Quarto non è uno scoglio di Genova ma uno dei comuni amministrati dal M5S Silenzio su voto di scambio con camorra?”, twitta l’eurodeputata Pd Simona Bonafè. Un silenzio rimproverato anche dal vicesegretario Debora Serracchiani a Di Maio e Fico, che “a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni”. Sulla stessa linea il vicepresidente Sandra Zampa: “Grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l’attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico”, dichiara. Ai due parlamentari chiede spiegazioni anche il senatore Stefano Esposito: “Nei pochi posti dove amministrano o falliscono o sembra abbiano rapporti perversi con la malavita organizzata”, afferma Esposito, che si chiede se il Movimento di Grillo a Quarto “mangi nello stesso piatto della camorra”. E se non stia diventando “un facile cavallo di troia per i poteri malavitosi. Certo”, conclude, “aver detto, come fece Grillo, che la mafia non esiste non aiuta proprio per nulla”. Dal fronte dem è un fuoco di fila: “La prossima settimana chiederò che in commissione parlamentare Antimafia venga audito il sindaco di Quarto. Spero che i colleghi del Movimento 5 Stelle non si oppongano”, annuncia su Twitter il deputato Ernesto Carbone. Mentre il presidente Pd Matteo Orfini si toglie un sassolino dalla scarpa: “Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S”. E ancora, Andrea Romano punta sui meccanismi di selezione dei candidati tanto caro a Grillo e Casaleggio: “Certo le modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle e la stessa opacità dei rapporti tra blog e movimento non aiutano”. Non è solo il Pd a sollevare il caso. Mentre Scelta civica, con Gianfranco Librandi, parla di “pericolosi intrecci”, il capogruppo alla Camera di Sinistra italiana Arturo Scotto prefigura l’onta, per il Comune conquistato a giugno dal Movimento di Grillo, di una “commissione d’accesso”, anticamera del possibile scioglimento per condizionamento mafioso. E tornando al Pd osserva Emanuele Fiano: “Ma come mai il Movimento 5 Stelle non manifesta davanti alla Prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del Comune di Quarto, da loro amministrato? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri i vari Di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura”. La nota dell’M5s ribadisce che le accuse del Pd “fanno ridere”, perché il partito di Matteo Renzi “oggi ha fatto della questione morale una reliquia”, dunque non può “avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell’unica forza politica onesta e pulita”. Il Movimento rinfaccia a Orfini “di aver difeso fino all’ultimo l’ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante – come lui stesso dichiarò – avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale”. E ricorda poi che “dal ’91 a oggi circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l’amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose”. Da decenni, inoltre, “la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa”.
GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.
Viaggio nei centri sociali occupati, tra droghe, alcol e stanze del sesso. Una serata al Ri-Make di Milano, durante una festa omosessuale con un unico motto: “Sesso e droghe libere”, scrive Giuseppe De Lorenzo martedì 22/12/2015 su “Il Giornale”. "Questa è una festa in cui la normalità resta fuori dalla porta”. Sesso, droghe, musica, alcol, scambi di coppia. I “centri sociali” italiani non sono solo quelli che manifestano in piazza, gli antagonismi vari, noTav e noExpo. C’è dell’altro, ovvero le attività notturne organizzate durante l’anno. Feste, discoteche, party di autofinanziamento: tutto in maniera più o meno illegale, realizzato senza autorizzazioni di sorta in locali spesso occupati. Sabato era in programma a Milano un “Queer party”. Non una serata come tutte le altre, ma un momento - si legge nell’invito che mi ha incuriosito - in cui “provare a mettere in discussione la monogamia, le dinamiche di coppia e la sessualità a due”. Orge, insomma. Ma non solo. Il “Ri-Make”, luogo della festa, è un enorme stabile un tempo sede della Banca Nazionale del Lavoro ed ora trasformato in un centro sociale “occupato, autogestito e antiproibizionista". Nessun divieto comportamentale. Il collettivo femminista e Lgbt “Le Luccione” che ha organizzato il raduno parla di un “QuEeR Party con 'Marx, Engels, Lenin & Beyoncè'", personaggi che campeggiano sulla locandina chi con la barba rosa e chi con le sopracciglia colorate. E’ una serata omosessuale da cui non sono esclusi gli etero. L'importante è "liberare la sessualità e sperimentare i propri desideri". Per entrare viene chiesta un’offerta libera, prezzo che comprende anche la libertà di usufruire di preservativi e lubrificanti distribuiti gratuitamente. Come debba finire la serata è chiaro sin da subito. Il foglio informativo sul "Bon ton" da tenere non lascia spazio ad immaginazioni: "Divertiti, balla e, per una sera, libera i tuoi orgasmi". All’interno trovo anche un bar completo di tutto, tranne che del registratore di cassa. Ma questi son luoghi in cui non ci si formalizza, in cui la vendita di bevande diventa autofinanziamento e atto rivoluzionario. Mentre provo a bere la mia birra da 2,50 euro si avvicina un ragazzo, di 20 anni o poco più. Parrucca in testa, piumato foulard rosso al collo, tacchi a spillo, calzamaglia nera e minigonna. “Non stare da solo, vieni a ballare con me”. Declino l’offerta, ma sono costretto a fingere di apprezzare la musica e le movenze del ragazzo per non essere scoperto. Tra i ballerini noto anche qualche uomo di mezza età. Uno di loro veste una pelliccia molto appariscente. La cosa più interessante, però, è nell’angolo della sala da ballo. Una tenda trasparente “nasconde” la “stanza del sesso”, da utilizzare “come vuoi, con chi vuoi”. Prima di entrare bisogna leggere il cartello informativo: “Non esiste alcun divieto - c'è scritto - e il sesso non si può fermare. Stai solo attento alle malattie. Dentro trovi preservativi e guanti in lattice. Usali”. Non ci sono turni. Ognuno entra quando vuole e con chi vuole. Non ci si formalizza nemmeno sul numero di persone che possono consumare il rapporto. Entro nella stanza, è tutta buia ma prima di me sono entrate tre persone. Ho visto abbastanza. Prima di lasciare la festa (che a seguire prevede gnoccata notturna e sex games), intravedo “l’angolo trucco e parrucco”. Qui chi lo desidera può mettersi cipria e ombretto, e la maggioranza di chi si sottopone al make up è di sesso maschile. Evito di varcare la soglia, per non rischiare di entrare uomo ed uscire donna. Questa è la Milano notturna nei centri sociali occupati. Che qualcuno si ostina a considerare esempi positivi di socialità.
E’ vergognoso che in Italia, nel 2015 e nonostante un’infinità di leggi e leggine, vengano ancora tollerati i Centri Sociali, ricettacolo di gente senza arte né parte, luoghi di illegalità legalizzata dove molto spesso si formano i criminali di domani, scrive “Italia Insieme” il 19 maggio 2015. Nella maggior parte dei casi, poi, chi fa parte ed è membro attivo di queste strutture le occupa abusivamente (strutture per lo più di proprietà dei comuni, magari momentaneamente in disuso) ed esaltano pubblicamene il loro reato come fosse un “diritto”. In pratica: è come se qualcuno rubasse e utilizzasse a piacimento la vostra auto poiché voi la usate poco o non la usate affatto. Però qualcosa non torna: perché per un furto d’auto la magistratura e le istituzioni intervengono all’istante (giustamente!) mentre per le occupazioni abusive (di strutture statali per altro!) fanno orecchie da mercante o, peggio ancora, chiudono un occhio e fingono di non vedere? Urgono immediatamente provvedimenti seri e concreti: i Centri Sociali devono essere sgomberati e chiusi, e devono essere puniti severamente tutti coloro i quali continuano e perseverano in questa dubbia ‘attività’. E’ impensabile tollerare che ci sia gente che per anni utilizza gratuitamente edifici altrui (leggi: furto continuato e aggravato) senza che lo Stato muova un dito. Tollerare un simile atteggiamento vuol dire, di fatto, dare il placet a questi individui nel perseguire indisturbati le proprie attività e rendersi complici.
Okkupazioni e scontri, illegalità antagonista, scrive Francesca Musacchio su “Il Tempo” del 9 novembre 2014. Occupazioni abusive di immobili e spazi pubblici, manifestazioni, proteste, blitz, scontri con le forze dell’ordine durante i cortei, muri della città imbrattati dalle scritte e caos. È il mondo degli antagonisti della Capitale che vivono in una sorta di mondo parallelo dove la contestazione al governo, di qualunque colore politico, è il dogma. A Roma l’universo antagonista gestisce un centinaio di occupazioni abusive di immobili, tra pubblico e privato. Tra queste ci sono anche le sedi storiche di alcuni centri sociali che tengono in ostaggio alcuni edifici ormai da decenni. Nel quartiere San Lorenzo, infatti, esistono numerosi luoghi dove hanno sede diversi collettivi della sinistra estremista. Una situazione di stallo e disagio sociale, dunque, che va avanti da anni e che sembra essere destinata a non terminare, almeno non nell’immediato. Della galassia antagonista fanno parte, però, non solo i centri sociali, ma anche i Movimenti per la casa, i collettivi studenteschi, gli anarchici, le associazioni antirazziste e i sindacati di base. Queste realtà, nel corso degli ultimi anni, a Roma si sono rese protagoniste degli scontri più duri con le forze dell’ordine durante manifestazioni di piazza. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è quello del 12 aprile scorso quando, durante la manifestazione organizzata dai Movimenti per il diritto all’abitare, è stata violentata e vandalizzata via Veneto, una delle strade della Capitale più note al mondo. Al termine di quella giornata il bilancio è stato di 22 feriti e 6 fermati. Inoltre, un peruviano di 45 anni ha perso la mano destra a causa dell’esplosione di un petardo. Tra i partecipanti, mascherati con cerate di colore blu e il volto coperto da maschere antigas, c'era anche Andrea Coltelli, un 20enne di Viareggio, ripreso dalle telecamere mentre ha tra le mani una bottiglia spezzata. Nei mesi precedenti, però, gli antagonisti hanno messo ancora a ferro e fuoco il centro della Capitale, il 19 e 31 ottobre 2013, con altri feriti, fermati e danni alla città. Il fine di queste frange estreme, quindi, è sempre la contestazione ovunque e comunque, schierandosi di volta in volta con i vari fronti di lotta, che vanno dai No Tav ai No Muos o all’opposizione cruenta alle politiche sociali del governo.
Mappa Occupazioni di Centri sociali a Milano: Segnalazione a Milano, scrive Milano Today.
NESSUNO TOCCHI MILANO? MA MILANO LA TOCCANO GIÀ! Ipocrisia a 180 gradi sui fatti del 1 maggio. Indignazione a buon mercato da parte di chi tollera da anni il sistema di illegalità costituita dei Centri Sociali.
CENTRI SOCIALI: UN SISTEMA DI ILLEGALITA' PROTETTA E TOLLERATA. A Milano sono circa 25 (stima per difetto) i cosiddetti "centri sociali occupati", che vivono sulla pratica e l'esaltazione di ogni genere di reato. E non stiamo parlando solo delle occupazioni abusive (che comunque sono il principale emblema della arroganza e prepotenza di queste persone), ma anche di molte altri reati connessi; dagli imbrattamenti di muri, alla sistematica affissione abusiva di manifesti, al disturbo alla quiete pubblica, alla resistenza alla forza pubblica, ai picchetti "antisfratto" , alle scorribande nelle scuole e nelle università, alla creazione di esercizi commerciali abusivi e privi di norme igieniche e di sicurezza, all' evasione fiscale (totale). E a ciò si aggiunga l'arroganza di chi, non contento di calpestare ogni legge e regola e rivendicare per sé la libertà assoluta (la chiamano "autogestione"), ha la pretesa di voler tappare la bocca a quelli che non la pensano come loro (chiamati "fascisti", "razzisti", "omofobi", "clericali" o come vogliano loro.
VANDALISMI NON OCCASIONALI, MA SISTEMATICI. Anche se non sempre succedono cose della gravità di venerdì scorso, tuttavia ogni anno, il MayDay organizzato dalla galassia antagonista provoca danni e vandalismi. Se non altro causa l'imbrattamento sistematico di tutti i muri e talvolta anche vetrine lungo il percorso della manifestazione. Questi imbrattatori di professione vengono lasciati fare impunemente dagli altri partecipanti al corteo (quelli cosiddetti "bravi").
NON SI PUO' CONCEDERE LA PIAZZA AI DELINQUENTI E DITTATORI. La libertà di manifestare è un diritto sacrosanto, ma non ha nulla a che vedere con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere. Non si può concedere la piazza a chi professa ed esalta la delinquenza, a chi vive sulla rivendicazione del "diritto di reato". Che succederebbe se si desse la libertà di manifestazione ad una gang di ladri di auto che vanno in giro a dire che è giusto rubare auto? o ad una banda di spacciatori di droga che fanno un corteo per esaltare il diritto a spacciare, o ad una associazione di "torturatori di animali" che vorrebbero seviziare i gatti? La libertà di manifestazione non c' entra con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere (anzi è cosa diametralmente opposta). I Centri Sociali sono una istigazione a delinquere vivente per il fatto stesso di esistere; in quanto rivendicano con orgoglio le loro occupazioni abusive (cioè dei furti). Figurarsi se poi gli si può permettere loro di fare pure "manifestazioni"..."
NECESSARIO L' USO DELLE ARMI. Qualcuno, dopo i fatti del 1 maggio parla di "successo delle istituzioni", perché non ci sono stati morti. Ma che vuol dire? Che, per evitare il morto, allora di deve lasciar devastare una città? E' ora di finirla di essere schiavi dei nuovi dittatori e umiliati da essi. Abbiamo appena festeggiato il 25 Aprile che è stata guerra di liberazione. Guerra, non noccioline. Si sono usate anche le armi, e sono state uccise delle persone, Ma nessuno si scandalizza. Anzi, fanno le celebrazioni in pompa magna. E allora, se ci siano liberati da una dittatura, perché dobbiamo soggiacere ad un'altra? Le forze dell'ordine hanno (uniche fra i cittadini) la prerogativa di usare le armi. E allora le usino! Non si può stare ad assistere impunemente a gente che da fuoco alle auto e sventra le vetrine dei negozi.
Chiudete i centri sociali Culle dei black bloc difese dai magistrati. Sono le culle dei black bloc italiani, ma sindaci progressisti e magistrati li difendono. E' il momento di dire basta. Le bestie di Roma vanno arrestate, scrive Alessandro Sallusti Lunedì 17/10/2011 su “Il Giornale”. Non vengono da Marte. E neppure da Berlino o Londra come qualcuno vuole farci credere. I criminali che sabato hanno distrutto Roma e attentato alla vita di poliziotti e carabinieri provenivano da città italianissime, da Bari a Torino. Dietro la sigla «black bloc» si cela il teppismo nazionale che cresce e si organizza impunito, nonostante le evidenti illegalità, nei centri sociali che pullulano nelle nostre città. Disagio giovanile, lo chiamano i sociologi (altra categoria pericolosa). Ragazzi senza speranza, li difendono quelli della sinistra che siedono in Parlamento a ventimila euro al mese. Teppisti, li chiamo io, giovani annoiati e frustrati che non hanno voglia di diventare grandi, di misurarsi con i problemi della vita. Dicono: la colpa non è loro ma della società. Balle, la colpa è tutta e solo loro, non certo nostra. Se complici ci sono, vanno cercati in chi li finanzia, in chi (sindaci e magistrati buonisti) permette loro di compiere ogni tipo di illegalità. Possibile che l’obbligatorietà dell’azione amministrativa e penale valga soltanto per punire chi lascia un minuto l’auto in sosta vietata o per inseguire le ragazze ospiti di Berlusconi? Dove sono vigili e magistrati quando una banda di sfaccendati occupa case e palazzi pubblici e privati? Perché è in quelle oasi sfuggite al controllo dello Stato che i peggiori di loro organizzano i piani della guerriglia, nascondono armi improprie, preparano le molotov da lanciare per le nostre strade il sabato pomeriggio. I centri sociali sono una minaccia, non una risorsa della società. Vanno chiusi, se serve, con la forza. Perché la Guardia di finanza e l’ispettorato del lavoro devono poter mettere sottosopra le aziende mentre un centro sociale può stare tranquillo nella sua assoluta illegalità incubatrice di violenza? Non prendiamoci in giro. Solo a volerlo, le Procure possono sapere chi sono questi signori in mezza giornata. Anzi, probabilmente già lo sanno e non fanno nulla. Perché se si muovono poi si arrabbiano Vendola e Di Pietro, Bersani e Santoro. Dopo quello che si è visto ieri, sarebbe meglio farli infuriare e darsi una mossa. Prendere le distanze dai violenti e difendere i centri sociali è una contraddizione in termini. Chi punta il dito sui criminali di ieri e celebra la memoria di Carlo Giuliani (il no global morto durante gli scontri del G8 di Genova mentre cercava di spaccare la testa a un carabiniere con un estintore) è un furbo in malafede. Carlo Giuliani era un delinquente esattamente come quelli visti all’opera a Roma. Dedicargli, come fece Rifondazione comunista, un’aula di Montecitorio (presidente della Camera era Bertinotti) è stato un insulto all’Italia intera. La poesia che a Giuliani ha dedicato Nichi Vendola, possibile candidato premier della sinistra moderata, è stato un invito a tanti giovani a seguirne l’esempio, a spaccare la testa armati di estintore. Contro i cattivi maestri non possiamo fare nulla, chiudere i centri sociali è un diritto- dovere di chi amministra le città e la giustizia. Non bisogna avere paura. Non l’ha avuta Obama, presidente nero e democratico degli Stati Uniti, ad arrestare oltre mille «indignati» turbolenti. Anzi, l’America tutta l’ha solo ringraziato. Proviamoci anche da queste parti.
Strasburgo ipocrita e teleguidata dagli antagonisti, scrive Angelo Mandelli. CHI CI DIFENDE DALLA TORTURA DEI CENTRI SOCIALI? Squadracce dei cosiddetti "centri sociali" si scontrano con le Forze dell'Ordine in Piazza della Scala a Milano. Questa immagini si reiterano continuamente nelle nostre città. Gruppi di disgraziati si ritengono in diritto di aggredire la Polizia e i Carabinieri, ma non si può far nulla per fermarli. Grazie all' opera di delegittimazione delle Forze dell'Ordine in corso da decenni, se un dimostrante viene toccato, ... apriti cielo! I tormentoni contro la "violenza della polizia" si trascinano per decenni, mentre si tace sulle continue illegalità da parte dei Centri Sociali. Il risultato è un sistema di dittatura "al contrario"; dove i violenti e i dittatori di estrema sinistra possono imporre la loro legge e tenere schiavo il popolo italiano. La sedicente "corte europea dei diritti dei diritti umani" ha sentenziato che l'Italia la Polizia tortura e lo Stato "non ha una legislazione adeguata per perseguire le torture"...Bell' esempio di faziosità ipocrita e teleguidata dalla lobby antagonista. Ormai il nostro mondo appare sempre di più come un mondo ribaltato, dove gli scandali che emergono sono il contrario esatto di quelli che dovrebbero emergere. E dove l'agenda di tutto ciò che ha rilevanza mediatica viene dettata dalle lobby degli intellettuali di sinistra: quelli che erano in piazza a Genova nel 2001 a "contestare il sistema", fra canti, balli, bottiglie molotov ed ... estintori. Se l'Italia non ha una legislazione per impedire la tortura da parte delle forze dell'ordine, tanto meno ha una legislazione per impedire le torture che i cittadini italiani devono subire da parte di Centri Sociali, anarchici, antagonisti, no-tav, no-global, ecc. In tutte le principali città italiane sono decine i cosiddetti "centri sociali", che effettuano sistematiche occupazioni abusive, inneggiano alla illegalità, si scontrano con le forze dell'ordine, imbrattano i muri, disturbano la quiete pubblica, e commettono tutta una serie di altri reati (compresa evasione fiscale totale). Io scrivo da Milano e so quello che dico. Ho seguito direttamente le vicende di alcuni di questi centri sociali (ma penso che tutti siano nelle stesse condizioni), dove la gente che abitava nei dintorni viveva in un incubo, perennemente perseguitata da feste, schiamazzi, rumori che si protraevano fino all' alba del giorno dopo e impedivano di riposare (si può pensare ad una tortura peggiore?). Quando i cittadini protestavano venivano fatti oggetto di insulti, minacce e aggressioni. Potrei citare come esempio quello dei residenti che abitavano di fianco al centro sociale "lambretta", di cui si è molto parlato sui giornali. Inoltre questi "centri sociali" esercitano una azione di intimidazione e dittatura politica e culturale, con aggressioni, intimidazioni e "contestazioni" verso tutti quelli che non la pensano come loro e osano manifestare idee diverse. Basti pensare alle aggressioni ai gruppi pro-life, alle "sentinelle in piedi", ai partiti di centro-destra, che sono sistematiche e quasi sempre fomentate dai militanti dei Centri Sociali. Il problema è che questi gruppi eversivi vengono lasciate agire indisturbati, per anni e decenni. Compresi i loro siti internet che inneggiano alla illegalità, alla eversione, a commettere reati e a resistere alla Forza Pubblica. In pratica i cittadini sono indifesi da questa gente. Se capita (raramente) che qualcuno di questi covi viene sgomberato, subito dopo occupano altrove, con ancora più arroganza. Molti si chiedono come sia possibile una cosa del genere. Come sia possibile che gente che commette e reitera reati, di fatto non venga perseguita da nessuno, o venga perseguita in modo ridicolo e totalmente inefficace. Ma tant' è che la corte di Strasburgo se ne stras-frega di queste cose; guarda la pagliuzza e ignora la trave. Solita storia miserevole e infame.
Voto di scambio di de Magistris: regala un palazzo ai no global. Il sindaco affida al collettivo «la Balena» la gestione di un edificio pubblico occupato del valore di 10 milioni. La denuncia di Forza Italia: «Porteremo il caso in tribunale», scrive Simone Di Meo Martedì 5/01/2016 su “Il Giornale”. A Napoli occupare un edificio pubblico conviene. Il collettivo «La Balena» da tre anni è asserragliato nell'ex Asilo Filangieri, un palazzone che si erge alle spalle di San Gregorio Armeno, la strada dei pastori del centro storico. La sigla raccoglie un po' di tutto: centri sociali, no global e indignados, lavoratori del mondo dello spettacolo e personaggi in cerca d'autore. Un bel giorno del 2012, hanno forzato i cancelli e si sono presi l'immobile appena ristrutturato dal Comune per la modica cifra di 5 milioni di euro (tutto il complesso vale esattamente il doppio). Invece di sgomberare l'area, l'ultimo giorno dell'anno il sindaco Luigi de Magistris ha premiato gli abusivi con una delibera di giunta che li autorizza non solo a restarci ma a continuare la loro attività di organizzazione di spettacoli a pagamento, vendita di alcolici e corsi di recitazione. «Siamo davanti a un palese voto di scambio» ha attaccato il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola (Fi). Perché gli occupanti sono tutti o quasi tutti sostenitori arancioni. Addirittura, si vocifera che Giggino potrà schierare alle prossime elezioni una lista che dovrebbe chiamarsi «Massa critica» che fa riferimento proprio all'ex Asilo.Il provvedimento di Palazzo San Giacomo, scritto con l'aiuto di due giuristi d'eccezione come Stefano Rodotà e Paolo Maddalena, ha fatto urlare allo scandalo il capo dell'opposizione in consiglio comunale e candidato sindaco del centrodestra, Gianni Lettieri. «Che dovrebbero dire si chiede tutte quelle famiglie che vengono sgomberate e che non hanno un tetto di fronte ad un'amministrazione che non tutela il loro diritto alla casa, ma salvaguardia la prepotenza estremista di centri sociali che occupano beni comuni? Ho dato già mandato ai miei legali di esaminare tutta la documentazione e sollevare la questione a tutti i livelli, giudiziari ed istituzionali». In realtà, l'autorità giudiziaria non è intervenuta nemmeno quando, per prendere possesso delle sale, gli occupanti hanno violato i sigilli apposti per mancanza di agibilità. Nessuno vede dalle parti di San Gregorio Armeno. Chi invece aveva una prospettiva chiara dell'abuso è l'ex assessore comunale Bernardino Tuccillo, ex IdV. «Con un'ultima nota del 7 novembre 2012 inviata al capo di gabinetto del sindaco fui costretto a sollecitare lo sgombero degli occupanti abusivi dal prestigioso stabile, purtroppo senza essere ascoltato, poco prima di perdere la delega al Patrimonio ricorda oggi Con la delibera appena approvata giunge a compimento un percorso sull'uso distorto e dissennato di utilizzo dei nostri beni pubblici. Da un ex magistrato diventato sindaco sarebbe stato lecito attendersi l'introduzione di una cornice di regole e norme valide per tutti e non privilegi e favoritismi accordati a centri sociali ed amici degli amici». Parole al vento.Collettivo e Amministrazione comunale si difendono sostenendo che sì, c'è stata un'occupazione abusiva, ma non è il caso di farne una tragedia perché ora, in quella struttura, si fa cultura «partecipata e inclusiva». Quella che piace all'estrema sinistra movimentista che vota de Magistris e che deve respingere la spietata concorrenza grillina. Per uno scherzo del destino, il M5S di Napoli, fino alla rottura definitiva col sindaco un paio di mesi fa, si riuniva proprio presso l'ex Asilo Filangieri.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.
Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.
«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.
Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?
Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".
La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:
a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?
b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.
c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.
d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!
e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".
«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».
Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?
«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».
Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.
«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».
Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?
«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».
È una manovra politica?
«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».
D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.
«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».
E il paragrafo su Libera?
«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».
Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?
«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».
Cosa chiedete nell’interpellanza?
«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».
Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?
«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».
Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?
«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».
I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».
Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".
Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».
Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.
Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.
Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».
A quale sistema fa riferimento?
«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».
Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».
Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara. - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.
Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi - neanche tanto velatamente - altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente - diceva all'amministratore - una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio - avverte il Csm - in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.
Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.
Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.
Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!
Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?
"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).
Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto e della sua banda. Pino Maniaci.
S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.
LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE.
A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola. È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.
Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero? Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015. CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!
La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.
Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.
Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.
Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.
L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.
È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.
Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che