Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA RAZZISTA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

Descrizione: ITALIA RAZZISTA.jpg

 

 

 

 

 

 

 

ITALIA RAZZISTA

 

TUTTI CONTRO TUTTI,

NONOSTANTE GLI INCERTI NATALI

PRIMA PARTE

 

CHI MIGLIORE DI CHI?

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL TERRONE RAZZISTA.

RAZZISTA (D)A CHI?

FELTRI CONTRO TUTTI.

LEGGE MANCINO: ARMA IDEOLOGICA.

VADE RETRO, SALVINI.

MARCELLO FOA E LE FACCE TOSTE.

CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

RAZZISMO E STEREOTIPI.

I MURI NELL'ERA DI INTERNET.

IL RAZZISMO IMMAGINARIO.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.

QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RAZZISMO DEGLI ANTIRAZZISTI.

I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.

QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.

L’ITALIA DELL’INVIDIA E DELL’IMBECILLITA’.

PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.

IL BINARIO UNICO E LO STATO RAZZISTA.

DAGLI ALLO ZINGARO ED AL MERIDIONALE…

RAZZISMO. C’E’ INSULTO ED INSULTO…

L’ISLAM, L’ACCOGLIENZA E L’IPOCRISIA DEI BUONISTI.

PROFUGOPOLI.

TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO.

A SINISTRA: RAZZISTI AL CONTRARIO.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

NAPOLETANO: CAMORRISTA PER NASCITA. QUELLO CHE PENSANO GLI ALTRI…E LO DICONO!

IO NON SONO RAZZISTA, MA….

NON SONO RAZZISTA, MA CHI PENSA AGLI ITALIANI?

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA. 

IMMIGRATI DI OGGI COME I MERIDIONALI DI IERI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

CALCIO E RAZZISMO.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

ITALIA RAZZISTA ED ANTIMERIDIONALISTA.

SULLA PELLE DEGLI IMMIGRATI…

L’ITALIA DELL’INTOLLERANZA.

OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.

OLOCAUSTO: QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO.

HITLER, STALIN E GLI ALTRI. IL GIORNO DELLA MEMORIA....PERDUTA!

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

QUANTI GALLI NELLA LEGA?

LA GARA ALL'INTOLLERANZA. LA LEGA INTOLLERANTE SE LE CERCA E GLI INTOLLERANTI SINISTRI AGGREDISCONO.

IN LEGA TUTTI SI LEGALIZZANO.

LA LEGA SUL LASTRICO PER LADROCINIO?

BESTIARIO NAZIONALE.

IL RAZZISMO E’ DI SINISTRA.

ITALIANI. RAZZISMO ED ESASPERAZIONE.

C’E’ SEMPRE UN TERRONE, PIU’ TERRONE DI UN ALTRO.

E.....SE PER SENTENZA NON SI E’ PIU’ MASCHILISTA?

IPOCRISIA E POLITICALLY CORRECT.

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.

VIOLENZA E SCHIAVITU’: QUELLO CHE NON SI VEDE.

LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.

GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

LA FAVELA IN RIVA AL TEVERE.

GLI ZINGARI SONO I VERI PADRONI DI ROMA. E NON SOLO.

PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.

LEGA NORD: IL MOSTRO C’E’ SOLO SE CONVIENE.

IMMIGRATI. SEI MITI RAZZISTI DA SFATARE.

ITALIANI AFFAMATI ED IL CIBO PAGATO DALLO STATO E BUTTATO VIA DAI PROFUGHI.

PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?

I BOSSI ED I LEGHISTI. LADRI A CHI?

STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.

IL RAZZISMO HA RADICI NELLA POLITICA, NELLA CULTURA E NELLA SCIENZA.

LA POLITICA ED IL RAZZISMO. DIVERSI SI', MA NON MIGLIORI.

MAFIA E SPAGHETTI. L’ITALIANO VISTO DAGLI ALTRI. MAFIA ED IDEOLOGIE, AUTOLESIONISMO ALL’ITALIANA. DELLA SERIE: FACCIAMOCI DEL MALE.

ITALIA TERRA DI EMIGRAZIONE.

GLI ITALIANI SONO TUTTI STRANIERI.

ITALIANI. LE ORIGINI ETNICHE.

ITALIANI CON IL SANGUE MULTIETNICO NON HANNO RAZZA NE’ PATRIA E PUR SONO RAZZISTI.

PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.

ITALIANI MIGLIORI DI CHI? PARLIAMO DI ANTROPOLOGIA: CHI E COSA SIAMO.

ITALIA RAZZISTA? QUANDO SONO I PENULTIMI A VIETARE L’INGRESSO AGLI ULTIMI.

QUANDO LA TV CRIMINALIZZA UN TERRITORIO.

ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.

POLENTONIA, PADANIA (O PATANIA), BARBARIA CONTRO TERRONIA.

I RAZZISTI NORDISTI.

QUEL NORD CHE HA EDUCATO IL SUD ALL’INFERIORITA’.

ROMA COME IL NORD RAZZISTA.

IL DECALOGO PER I MERIDIONALI CHE EMIGRANO AL NORD.

L’ITALICA GUERRA CIVILE: CHI E’ PIU’ RAZZISTA?

RAZZISMO. NAPOLI AL CENTRO DELL’ATTENZIONE.

RAZZISMO E NORD ITALIA. BORGHEZIO E CALDEROLI. LA LEGA NORD PADANIA E L’ITALIA SETTENTRIONALE.

LEGA NORD: LA GARA A CHI E' PIU' RAZZISTA.

RAZZISMO TRA ITALIANI DEL NORD E DEL SUD.

LA LEGA NORD PADANIA RAZZISTA CHE VUOL ZITTIRE.

LA LEGA SECESSIONISTA.

“TERRONI FUORI DAI MARONI”.

RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.

LE “CAZZATE” DI BOSSI.

IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.

PREGHIERE ED INNI PADANI E RAZZISTI.

IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

  

 

INTRODUZIONE.

Il razzismo anti-italiano nella stampa europea, scrive il 29 maggio 2018 Mister Totalitarismo. In queste settimane la stampa estera si è scatenata nel dipingere gli italiani come i soliti buffoni, anche se i motteggi che rimangono confinati nell’ambito della satira potrebbero pure essere tollerati (a patto che sia rispettato il principio di reciprocità): mi riferisco, per esempio, alla vignetta dell’Economist che ritrae Conte nelle vesti Arlecchino servitore di due padroni, oppure a quella della “Süddeutsche Zeitung”, decisamente meno riuscita, che trasforma Di Maio e Salvino nei dottori “Peste e Colera”. In effetti è nota la mancanza di senso d’umorismo da parte dei tedeschi (nonostante loro si credano divertentissimi): un altro esempio è la copertina dell’inserto settimanale della “FAZ”, che mostra un’Ape furgonata colorata di verde bianco e rosso che si lancia in un burrone, mentre il guidatore fa il gesto dell’ombrello. Al di là dello stucchevole titolo (“Mamma Mia!”) e della qualifica di Sorgenkind (“monello”), termine che è stato più volte chiesto ai tedeschi di non utilizzare verso gli altri Paesi europei, è quel gestaccio compiuto da braccia pelose che appare già un sintomo di una incipiente disumanizzazione, la stessa messa in atto, sempre “scherzosamente”, nei confronti dei greci (vedi questa vignetta del 2015 dal quotidiano olandese “de Volkskrant”). Almeno a parole, siamo già arrivati ai limiti della soglia di sicurezza con il vergognoso editoriale di Jan Fleischhauer per lo “Spiegel” (Die Schnorrer von Rom, 24 maggio 2018; traduzione italiana), che lancia sgradevolissime accuse collettive contro gli italiani: “barboni”, “scrocconi” (Schnorrer), “violenti”, “fannulloni” ed “evasori”. La reazione delle nostre istituzioni è stata tutt’altro che immediata: in maniera quasi beffarda, il Presidente della Repubblica ha trovato occasione di protestare (nel modo più sommesso possibile) soltanto dopo esser venuto incontro ai desiderata di Berlino con l’affossamento del governo Lega-M5S (non a caso lo stesso “Spiegel”, insieme ad altre testate tedesche, ha poi celebrato la decisione di Mattarella definendola “coraggiosa e determinata”). Dopo il “via libera” dall’alto, anche l’ambasciatore italiano ha infine fatto sapere alla redazione dello storico settimanale amburghese che «la dialettica politica appartiene alla libertà di stampa e al discorso democratico. Ciò che lascia un retrogusto pessimo è il modo in cui questa critica è indirizzata ad un intero popolo». Perlomeno una reazione a livello istituzionale, per quanto contenuta e tardiva, c’è stata: diverso il caso della stampa italiana, che al di là di una generica indignazione (talvolta ipocrita, perché sappiamo che c’è chi condivide “idealmente” i contenuti di certi articoli e vignette), non ha però ribattuto alle sparate razziste dello “Spiegel”, le quali, proprio a causa del nostro Selbsthass, potrebbero addirittura apparire credibili a una parte dell’opinione pubblica. A tal proposito, segnaliamo la lodevole eccezione dell’Agenzia Giornalistica Italia, che si è almeno presa qualche minuto per smentire punto su punto le accuse del “brillante pubblicista”: gli italiani lavorano più dei tedeschi; l’Italia è un contributore netto dell’Ue; la Germania ha un debito esterno più alto del nostro; le famiglie italiane sono meno indebitate di quelle tedesche; la nostra ricchezza totale è quasi il doppio del nostro debito pubblico. Del resto, come dicevamo, lo squallore dei tedeschi nel campo dell’umorismo è un dato di fatto, e loro stessi in fondo ne sono consapevoli: per esempio, nel suo celebre romanzo Lui è tornato, lo scrittore Timur Vermes ritrae un Adolf Hitler redivivo che si fa grasse risate con le barzellette della “Bild”. «Afferrai una copia della “Bild” e cominciai a sfogliarla. Quel giornale divulgava una piacevole mistura di collera popolare e malignità. Le pagine di apertura erano dedicate alle balordaggini politiche: ne veniva fuori l’immagine di una matrona cancelliera ingenuotta ma in fondo mansueta che camminava impacciata tra un’orda di nani che cercavano di ostacolarla. Il quotidiano rivelava, inoltre, l’assurdità di ogni decisione cosiddetta “legittimata”. Quel magnifico rotocalco scandalistico, per esempio, riteneva l’idea di un’unione europea ripugnante. Ma più di ogni altra cosa ne apprezzai i metodi raffinati. Per esempio: nella colonna umoristica, tra le storielle sulle suocere e i mariti cornuti, era piazzata senza dare nell’occhio la seguente barzelletta: “Un portoghese, un greco e uno spagnolo vanno in un bordello. Chi paga? La Germania”. Era di grande effetto. Streicher ci avrebbe naturalmente aggiunto un disegno raffigurante quei tre meridionali sudati e non rasati intenti a palpeggiare con le loro luride dita una ragazzina innocente, mentre l’onesto lavoratore tedesco sgobbava – ma in fondo, in questo caso specifico, una tale vignetta sarebbe stata d’impaccio: avrebbe tolto allo scherzo la sua intelligente discrezione». C’è da notare che la barzelletta sugli europei del Sud che vanno in un bordello è stata effettivamente pubblicata dalla “Bild” (Gehen ein Portugiese, ein Grieche und ein Spanier in den Puff. Wer zahlt? Deutschland!), il che è tutt’altro che sorprendente, ma resta comunque inquietante. Quindi, per quanta tolleranza si possa usare nei confronti della mestizia teutonica, sarà sempre necessario mantenere l’attenzione alta nei confronti del problema e tenere sul chi vive la diplomazia, in modo da avere la possibilità di una reazione immediata, soprattutto per scongiurare la deriva stile Der ewige Jude che purtroppo contraddistingue tradizionalmente la satira tedesca. Peraltro non è affatto detto che sia necessario sobillare chissà quale istinto sciovinistico per dar forza alle proprie rimostranze: basterà richiamarsi all’europeismo e sfruttarlo, almeno per una volta, a favore dell’Italia. Perché, al di là delle polemiche attuali, il paradosso è sempre più evidente: quale foglio europeo si permetterebbe mai di lanciare accuse collettive (per giunta utilizzando quei toni) verso un Paese africano, arabo o asiatico? Persino nei confronti della Turchia, altra bestia nera dell’aggressivo giornalismo tedesco (piuttosto indulgente nei confronti dei propri Schulden), esiste comunque l’alibi del “Sultano” a impedire la demonizzazione di un intero popolo. Non vorremo dedurre da tutto questo che in Europa l’unico razzismo consentito sia quello nei confronti degli stessi europei.

La vignetta razzista anti-italiana del 1888, scrive lunedì 15 giugno 2015 "Il Post". Fu pubblicata da un giornale americano e racconta storie e pregiudizi che ci sono familiari. Sta girando in questi giorni sui social network una vignetta razzista e anti-italiana originariamente pubblicata sul quotidiano di New Orleans The Mascot nel 1888. La vignetta si intitola “Per quanto riguarda gli italiani” e mostra alcune scene di vita degli immigrati italiani a New Orleans e alcuni consigli su come liberarsi di loro: arrestandoli e uccidendoli. Nella parte superiore della vignetta ci sono tre immagini e tre didascalie: si vedono delle persone sedute su un marciapiede, descritte come “una seccatura per i pedoni”; un gruppo di uomini che dormono in una stanza sovraffollata, descritta come “le loro camere da letto”, e infine un gruppo di uomini che litigano e combattono con coltelli e bastoni, “un rilassante passatempo pomeridiano”. La parte inferiore della vignetta, invece, contiene due immagini più crude: una con degli uomini in una gabbia che altre due persone stanno calando in mare da un molo, e una con quelli che sembrano dei poliziotti armati di manganello che arrestano gli italiani e li chiudono in un carro: la prima immagine è descritta come “il modo di liberarsi di loro”, la seconda come “il modo di arrestarli”. Durante la seconda metà del Diciannovesimo secolo circa 10 milioni di italiani emigrarono verso gli Stati Uniti da tutte le regioni d’Italia. In particolare a New Orleans arrivarono moltissimi siciliani, grazie a una rotta navale che collegava Palermo e New Orleans. Molte delle persone che viaggiavano verso gli Stati Uniti lo facevano con l’idea di lavorare per qualche anno prima di tornare in Italia dalle loro famiglie e questo fece sì che per molti anni le comunità di immigrati italiani fossero particolarmente chiuse e isolate: imparare la lingua e integrarsi nella cultura statunitense non era una loro priorità. Come in molte altre città degli Stati Uniti dove arrivarono immigrati italiani, anche a New Orleans si sistemarono in un quartiere della città che venne soprannominato “Little Palermo”. Come testimonia la vignetta del The Mascot, il sentimento anti-italiano era piuttosto diffuso nella popolazione locale, tanto da essere trattato apertamente dai giornali, che allora erano lontani come idea dai giornali attuali e più apertamente incentrati sulle opinioni e le argomentazioni di parte. Proprio a New Orleans nel 1891 ci fu uno dei più gravi episodi di violenza razzista contro la comunità italiana: il più grave linciaggio della storia degli Stati Uniti. Nel 1890 il capo della polizia della città David Hennessy era stato ucciso e la polizia aveva arrestato diversi membri della comunità italiana accusandoli dell’omicidio. Qualche mese dopo, nel 1891, un processo stabilì l’innocenza degli imputati e l’infondatezza delle accuse. La sentenza fu accolta con grande rabbia da una parte della popolazione di New Orleans, che il giorno dopo si radunò per “porre rimedio agli errori della giustizia”, come diceva un annuncio pubblicato su un giornale locale il 13 marzo del 1891. Il 14 marzo circa 3.000 persone si radunarono a Canal Street e la folla linciò 11 persone di origine italiana, nessuna delle quali legata al processo per l’omicidio di David Hennessy.

Ci definiva mafiosi e scrocconi. Bufera fake news sullo Spiegel. Uno dei più conosciuti e pluri-premiati reporter del settimanale tedesco è accusato di aver inventato molti dei suoi scoop, scrive Bartolo Dall'Orto, Mercoledì 19/12/2018, su "Il Giornale". Hanno definito l'Italia in ogni modo, facendole la morale. Non si contano le copertine dedicate agli italiani "mafiosi", "scrocconi", "aggressivi" e "ricattatori", rappresentati come una pistola adagiata su un piatto di spaghetti o come tanti Schettino. Ma stavolta a finire nella bufera c'è la redazione dell'autorevolissimo e riverito settimanale tedesco "Der Spiegel": uno dei loro più celebri e pluri-premiati reporter, infatti, è accusato di aver inventato molti dei suoi scoop, di aver creato dal nulla fonti che non esistevano e protagonisti che nulla c'entravano con le storie raccontate. Si tratta di un vero e proprio terremoto per la stampa tedesca. Un caso clamoroso dal suo punto di vista. Il Der Spiegel, infatti, è noto per le procedure di controllo degli articoli e il "fact checking" che realizza sulle notizie (ha un team specializzato per questo). Qualcosa però non deve aver funzionato. È stato lo stesso giornale tedesco, sul suo sito, a rivelare quello che un redattore non ha esitato a chiamare "un lutto di famiglia". Per la redazione si tratta del "punto più basso della nostra storia lunga oltre settant'anni". A finire nella bufera è il trentatreenne Claas Relotius, che avrebbe ammesso le sue colpe ed è stato licenziato su due piedi. Non si tratta di un redattore di secondo piano, ma uno dei reporter di punta. Sette anni in redazione, la maggior parte da freelance e da poco più di un anno come redattore assunto. Uno dei più in vista. Per i suoi reportage ha vinto tutti i più importanti premi giornalistici del Paese: si ricordano il Premio per il reporter dell'anno, il Premio Peter Scholl-Latour senza contare la nomina di "Journalist of the Year" della Cnn e dell'European Press Prize. Nel suo curriculum il giornalista ha scritto anche per l'edizione tedesca del Financial Times, per la Zeit on line, per il domenicale della Frankfurter Allgemeine. Per la Zeit ha pubblicato (nel 2012) anche un reportage sui "profughi che salvano Riace dal declino" (esatto, quella di Mimmo Lucano). I dubbi sul suo operato sono sorti quando cominciarono ad arrivare mail dall'Arizona su un reportage scritto da Relotius. Molti si chiedevano come avesse fatto a scrivere senza aver contattato fonti o raccolto dati in zona. E così un collega ha iniziato a indagare su di lui. Alla fine, però, il giornalista ha confessato. Almeno 14 suoi articoli avrebbero citazioni fasulle, dettagli inventati e luoghi fittizi. Una commissione apposita di interni e esterni ha valutato così i suoi lavori e alla fine si è arrivati al licenziamento. "Questa rivelazione - scrive ancora lo Spiegel in un grande articolo pubblicato sulla homepage del proprio sito - è uno shock per la redazione, per la casa editrice e per tutti i suoi collaboratori".

Pregiudizio contro gli italiani. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il pregiudizio contro gli italiani (a volte antitalianismo o, più raramente, italofobia) è un fenomeno di discriminazione etnica contro gli italiani e l'Italia. Il contrario è l'italofilia. Il fenomeno è attestato soprattutto nei paesi del Nordamerica (Stati Uniti d'America, Canada), dell'Europa centro-settentrionale (Germania, Svezia, Austria, Svizzera, Belgio, Francia, Regno Unito) e balcanici (Slovenia e una parte della Croazia). Le cause sono attribuite all'emigrazione italiana di massa nel XIX e XX secolo, a eventi storici, soprattutto di natura bellica, o a ostilità nazionalistiche ed etniche.

Casistica. Nel 1861 la paventata francesizzazione forzata causò l'esodo nizzardo e in risposta a ciò si verificarono i vespri nizzardi.

Nel linciaggio di New Orleans (1891) furono linciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati di aver ucciso il capo della polizia urbana.

Il massacro di Aigues-Mortes, nell'agosto del 1893, fu scatenato da un conflitto tra operai francesi e italiani (soprattutto piemontesi, ma anche lombardi, liguri, toscani) impiegati nelle saline di Peccais, che si trasformò in un vero e proprio eccidio con morti in numero ancora non accertato e un centinaio di feriti tra i lavoratori italiani. La tensione che ne seguì fece sfiorare la guerra tra i due Paesi.

Dopo l'assassinio con un pugnale, nel 1894 del presidente della Repubblica francese Marie François Sadi Carnot da parte dell'anarchico Sante Caserio, in Francia si ebbero numerosi atti di violenza ed intolleranza contro gli immigrati italiani.

A Tallulah (Louisiana), nel luglio del 1899 furono linciati 5 italiani (tre fratelli e altri due estranei alla vicenda), accusati di aver ferito il dottore del paese dopo che questi aveva ucciso una capra appartenente ai tre fratelli.

Nel periodo 1918-20 due italiani furono assassinati durante gli incidenti di Spalato.

In un tribunale dell'Alabama, nel 1922 (processo Rollins versus Alabama), una donna italiana venne dichiarata "non appartenente alla razza bianca", criterio sul quale si fondò il giudizio della corte.

Durante il processo agli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, avvenuto a Boston nel 1927, il pregiudizio contro gli immigrati (italiani) emerse con chiarezza e contribuì, pur non essendo il pregiudizio decisivo, alla loro condanna a morte.

A Kalgoorlie, in Australia Occidentale, nel 1934 le case abitate dai provenienti dal Sud Europa vennero incendiate e gli italiani, gli jugoslavi e i greci dovettero scappare dalla città.

Nel periodo 1943-70, in Istria e Dalmazia furono costretti all'esilio più di 300.000 italiani e ne furono assassinati tra i 15.000 e i 30.000.

Il sentimento anti-italiano in Svizzera si manifestò nel 1971 con l'uccisione dell'immigrato italiano Alfredo Zardini.

Il presidente statunitense Richard Nixon, durante la sua visita in Italia all'inizio degli anni settanta, dichiarò che gli italiani non solo si comportavano in modo diverso dagli altri europei, ma avevano anche un "odore" diverso.

La copertina della rivista tedesca Der Spiegel nel 1977, il periodo più acuto degli anni di piombo, mostrava la foto di un piatto di spaghetti conditi con sopra una pistola, in riferimento alla presenza del terrorismo in Italia. Fu replicata nel 2006, in occasione dei mondiali di calcio: l'intento era ironico, ma con sfumature razziste, vista la decontestualizzazione dell'immagine (originariamente riferita a fatti di violenza).

Nel 1990 all'appassionato di golf John A. Segalla, ricco imprenditore dello Stato del Connecticut, venne negata l'iscrizione a un prestigioso ed esclusivo circolo del golf a causa del cognome italiano. Per tutta risposta si costruì un proprio campo da golf nel 1993.

In una rivista giapponese del 2006 è apparsa una classifica intitolata Itaria-jin no ya-na tokoro besto ten (Le dieci cose peggiori degli italiani), che li descrive come bugiardi, ritardatari e irrispettosi delle regole.

Nel 2006 il quotidiano tedesco Die Zeit pubblica sulla versione on-line un articolo sulla qualificazione dell'Italia (a spese della Germania) alla finale dei Mondiali di calcio del 2006, titolandolo Mafia in Finale; l'intento è satirico, ma viene considerato offensivo e di cattivo gusto.

Il 10 ottobre 2007, in Germania, il Tribunale di Bückeburg ha ridotto da 8 a 6 anni di carcere la pena di un cameriere italiano riconosciuto colpevole di stupro, sequestro di persona e violenza di gruppo verso la sua ragazza. Nel formulare la sentenza si tenne anche in considerazione la sua origine sarda: "Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. È sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante, ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante".

Nel 2008, in Germania, la catena di negozi Media Markt ha commissionato una serie di spot pubblicitari che hanno per protagonista un italiano vestito come un buzzurro (canottiera con stemma tricolore, occhiali da sole sulla fronte, catena d'oro al collo, baffetti neri e parlata maccheronica), che si comporta come un truffatore sempre pronto a turlupinare il prossimo compiacendosi dei suoi biechi sotterfugi. La macchietta appare molto simile al personaggio di Alberto Bertorelli, protagonista di una vecchia sit-com della BBC.

Nel 2009 nei canali televisivi olandesi è iniziato a girare uno spot che, per spronare i cittadini a studiare le lingue, mostrava un uomo olandese insultare tre pizzaioli italiani chiamandoli "pagliacci di pasta" ("pastapippo"), giacché li aveva sentiti mentre facevano apprezzamenti in italiano sulla figlia.

Nel 2012, a proposito del naufragio della Costa Concordia, il settimanale tedesco Der Spiegel sembra assumere Francesco Schettino a simbolo del modo di comportarsi degli italiani, provocando una replica di Alessandro Sallusti sul Giornale. Tuttavia si trattò di un fraintendimento, dovuto a una errata traduzione dell'articolo, che anzi invitava a non generalizzare tali eventi di cronaca.

Tipologia di termini dispregiativi.

Termini tipici:

Breshkagji (albanese, dalla parola breshka (tartaruga) pigri);

Schinkebròtli (svizzero tedesco, panino al prosciutto);

Garlics (dall'inglese garlic, aglio);

Pepperoni (Stati Uniti d'America);

Maccaronì (negli anni cinquanta e sessanta in Belgio contro i minatori italiani, anche in Francia);

Spaghettivreter (mangia spaghetti) (Belgio, Olanda);

Itak (Belgio);

italiohn (Belgio);

pizzavreter (Belgio, Olanda);

pizzaman pronunciato pizamann (Olanda);

italiaantje piccolo italiano, per via della statura più piccola rispetto all'etnia nordica (Belgio, Olanda);

Los Polpettoes, Pizzagang, Spaghetti, Espaguetis (Spagna);

Spaghettifresser (mangiaspaghetti, nei paesi di lingua tedesca, il verbo fressen si usa per gli animali);

Pastar (da pronunciare "pashtar", parola croata che significa Colui che mangia la pasta);

Makaroniarz (polacco, un appassionato della pasta, makaron è la pasta);

Makaronarji/Makaroni (Slovenia);

Broccoli (storpiatura di Brooklyn, così pronunciato dagli emigranti italiani che arrivavano nel porto di New York tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX);

Pastaskole (Minoranze Anglo- Danesi in Italia, scuole pasta, chiaro riferimento al livello scolastico più basso e a sottolineare la differenza culturale).

Termini riferiti all'onomastica:

Pepino: in Albania;

Dago: negli USA è usato per tutti i popoli "latini". Deriva dal nome proprio Diego o forse dalla parola dago (coltello); "Dago, where's your monkey?" veniva rivolta agli italiani, identificati genericamente come quelli che chiedevano l'elemosina con l'organino e la scimmietta che ballava;

Gino/Gina (Canada);

Guido/Guidette (USA);

Tony (negli USA con l'intento di evidenziare il comunissimo nome italiano e fare allo stesso tempo un gioco di parole, Antonio = Tony = To NY ovvero tradotto A NY = colui che viene - sbarca - a New York);

Alfonso (Lituania, sinonimo di racconta bugie. Raccontare frottole può essere espresso con "makaronų kabinti");

Tano (da "napolitano", in Argentina e Uruguay);

Tulio/Tulia (Slovenia).

Termini riferiti alle abitudini linguistiche:

Digic (croato, derivato dall'italiano dire attraverso il dialettale giuliano-veneto digo);

Digó (gergo ungherese, derivato dall'italiano dico attraverso la pronuncia, anche meridionale, digo);

Goombah (area di New York, dall'italiano compare, attraverso il dialettale cumpà);

Minghiaweisch (dal dialettale siciliano minchia e dallo svizzero tedesco weisch? (capisci?), usata in Ticino per definire gli italiani di seconda generazione presenti in Svizzera tedesca, evidenziandone la difficoltà a parlare in italiano senza influenze dialettali e senza influenze tedesche);

Paisà (area di New York, derivato dall'italiano paesano, attraverso il dialettale paisà);

Rital (francese, da franco-italien: evidenziava la difficoltà degli immigrati a pronunciare la r francese);

Walsche e Sentas (Alto Adige, derivato dalla diffusa abitudine degli italiani di rivolgersi all'interlocutore con l'espressione "senta", percepita come uno sgradevole imperativo);

Wop (tra i più usati negli USA, è la storpiatura anglosassone del dialettale napoletano guappo; per altri è acronimo di without papers/passport, senza documenti);

Zabar (dal croato zaba, rana: fa riferimento alla pronuncia degli abitanti del nord Italia, che viene accostata ai suoni emessi dalle rane).

Termini riferiti a pregiudizi etnici:

Greaseball (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, letteralmente palla di unto): deriva dall'abitudine degli abitanti del sud Europa di usare brillantina per capelli e da un pregiudizio sulle condizioni poco igieniche;

Guinea (dalla falsa credenza che gli italiani siano in parte africani, non tanto per la fisionomia di alcuni abitanti ma per il presunto minore sviluppo economico se paragonato a quello dei paesi di lingua inglese. È diminutivo di Guinea Negro, usato negli anni '50/'60 negli Stati Uniti);

Mozzarellanigger (mozzarella negro, riferimento sia al consumo di mozzarella che alla percezione dell'Italia come paese povero, al pari dell'Africa);

Wog (utilizzato, soprattutto in Australia, contro le popolazioni dell'Europa meridionale e del Mediterraneo);

Termini riferiti alla storia:

Katzelmacher, Katzener: deriva dall'accusa di tradimento lanciata dall'Impero austro-ungarico al Regno d'Italia in occasione della prima guerra mondiale. L'Italia nel 1914 si rifiutò di entrare in guerra al fianco dell'Austria, a cui era legata dalla Triplice Alleanza; poi nel 1915 le dichiarò guerra, schierandosi dalla parte dei suoi avversari della Triplice Intesa. Dopo la guerra il Regno d'italia incorporò terre abitate prevalentemente da popolazioni di lingua tedesca, come l'Alto Adige. Katzelmacher deriva da "fattori di gattini", nel senso della prolificità familiare, oppure da "venditori di cucchiai", per le attività dei commercianti ambulanti transfrontalieri. I due termini sono diffusi in tutti i paesi di lingua tedesca e nelle aree della Repubblica italiana che in passato erano austriache. Il termine si diffuse rapidamente nell'Impero austro-ungarico grazie all'opera satirica del disegnatore Arpad Schmidhammer al suo libello "Maledetto Katzelmacher", che raffigura la caricatura di un bandito meridionale;

Verräter (dal tedesco traditori), generalizzazione attribuita agli italiani già nella prima guerra mondiale e ancora di più dopo l'Armistizio di Cassibile (8 settembre 1943). Diffusa in Germania e in alcune zone dell'Austria;

Taliani, talijans, 'talianat, tajam, tainel: diffusi nelle "province irredente", in particolare nel litorale adriatico del Friuli e dell'area slovena, e nel Trentino;

Talianots: termine di lingua friulana traducibile con italianotto, chiara definizione di scherno per definire il classico stereotipo italiano;

Taliani de legno (diffuso nel litorale adriatico e in particolare a Trieste, ma anche in Istria e nell'ex Friuli austriaco. L'origine è attribuita a Wilhelm von Tegetthoff, ammiraglio austriaco vincitore della battaglia di Lissa, che avrebbe commentato: «Omini de fero su barche de legno ga batù omini de legno su barche de fero». Tuttavia il motto fa parte della tradizione orale del nordest adriatico, ma la sua origine è tutt'altro che certa.

Lianta de gnole: espressione usata a Trieste in particolare, che deriva da un gergo locale che inverte le sillabe per rendersi poco comprensibile, ed in questo caso ha invertito il termine del capitolo precedente, si usa in genere nei confronti degli italiani che accentuano caratteristiche a loro attribuite dall'immaginario collettivo, come pretendere spaghetti in Scandinavia, invocare la mamma, dire «lei non sa chi sono io», ecc.;

Regnicoli: diffuso in tutte le "terre irredente", deriva dagli immigrati provenienti dal Regno d'Italia, con residenza in Austria, ma senza cittadinanza. Il termine veniva usato anche sulla stampa italiana, non era spregiativo ma lo divenne dopo il 1918. Ampiamente citato da molte fonti, compreso L'Italia dei cent'anni di Comandini;

Cabibi: usato nel litorale adriatico, sembra che derivi dal film Le notti di Cabiria. Indica gli italiani meridionali ed alcune volte, per estensione, tutti gli italiani. Citato nei dizionari vernacolari;

Cifarielli, abbreviato CIF: usato a Trieste, era un sinonimo di cabibo e rivolto ai regnicoli. Deriva da un fatto di cronaca nera che fece scalpore avvenuto nel 1905 a Napoli: l'omicidio d'onore commesso dallo scultore Cifariello a Napoli. I delitti d'onore erano sconosciuti ai codici penali mitteleuropei. Il termine fu usato anche dall'irredentista Attilio Tamaro nel 1919 e dalla polizia in un rapporto prefettizio, per manifestare quanto fosse diffuso in città, dopo l'arrivo degli italiani, e di come alcuni loro costumi fossero poco accetti dalla popolazione[33]. Citato anche in Filosofia Quotidiana di Manlio Cecovini e in alcuni dizionari vernacolari.

Marinielli: usato a Trieste, e in particolar modo sul Carso e nella comunità slovena, deriva dal cognome di un soldato italiano che per primo, si dice, impalmò una donna di lingua madre slovena. Si riferisce al fascino mediterraneo che farebbe presa sulle donne nordiche, poco abituate dai loro uomini alle attenzioni e alle galanterie meridionali. Il termine nasconde un doppio senso, "el mariniel ve frega", riferito alla presunta attitudine all'abbandono dei seduttori mediterranei, una volta raggiunto il loro scopo;

Pigne, per estensione pignate (pentole): usato a Trieste, era un riferimento allo stemma d'Italia che assomigliava ad una pigna;

Scafuri: usato a Trieste e in Istria, deriva dallo sloveno cefurj, termine spregiativo con il quale si indicano i popoli del meridione della ex Jugoslavia, per estensione applicato anche agli italiani.

Altri termini:

Mafiamann e Mafiosi (singolare) o Mafioso: (Germania);

Itaka (Germania da Italienischer Kamerad) ironico ricordo della Seconda Guerra Mondiale;

Carcamano (Brasile, significa furbone, truffatore): deriva dall'atto di calcare la mano sul piatto della bilancia barando sul peso, ma può indicare una persona morta di fame, o zampe di vacca nel senso di persona tirchia, che resta con le mani chiuse e non spende;

Tschinggali (Svizzera, fine Ottocento): deriva dalla trascrizione del suono cinq!, usato nel gioco della morra, diffusissima tra gli italiani. Nello spettacolo teatrale Italiani Cìncali si specula sul fatto che Tschinggali possa essere una storpiatura di Zingari, cioè vagabondi. In Svizzera erano così definiti gli italiani lavoratori, con intento chiaramente dispregiativo e allusivo alla loro condizione di "vagabondi, ladri e poco igienici". La popolazione Romanì è vittima dello stesso pregiudizio;

Magnaramina (in Ticino, significa rosicchia-reticolato; ma ramina e anche pentola in veneto): usato in particolare nei confronti dei lavoratori frontalieri;

Shitalian (parola macedonia che fonde le parole inglesi Italian, italiano, e shit, merda);

Italiashka (russo, significa "italianaccio");

Tanos (Argentina): detto per le navi che arrivavano nel porto di Buenos Aires in maggioranza da Napoli e quindi abbreviativo di napolitanos;

Babi (molto spregiativo, usato nella regione di Marsiglia e in generale nelle Bouches-du-Rhône): deriva dall'occitano e significa, in prima istanza, rospo.

Le irragionevoli ragioni del razzismo anti-italiano. Perché gli italiani si lasciano insultare senza reagire? Scrive Regina di Giove il 30 agosto 2013. E’ opinione consolidata in ogni parte del mondo, in primo luogo in Italia, che quello italiano sia il popolo più corrotto e corruttibile del mondo.  Ed è opinione altrettanto consolidata che all’origine di tale supposta, spiccata inclinazione degli italiani alla corruzione e alla delinquenza organizzata (italiani = mafiosi) ci sia la religione cattolica. Naturalmente, questa consolidata opinione affonda le radici nel protestantesimo, che notoriamente ha orrore di tutti i sacramenti, specialmente quello della confessione. “Poiché sono convinti che basti confessarsi per stare a posto con la coscienza, i cattolici fanno le peggiori porcherie”. Credo non ci sia bisogno di spiegare quanto sia errata questa visione del cattolicesimo in generale e del sacramento della confessione in particolare.  Oltre all’anti-cattolicesimo protestante, dietro il moderno anti-italianismo c’è il razzismo biologico.  In breve, secondo il razzismo biologico la presunta spiccata tendenza alla corruzione degli gli italiani avrebbe cause genetiche. Dopo che l’illuminismo aveva ridotto l’uomo a un essere puramente biologico, interamente formato dall’ambiente, la pseudo-scienza razzista, il ritratto del cui infame fondatore appare tuttora sulle banconote inglesi (Charles Darwin), suddivise l’umanità in razze superiori e inferiori. Secondo questa pseudo-scienza, ancora molto cara a inglesi e tedeschi, i nordici dai capelli biondi e occhi azzurri sarebbero uomini a tutti gli effetti, mentre i “negri” sarebbero metà uomini e metà scimmie (leggete L’origine dell’uomo di quel porco di Darwin, se non ci credete). E gli italiani? Come tutti i mediterranei, gli italiani sarebbero a metà strada fra i nordici e i “negri”: in sostanza sarebbero per un quarto scimmie.  Quell’artista fallito di Monaco, quello con i baffetti, riuscì sedurre il popolo tedesco solo perché il popolo tedesco già aveva accolto da parecchi decenni le deliranti idee razziste, a dire il vero, i tedeschi quelle idee non le hanno mai abbandonate del tutto  I tedeschi hanno un urgente bisogno di una terapia psichiatrica intensa per guarire da un patologico complesso di superiorità, che francamente li rende ridicoli, dal momento che la Germania negli ultimi decenni non ha dato contributi significativi né alla scienza né all’arte, a parte un paio di film di Wim Wenders. Almeno noi “piccoli italiani” fino a poco tempo fa abbiamo avuto decine di geni del cinema.  E per pudore non mi soffermerò sul fatto che le donne di razza superiore manifestano una spiccata tendenza a darla ehm… concedersi con una velocità che sfida le leggi della fisica agli inferiori maschi mediterranei. A dire il vero, il razzismo eugenetico con sfumature anti-italiane non era e non è tuttora popolare solo in Germania, ma anche in Gran Bretagna, Francia, paesi scandinavi e tutti gli altri paesi del nord. Se non teniamo conto della sopravvivenza di questa cultura razzista, non riusciamo a capire perché oggi – nonostante l’Italia sia ancora la settima potenza industriale mondiale – gli italiani siano trattati con disprezzo nei suddetti paesi. Non dimentichiamoci mai della campagna derisoria contro Berlusconi che ha infiammato i media di tutti i paesi occidentali fino a poco tempo fa. Non dimentichiamoci mai delle risatine di Merkel e di Sarkozy. Credete che agli inglesi, ai francesi, ai tedeschi e agli americani interessi qualcosa della politica di Berlusconi? Assolutamente no: non sanno neppure se è di destra o di sinistra. A noi sembrava che stessero insultando unicamente il politico Berlusconi, in realtà stavano insultando il popolo di cui è stato fino a poco tempo fa il sommo rappresentante. Hanno insultato Berlusconi per insultare gli italiani. Mi dicono che oggi un italiano non può camminare per strada a Parigi o Berlino o Londra senza essere deriso dagli autoctoni, che si credono tuttora geneticamente superiori. Perché ci lasciamo insultare? Ma torniamo alla corruzione e all’evasione fiscale. Ebbene, l’idea che gli italiani siano più corrotti degli altri è la più grande, la più spudorata menzogna di tutti i tempi. La corruzione non ha né cause genetiche né cause religiose: ha una sola causa, che si chiama peccato originale. Ora, non c’è massima più vera di questa: “L’occasione fa l’uomo ladro”. Parafrasando questa massima, “L’occasione fa l’uomo corrotto”.  Ebbene, molta burocrazia, molte tasse e molta spesa pubblica sono precisamente occasioni che fanno l’uomo corrotto. I grandi liberali della scuola austriaca (Mises, Hayek) lo dicevano già negli anni Venti che la spesa pubblica alimenta la corruzione, la pigrizia, gli sprechi, il parassitismo. Insomma, gli austriaci hanno detto quello che i razzisti non volevano sentirsi dire, e cioè che i “biondi” non hanno meno probabilità dei “mori” di cedere alla tentazione del furto e della corruzione. E oggi la storia dà loro ragione: il parassitismo, la corruzione, gli sprechi hanno prodotto debiti insostenibili in quasi tutti i paesi occidentali. E non è che la Germania sia messa tanto meglio dell’Italia dal punto di vista economico: sta solo leggermente meglio. Ma dallo stare leggermente meglio di un malato grave allo stare bene ce ne corre. La verità che i giornali italiani non dicono è che sprechi, parassitismi e corruzione proliferano anche nei paesi del nord. Tuttavia, i giornalisti dei paesi del nord nascondono con cura all’opinione pubblica internazionale i panni sporchi dei loro paesi per non danneggiarne l’immagine. Noi invece laviamo i panni sporchi in pubblico e quasi supplichiamo gli inglesi, i tedeschi, i francesi e gli americani di insultarci. Ma chi conosce bene la politica interna degli altri paesi, sa bene che tutti i paesi occidentali sono pieni di corrotti e corruttori. Anche gli Usa. Gli americani onesti guardano a Washington come a una sentina di corruzione. Potrei fare tantissimi esempi. Se è vero che in Italia proliferano i fasi invalidi, nella “civilissima” gran Bretagna si moltiplicano senza controllo le ragazze madri. Infatti, molte ragazzine di pura razza britannica si fanno mettere incinte dai primi che capitano in discoteca solo per intascare i generosi sussidi che il governo britannico regala alle ragazze madri. Nei civilissimi Stati Uniti è successo che i funzionari statali profumatamente stipendiati dal governo per monitorare l’andamento della borsa di Wall Street non si siano accorti dell’arrivo della tempesta finanziaria: infatti, erano troppo impegnai a scaricare da internet e a testare personalmente tonnellate di materiale porno.  Insomma, lo stato è una macchina che produce corruzione in tutto il mondo.

E veniamo all’evasione fiscale. Rispetto a quell’immensa macchina per distruggere le ricchezze faticosamente prodotte dai cittadini che si chiama spesa pubblica, l’evasione fiscale è un problema minore. Secondo la propaganda sinistrese anti-italiana il debito pubblico sarebbe causato dall’evasione fiscale. Ridicolo. La verità che i giornali non dicono è che, anche recuperando tutta l’evasione fiscale fino a all’ultimo centesimo, i debito pubblico resterebbe altissimo. E infatti, secondo logica, il debito pubblico lo fa chi spende i soldi delle tasse, non chi si rifiuta di pagare le tasse. Nella maggioranza dei casi l’evasione fiscale è solo una forma di disperata autodifesa. Ascoltate le urla di dolore degli imprenditori: le tasse stanno uccidendo le loro imprese e le loro vite. Perché non dovrebbero fuggire all’estero? E se non possono fuggire all’estero, perché non dovrebbero cercare di non farsi prendere anche le mutande da quella associazione a delinquere che ha nome di Equitalia? Equitalia è l’equivalente post-moderno degli esattori del principe Giovanni. Ma purtroppo non abbiamo Robin Hood. La verità che i governi nascondono all’opinione pubblica è che tutti i paesi europei – non solo i “maiali” del sud – sono ridotti in fin di vita da enormi, inestinguibili debiti pubblici. Da quando Obama ne è presidente, anche gli Usa stanno cominciando a morire sotto il peso del debito. I politici questo lo sanno ma non lo dicono, per non perdere voti. Intanto, le grosse multinazionali cominciano a spostare armi e bagagli nei paesi emergenti dell’Asia, dove il cancro del debito pubblico non è ancora in metastasi. Su Repubblica è apparso di recente un articolo agghiacciante: Maurizio ricci, “Lo shopping è monodose”, Repubblica, 22 ottobre 2012. L’autore illustra le strategie di marketing che i grossi gruppi multinazionali adotteranno in Europa nei prossimi anni: “L’indicazione certifica ufficialmente – fuori da ogni pregiudizio o ironia, perché le multinazionali sono notoriamente senza cuore, dunque spietatamente lucide – che l’Europa può ormai essere considerata un continente povero, sul bordo del Terzo mondo. E, come nei paesi poveri, una delle strategie di vendita è ridurre le dimensione delle confezioni, per rendere la spesa più abbordabile. Oppure, rendere i prodotti meno complessi e sofisticati, dunque più economici”. Insomma, siamo ridotti come i sovietici. Loro facevano la fila per il pane, noi faremo la fila per comprare gli scarti negli hard-discount. E tutto per merito del britannico John Maynard Keynes. La realtà è questa. Ma nessuno vuole guardare la realtà. E’ più comodo continuare a pensare che gli italiani siano tutti brutti, sporchi e cattivi. Per aiutare la gente a guardare in faccia la realtà, c’è una cosa da fare subito: fare capire agli italiani che anche i paesi cui loro guardano come a fari di civiltà sono insozzati dalla corruzione. Faccio un appello ai giornalisti d’inchiesta: spulciate con cura i giornali dei paesi che si credono più evoluti del nostro, stanate uno per uno e sbattete in prima pagina le facce e i nomi dei corrotti, degli spreconi e dei ladri di pura razza ariana, di pura razza vikinga e di pura razza anglosassone. Solo allora gli italiani non accetteranno più di farsi insultare, alzeranno la testa e capiranno che loro nemico numero uno è lo STATO.

Avevo già affrontato il problema del razzismo anti-italiano in questo articolo dell'1 agosto 2013.

Berlusconi condannato, italiani insultati e coperti di sputi dagli stranieri. E dopo questa ignobile, farsesca condanna di Silvio Berlusconi, preparatevi ad una tempesta di sputi, insulti ed offese da parte degli stranieri (specialmente nord europei e americani) contro gli italiani. Consiglio a tutti gli italiani in ascolto di non passare le vacanze all’estero per non rovinarsele. Ma gli sputi, gli insulti e le offese ve li meritate, perché non reagite. Nessuno vuole denunciare e protestare, tranne me e qualcun altro. Gli articoli scritti dai bulletti ignoranti alcolizzati onanisti britannici come Tobias Jones ve li meritate tutti. Come ho scritto, l’anti-razzismo è il nuovo razzismo. Ma sul The Guardian potete trovare un articolo in cui il vecchio razzismo eugenetico (che comprende il razzismo anti-italiano) si fonde mirabilmente col nuovo razzismo: Why is Italy still so racist?

Riassunto del contenuto dell’articolo: tutti gli italiani insultano la Kyenge perché sono dei trogloditi sottosviluppati che sanno fare solo la pizza. Anche nell’area commenti trovate una tempesta di offese verso gli italiani. Ma nessuno di questi commenti è stato cancellato. Invece hanno cancellato il mio commento. Perché? Perché denunciavo le offese implicitamente razziste contenute nell’articolo e nei commenti. Un articolo di rara insipienza, in cui non c’è il benché minimo accenno alla questione della difficoltà di integrazione della maggior parte degli immigrati.

IO NO MI SPIEGHERO’ MAI PERCHE’ GLI ITALIANI SI LASCIANO INSULTARE E OFFENDERE SENZA REAGIRE.

Quello che non mi spiegherò mai è perché nessuno protesta contro il rigurgito di razzismo anti-italiano, che si cela sotto Ia satira anti berlusconiana. Io sono praticamente l’unica a metterci la faccia e a pubblicare commenti di protesta sui giornali fognari in cui appaiono articoli razzisti conto gli italiani. Naturalmente, i miei commenti vengono immediatamente cancellati. E se mando ad un giornale italiano una lettera in cui denuncio questi fatti, la mia lettera viene ignorata. Sulle riviste scientifiche peer reviewed si scrive che gli italiani da Roma in giù sono stupidi per ragioni genetiche (lo ha scritto due anni fa tal Lynn). E solo io protesto. Insomma, ne deduco che agli italiani piace essere insultati. Ma fin quando si lasceranno insultare, fin quando non alzeranno la testa, l’Italia non potrà essere la grande nazione che merita di essere. Tutti ci insultano e dicono che dopo il Cinquecento non abbiamo fatto più niente, a parte la pizza. Pazzesco. Basta studiare un poco di storia del Novecento, per scoprire che l’Italia ha dato tantissimo anche alla cultura del Novecento: quello italiano è il primo cinema al mondo per qualità (Fellini, Antonioni eccetera), l’energia nucleare è stata scoperta in Italia (Fermi), il primo prototipo del personal computer è stato inventato da un italiano. L’elenco dei contributi dell’Italia al progresso potrebbe continuare, ma mi fermo qui. Gli italiani non sanno farsi rispettare. Accettano e anzi incoraggiano gli insulti. Perché? Perché la patria dell’anti-italianismo razzista è l’Italia. L’anti-italianismo è stato inventato dalla intellighenzia di sinistra. E’ un uno strumento di propaganda. Negli anni ’50 gli intellettuali nullafacenti e benestanti della sinistra terrazzara dicevano: gli italiani non votano comunista perché sono stupidi e ignoranti, se fossero intelligenti voterebbero comunista e l’Italia sarebbe un paese normale. Oggi gli intellettuali nullafacenti e benestanti della sinistra terrazzara dicono: gli italiani votano Berlusconi perché sono stupidi e ignoranti, se fossero intelligenti voterebbero per la sinistra e l’Italia diventerebbe un paese normale. In effetti, questi intellettuali nullafacenti che insultano il popolo fanno una vita da nobili dell’ancien régime con i soldi del popolo (infatti sono quasi tutti giornalisti che campano di aiuti di Stato alla stampa). E nei loro party in terrazza (tipo La grande bellezza) invitano i giornalisti stranieri e, sorseggiando un cocktail dietro l’altro (tutti a nostre spese, ovviamente), li istruiscono: “Mi raccomando, sui vostri giornali insultate l’Italia berlusconiana, così gli italiani, a forza di essere insultati, capiranno la lezione e voteranno per noi”. Dunque l’anti-italianismo degli intellettuali italiani affonda le radici nel marxismo anti-cattolico. Similmente, il razzismo anti-italiano di inglesi, francesi, tedeschi e compagnia affonda le radici nella cultura giacobina-massonica, che è allo stesso tempo anti-cattolica e darwinista-eugenista-razzista.  Quello che i nordici hanno sempre odiato del popolo italiano, è il suo tenace attaccamento alla Chiesa cattolica, che per un pazzo rincoglionito di nome Lutero era la Babilonia del diavolo... Accecati dall’odio, i nordici post-protestanti hanno cercato di spiegare il persistente attaccamento di gran parte degli italiani alla fede cattolica con argomenti razzisti.  Lo spiego nel commento che ho pubblicato sul Guardian in calce al porco articolo do Tobias Jones contro l’Italia. Naturalmente i porci lo hanno subito cancellato.

Il Censis dice che siamo incazzati, razzisti e prepotenti. Ora la domanda è: come voteremo? Scrive il 12 dicembre 2018 Marco Brando, Giornalista e scrittore, su "Il Fatto Quotidiano". Un fantasma iracondo si aggira anche per l’Italia. Però, dalle nostre parti non si materializza lo spettro francese col gilet giallo, impegnato nel costruire barricate. Semmai imperversa uno spiritaccio incolore, descritto dall’ultimo Rapporto – il 52°- del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis). Che aspetto ha? Quello della «delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso». Gli italiani sono descritti in preda a un «sovranismo psichico prima ancora che politico», che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». In parole povere siamo incazzati, razzisti, egoisti e prepotenti. Ne sappiano qualcosa noi frequentatori di blog e di social network. Il mirino dell’odio di massa prima di tutto è puntato (con il contributo di partiti che cavalcano l’onda e la rendono più impetuosa) contro migranti e rom. Nella storia l’attacco alle minoranze non è un fenomeno nuovo. Però oggi il nostro subconscio razzista è esibito con un’irruenza cui non si assisteva dai tempi delle leggi razziali fasciste, varate più di 80 anni fa. Cosicché due italiani su tre vedono con negatività l’immigrazione. I più arrabbiati trionfano nelle categorie fragili: il 71% di chi ha più di 55 anni e il 78% dei disoccupati, mentre il dato scende al 23 tra gli imprenditori. Il 58% ritiene che gli immigrati ci privino di posti di lavoro, il 63 che rappresentino un peso per il sistema assistenziale; soltanto il 37% sottolinea il loro effettivo apporto positivo per l’economia e la previdenza sociale, in un Paese in calo demografico. Infine, per il 75% l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità e il 59,3 esclude la possibilità di raggiungere un buon livello di integrazione tra etnie e culture nei prossimi dieci anni. La rabbia italiana, che sconfina nella cattiveria gratuita, spiega, secondo i ricercatori del Censis, anche il successo delle politiche nazionalpopuliste e anti-Unione europea. Sono – valutano i ricercatori del Censis – «dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi». Inoltre, guardando al futuro il 35,6% degli italiani è pessimista, deluso e impaurito, il 31,3 è incerto, soltanto il33,1 è ottimista. Un fenomeno comune a molti Paesi della Ue e non solo, ma che nel nostro appare più accentuato, nonostante sia ancora compresso dall’illusione che i politici prestigiatori tirino fuori la bacchetta magica. La situazione descritta nel Rapporto sembra riflettersi nelle disposizioni varate da un governo che, da un lato, stimola l’odio usandolo come arma di distrazione di massa, dall’altro lo traduce in scelte politiche. Risultato: Amnesty International ha appena sostenuto che l’Italia gestisce in maniera “repressiva” il fenomeno delle migrazioni, mette a rischio i diritti umani dei richiedenti asilo, adotta spesso nella politica una retorica xenofoba e pratica sgomberi forzati, senza offrire alternative. Tuttavia – siccome l’odio non riempie le pance, non fa trovare un lavoro e non incrementa i conti in banca – è legittimo chiedersi come si trasformeranno gli elettori, divisi in tre parti quasi uguali. Per quanto tempo quell’italiano su tre che alcuni mesi fa ha votato i partiti oggi al potere può rimanere imbambolato, seppur arrabbiato, in attesa del colpo di bacchetta magica? Ancora più enigmatica è la capacità di resistenza allo stress da parte del cittadino su tre che non ha votato durante le scorse elezioni. Pure l’italiano su tre (poco meno) che ha votato i partiti oggi all’opposizione può sentirsi frustrato: dal fatto che la suddetta opposizione venga fatta, poco e male, da fazioni che non riescono ad ammettere i propri gravi errori. In tutti i casi, è angosciante la sempre più estesa allergia nei confronti delle urne e del sistema della rappresentanza. È vero che negli ultimi 4 anni la fluidità del consenso nell’era del web ha già dimostrato come un partito (il Pd) possa più che dimezzare i voti, mentre un altro (la Lega) possa triplicarli o quadruplicarli. Tuttavia è pure vero che lo spettro peggiore potrebbe essere quello del crollo strutturale degli equilibri democratici, causato dalla latitanza di massa in occasione delle elezioni. Perché molti altri potrebbero convincersi della tesi (quasi un proverbio, ormai) secondo la quale “i politici sono tutti uguali”; quindi è inutile votare. Se voterà un italiano su due, per fare un’ipotesi solo apparentemente pessimistica, che cosa sarà del governo del Paese? Chi sarà “nominato” da un elettorato forse minoritario rispetto ai non votanti delusi? Quali altre fonti di rabbia e rancore si innescheranno tra gli autoesclusi? La reazione, da parte di chi non è ancora in overdose da “rancorismo” e masochismo, dovrebbe essere quella di offrire alla discussione prospettive pratiche, realizzabili, civili e democratiche. Certo, in questo clima non è facile discutere pacatamente. Infatti, dopo migranti e rom, nella graduatoria dell’odio i “santoni del cambiamento” aggiungono gli “eretici”, quelli che al suddetto cambiamento, sempre imminente e mai evidente, non credono. Però quando il gioco si fa duro, come è noto, i duri possono – o potrebbero – cominciare a giocare. Forse è ora.

Repubblica, il professore spiega: la matematica ci dice come diventiamo razzisti, scrive l'1 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Ci mancava il professore. A dirci che la matematica spiega come si diventa razzisti. Ma insomma, l'allarme-razzismo è il trend del momento (come l'allarme-fascismo lo era stato all'inizio del 2018, prima delle elezioni). E quindi il gioco val bene una lunga intervista al prof. La fa Repubblica, che chiede a Lucio Biggiero, docente di organizzazione aziendale (?) all'università de L'Aquila ed esperto di modelli computazionali, come una società diventa razzista. "Esistono solidi studi matematici di simulazione sociale che dimostrano come una società anche appena intollerante corre un alto rischio di diventare fortemente razzista. Con i modelli sulla segregazione razziale si può dimostrare che per generare una società segregazionista non è necessario essere né intenzionalmente né totalmente razzisti, e neanche esserlo al 50 per cento. Thomas Schelling, un economista americano Premio Nobel nel 2005, dimostrò che è sufficiente un dosaggio di razzismo (inteso come intolleranza a vicini di casa diversi dal proprio tipo) superiore al 33 per cento. I suoi risultati furono sorprendenti". E ancora: "La possibilità di generare una società totalmente razzista a partire da comportamenti individuali debolmente razzisti ricorda molto i meccanismi che hanno portato all’organizzazione dello sterminio di massa degli ebrei e degli altri gruppi sociali ad essi equiparati. Tanta letteratura scientifica li ha analizzati in profondità ed è sempre emerso che, in fondo, i fanatici, i razzisti al cento per cento, erano relativamente pochi. La stragrande maggioranza assentiva e si assoggettava alle regole".

Daisy Oskue, parla il figlio del consigliere Pd: "Il razzismo non c'entra. Non sapevamo che fare". Dopo l'aggressione alla discobola, a parlare è Federico, il ragazzo che quella sera era alla guida dell'auto: "Siamo stati dei cretini", scrive Giovanna Stella, Venerdì 03/08/2018, su "Il Giornale". Quella che è stata soprannominata la "banda dell'uovo" ha colpito Daisy Osakue domenica 29 agosto a Moncalieri, Torino. I tre ragazzi italiani sono stati individuati e uno di questi è pure il figlio di un consigliere del Partito democratico, Roberto De Pascali. E proprio su di lui è ricaduta una parte dell'attenzione pubblica. Il motivo? I giorni immediatamente successivi all'aggressione a Daisy, la Sinistra - come da copione - ha iniziato a parlare di "attacco razzista". E per questo motivo, se l'era presa con il ministro dell'Interno e con le sue politiche che - a loro dire - "incitano all'odio razziale". Ora, l'attenzione è ricaduta sul figlio del consigliere del Pd. Il giovane si chiama Federico De Pascali ed è stato intervistato da La Stampa. In quattro battute ha voluto esprimere tutto il suo dispiacere e ha ribadito che il movente "razzismo" non sussiste. "Perché abbiamo lanciato le uova? Perché non sapevamo cosa fare. L'abbiamo sentito dire in giro e l'abbiamo fatto anche noi. Comunque lo giuro, il razzismo non c'entra nulla. Adesso vorrei solo chiedere scusa a Daisy", dice il ragazzo. Scuse e giustificazioni non troppo forti. Eppure sono quelle che lui ha utilizzato con la stampa. Il ragazzo, poi, racconta che quella sera era a bordo dell'auto: era lui a guidare, "non ho visto chi ha tirato le uova tra i miei due amici". Federico - dice - che la "banda dell'uovo" ha capito la gravità del loro terribile gesto quando hanno iniziato a parlarne tutti. Stampa, Facebook, Twitter, televisione... "Abbiamo subito pensato di costituirci (cosa che non hanno fatto, ndr) - spiega -. Uno di noi è stato male e siamo tornati a Torino". Poi il resto lo hanno fatto i carabinieri, ovviamente, perché loro se ne sono andati al mare. L'adolescente, quindi, confessa che lui e i suoi amici avevano lanciato le uova già altre volte, "solo per divertirci, per sporcare i vestiti". Nell'intervista Federico si pente (a modo suo), dice di non aver parlato con suo padre "perché non ho avuto tempo, sono tornato dal mare mercoledì sera e quando mi sono svegliato c'erano i carabinieri in casa" (giustificazione piuttosto debole visto il putiferio che hanno scatenato e visto il forte desiderio di costituirsi. Ricordiamo che loro hanno agito domenica, ndr) e confessa che dopo aver lanciato il primo uovo sono passati al secondo. "Siamo stati dei cretini - conclude -. Non sono un razzista. L'abbiamo scelta a caso. In quella zona abita un mio amico, il razzismo non c'entra".

Daisy Osakue: quando l'Avvenire titolava "Vergogniamoci", scrive il 2 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Vergogniamoci" titolava martedì scorso il quotidiano dei vescovi l'Avvenire, accogliendo in pieno la tesi del razzismo sull'aggressione alla discobola Daisy Okasue, e implicitamente dando dei razzisti a tutti gli italiani, che dovevano vergognarsi. Nell'occhiello, poi, scriveva che "per Salvini il razzismo non c'è". E infatti razzismo non c'è stato, almeno nei casi delle aggressioni a colpi di uova nel torinese. I responsabili sono tre deficienti di 19 anni, uno addirittura figlio di un esponente del Pd. Chissà che domani l'Avvenire non titoli la sua prima pagina. "Ci vergogniamo". O almeno "Scusate".

Il razzismo è diventato la normalità in Italia. Non si può più parlare di un pericolo, ma di una realtà quotidiana, diffusa. Figlia di un mutamento antropologico, scrive Giuseppe Catozzella il 18 dicembre 2018 su "L'Espresso". Jorge Luis Borges coltivava rispetto e venerazione per la parte animale che risiedeva al fondo della sua natura. La tigre è un simbolo che ricorre spesso nella sua poesia: è la potenza naturale del corpo prima della civilizzazione. Ma Borges gli animali li preferiva in carne e ossa. In “L’altra tigre”, dice infatti che «persevera nel cercare […] quella che non è nei versi», perché «nel suo mondo non ci sono nomi né passato né futuro, solo un istante vero». La società rimuove la nostra animalità per autofondarsi (come ci ha insegnato Foucault), ma gli scrittori non possono che farci continuamente i conti. È quello che fa Francesco Piccolo in “L’animale che mi porto dentro” (Einaudi, 2018), declinata nella pulsione sessuale come fondamento delle relazioni. Nietzsche la metteva così: «La scienza nell’ottica dell’arte, e l’arte nell’ottica della vita»: solo un ritorno all’animale dentro di noi ci innalza a superuomini, eliminando le false credenze. Il corpo è lì (e comanda, senza che lo sappiamo), la nostra natura animale è lì, ed è sempre pronta a venire fuori, non appena le maglie sociali della civilizzazione si allentano. Questo può accadere per vari motivi. Uno dei più forti è il risentimento collettivo nei confronti del Leviatano, dello Stato stesso: una crisi economica in questo senso è un efficace detonatore. Insomma, la strada per tenere a bada la nostra animalità è faticosa: è il cammino della civiltà che, tra gli altri, ha raccontato Rousseau nel Contratto sociale. In ogni caso, proprio su quella teoria nicciana il fascismo e il nazismo hanno poi fatto leva per giustificare filosoficamente la sopraffazione sul più debole, che poi condurrà alla “soluzione finale”. Negli anni Venti e Trenta, le “basi materiali” per una rivincita dell’animalità repressa c’erano tutte, come mostra Antonio Scurati in “M, il figlio del secolo” (Bompiani, 2018): una gravissima crisi economica mondiale; l’impoverimento improvviso della classe media; il “solleticamento” dello scontento da parte di abili convogliatori di rabbia e frustrazione animalesca per fini elettorali.

La Storia trascorre, e si ripropone oggi in un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi, accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria. Ma cos’è il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini? Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in “Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili e immutabili». Una tara innata, animale, biologica. «Andiamo a picchiare i neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’ affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù). «Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata». Come nel secolo scorso, quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla rivendicazione delle violenze razziste. Come scrive Michela Murgia in “Istruzioni per diventare fascisti” (Einaudi, 2018) , anche sul versante razziale è avvenuto «il passaggio da avversario a nemico. […] Occorre parlare del nemico in maniera deformata e de-umanizzata, per esempio identificandolo con animali». E questa è una tecnica che finché porterà voti verrà perseguita. Su questo punto riflette anche il libro di Luigi Manconi e Federica Resta “Non sono razzista, ma” (Feltrinelli, 2017). Ma questo discorso pubblico inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura municipali. Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla campagna fascista per la conquista dell’Etiopia).

Che cosa sta succedendo a noi italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su stranieri però dicono il contrario. Di sicuro ci sta accadendo di essere vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938 quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime». Poi tuonò contro chi credesse che quella non era farina del sacco italiano che «coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». E a ragione, perché era stata proprio l’Italia a inventare l’apartheid tra “sudditi” e “cittadini” nelle sue colonie. Prima al mondo, come prima anche nel parlare di “razza” italiana (parola che serviva a Mussolini per costruire un nazionalismo tutto ancora da creare, che doveva passare dal sanare il razzismo tra il Nord e il Sud, tra “nordici” e “sudici”, come si usava dire, e veniva scritto offensivamente anche negli atti parlamentari). Recentemente sono usciti due bei libri che si misurano con il mutamento antropologico in atto a causa dell’iperconnessione delle nostre vite. “The Game “(Einaudi, 2018) di Alessandro Baricco, che sulla scia del suo maestro Vattimo legge la questione filtrandola attraverso l’estetica della vita: tutto ciò che si può esporre verrà esposto al gioco della “macchina” estetica del gradimento, con relativa cessione alla “macchina”, da parte nostra e per contraccolpo, di ciò che di nostro credevamo proprio più “trasparente” e vero. Ed “Epocalisse” (Mimesis, 2018) di Marco Pacini, che riflette lucidamente più sulla perdita questa volta intellettiva e ragionativa che cediamo al Grande cervello comune, al grande server centrale. In tutti e due i libri, consapevolmente, c’è un grande, enorme, presente-assente, il grande invitato irriducibile, che si dimena, oggi più che mai, e che non cessa il suo ruggire: è il corpo. La tigre di Borges che da dentro ci avvampa.

Stangati i cori a Koulibaly. San Siro chiuso due gare. E l'Inter scarica i razzisti. Pugno duro del giudice sportivo. Il giocatore: «Sono orgoglioso del colore della mia pelle», scrive Davide Pisoni, Venerdì 28/12/2018, su "Il Giornale".  Due partite a porte chiuse, una gara senza la curva. È la stangata del giudice sportivo all'Inter per i reiterati «cori insultanti di matrice territoriale» contro Napoli e per il «coro denigratorio di matrice razziale» nei confronti di Kalidou Koulibaly. Il presidente della Federcalcio aveva chiesto la «linea dura» ed è stato ascoltato. Ma il bollettino del posticipo da vergogna del boxing day non finisce qui. Perché lo stesso difensore senegalese è stato squalificato per due giornate: una per l'ammonizione ricevuta per il fallo su Politano in quanto diffidato, l'altra per l'applauso ironico. Stesso trattamento riservato a Lorenzo Insigne per aver rivolto al direttore di gara «un epiteto gravemente insultante», sanzione aggravata per il fatto di essere il capitano. Il tutto è conseguenza anche del clima che si era creato attorno alla partita. Alla vigilia Aurelio De Laurentiis aveva detto: «Mazzoleni mi preoccupa, con noi è sempre stato cattivo e non imparziale». Parole criticate duramente da Allegri: «Da alcuni presidenti parole pesanti contro gli arbitri». San Siro è stato così il teatro del peggio. La curva dell'Inter ha ripetutamente insultato i napoletani e Koulibaly, dal settore ospiti in avvio è partito subito un coro contro Mazzoleni. Ancelotti, che da quando è arrivato a Napoli sta portando avanti la battaglia contro gli insulti territoriali e razzisti, e i giocatori azzurri hanno chiesto almeno tre volte la sospensione della gara. Lo speaker ha fatto due annunci, senza successo. Nel finale poi la situazione è precipitata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso già pieno degli insulti vomitati dagli spalti, sono stati i «buu» a Koulibaly, a detta di Ancelotti già scosso dall'ambiente di San Siro, ma comunque il migliore in campo. Lo stesso Koulibaly ieri ha risposto via social: «Sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano, uomo». Al fianco del difensore Cristiano Ronaldo: «Nel mondo e nel calcio ci vorrebbero sempre educazione e rispetto. No al razzismo e a qualunque offesa e discriminazione!». Tra gli altri il classico «siamo tutti Koulibaly» di Boateng, che ai tempi del Milan era stato protagonista di un gesto eclatante abbandonando il campo in un'amichevole contro la Pro Patria. Il primo azzurro di colore, Joseph Dayo Oshadogan parla di «piaga sociale», mentre Gattuso difende l'Italia che «non è razzista, ma le partite vanno sospese». Non per Sandro Mazzola: «Sarebbe successo di peggio. Meglio andare avanti, avvertendo i giocatori che poi sarebbe stata annullata e rigiocata...». L'avvocato del Napoli Mattia Grassani è duro: «Con il caso Koulibaly, il sistema ha toccato il fondo. Ricorso? Non è consentito essendo una giornata più una. Per Insigne valutiamo». Anche l'Inter sta considerando di ricorrere contro un provvedimento che la farà giocare senza pubblico in coppa Italia contro il Benevento, in campionato contro il Sassuolo mentre contro il Bologna solo la curva resterà chiusa. Inoltre il prefetto di Firenze ha chiuso il settore ospiti per la sfida contro l'Empoli di domani. Il club nerazzurro in un comunicato ha rivendicato la sua storia fatta di «integrazione, accoglienza e futuro... Noi abbiamo detto no a ogni forma di discriminazione», l'impegno nel mondo con gli Inter Campus e chi non accetta «la nostra storia, questa storia, non è uno di noi». Valori ribaditi sui social dal presidente Steven Zhang accompagnati dallo slogan «Inter against racism». Alle scuse ci ha dovuto pensare il sindaco di Milano, Giuseppe Sala: «Chiedo scusa a Koulibaly, a nome mio e della Milano sana che vuol testimoniare che si può sentirsi fratelli nonostante i tempi difficili in cui viviamo». Sala ha proposto Asamoah capitano e poi aggiunto: «Ero a disagio, ho avuto la tentazione di lasciare lo stadio, ma volevo riflettere con calma. Se la cosa si ripetesse alzerei i tacchi e me ne andrei». La lezione di un boxing day da fuori di testa.

Scontri Inter-Napoli, il blitz militare degli ultrà con martelli e roncole. Milano, follia prima di Inter-Napoli: l’agguato di un centinaio di teppisti. Armati di martelli e roncole, uno di loro muore travolto da un Suv, scrivono Andrea Galli e Cesare Giuzzi su "Il Corriere della Sera" il 28 dicembre 2018. Indossano giubbotti scuri, cappucci e sciarpe, in un tratto poco coperto dalle telecamere e non presidiato dalle forze dell’ordine. Cento-venti tifosi di Inter, Varese e Nizza, uniti dalla militanza nell’estrema destra, sono schierati come plotoni, pronti all’assalto. Il campo scelto per la battaglia è l’incrocio tra via Novara e via Fratelli Zoia, a due chilometri dal Meazza dove tra un’ora si giocherà Inter-Napoli. È un attacco pianificato: fra le armi, ci sono punte da muratore, roncole, mazzette e martelli acquistati prima di Natale, quando i negozi erano aperti. Bottiglie, pietre e bastoni di legno completano l’arsenale, nascosto insieme a tondini di ferro e bottiglie in un parco in mezzo ai palazzi. A pochi metri dal luogo dell’attacco contro i tifosi napoletani che provocherà un morto e quattro feriti, e dimostrerà ancora una volta l’incapacità del calcio di liberarsi dalla sanguinaria prigionia degli ultrà.

Le violenze e il pirata. Le 19.20 di mercoledì, giorno di Santo Stefano. Gli abitanti del civico 7 di via Fratelli Zoia vedono dalle finestre la «formazione» in movimento. Non fanno in tempo a dare l’allarme. Il gruppo si raduna e accelera il passo verso via Novara, un viale a quattro corsie su una doppia carreggiata che porta allo stadio. Il fumo rosso delle torce si mischia alla nebbia. Qui viene bloccata la carovana di pullmini dei napoletani: una settantina di ultrà che scendono per respingere l’assalto. Ed è qui che Daniele Belardinelli, 39enne capo del gruppo di estrema destra «Blood Honour» del Varese calcio gemellato con la curva interista, viene investito da un Suv. Belardinelli è parte attiva del commando. Non è chiaro se su quel fuoristrada viaggino altri tifosi napoletani o se chi è alla guida si sia trovato circondato e nel panico abbia accelerato per scappare. Le violenze durano più di dieci minuti. Sono gli ultrà napoletani, non quelli interisti, ad accorgersi di quell’uomo a terra, il corpo quasi diviso in due parti. I partenopei avvisano gli interisti che trascinano Belardinelli su una station wagon. La macchina raggiunge il vicino pronto soccorso dell’ospedale San Carlo. Il lungo intervento chirurgico d’emergenza è inutile. Il referto parla di lesioni alla milza e all’aorta toracica, di fratture alle gambe e di ossa del bacino frantumate dal peso del fuoristrada. Belardinelli muore alle 4.30. L’automobilista del Suv è ricercato. Forse soltanto i testimoni potranno aiutare la polizia nella caccia al pirata.

Il grande depistaggio. Alle 19.20, quando scatta l’offensiva, i capi e i pezzi grossi degli ultrà interisti sono al chiuso del «Baretto», il ritrovo della tifoseria organizzata alle spalle del secondo anello verde del Meazza. Fingono disinteresse, sanno di essere osservati speciali della Digos perché Inter-Napoli è da sempre una partita ad altissimo rischio. Specie dopo i precedenti del 14 gennaio 2015, del 9 gennaio 2016 e del 21 ottobre 2017. Ma quando via radio arrivano le notizie del blitz militare di via Novara, la Questura, che schiera trecento agenti in azione fin dal primo pomeriggio, capisce che la calma apparente copre in realtà una trappola perfetta nella sua azione devastante. Un’«internazionale» degli ultrà studiata, premeditata. Vedette lungo il percorso di avvicinamento a Milano, che hanno segnalato i tragitti della carovana dei napoletani. L’arsenale e il suo allestimento (c’erano martelli appena acquistati con ancora le etichette). E la trentina di tifosi francesi del gruppo «Ultras populaire sud» del Nizza e altrettanti varesini. Tutti arrivati senza «preavviso».

Il summit operativo. Il sospetto della Digos è che l’azione sia stata organizzata attraverso sistemi instant messenger come TorChat. Ma potrebbe esserci stato un incontro operativo fra i capi, forse il giorno di Natale. Nella notte tra mercoledì e ieri sono stati fermati tre tifosi interisti: due ultrà degli Irriducibili e uno dei Boys, tutti con precedenti da stadio ma mai sottoposti a «Daspo». Altri sei, tra i quali chi ha accompagnato Belardinelli in ospedale, sono indagati. Il bilancio è provvisorio. Si procede velocemente in avanti, ma restano sospese delle domande, che il Corriere ha rivolto al questore Marcello Cardona. Una prima delle altre: perché in quel preciso punto i tifosi non erano scortati? «Non possiamo seguire ogni singolo spettatore. I napoletani sono arrivati da decine di città e sono entrati a Milano da differenti ingressi. Non appena sono esplosi gli scontri siamo intervenuti». Un altro interrogativo: l’agguato poteva essere previsto? «Ormai esistono chat difficili da intercettare... Noi abbiamo fatto il possibile. Forse di più. Piangiamo un morto e potevano essercene molti altri. Ho preso in considerazione l’ipotesi di annullare la partita, ma in curva già girava la notizia del ferimento di Belardinelli. Non giocare, avrebbe trasformato Milano in uno scenario di guerra».

Fermare le partite per razzismo: ecco chi decide e come funziona la norma. E' il responsabile dell'ordine pubblico e non l'arbitro a stabilire se sospendere o no. Cosa dice l'articolo 62 delle regole Figc, scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". Non è l'arbitro che può decidere la sospensione di una partita in presenza di cori razzisti o discriminatori. Non con le regole attuali della Figc che, di concerto con il Ministero dell'Interno, consegnano tutto il potere al responsabile dell'ordine pubblico. E' scritto nell'articolo 62 delle Noif Figc. Eccone i passaggi fondamentali: "Il responsabile dell'ordine pubblico dello stadio" che rileva la presenza di uno o più striscioni esposti dai tifosi, cori, grida e ogni altra manifestazione discriminatoria costituenti fatto grave "ordina all'arbitro, anche per tramite del quarto ufficiale o dell'assistente di non iniziare o sospendere la gara". Al provvedimento, dicono le regole attuali, andrà data la massima pubblicità: "Il pubblico presente dovrà essere informato sui motivi del mancato inizio o della sospensione con l'impianto di amplificazione sonora o altro mezzo adeguato". I messaggi servono anche per invitare il pubblico a togliere gli striscioni e a interrompere gli eventuali cori. Nel comma 8 dell'articolo 62 è dettagliato cosa deve accadere in caso di sospensione della partita: "I calciatori dovranno rimanere al centro del campo insieme agli ufficiali di gara. Nel caso di prolungamento della sospensione, in considerazione delle condizioni climatiche ed ambientali, l'arbitro potrà insindacabilmente ordinare alle squadre di rientrare negli spogliatoi". La decisione ultima sulla ripresa del gioco è, però, sempre delegata al responsabile dell'ordine pubblico: "L'arbitro riprenderà o darà inizio alla gara solo su ordine del responsabile". La sospensione o il ritardo non potranno durare oltre 45 minuti. L'arbitro dovrà segnalare nel suo referto tutto quanto accaduto e la Giustizia sportiva emetterà i suoi provvedimenti sulla base di quella relazione.

Inter-Napoli, Koulibaly: perché la partita non è stata sospesa? Chi può fermarla? L'arbitro può interrompere solo momentaneamente un match, la decisione finale spetta al responsabile dell'ordine pubblico, scrive di Alessandro Bocci il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera".

La partita tra Inter e Napoli doveva essere sospesa per i cori razzisti nei confronti di Koulibaly?

La decisione di sospendere una gara spetta al responsabile dell’ordine pubblico, un funzionario facente capo al ministero dell’Interno e presente allo stadio.

Qual è il compito dell’arbitro in presenza di cori razzisti o di discriminazione territoriale?

Il direttore di gara, in presenza di cori razzisti o discriminatori, ha la facoltà di chiedere attraverso lo speaker, l’interruzione dei suddetti cori e qualora non venga ascoltato può chiedere che il messaggio venga mandato sino a tre volte.

L'arbitro può sospendere la partita?

Solo provvisoriamente, richiamando le squadre al centro del campo oppure mandandole nello spogliatoio.

Perché Mazzoleni non ha interrotto Inter-Napoli?

Evidentemente non ha avuto la percezione che la situazione fosse così grave.

Secondo i vertici arbitrali come si è comportato Mazzoleni?

Bene, seguendo il regolamento. Mazzoleni è stato promosso sia dal designatore Rizzoli che dal presidente Aia Nicchi.

Cosa succede se il responsabile dell’ordine pubblico decide di sospendere una partita in via definitiva?

Lo speaker deve informare subito i tifosi di cosa sta succedendo per favorire il deflusso dallo stadio.

Perché Irrati sospese Lazio-Napoli per cori contro Koulibaly e Gavillucci ha fatto altrettanto in Sampdoria-Napoli?

Non è una questione di semplice regolamento, ma di sensibilità dell’arbitro.

L'arbitro Gavillucci, dalla A ai ragazzi: aveva sospeso un match per razzismo. Ha fermato Samp-Napoli l'anno scorso. «Dismesso» dall'attività ufficialmente per «motivate ragioni tecniche» lui ha fatto causa all'associazione arbitri, scrive Guido De Carolis il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Da Udinese-Bologna a Vis Sezze-Samagor. Dalle serie A ai Giovanissimi della provincia di Latina. La discesa all’inferno dell’arbitro Claudio Gavillucci si è compiuta in appena sette mesi. Il 20 maggio 2018 arbitrava la sua 50ª e ultima partita in serie A, il 3 dicembre era su un anonimo campo di periferia a gestire dei ragazzini. Quello che è successo in mezzo ha una motivazione ufficiale: è stato dismesso dall’Associazione italiana arbitri perché ultimo nella classifica di rendimento. C’è poi un’altra versione, tutta da verificare: ha pagato la decisione di aver sospeso per 3 minuti Sampdoria-Napoli del 13 maggio 2018 per cori di discriminazione territoriale intonati dai tifosi blucerchiati contro i napoletani. Era il 31’ della ripresa e il 39 enne Gavillucci decise di fermare la partita, vinta poi 2-0 dalla squadra allenata da Maurizio Sarri. L’episodio fece discutere, Gavillucci applicò il regolamento. Anche allora, come accaduto a San Siro l’altra sera in Inter-Napoli, lo speaker dello stadio aveva richiamato i tifosi. L’Aia a fine stagione escluse dalla Commissione arbitrale di serie A Gavillucci: «Dismesso per motivate ragioni tecniche». «Ha fatto quello che era suo dovere e in suo potere fare», racconta l’avvocato Gianluca Ciotti, difensore di Gavillucci che ha fatto causa all’Aia per la dismissione. «Ha applicato il regolamento e dopo due annunci dello speaker ha sospeso la partita. I cori erano stati colti da tutti e non poteva ignorarli. Era la scelta giusta», sottolinea il legale. Scese in campo il presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, per chiedere alla sua curva di smetterla. Un gesto coraggioso. «La scelta di sospendere una partita è difficile, l’arbitro ha una pressione enorme. E quella decisione fu giusta. Chissà perché però non pesò in modo positivo sul giudizio degli osservatori che dovevano valutare la prestazione di Gavillucci», spiega l’avvocato. A fine stagione l’Aia stila una classifica sul rendimento dei 22 arbitri di serie A, Gavillucci risulta ultimo. Era già accaduto l’anno prima, alla fine della stagione 2016-17, ma come d’abitudine era stato confermato. A 39 anni l’Aia di solito non pensiona gli arbitri per motivi tecnici, si suppone che un direttore di gara formato, con 50 partite di serie A alle spalle e non vicino al limite massimo d’età dei 45 anni, sia comunque una risorsa. L’Aia ha fatto una valutazione differente, per quanto legittima. Tra lui, ultimo in classifica, e il primo della passata stagione c’era un decimale di differenza nella valutazione (8.4 Gavillucci, 8.5 Rocchi), in mezzo gli altri. Per quanto non usuale, la dismissione è un provvedimento lecito. Gavillucci però non l’accetta e fa ricorso, anche perché c’è solo un altro caso simile di dismissione negli ultimi anni e risale al 2008-09, si tratta dell’arbitro Michele Cavarretta. Il 23 luglio l’Aia fornisce le valutazioni di rendimento a Gavillucci, motivando così la sospensione. Il primo grado di giudizio ha confermato la scelta dell’Aia, ora si vedrà cosa accadrà a metà gennaio davanti alla Corte federale d’appello. Restano due gesti. La scelta normale e coraggiosa di Gavillucci di fermare una gara per combattere il razzismo. Quella dell’Aia di dismettere l’arbitro. Poteva diventare uno spot sul fair play, si è preferito dismettere tutto con una semplice raccomandata.

'Ndrangheta, spaccio e croci nazi Le curve crocevia della criminalità. Lo scopo è fare soldi e menare le mani. Anche ricattando i club, scrive Luca Fazzo, Venerdì 28/12/2018, su Il Giornale". Giusto per fare un po' di nomi e cognomi. Gennaro De Tommaso detto «Genny a Carogna», capo dei Mastiffs del Napoli, l'anno scorso è stato arrestato per traffico di stupefacenti. Luca Lucci, l'ultrà del Milan divenuto famoso per i suoi selfie con il ministro Matteo Salvini, è amico di narcotrafficanti e assassini. Il suo capo Giancarlo «Sandokan» Lombardi, che da decenni detta legge sulla Sud di San Siro, è un pregiudicato e un fascista. I fratelli Franco e Alessandro Todisco, figure fisse della Curva Nord dell'Inter, sono i fondatori di Cuore Nero, gruppo neonazista. Daniele De Santis, l'ultrà romanista che uccise il napoletano Ciro Esposito, faceva parte dei Boys, fondati da «Marione» Corsi, fascista e membro dei Nar. Il volto nuovo della curva della Juve, Rocco Dominello, è un affiliato alla 'ndrangheta, cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Occorre andare avanti? Brandelli di biografe, stralci di schede segnaletiche che raccontano un trend ormai fuori controllo: la mutazione genetica delle curve degli stadi italiani, divenute ormai un crocevia di ideologia e di affari criminali dove il calcio entra veramente poco, e dove due passioni sovrastano tutte le altre: il desiderio di fare soldi e la voglia di menare le mani. L'ideologia fascista conta più che altro come collante interno e per le alleanze nazionali e internazionali: la love story più solida nelle curve italiane, quella tra interisti e laziali, è saldata da svastiche e rune. E lo stesso vale per le alleanze continentali, come l'asse tra la curva del Verona e gli Ultras Sur del Real Madrid, che portano in dote bandiere naziste, o il patto di ferro tra la Sud del Milan e i Grobari («Becchini») del Partizan di Belgrado, nazionalisti e omofobi, già protagonisti dell'assalto al gay pride del 2010, e infiltrati in profondità da esponenti del narcotraffico. La commistione tra curve e politica non è un fenomeno nuovo, nasce insieme ai primi gruppi ultrà negli anni Settanta. Nuova è la conquista delle curve dalla alleanza tra tifo, malavita e politica che poggia su due pilastri: un patto trasversale tra le tifoserie più importanti sancita a partire dal vertice del 3 settembre 2009; e la sudditanza da parte dei club. L'esempio più eclatante, perché l'immagine ha fatto il giro del mondo, è la genuflessione del capitano del Napoli Marek Hamsik davanti a «Genny a' Carogna», il 3 maggio 2014 prima della finale di Coppa Italia. Ma che dire dell'Inter che permette agli ultras di salire sul pullman della squadra e minacciare i giocatori? O del Milan che subisce i ricatti a raffica dei capicurva, contro i quali si batte invano (e pagandone le conseguenze) Paolo Maldini? La vergognosa trattativa tra la Juventus e il clan Dominello è solo l'ultima puntata di un serial che si trascina da tempo. Spaccio di droga, traffico di biglietti, ricatti alla società (e i cori razzisti di mercoledì a San Siro fanno parte di quest'ultima sotto-categoria): questo è il groviglio di interessi che i clan si spartiscono in curva, in un clima di impunità dove tutto diventa possibile, compreso l'assalto ad una caserma dei carabinieri, per «vendicare» il tifoso laziale Gabriele Sandri, compiuto dai tifosi interisti l'11 novembre 2007. In testa al gruppo i fratelli Todisco, quelli di Cuore Nero. Ma nel corteo c'è anche Franco Caravita, il capo indiscusso della curva nerazzurra: interista duro e puro ma pronto a scendere a scendere a patti con i rivali di sempre in nome degli interessi comuni. C'è anche lui, all'incontro cruciale dei capicurva del 23 settembre 2009. E del suo omologo rossonero Giancarlo Capelli è anche socio in affari.

Non tutti gli ultras sono violenti: la solidarietà del tifo juventino, scrive il 28/12/2018 Maurizio Marrone su Il Giornale. Un tifoso morto, diversi arresti, un agguato organizzato: questo il bilancio della tragedia di mercoledì sera a Milano, in via Novara, vicinissimo allo stadio San Siro, prima della partita Inter-Napoli. Saprete tutti l’accaduto: i van che trasportano i tifosi napoletani vengono assaliti da un centinaio di ultras interisti, alcuni anche del Varese e del Nizza. Gli uni attaccano e quelli rispondono, inizia un fuggi fuggi generale e un ultrà del Varese, Marco Belardinelli, viene travolto da un suv. Ricoverato, muore nella notte in sala operatoria. Sarebbe forte la tentazione di scrivere articolesse pensose sulla violenza   degli ultras: ma non tutti gli ultras “fanno casino”. Ci sono dei giovani delle curve – e non sono la minoranza – che vanno allo stadio solo e soltanto per amore per lo sport; altri, poi, svolgono opere di volontariato e assistenza per le persone più sfortunate e, in generale, si battono per dei valori sani (Redazione). Ritrovo alla “Piola” bianconera a due passi dallo stadio Juventus, nel quartiere operaio delle Vallette: il raduno può sembrare un qualunque ritrovo pre-partita dei tifosi della Vecchia Signora, invece si tratta di un momento simbolico per il cuore di Torino, che non dimentica la ferita mai rimarginata dei disordini di piazza San Carlo in occasione della finale di Champions League 2017. Parte il sodalizio tra l’associazione Quelli di via Filadelfia, nella quale si riconoscono tutte le sigle della curva juventina e la Onlus I sogni di nonna Marisa, fondata dai familiari di Marisa Amato, rimasta paralizzata nella tragedia costata la vita ad Erika Pioletti. Obiettivo: contribuire a umanizzare il reparto di neurologia dell’Ospedale infantile torinese Regina Margherita. Non sono nuovi alle opere di solidarietà gli ultras di Via Filadelfia, che, tra iniziative per commemorare le vittime dell’Heysel oppure contro il codice di gradimento e il caro-curva, hanno già raccolto fra i ragazzi delle gradinate quasi trentamila euro in favore della Fondazione per la ricerca sui tumori dell’apparato muscolo scheletrico, anche con campagne trasversali insieme alla tifoseria granata, quale il Derby della solidarietà promosso dal Caffè Vergnano. L’ultimo crowdfunding di Quelli di via Filadelfia si è sposato, però, con il sapore dei tipici cioccolatini sabaudi, i gianduiotti firmati Ziccat. Il cuore bianconero, insomma, batte forte per aiutare tanti bambini malati a realizzare il sogno di giocare a calcio. A dispetto della triste notizia di ieri della morte del tifoso investito da un van prima della partita Inter-Napoli, ci sono dei giovani delle curve che si battono per dei valori sani.

Calcio e violenza: morto il tifoso dell'Inter investito prima di Inter-Napoli. Ecco chi era Daniele Berlardinelli, ultras coinvolto negli scontri. La rabbia del Questore: "Agguato squadrista, vietare trasferte fino a fine stagione", scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". E' morto il tifoso dell'Inter investito da un va prima della partita Inter-Napoli che si è disputata a San Siro la sera del 26 dicembre 2018. Si chiamava Daniele Belardinelli, aveva 35 anni ed era originario di Varese. Era un ultras dell'Inter con Daspo precedenti per reati da stadio anche se al momento non risultava avere alcuna limitazione. Belardinelli è morto nelle prime ore della mattina all'ospedale San Carlo di Milano dove era stato trasportato d'urgenza da alcuni compagni. Aveva lesioni gravi alla milza, all'aorta toracica e addominale, diverse fratture in parti del corpo dovute quasi certamente all'investimento anche se sarà l'autopsia a dare elementi decisivi per la ricostruzione della dinamica del suo ferimento e della morte.

La ricostruzione dei fatti. Secondo quanto raccontato dalla Questura di Milano, gli incidenti si sono sviluppati tra le 19,30 e le 19,50 in zona Viale Novara a circa due chilometri dallo stadio. Un centinaio di ultras dell'Inter hanno teso un agguato nella zona di transito dei van con supporter del Napoli e uno di questi è stato circondato da gente armata di mazze e catene. "Agguato" e "azione squadrista ignobile" le ha definite il questore di Milano, Marcello Cardona che ha ripercorso i tragici avvenimenti. Nella colluttazione nata dall'agguato un uomo è rimasto ferito lievemente per una coltellata, mentre Belardinelli è stato travolto dal van che cercava di farsi largo per sfuggire all'agguato. Il questore Cardona, ha spiegato che si sta cercando di rintracciare il suv scuro e che non esistono al momento certezze circa la consapevolezza di chi era alla guida del mezzo riguardo l'investimento e l'uccisione del tifoso avversario. Tre ultras interisti sono stati arrestati con l'accusa di rissa aggravata e lesioni. Sono stati identificati grazie a video e testimonianze dei presenti. Non sono esclusi altri fermi col procedere delle indagini. Perquisizioni sono state effettuate in diverse abitazioni.

Il pugno duro contro la curva dell'Inter. Il questore Cardona ha anche annunciato di aver richiesto "con procedura d'urgenza" alcune misure eccezionali nei confronti della tifoseria nerazzurra: il blocco delle trasferte per tutta la durata del campionato e la chiusura della Curva Nord di San Siro fino a marzo 2019 per un totale di 5 partite di campionato e una di Coppa Italia. La presenza di ultras di Nizza e Varese rende ancora più inquietante lo scenario della notte di Inter-Napoli, costellata anche di odioso buuu razzisti nei confronti del giocatore senegalese Koulibaly e con polemiche che si sono trascinate ben oltre la fine della gara. 

Chi era Davide Belardinelli. Davide Belardinelli, 35 anni, abitava nella zona di Morazzone in provincia di Varese ed era noto come uno dei capi dei “Blood Honour”, la grangia più estrema del tifo organizzato del Varese. Era a Milano per via del gemellaggio con la Curva Nord dell'Inter. La Questura di Varese ha spiegato che era "sorvegliato speciale per reati connessi a manifestazioni sportive". Nel corso della sua carriera da capo tifoso era incappato in due Daspo: nel 2007 per scontri a margine di Varese-Lumezzane e nel luglio 2012 dopo un'amichevole tra Como e Inter. Al momento degli incidenti nei pressi di San Siro non aveva alcuna limitazione per l'accesso allo stadio. Il Daspo del 2012 si era concluso nel 2017. Belardinelli era campione di arti marziali; combatteva per la "Fight Academy" di Morazzone con la quale aveva vinto alcune gare. Era socio di una ditta di pavimentisti e piastrellisti con sede in Svizzera nel Canton Ticino.

Scontri Inter-Napoli, chi è il tifoso morto: Daniele Belardinelli aveva già due Daspo. Daniele Belardinelli, il tifoso morto a Milano. Il 39enne di Varese è uno dei capi di Blood and Honour, gruppo neofascista, e campione di scherma corta. Sposato, con due figli, lavorava come piastrellista in Svizzera, scrive il 27 dicembre 2018 La Repubblica". Classe 1979, di Buguggiate, provincia di Varese, e uno dei capi del gruppo neofascista 'Blood and Honour': Daniele “Dede” Belardinelli, il tifoso varesino morto a Milano negli scontri tra gli ultrà di Inter e Napoli prima della partita giocata ieri sera a San Siro, era un volto noto delle curve. Sposato, con due figli, era - spiega la questura di Varese - "un sorvegliato speciale per reati connessi a manifestazioni sportive, con parecchi precedenti specifici". Nel 2012 aveva ricevuto dal questore di Varese un Daspo - cioè un divieto di avvicinamento agli stadi - per cinque anni, perché coinvolti negli scontri durante una partita amichevole Como-Inter, finita con due ore di guerriglia urbana. E un altro l'aveva ricevuto nel 2007, sempre di 5 anni, per gli scontri a margine dell'incontro Varese-Lumezzane. Perché le due tifoserie, quella di Varese e quella interista, sono da sempre molto vicine: e quindi il sospetto degli investigatori è che Belardinelli sia arrivato a Milano a dare man forte agli ultrà nerazzurri che avevano pianificato l'agguato ai minivan di tifosi napoletani poco lontano dallo stadio. Uno dei capi del gruppo neofascista, tra i più estremisti della galassia nera d'Italia, quindi, ma anche un campione locale di scherma corta, come raccontano le cronache. Belardinelli, che avrebbe compiuto 40 anni a marzo, nel 2015, come atleta della “Fight Academy” di Morazzone aveva vinto durante un torneo internazionale l'oro in tre specialità: coltello, giacca e coltello (scherma in cui un indumento viene usato come scudo) e "Capraia" (combattimento con i due atleti legati per le braccia). Racconta di lui un suo ex compagno di squadra: "Non ha mai avuto una squalifica durante le gare, mai un richiamo, non si è mai lamentato per le decisioni degli arbitri, era serio durante le competizioni e sorridente nella vita". "Amava il calcio, ma non ne parlavamo molto perché io tifo Juventus e lui tifava Inter, non so cosa dire, era un ragazzo solare". Sono le parole di uno zio di Daniele Belardinelli, che abitava nella zona di Morazzone, in provincia di Varese. "Ci incontravamo ogni tanto perché tutti e due lavoravamo nell'edilizia (Belardinelli lavorava in Svizzera come piastrellista) - ha proseguito lo zio - non so cosa sia successo, ho saputo la notizia dal telegiornale". Questa mattina alcuni ultrà dei "Blood Honour" si sono radunati davanti allo stadio comunale varesino 'Franco Ossola', chiedendo novità sulle condizioni del loro compagno, poi deceduto.

Tifosi morti: da Plaitano a Belardinelli, la sottile linea nera che parte nel 1963. Il decesso del 35enne Daniele Belardinelli allunga la terribile lista di vite spezzate per violenze nate dalla passione per il calcio: storie di tifosi uccisi dentro gli stadi o dopo le partite, una serie di tragedie lunga 45 anni e che comprende anche il poliziotto Filippo Raciti (2007) e il napoletano Ciro Esposito (2014), scrive il 27 dicembre 2018 Repubblica. Dentro uno stadio o lontano diversi chilometri, c'è un filo nero che accomuna le tragiche storie di tifo e vite spezzate. E' diversa da tutte le altre la dinamica della morte di Daniele Belardinelli, 35enne varesino tifoso nerazzurro, deceduto poche ore dopo essere stato investito nel corso di tafferugli tra opposte tifoserie scoppiati prima di Inter-Napoli nella serata di Santo Stefano, ma allunga la terribile lista di decessi per violenze nate dal tifo. Una lunga serie di tragedie cominciata negli anni Sessanta e proseguita fino a oggi, tra le quali c'è anche quella del poliziotto Filippo Raciti ucciso a Catania nel 2007 durante gli scontri fra opposte tifoserie di Palermo e Catania. L'ultima in ordine di tempo prima di questa, era stata quello di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli, ferito in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014 e poi morto all'ospedale Gemelli di Roma il 25 giugno successivo. Ecco il triste elenco dei "delitti da tifo":

28 aprile 1963 - Allo stadio "Vestuti" si gioca la sfida tra Salernitana e Potenza, decisiva per la promozione in serie B. A causa di un rigore non concesso ai campani i tifosi invadono il campo, scoppia la guerriglia e un poliziotto spara un colpo in aria: il proiettile raggiunge sugli spalti Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, e lo uccide.

28 ottobre 1979 - A un'ora dall'inizio di Roma-Lazio, dalla Curva Sud occupata dai sostenitori giallorossi parte un razzo sparato da un 18enne che attraversa tutto lo stadio e colpisce al volto Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, causandogli lesioni gravissime. L'uomo viene subito portato in ospedale ma non c'è niente da fare.

8 febbraio 1984 - Alla fine di Triestina-Udinese, partita di coppa Italia, scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell'ordine ad intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore a causa delle gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse ricevute dalla polizia.

30 settembre 1984 - Al termine di Milan-Cremonese, il tifoso rossonero Marco Fonghessi viene accoltellato da un altro supporter del Milan: scambiato per un ultrà grigiorosso, Fonghessi reagisce contro coloro che tagliano le gomme alla sua vettura e un 18enne lo colpisce a morte.

9 ottobre 1988 - Scontri tra tifoserie rivali al termine di Ascoli-Inter allo stadio "Del Duca". Nazzareno Filippini, 32enne tifoso bianconero, viene gravemente ferito e muore poco dopo in ospedale.

4 giugno 1989 - Una ventina di ultras rossoneri, poco prima di Milan-Roma, cercano di aggredire quattro tifosi giallorossi. Uno di loro, il 18enne Antonio De Falchi, muore durante la fuga stroncato da un arresto cardiaco.

18 giugno 1989 - In occasione della partita Fiorentina-Bologna, i tifosi viola tendono un agguato al treno che trasporta gli ultras emiliani. Una bottiglia molotov esplode all'interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall'Oglio, appena quattordicenne, che rimane irrimediabilmente sfigurato al volto.

10 gennaio 1993 - Al termine di Atalanta-Roma, Celestino Colombi, 42enne tifoso nerazzurro, muore stroncato da un infarto dopo essere rimasto coinvolto per caso nelle cariche della polizia.

30 gennaio 1994 - Aggredito da alcuni tifosi del Messina dopo il derby col Ragusa, il 22enne Salvatore Moschella muore gettandosi dal treno su cui viaggia, in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni.

29 gennaio 1995 - Prima della partita Genoa-Milan, il tifoso rossoblu Vincenzo Spagnolo viene accoltellato a morte da un 18enne supporter rossonero, Simone Barbaglia, che sarà condannato a 15 anni di carcere per l'omicidio.

1 febbraio 1998 - Fabio Di Maio, 32enne tifoso del Treviso, muore per arresto cardiaco dopo l'intervento della polizia che cerca di sedare un accenno di rissa al termine della partita tra la formazione veneta e il Cagliari.

24 maggio 1999 - Il giorno dopo Piacenza-Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno su cui viaggiano verso casa oltre tremila tifosi granata prende fuoco vicino la stazione di Salerno. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporters granata: Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, 15 anni, Simone Vitale, 21, e Giuseppe Diodato, 23.

17 giugno 2001 - Antonino Currò, tifoso messinese di 24 anni, muore dopo esser rimasto in coma alcun giorni per una bomba carta lanciata dalla curva del Catania.

20 settembre 2003 - Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, cade nel vuoto e muore a seguito di scontri con la polizia prima del derby con l'Avellino.

27 gennaio 2007 - Ermanno Licursi, dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi.

2 febbraio 2007 - L'ispettore di polizia Filippo Raciti perde la vita negli scontri scoppiati, al termine del derby Catania-Palermo, fuori lo stadio "Massimino" tra i tifosi etnei e le forze dell'ordine.

11 novembre 2007 -  Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, vicino Arezzo, sull'autostrada A1. Fatale un proiettile sparato da un agente della polizia stradale, Vincenzo Spaccarotella, intervenuto per sedare una rissa tra supporters di Lazio e Juve.

30 marzo 2008 -  Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, viene travolto e ucciso, nell'area di servizio "Crocetta", tra Asti e Alessandria, da un pullman di tifosi juventini diretti allo stadio Olimpico di Torino. Fatale, stando alle prime ricostruzioni, la manovra dell'autista del mezzo. Rinviata, in segno di lutto, la sfida tra la Juventus e gli emiliani, in programma per la 12esima giornata di ritorno. In quella del girone d'andata c'era stata la morte di Sandri.

25 giugno 2014 - Ciro Esposito, 31enne tifoso del Napoli, muore 50 giorni dopo esser stato ferito a Roma da un colpo di pistola prima di Napoli-Fiorentina, finale di Coppa Italia del 3 maggio. A sparare Daniele De Santis, ultrà della Roma.

27 dicembre 2018 - Daniele Belardinelli, 35enne varesino tifoso dell'Inter, muore poche ore dopo essere stato investito nel corso di tafferugli tra opposte tifoserie scoppiati prima di Inter-Napoli. Trasportato all'ospedale San Carlo e sottoposto ad intervento chirurgico, spira per le ferite riportate.

Storie di tifo e morte, da Paparelli a Belardinelli, scrive il 27 dicembre 2018 Sky tg 24. Dal tifoso laziale ucciso da un razzo all’Olimpico nel 1979 al 39enne deceduto dopo essere stato investito da un suv fuori da San Siro prima di Inter-Napoli. Nella lista di chi ha perso la vita anche il poliziotto Filippo Raciti. Da Vincenzo Paparelli, laziale morto durante un derby contro la Roma nel 1979 a Daniele Belardinelli (CHI ERA), che sarebbe rimasto ucciso dopo essere stato investito da un suv negli scontri prima di Inter-Napoli del 26 dicembre 2018. Da 40 anni in Italia si muore a causa di una partita di calcio. O meglio per tutto quello che di violento spesso accade attorno al rettangolo di gioco. Sono 17 le persone, tifosi e non, che hanno perso la vita a ridosso di una partita di calcio in seguito a incidenti tra supporter. Nella lista di chi è stato ucciso, c’è anche il poliziotto Filippo Raciti, deceduto a Catania nel 2007, nei tafferugli prima del derby siciliano fra Palermo e Catania. Ecco, in ordine cronologico, tutte le vittime.

Vincenzo Paparelli. Il 28 ottobre 1979, Vincenzo Paparelli, di 33 anni, tifoso laziale, muore allo stadio Olimpico dopo essere stato colpito in volto da un razzo partito dalla Curva Sud, dove siedono i tifosi della Roma. Paparelli, in Curva Nord, attendeva l'inizio del derby della Capitale.

Marco Fonghessi. È il 30 settembre 1984 quando Marco Fonghessi, 21enne, viene accoltellato a morte dopo Milan-Cremonese, da un tifoso milanista come lui che lo scambia per un rivale quando reagisce agli ultrà che tagliano le gomme della sua auto.

Nazzareno Filippini. Il 9 ottobre 1988. Nazzareno Filippini, 32enne tifoso dell'Ascoli, viene ferito e muore poco dopo gli scontri allo stadio "Cino e Lillo Del Duca" in occasione della partita tra i bianconeri marchigiani e l'Inter.

Antonio De Falchi. Un assalto degli ultrà rossoneri lanciato ai danni dei rivali giallorossi costa la vita ad Antonio De Falchi, 18 anni, romanista, che muore di infarto durante la fuga prima di Milan-Roma. Era il 4 giugno 1989.

Salvatore Moschella. Nell'elenco delle vittime c'è anche chi non ha nulla a che vedere con le partite, come Salvatore Moschella, 22 anni, un giovane disoccupato di Melilli (Siracusa) che stava andando al Nord per cercare lavoro. Moschella muore il 30 gennaio 1994 gettandosi dal treno dopo essere stato aggredito da tifosi del Messina dopo il derby col Ragusa.

Vincenzo Spagnolo. Il 29 gennaio 1995, Vincenzo Spagnolo, 25 anni, tifoso rossoblù, viene accoltellato a morte da un ultrà rossonero prima di Genoa-Milan.

Vincenzo Lioni, Ciro Alfieri, Simone Vitale e Giuseppe Diodato. Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, entrambi 15enni, Simone Vitale, 21enne, e Giuseppe Diodato, 23enne, muoiono nel rogo del treno che riporta tremila tifosi della Salernitana a casa dopo la partita di Piacenza. Il fuoco era stato appiccato dagli stessi tifosi, nei pressi della stazione di Salerno. Era il 24 maggio 1999.

Antonino Currò. Il 17 giugno 2001, Antonino Currò, tifoso messinese di 24 anni, muore dopo esser rimasto in coma alcun giorni per una bomba carta lanciata dalla curva del Catania, durante il derby siciliano.

Sergio Ercolano. Il 20 settembre 2003, Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, cade nel vuoto e muore a seguito di scontri con la polizia prima del derby campano tra gli azzurri e l’Avellino.

Filippo Raciti. E tra le vittime c'è anche l'ispettore capo della polizia Filippo Raciti, catanese di 40 anni, morto il 2 febbraio 2007 per un trauma epatico riportato in seguito agli scontri tra agenti e tifosi prima del derby Catania-Palermo. Per la sua morte sono stati condannati due ultrà rossazzurri Antonino Speziale, minorenne all’epoca dei fatti, e Daniele Micale. 

Gabriele Sandri. Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, ferito dal proiettile sparato dall'agente della polizia stradale Vincenzo Spaccarotella. Era l'11 novembre 2007.

Matteo Bagnaresi. Nemmeno un anno dopo dalla morte di Sandri che suscita una valanga di polemiche, Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, perde la vita, il 30 marzo 2008, in un'area di servizio tra Asti e Alessandria, investito dalla manovra incauta di un pullman di tifosi juventini.

Ciro Esposito. Il 25 giugno 2014, Ciro Esposito, 31enne tifoso del Napoli, muore 50 giorni dopo esser stato ferito a Roma da un colpo di pistola prima di Napoli-Fiorentina, finale di Coppa Italia. A sparare Daniele De Santis, ultrà della Roma.

Daniele Belardinelli. Daniele Belardinelli, 39enne di Varese, muore in ospedale a Milano, il 27 dicembre 2018, all’indomani di Inter-Napoli. Il 39enne sarebbe deceduto dopo essere rimasto investito da un suv.

Ciro e le altre «vittime del calcio». Ventidue morti in 50 anni di violenze. Da Plaitano, colpito dal proiettile di un poliziotto nel 1963, alla morte del tifoso napoletano dopo oltre 50 giorni di agonia, scrive il 25 giugno 2014 "Il Corriere della Sera". La morte di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli, ferito in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio scorso, morto all’ospedale Gemelli di Roma dove era ricoverato da quella sera, è l’ultima di una lunga serie di tragedie cominciata negli anni Sessanta. Eccole.

28 aprile 1963 - Allo stadio «Vestuti» si gioca la sfida tra Salernitana e Potenza, decisiva per la promozione in serie B. A causa di un rigore non concesso ai campani i tifosi invadono il campo, scoppia la guerriglia e un poliziotto spara un colpo in aria: il proiettile raggiunge sugli spalti Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, e lo uccide.

28 ottobre 1979 - A un’ora dall’inizio di Roma-Lazio, dalla Curva Sud occupata dai sostenitori giallorossi parte un razzo sparato da un 18enne che attraverso tutto lo stadio e colpisce al volto Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, causandogli lesioni gravissime. L’uomo viene subito portato in ospedale ma non c’è niente da fare.

8 febbraio 1984 - Alla fine di Triestina-Udinese, partita di Coppa Italia, scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell’ordine a intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore per le gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse ricevute dalla polizia.

30 settembre 1984 - Al termine di Milan-Cremonese, il tifoso rossonero Marco Fonghessi viene accoltellato da un altro supporter del Milan: scambiato per un ultrà grigiorosso, Fonghessi reagisce contro coloro che tagliano le gomme alla sua vettura e un 18enne lo colpisce a morte.

9 ottobre 1988 - Scontri tra tifoserie rivali al termine di Ascoli-Inter allo stadio «Del Duca». Nazzareno Filippini, 32enne tifoso bianconero, viene gravemente ferito e muore poco dopo in ospedale.

4 giugno 1989 - Una ventina di ultras rossoneri, poco prima di Milan-Roma, cercano di aggredire quattro tifosi giallorossi. Uno di loro, il 18enne Antonio De Falchi, muore durante la fuga stroncato da un arresto cardiaco.

18 giugno 1989 - In occasione della partita Fiorentina-Bologna, i tifosi viola tendono un agguato al treno che trasporta gli ultras emiliani. Una bottiglia molotov esplode all’interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall’Oglio, appena quattordicenne, che rimane irrimediabilmente sfigurato al volto.

10 gennaio 1993 - Al termine di Atalanta-Roma, Celestino Colombi, 42enne tifoso nerazzurro, muore stroncato da un infarto dopo essere rimasto coinvolto per caso nelle cariche della polizia.

30 gennaio 1994 - Aggredito da alcuni tifosi del Messina, dopo la partita Messina-Ragusa, il 22enne Salvatore Moschella muore gettandosi dal treno su cui viaggia, in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni.

29 gennaio 1995 - Prima della partita Genoa-Milan, il tifoso rossoblu Vincenzo Spagnolo viene accoltellato a morte da un 18enne supporter rossonero, Simone Barbaglia, che sarà condannato a 15 anni di carcere per l’omicidio.

1 febbraio 1998 - Fabio Di Maio, 32enne tifoso del Treviso, muore per arresto cardiaco dopo l’intervento della polizia che cerca di sedare un accenno di rissa al termine della partita tra la formazione veneta e il Cagliari.

24 maggio 1999 - Il giorno dopo Piacenza-Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno su cui viaggiano verso casa oltre tremila tifosi granata prende fuoco vicino la stazione di Salerno. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporters granata: Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, 15 anni, Simone Vitale, 21 anni e Giuseppe Diodato, 23 anni.

17 giugno 2001 - Durante Messina-Catania, Antonino Currò, 24 anni tifoso giallorosso, viene colpito da una bomba-carta lanciata dalla curva avversaria. Il giovane finisce in coma e dopo qualche giorno muore.

20 settembre 2003 - Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, muore precipitando nel vuoto durante gli scontri tra tifosi e polizia prima del derby tra l’Avellino e la formazione partenopea.

27 gennaio 2007 - Ermanno Licursi, un dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi.

2 febbraio 2007 - L’ispettore di polizia Filippo Raciti perde la vita negli scontri scoppiati, al termine del derby Catania-Palermo, fuori dallo stadio «Massimino» tra i tifosi etnei e le forze dell’ordine.

11 novembre 2007 - Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, vicino Arezzo, sull’autostrada A1. Fatale un proiettile sparato dall’agente della polizia stradale Spaccarotella intervenuto per sedare una rissa tra supporters di Lazio e Juve.

30 marzo 2008 - Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, viene travolto e ucciso, nell’area di servizio «Crocetta», tra Asti e Alessandria, da un pullman di tifosi juventini diretti allo stadio Olimpico di Torino. Fatale, stando alle prime ricostruzioni, la manovra dell’autista del mezzo. Rinviata, in segno di lutto, la sfida tra la Juventus e gli emiliani, in programma per la 12esima giornata di ritorno.

25 giugno 2014 - Ciro Esposito, 31enne giovane tifoso del Napoli, muore a seguito del ferimento con un colpo di pistola in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio precedente tra Napoli e Fiorentina in programma a Roma. Esposito è rimasto tra la vita e la morte per oltre 50 giorni.

Inter-Napoli, Koulibaly e i cori razzisti di San Siro: l'espulsione del difensore è un caso, scrive il 26 dicembre 2018 Repubblica TV. Il Napoli perde male a Milano, contro l'inter: 1-0 nei minuti di recupero, con i partenopei ridotti in 10 per l'espulsione di Koulibaly all'80' (e poi in 9 per il rosso a Insigne al 94'). Il difensore del Napoli ha rimediato un doppio giallo dopo un fallo e un applauso irriverente nei confronti dell'arbitro. A Sky Calcio Club, tuttavia, Fabio Caressa ha fatto notare come al momento del gesto di Koulibaly dagli spalti piovessero ululati razzisti. Cori di questo tipo - e altri di discriminazione territoriale nei confronti dei sostenitori del Napoli - avevano causato, già prima nel corso del match, un richiamo dello speaker dello stadio ai tifosi nerazzurri. Dalle immagini Sky si intuisce come dopo il rosso a Koulibaly sia Callejon sia Insigne si rivolgano all'arbitro, facendogli notare con ampi gesti i cori che avrebbero innervosito il loro compagno di squadra.

Calcio, da Balotelli a Koulibaly: quei cori razzisti che sporcano gli stadi, scrive Martina Tartaglino il 27 dicembre 2018 su Repubblica TV. Da Mario Balotelli a Kevin Prince Boateng, da Sulley Muntari fino a Kalidou Koulibaly. Non sono pochi gli episodi di razzismo che si sono verificati negli stadi italiani negli ultimi anni. Spesso i cori e gli insulti verso alcuni giocatori hanno indotto i direttori di gara a sospendere le partite, altre volte a reagire sono stati gli stessi calciatori con gesti di protesta anche eclatanti.

Koulibaly: "Mi sento napoletano, quando andrò via piangerò! In Italia razzismo sui meridionali, vedete Insigne! Ancelotti, Sarri e Benitez..." Da quand'è a Napoli, ormai una vita, Kalidou Koulibaly è stato bravo a guadagnarsi pian piano la scena, scrive il 28.10.2018 Tutto Napoli. Da quand'è a Napoli, ormai una vita, Kalidou Koulibaly è stato bravo a guadagnarsi pian piano la scena, fino a divenire uno dei più forti difensori d'Europa, tanto cercato sul mercato. Il centrale azzurro, parlando anche di questo, ha rilasciato un'intervista al Corriere dello Sport: "Mi sento francese e senegalese da quando sono nato. Quando uno mi chiedeva di dove ero, rispondevo che ero francese ma anche senegalese da parte dei miei genitori. Per me era molto impotante. Poi, quando sono arrivato in Italia, a Napoli, dopo un anno e mezzo mi sentivo già cittadino napoletano. Perché io, Kalidou Koulibaly, sono, mi sento, francese, senegalese e napoletano". Lei ha ma avvertito rischi di razzismo? "Quando ho firmato la gente diceva che l'Italia è molto razzista. Io volevo rendermi conto da solo, non volevo ascoltare la gente, mi piace vedere le cose con i miei occhi. Tra quello che pensa la gente o quello che dice e quello che veramente è la realtà c'è un mondo di differenza. Il mio portiere di casa, che si chiama Ciro, mi ha detto "Quando arrivi a Napoli piangi due volte: quando arrivi e quando parti”. Io gli ho detto “Non ho pianto quando sono arrivato ma se un giorno dovrò andare via, spero il più tardi possibile, è sicuro che piangerò". Aveva ragione quando mi ha detto così, io sono molto felice qui. La gente parla a volte male di Napoli e non sa che cosa è Napoli. Quando non la vivi non puoi sapere che cosa è davvero". In campo le è capitato qualche episodio in cui è stato fischiato per il colore della sua pelle? "Sì, in altri stadi, non a Napoli. Quando sono arrivato non li ho sentiti durante il mio primo anno, ma già dal secondo ho iniziato a rendermi conto e mi dava fastidio. I 'buu' mi infastidiscono, non li accetto, perché non sono solo contro di me, per il colore della mia pelle, a volte sono anche contro i napoletani, la gente del Sud. Questo mi dispiace molto perché quando sei in un Paese dove tu devi trasmettere un senso di appartenenza e poi fischi contro la gente del Sud, o fai cori razzisti, finisci col contraddirti. Le faccio un esempio calcistico: quando uno come Insigne, che è un fuoriclasse assoluto, forse il migliore giocatore dell'Italia, è fischiato in alcuni stadi perché è meridionale, poi quando va in Nazionale come lo devi trattare? Io non capisco questo tipo di atteggiamento e spero che evolva velocemente. Stiamo cambiando, ma penso che dobbiamo ancora fare degli sforzi perché l'Italia deve andare avanti da questo punto d vista e dobbiamo aiutarci a farlo. Un altro esempio: la Nazionale francese che ha tanti giocatori di colore, di altre origini, che hanno vinto il Mondiale. Per me questa è la cosa più bella che possa succedere". Ha avuto allenatori come Benitez, Sarri e Ancelotti nel Napoli. Mi dice le differenze tra questi tre allenatori? "Poca e molta. Poca perché sono tutti e tre grandi allenatori. Il calcio di Benitez e quello di Ancelotti si somigliano molto. Ho avuto la fortuna anche di giocare con mister Sarri e il suo calcio era per me veramente bellissimo. Lui mi ha permesso di vedere il calcio e le partite in un'altra maniera. La sua filosofia era concentrata sulla tattica, tutto era previsto con lui. Oggi, quando guardo una partita di qualsiasi squadra, non la vedo più come quattro o cinque anni fa. E lo devo a lui. Benitez mi ha fatto scoprire il calcio vero. Io ero in Serie B in Francia, poi in Belgio, lui mi ha dato la possibilità di andare per la prima volta in Serie A, in un campionato molto importante. Il suo calcio è molto simile a quello di Ancelotti perché sono allenatori che hanno vinto, allenato grandi squadre e la loro visione del gioco ha molti punti di contatto. Ancelotti, tutti lo conoscono, ha vinto molto, ma quello che mi sorprende di più è l'umiltà che ha ancora e anche la voglia di vincere che non smettere di avere. Un uomo veramente perbene e lo ringrazio molto perché mi dà ancora la voglia di andare avanti, di crescere di far vedere che sono un giocatore sempre più forte. Con lui spero di fare qualcosa di bello perché è uno che dà fiducia a tutti e penso che non si sentirà mai un giocatore parare male di lui, perché ha grandi valori e trasmette serenità. A mia moglie dico sempre che spero, alla sua età di essere una persona simile a lui".

Thuram, il calcio e il razzismo: «Ancelotti ha squarciato i silenzi», scrive Francesco De Luca su Il Mattino il 30 novembre 2018. Lilian Thuram non ha smesso di correre e lottare come ha fatto in campo per 28 anni, dal primo campionato con il Monaco all'ultimo con il Barcellona, vincendo Europeo e Mondiale con la Francia. Corre per il mondo perché lotta contro il razzismo, il primo avversario di quest'uomo nato in Guadalupe, un nemico ostinatamente sfidato ma non ancora battuto. Il periodo più lungo della sua carriera - dal 1996 al 2006 - lo ha vissuto in Italia, indossando le maglie di Parma e Juve. Il suo primo allenatore è stato Ancelotti, che ha recentemente aperto il fronte contro i vergognosi cori da stadio, che tormentano da anni giocatori e tifosi del Napoli. Anzi, un'intera città.

«Sospendere le partite in caso di insulti»: cosa pensa della proposta di Ancelotti?

«Una premessa. È importante che ci sia una persona che dica che tutto questo non si può fare perché il vero problema è rappresentato da allenatori e giocatori che non dicono niente per paura di mettersi contro quei tifosi. Loro guardano e fanno finta di non vedere, manca la volontà di denunciare. Con un intervento come quello di Ancelotti si prende la direzione giusta».

Interrompere una partita, come gli arbitri sono stati sollecitati a fare dalla Federcalcio italiana, è un'azione utile?

«Se si interrompe una partita per cori razzisti o per insulti, il calcio si ferma a riflettere. Questo è un mondo professionistico basato sul business, dunque si può aprire una riflessione se c'è un intervento così forte contro un male che non è soltanto di questo settore ma della società. Il calcio provi a risolvere questa situazione: non la legittimi con il silenzio».

Come e dove nasce questa vergogna, questa persecuzione nei confronti di atleti neri ed ebrei o di una squadra meridionale?

«È una questione culturale. Chi non è oggetto di atti di razzismo non si rende conto che questa è violenza pura ed ecco perché non dà peso a certi episodi. C'è una differenza tra il razzismo per le origini e per il colore della pelle. Nei confronti dei meridionali che si trasferivano al nord per lavoro vi era un profondo ostracismo negli anni 50 e 60: si arrivava a negare l'ingresso in un locale. Fuori dagli stadi, la società non fa differenza tra italiani e napoletani mentre ancora oggi c'è chi invece rifiuta la legittimità, lo status di italiano, a chi è nero. Io ho giocato tanti anni con Fabio Cannavaro, lo considero mio fratello. Quando ascoltavo i cori che facevano contro di lui negli stadi perché era napoletano, gli dicevo che non era giusto e che non si poteva far finta di niente di fronte a coloro che si sentivano superiori ad altri e ovviamente non lo erano». 

Siamo tutti Koulibaly (ma il razzismo non sia strumentalizzato). La notte della vergogna di San Siro, la guerra senza armi di Ancelotti, le polemiche pretestuose di De Laurentiis e un calcio che si delegittima da solo, scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". Siamo tutti Koulibaly. E siamo stati tutti anche Zoro, Balotelli, Eto'o e Boateng per citare alcune delle vittime del razzismo da stadio che non è folklore e nemmeno una tassa da pagare senza ribellarsi come troppi vorrebbero farci credere. Siamo tutti Koulibaly perché assistere al corredo sonoro osceno e razzista di Inter-Napoli porta a solidarizzare con un uomo, prima ancora che un giocatore, la cui unica colpa nella testa degli idioti da curva è di avere la pelle nera e giocare per la squadra avversaria. Il razzismo da stadio non è uno scherzo, è una cosa dannatamente seria e che si deve estirpare in un solo modo e, cioé, seguendo il modello inglese: colpire il responsabile e cancellarlo dalla possibilità di rimettere piede in uno stadio. Loro lo fanno, pur tra rigurgiti e difficoltà, quindi si può fare. E' l'unica soluzione seria senza perdersi in discorsi culturali e sociologici che vanno bene per un dibattito da salotto ma non per rendere respirabile nel minor tempo possibile il clima dei nostri stadi.

La notte di San Siro e la guerra di Ancelotti. La notte dei buuu razzisti di San Siro contro Koulibaly non può passare impunita, ma detto questo una riflessione si impone perché, proprio per la sua natura grave e inaccettabile, il razzismo da stadio va combattuto con un minimo di coerenza e senza improvvisazione. Sostenere che il difensore del Napoli, perfetto e migliore in campo per 80 minuti, sia stato espulso da Mazzoleni che non ha compreso come la sua reazione (applausi verso l'arbitro) fosse indirizzata al contesto razzista della serata e non una solenne arrabbiatura per l'ammonizione appena presa - sacrosanta - fa un torto allo stesso anti razzismo e assapora di strumentalizzazione. Dire che l'arbitro Mazzoleni avrebbe dovuto sospendere la partita e mandare tutti a casa significa non conoscere le regole. Quelle che affidano ai responsabili dell'ordine pubblico la decisione sul prosieguo o meno di una partita. All'arbitro, insieme agli uomini della Procura Figc, compete di segnalare comportamenti non consoni, chiedere che il pubblico sia sensibilizzato e, come misura estrema, fermare per qualche minuto la partita. Una testimonianza simbolica cui non si può ridurre tutto il dibattito.

Il nostro calcio autolesionista. Invece c'è un arbitro che è stato messo alla gogna e che lo era stato portato anche prima, alla vigilia del match, da dichiarazioni irresponsabili di un presidente come De Laurentiis che da mesi va in giro autoproclamandosi campione d'Italia morale senza che nessuno faccia scattare un deferimento o una qualsiasi forma di tutela da parte dell'ordinamento che anche lui dovrebbe rappresentare. A De Laurentiis la designazione di Mazzoleni non piaceva. Puzzava perchè lo riteneva "cattivo" e "non imparziale" con il Napoli. Il crollo nervoso finale della squadra di Ancelotti lascia supporre che i calciatori avessero assimilato in tutto e per tutto il pensiero del loro numero uno. Fa niente che Mazzoleni, questione cori spiegata a parte, se proprio ha commesso un errore lo ha fatto negando un rigore nel finale all'Inter. I fatti non esistono, lasciano spazio alle ricostruzioni di parte. Allegri ha attaccato ADL lamentandosi di un sistema che consente ai massimi dirigenti di spargere veleno impuniti. Allegri ha esagerato col nervosismo e con le polemiche in campo a Bergamo, ma il discorso post gara non fa una piega. Il nostro è un calcio che si sta sparando nei piedi. Prima di De Laurentiis era stato Preziosi a evocare malafede e complotti, poi Cairo a proseguire in un conteggio strumentale di torti e favori per il suo Torino. Anche Duncan, centrocampista del Sassuolo, ha argomentato che si decide a tavolino chi deve vincere attaccandosi a un gol non concesso alla sua squadra per questione di millimetri. Non da un arbitro ma dalla tecnologia. Nessuno di loro è stato chiamato a dare conto delle proprie parole. Tutti hanno lavorato con impegno certosino a distruggere il giocattolo del quale sono protagonisti. Se si potesse scrivere una letterina di Natale per il presidente Gravina (ma siamo fuori tempo massimo) conterrebbe due sole richieste: pene certe per i razzisti da stadio e la rimozione dal sistema di chi piega costantemente ai propri interessi la causa comune. Ci sarebbe una Procura Figc con i poteri di farlo, ma evidentemente non è interessata.

Gli scontri di Inter-Napoli, gli insulti a Koulibaly: una battaglia culturale. Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo degli ultrà di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre, scrive Antonio Polito il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Papà, perché fischiano sempre Koulibaly?». Mio figlio, nove anni, doveva essere il protagonista della serata. Viaggio premio da Roma a San Siro per farlo esordire da interista nel tempio del Meazza. «Boxing day», l’avevano chiamato, e io ci avevo creduto: Natale col calcio, festa e bambini allo stadio. Gli ho risposto: «Lo fanno perché ha la pelle nera, e loro sono razzisti». E lui: «Ma allora perché non fischiano anche Asamoah?». Il quale, pur essendo nerazzurro, è effettivamente nero quanto Koulibaly. Logica stringente. D’altra parte avevamo fatto il viaggio in metro fino a San Siro chiacchierando schiacciati l’uno contro l’altro con un ragazzo di colore di Capetown, Sudafrica, turista e tifoso interista. Ed eravamo seduti affianco a due cinesi, ma non cinesi di Milano, cinesi cinesi, tifosi nerazzurri. Ed eravamo lì per una squadra che si chiama Internazionale perché fu frutto della scissione dal Milan di un gruppo di soci che non accettavano la chiusura autarchica e sciovinista agli stranieri. Come si fa ad essere razzisti e interisti?

E infatti il razzismo non spiega tutto ciò che è successo a Milano dentro e fuori lo stadio. C’è una logica precedente, tribale e belluina, nei comportamenti degli ultrà. Essi si ritengono tribù in guerra per il territorio con tutte le altre, e soprattutto con la tribù dei poliziotti, che odiano sopra ogni altra cosa. Quindi la regressione è a prima del razzismo, che è un frutto malato dell’Ottocento. Il modello è l’orda barbarica, che marca il terreno come fanno gli animali, con l’esibizione rituale quando va bene e con il sangue quando va male. L’insulto razziale, o «territoriale» come dice il codice sportivo, è usato per eccitare la violenza. Nero o napoletano fa lo stesso: purché sia nemico. Come altro si può spiegare la spedizione punitiva organizzata ed eseguita ore prima della partita, quindi senza alcuna connessione con gli eventi sportivi sul campo, a danno di una carovana di tifosi napoletani? E i cori indegni di incitamento al Vesuvio, stupidi come le vecchie barzellette? Come comprendere altrimenti la presenza ai fatti di ultrà del Varese e perfino del Nizza, pare aggregatisi per vecchi conti da regolare con i tifosi partenopei? Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo ultramico, di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre. Ieri tanti bravi e onesti tifosi nerazzurri ripetevano sui social di «vergognarsi» peri «buuu» contro Koulibaly. Vergognarsi? Dunque ritengono gli autori di quei cori parte della loro stessa comunità? Solo del comportamento di un connazionale, o di un correligionario, o di un parente, ci si può vergognare. E noi, interisti anonimi, che cosa abbiamo in comune, oltre all’umana pietà per una vita distrutta e per due bambini rimasti orfani, con un uomo che militava in un gruppo chiamato Blood and Honour, aveva già alle spalle due Daspo ed era campione di un’arte marziale chiamata «giacca e coltello»? Perché non riusciamo neanche noi ad uscire da una concezione tribale e territoriale del tifo, come se fossimo servi della gleba cui la nascita assegna un destino, e gli interisti, o gli juventini, o i napoletani, fossero una specie a sé, antropologicamente distinta? Anche noi, che pure non siamo ultrà, ci scherziamo su per tutta la settimana, ci provochiamo sui social: partecipiamo al gioco. Questo errore lo fa anche il mondo del calcio ufficiale, quando accetta che l’alibi degli ultrà invada la giustizia sportiva, e giustifica o condanna un comportamento arbitrale, una ammonizione o una punizione, in relazione a ciò che succede sugli spalti. Perfino la «responsabilità oggettiva», istituto giuridico che esiste solo nel calcio, e a dire il vero neanche nel calcio nella maggioranza dei paesi europei, accetta la stessa logica quando punisce la società e il pubblico di una squadra per ciò che fanno gli ultrà: senza nessun risultato tangibile, a dire il vero, ma con l’aggravante di consegnare in mano a un gruppo di violenti un’arma di ricatto formidabile nei confronti delle società e dei presidenti, ché se non fanno ciò che vogliono succede il casino (ricatto che abbiamo visto più volte funzionare). La vera battaglia culturale da ingaggiare è un’altra: scacciare la logica tribale dagli stadi. Carlo Ancelotti, con la sua cultura cosmopolita acquisita sui campi di mezza Europa, forse oggi l’uomo più maturo e razionale del nostro pallone, l’aveva detto qualche mese fa, in tempi non sospetti: basta con gli insulti. Pur non essendo di colore, gli avevano dato del «maiale» in uno stadio italiano, per la semplice ragione che contro quella squadra lui aveva vinto una Champions. Sospendiamo le partite al primo insulto, aveva proposto. Chiudiamo le curve, se sono il territorio dei fuorilegge. Portiamo anche tra i calciatori il principio secondo cui civiltà ed educazione vengono prima di tutto (e che a terra non si sputa). Ora che abbiamo un «duro» al Viminale non dovrebbe essere difficile: essendo a sua volta ultrà, conosce bene la materia.

Luigi De Magistris: "Cori? È razzismo di Stato". Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris usa la tragedia di San Siro per attaccare (ancora una volta) il ministro degli interni, Matteo Salvini, scrive Luca Romano, Giovedì 27/12/2018, su "Il Giornale". Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris usa la tragedia di San Siro per attaccare (ancora una volta) il ministro degli interni, Matteo Salvini. Su Twitter il primo cittadino partenopeo ha commentato così la morte del tifoso nerazzurro: "Poteva mai essere sospesa la partita Inter-Napoli in un Paese che vive sempre più di razzismo di Stato e che vede nel Governo un ministro dell’Interno che dovrebbe garantire la sicurezza negli stadi ma che cantava qualche anno fa cori razzisti contro i napoletani?". Poi ai microfoni di Radio CRC, il sindaco di Napoli è tornato a rincarare la dose sui cori contro Koulibaly. "Condivido quello che ha detto Ancelotti, la partita andava assolutamente interrotta come tra l’altro più volte sollecitato. Questo ha inciso sicuramente su uno stato di agitazione e nervosismo da parte dei nostri giocatori. Ho apprezzato tantissimo il tweet di Koulibaly - ha detto De Magistris - ieri sera sul tardi, che ho condiviso perché credo che quello sia il messaggio che appartiene anche a me come essere umano, napoletano, italiano e cittadino del mondo". Infine un altro affondo sul governo: "Purtroppo il razzismo nel nostro paese avanza, anziché arretrare. Il compito dello Stato - ha sottolineato il primo cittadino di Napoli - deve essere quello di arginarlo, ma noi abbiamo anche rappresentati del governo che attualmente incitano alla discriminazione razziale, incitano alle divisioni sul colore della pelle e sulle provenienze geografiche".

Gad Lerner: «Io, interista, ho visto crescere la volgarità contro i meridionali». Il giornalista: «Sottocultura autorizzata dal leghismo che è al potere», scrive Gabriele Bojano il 28 dicembre 2018 su "Il Corriere del Mezzogiorno".

«Questo non è più un problema di tifo violento, siamo di fronte a veri e propri criminali politici che si annidano nella squadra del cuore». Il giornalista e conduttore televisivo Gad Lerner, da supporter neroazzurro di lungo corso qual è (non a caso inaugurò l’ultimo suo programma tv, La difesa della razza, intervistando due capi-ultras) si trovava allo stadio Meazza l’altra sera a vedere Inter-Napoli. «Mi domandavo il perché di questo speciale accanimento - dice - quasi che si cercasse ad ogni costo lo scontro, la squalifica. Non sapevo degli incidenti che erano avvenuti prima della partita».

Che idea ti sei fatto di quanto accaduto?

«Io frequento San Siro fin da ragazzo e ho visto crescere purtroppo questa sottocultura, volgare e razzista, contro i meridionali, in particolare i napoletani. Si tratta secondo me di un sottoprodotto del leghismo, queste persone si sentono legittimate a comportarsi così perché la Lega è al potere, se non avessimo un capo ultras che è diventato responsabile dell’ordine pubblico non ci sarebbe questo senso di impunità».

Razzismo di Stato lo ha definito il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che ha ricordato anche i cori razzisti contro i napoletani intonati anni fa dallo stesso Salvini.

«Sono insulti alla nostra civiltà e sono una minaccia che prima o poi raggiunge tutti noi. Non dimentichiamoci che appena una settimana fa il ministro dell’Interno è andato a stringere la mano a un capo degli ultras condannato per violenza e spaccio di droga. È come mettere un incendiario alla guida dei vigili del fuoco».

Cosa bisogna fare allora?

«Serve la mano pesante, bisogna passare dalle parole ai fatti. Bisogna interrompere le partite. Ha fatto bene Ancelotti a minacciare di lasciare il campo di gioco, la stessa cosa però dovrebbero farla e non solo chiederla giocatori, allenatori, presidenti delle società, tutti insieme, per emarginare i facinorosi».

Due gare a porte chiuse e una senza curva è un buon provvedimento punitivo?

«A me fa molta rabbia, perché ho acquistato un abbonamento che costa molto e non potrò andare a vedere la mia squadra per colpa di questi razzisti, che non sono solo imbecilli ma criminali politici perché hanno una connotazione di estrema destra dichiarata e sbandierata».

I cori razzisti contro Koulibaly fanno il paio con quelli contro gli ebrei.

«Non puoi immaginare il fastidio che proviamo io e i miei figli tutte le volte che dalla curva intonano i cori contro i milanisti dando loro degli ebrei, come se fosse una parolaccia. Su Koulibaly invece l’altra sera è successa una cosa assai curiosa».

Quale?

«Le stesse persone che lo insultavano hanno applaudito qualche minuto dopo Asamoah per un salvataggio decisivo. Quello della squadra avversaria era uno sporco negro, questo della loro squadra un eroe. Mah».

25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su Face Magazine. Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.

25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI.

2009. Festa di Pontida del 13 giugno. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.

2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.

Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”.

Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».

Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”. La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”.  Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.

2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.

Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario.  Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”. E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”. 

NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.

“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)

“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)

“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)

“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)

“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)

“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)

“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)

“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)

“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).

Contro i meridionali, ecco come parla l’Italia razzista, pubblica il 25 Ottobre 2014 Il Sud On LIne. Tratta dalla pagina Facebook di “Briganti”. Una rassegna di citazioni di segno razzista contro il Sud.

“Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diventerà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico” – BENITO MUSSOLINI dopo i pesantissimi bombardamenti alleati sulla città – diari di Ciano 1937-1943.

“Noi siamo Celti e Longobardi..! Non siamo MERDACCIA Levantina e Mediterranea.. Noi siamo Padani..!”(Borghezio, europarlamentare).

“Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani o colerosi terremotati con il sapone non vi siete mai lavati…napoli merda, …” (Salvini, europarlamentare).

“E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).

“Siamo stanchi di sentire in tv parlare in napoletano e romano.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).

“Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo e’ un peso morto per noi come tutto il Sud.” (Borghezio, europarlamentare).

“Gli immigrati bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).

“Quegli islamici di merda e le loro palandrane del cazzo! Li prenderemo per le barbe e li rispediremo a casa a calci nel culo!” (Mario Borghezio, europarlamentare).

“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù.”(Erminio Boso, europarlamentare).

“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).

“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga.” (Renzo Bossi, consigliere regionale della Lombardia).

“Gli omosessuali? La tolleranza ci può anche essere ma se vengono messi dove sono sempre stati… anche nelle foibe.” (Giancarlo Valmori, assessore all’ambiente di Albizzate)

“A Gorgo hanno violentato una donna con uno scalpello davanti e didietro. E io dico a Pecoraro Scanio che voglio che succeda la stessa cosa a sua sorella e a sua madre.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).

“Carrozze metro solo per milanesi.” (Matteo Salvini, eurodeputato).

“Sono stato, sono e rimarrò un razzista secondo le ultime direttive UE poichè credo, e aspetto smentita da quei pochi che mi leggono, che certe notizie riportate solo da Il Giornale definiscano chiaramente che tra razza e razza c’è e ci deve essere differenza.” (Giacomo Rolletti, assessore all’ambiente di Varazze).

“Gli sciacalli vanno fucilati. Bisogna dare alle forze dell’ordine l’autorità di provvedere all’esecuzione sul posto. Ci vuole la legge marziale.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).

“Darò immediatamente disposizioni alla mia comandante affinché faccia pulizia etnica dei culattoni.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).

“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati.” (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)

“E’ un reato offrire anche solo un the caldo ad un immigrato clandestino.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).

“Viva la famiglia e abbasso i culattoni!” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).

“Rispediamo gli immigrati a casa in vagoni piombati.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).

“Finché ci saremo noi, i musulmani non potranno pregare in comunità.” (Marco Colombo, sindaco di Sesto Calende).

“Vergognati, extracomunitario!” (Loris Marini, vicepresidente della sesta circoscrizione di Verona).

Se ancora non si è capito essere culattoni è un peccato capitale.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).

“Parcheggi gratis per le famiglie, esclusi stranieri e coppie di fatto. (Roberto Anelli, sindaco di Alzano).

Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari: io ne ho distrutti due a Treviso. (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).

“Noi ci lasciamo togliere i canti natalizi da una banda di cornuti islamici di merda.” (Mario Borghezio, eurodeputato)

“L’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso. Cosa facciamo degli immigrati che sono rimasti in strada dopo gli sgomberi? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto.” (Piergiorgio Stiffoni, senatore).

“Fermiamo per un anno le vendite di case e di attività commerciali a tutti gli extracomunitari.” (Matteo Salvini, eurodeputato).

“E’ inammissibile che anche in alcune zone di Milano ci siano veri e propri assembramenti di cittadini stranieri che sostano nei giardini pubblici.” (Davide Boni, capodelegazione nella giunta regionale della Lombardia).

“I gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso). Tratta dalla pagina Facebook di “Briganti”.

Furia Napoli verso cori razzisti sentiti a Udine e Torino: Juve-Inter senza tifosi? Scrive il 25 novembre 2018 Calcio Mercato.com. Ancelotti ha lanciato la sfida aperta, o meglio la trappola perfetta, per il mondo ultras che, puntualmente, non ci ha messo un secondo per cascarci a piè pari, attirando ancora una volta verso di sè non solo l'attenzione di tutto il mondo calcistico italiano, ma anche quello delle istituzioni che, tirate per la giacchetta dall'allenatore del Napoli, questa volta difficilmente potranno chiudere un occhio. I cori di discriminazione territoriale sono una piaga che colpisce il Napoli e la città di Napoli in tutta Italia e questa le sanzioni potrebbero essere estremamente salate. Quasi tutti i quotidiani sportivi nazionali e in particolare quelli partenopei hanno evidenziano questa mattina come nelle gare Udinese-Roma e Juventus-Spal si siano sentiti ancora una volta i classici cori anti-Napoli. A Udine è stato cantato "Vesuvio lavali col fuoco" e a Torino dalla curva della Juventus si è levato anche qualche coro più sgradevole rivolto anche verso la Fiorentina e Firenze. Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina non si è nascosto ed ha immediatamente sottolineato come: "il ripetersi di cori con evidente riferimento alla discriminazione territoriale è un comportamento incivile che va condannato e contrastato con determinazione". Per questo prende sempre più piede l'ipotesi di fermare le partite in corsa, ma anche di applicare alla lettera i regolamenti. "Bisogna applicare rigorosamente le norme" ha aggiunto Gravina e per questo, secondo il Mattino se confermata la provenienza dei cori soprattutto per quanto riguarda Juventus-Spal potrebbe essere chiusa per almeno due giornate la curva bianconera (perchè recidiva) arrivando, di fatto, al big match Juventus-Inter con la curva chiusa. Il rischio è concreto, ora la palla passa al giudice sportivo.

Razzismo e violenza: anche la Premier League non è più un modello? Banane in campo, insulti, cori antisemiti e una bottiglia in testa a un giocatore. Gli inglesi alle prese con una nuova emergenza negli stadi, scrive Giovanni Capuano il 20 dicembre 2018 su "Panorama". Cosa succede nel mondo dorato della Premier League? C'è un'emergenza razzismo e violenza che attraversa gli stadi inglesi considerati da anni un modello da esportare ovunque per il clima che si respira? Non esiste risposta, ma il crescendo di episodi delle ultime settimane ha fatto scattare l'allarme e portato a una riflessione che riguarda l'intero ambiente del football d'Oltremanica. Non si tratta di un problema solo etico e di ordine pubblico. Il modello Premier League è vincente e smisuratamente ricco rispetto al resto d'Europa anche perché presenta al mondo un'immagine perfetta: stadi moderni, pieni, grande spettacolo e nessuna sporcatura. Il problema hooligans è stato, almeno all'apparenza e dentro gli impianti, sconfitto da almeno vent'anni. Tutto questo piace e viene pagato oro dalle tv di tutto il mondo. Nelle ultime settimane, però, l'ingranaggio sembra essersi arrestato. Dalla bufera razzismo sul Chelsea alla banana lanciata in campo contro Aubameyang fino all'ultimo gesto di uno sconsiderato che ha colpito l'attaccante del Tottenham Dele Alli in testa con una bottiglietta di plastica. A Wembley, nel santuario del football inglese. Abbastanza per far suonare l'allarme.

Gli episodi che allarmano la Premier League. Solo restando al mese di dicembre, l'escalation è stata sconcertante. Si è cominciato con la banana lanciata in campo all'indirizzo di Aubameyang nel corso di Arsenal-Tottenham di Premier League costata un bando di 4 anni con multa di 500 sterline al tifoso responsabile (prontamente identificato). Poi il caso Sterling, insultato con epiteto razzista nel corso di Chelsea-Manchester City. Un episodio che ha costretto il mondo del calcio britannico a cominciare a riflettere su se stesso dal momento che molti hanno fatto notare come lo stesso giocatore fosse stato oggetto di una lunga campagna stampa negativa pur in assenza di comportamenti realmente censurabili. E' razzismo questo? I tifosi del Chelsea, peraltro, hanno causato anche l'apertura di un'inchiesta disciplinare da parte dell'Uefa nel corso dell'ultima trasferta d'Europa League contro il Vidi. L'accusa? Presunti cori antisemiti indirizzati verso i rivali del Tottenham. E' intervenuto anche il tecnico Sarri per condannare ogni forma di discriminazione, ricordando anche i suoi trascorsi napoletani e le difficoltà di altri ambienti calcistici. Poi la bottiglietta in testa a Dele Alli durante Arsenal-Tottenham di Coppa di Lega. Nessuna conseguenza fisica per il calciatore, però la scena ha fatto il giro del mondo e non è piaciuta.

La repressione e l'appello della Premier League. Certo, resta sempre la notevole differenza rispetto all'Italia (e non solo) che in Inghilterra i colpevoli li identificano nel giro di qualche ora, li processano e li mettono al bando per qualche anno o per sempre. Non solo un giudice, ma gli stessi club che ben comprendono il rischio della deriva e che hanno stadi e legislazione attrezzata per colpire il singolo e non la massa. Una lezione che dovremmo imparare anche noi, invece di inseguire le chiusure di settori e stadi lasciando in mano agli ultras una formidabile arma di ricatto contro le società. Questo, però, non consola i dirigenti della Premier League che stanno correndo ai ripari. Lo scorso 14 dicembre, nel pieno della bufera, la lega professionistica che raccoglie i club più ricchi del mondo ha lanciato un appello pubblico chiedendo al pubblico di segnalare comportanti non appropriati e di denunciarli sia agli stewards negli stadi che attraverso la piattaforma Kick It Out che in Inghilterra raccoglie segnalazioni e casi. Le statistiche sono impietose. Nella scorsa stagione gli abusi legati al solo calcio professionistico sono saliti a 214 con un aumento del 10%. Le tipologie? Più della metà delle segnalazioni (53%) riguarda episodi di razzismo e uno su 10 antisemitismo.

Nera italiana cacciata dall'ufficio postale: «Lei qui non può entrare». L'episodio è avvenuto venerdì nel centro di Milano. La donna, di origine somala, aveva il volto scoperto e riconoscibile, ma il direttore l'ha mandata via lo stesso con modi bruschi. A nulla le è servito mostrare la carta d'identità del nostro Paese. L'azienda: «Non è la nostra policy», scrive Alessandro Gilioli il 12 novembre 2018 su "L'Espresso". Ai razzisti a volte va male. Di rado, purtroppo, ma a volte capita. È capitato ad esempio al dottor Giuseppe De Luca, direttore dell'ufficio postale di Corso di porta Ticinese, angolo via Urbano III, nel centro di Milano. Uno degli uffici postali storici della città. A lui è andata male perché la donna nera che ha cacciato dal suo ufficio postale non solo è cittadina italiana, ma fa anche da badante a due anziani avvocati. Che, nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni. Ma c'è di più, per lo sfortunato direttore delle poste di via Urbano III: uno dei due avvocati ha il figlio che da un po' di anni fa il giornalista. Cioè chi scrive, qui. Allora, andiamo con ordine. È venerdì 2 novembre, sono le 2 del pomeriggio e la signora O. decide di passare all'ufficio postale durante la sua pausa pranzo, prima di andare da mio padre. È correntista, deve sbrigare delle pratiche. La signora O. è un'italiana di origine somala, da 25 anni nel nostro Paese. Nera, di religione musulmana, quando è fuori casa indossa un foulard che le copre i capelli e le spalle, lasciandole libera la fronte e libero il mento. Non è neppure un hijab, tecnicamente. È proprio un semplice e sobrio foulard sul capo. Quando è in casa di mio papà se lo toglie - O. è tutto fuori che una bacchettona, la conosco da molti anni. Quando esce invece si mette questo benedetto foulard, per rispetto, dice. Ogni tanto, quando scendiamo in farmacia o per un'altra commissione, qualcuno ci guarda di traverso, ma poi la smette; una volta una signora in un negozio le ha detto di tornarsene a casa sua (che peraltro è a Milano); ma finora O. non era mai stata cacciata via da nessuna parte. Ora è successo. Il 2 novembre, appunto, in corso di porta Ticinese, nel pieno centro di Milano. O. è entrata nell'ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare. Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L'impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di lui è passato il direttore dell'ufficio postale, il signor De Luca appunto. Un uomo di mezza età, con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì - e anche subito. O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perché. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all'ingresso? . Via via, fuori di qui. O. se n'è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere. Poi gli ha raccontato l'accaduto. Mio padre ha 88 anni. Mio zio 85. Insieme hanno fatto gli avvocati per più di mezzo secolo. E insieme erano quando O. spiegava quello che le era successo. Sono scesi, l'ufficio postale è sotto casa. Hanno chiesto di parlare col direttore. Dopo un po' ce l'hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c'era il cartello all'ingresso. Il cartello all'ingresso mostra un casco e un passamontagna barrati. Non si può entrare con il volto coperto. Il che ha senso, per ovvi motivi di sicurezza. Peccato che O. non avesse affatto il volto coperto. Non ce l'ha mai. Ha un foulard. Non ha il capo coperto più di una suora. Anzi meno. Chissà se il direttore De Luca caccia anche le suore, quando entrano nel suo ufficio postale. Non credo. In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell'ufficio. Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard - che lascia libero tutto il viso - nella foto della carta d’identità: documento che mio padre ha dato al direttore di quell’ufficio, ma che non è bastato a farla entrare. Lo dicono poi la legge (numero 533 del 1977) e la giurisprudenza: la questione si pone ovviamente in caso di burqa (volto interamente coperto) e anche di niqab (solo gli occhi scoperti), ma non in caso di hijab (volto scoperto fino al mento compreso), figuriamoci di foulard (solo capo coperto). Lo dice perfino la delibera regionale lombarda del 2016 (fatta da una giunta leghista) che proibisce l'ingresso negli uffici pubblici solo a chi «non è riconoscibile». Lo dice infine l'azienda Poste Italiane che, contattata, ha specificato che ovviamente il divieto d'ingresso nei suoi uffici riguarda chi indossa caschi da moto, passamontagna o in generale ha il volto coperto e non riconoscibile: nessun altro. O. all'inizio non voleva rendere pubblica questa denuncia. "Ho paura di avere problemi", diceva. È normale. È orribile ma è normale, in questa Italia, in questo periodo. Poi si è convinta, con fatica. Pensando ai suoi figli. Italiani come lei, neri come lei. Che in questo Paese sono nati e vivranno. Non si può lasciare passare tutto, se si pensa a loro. Ha chiesto l'anonimato in pubblico, almeno. E spero che lo si possa mantenere, per lei che ha curato mia mamma fino all'ultimo giorno. Spero che la questione si risolva in una indagine aziendale interna, niente tribunali. I due anziani avvocati possono testimoniare, se Poste Italiane crede. Anche se forse impedire senza motivo a una persona di entrare in un locale pubblico qualche profilo legale ce l'ha, in effetti. Ma non importa. Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano. Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone. Anche se in realtà il direttore d'ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà.

Aggiornamento del 19 novembre 2018. La precisazione e la nostra risposta:

Lei qui non può entrare. In nome e per conto del sig. Giuseppe De Luca (direttore dell'ufficio postale MI 21 sito in corso di Porta Ticinese angolo via Urbano III), che sottoscrive a conferma del mandato conferito, di quanto di seguito esposto e ad ogni effetto di legge, invio la presente per richiedere la rettifica di tutto ciò che viene riferito nell'articolo indicato perché riproduce circostanze del tutto false. Ciò semplicemente perché i fatti descritti non sono mai accaduti. La signora di origine somala protagonista della vicenda non è stata affatto cacciata dall'ufficio postale, né sono mai stati fatti riferimenti offensivi o razzisti verso la sua persona o in ragione del fatto che indossasse un foulard a coprirle i capelli e le spalle. L'articolo de L'Espresso (che il corrispondente articolo de La Repubblica rilancia) è stato redatto senza avere mai avuto occasione di interpellare il mio assistito (quale diretto interessato) e, cosa gravissima, è stato scritto dal Vicedirettore de L'Espresso, Alessandro Gilioli, che si è avvalso di una prestigiosa testata giornalistica per raccontare fatti di famiglia come fosse un suo blog personale. Il medesimo afferma di avere quali uniche fonti della notizia due anziani prossimi congiunti (padre e zio) e la loro badante somala quale presunta vittima dei fatti descritti. L'attacco del Gilioli, personale e diretto verso il sig. De Luca, accusato falsamente di razzismo e di avere negato un servizio pubblico costituisce diffamazione con l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati; altresì, è lesivo della dignità e dell'onore (è scritto nell'articolo de L'Espresso: "Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano. Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone. Anche se in realtà il direttore d'ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà"). Inoltre, il sig. De Luca, identificato nominativamente nel testo dell'articolo e del quale viene altresì riferito il luogo di lavoro, ha immotivatamente subito dal Gilioli (e sta subendo dai lettori che postano i commenti anche su altre testate e sui social network) un vero e proprio linciaggio mediatico che mette a rischio anche l'incolumità della sua persona e il suo posto di lavoro. A causa di tale aggressivo, improvvido, distorto e fazioso utilizzo dello strumento di informazione, mosso più da rancore e da ragioni personali del Gilioli che dal dovere di informazione pubblica- atteggiamento che non si confà ad un Vicedirettore di testata nazionale - deriva la necessità di una immediata rettifica sia sui quotidiani online sia su quelli cartacei e la conseguente rimozione degli articoli stessi dalle edizioni online. l fatti realmente avvenuti sono i seguenti. Il giorno 2 novembre 2018 il Direttore dell'ufficio postale sig. De Luca, in ausilio al personale di sportello, era personalmente alla postazione n. 6 dell'ufficio sopra citato e da lui diretto. Alle ore 13:42, chiamata a quello sportello dal Gestore Code automatico dell'ufficio, si avvicinava una signora che chiedeva di effettuare un'operazione di prelievo dal libretto di risparmio postale intestato al figlio minore. Il sig. De Luca, esaminato il libretto, le spiegava che - trattandosi di libretto non emesso dal quell'ufficio e non essendo lei l'intestataria - per effettuare il prelievo sarebbero stati necessari dei controlli, con una particolare procedura informatica dell'ufficio, per verificare i poteri delle persone autorizzate ad operare sul libretto stesso e la verifica della potestà genitoriale. Il tutto avrebbe richiesto un po' di tempo, ma la signora sembrava impaziente e riferiva che non capiva il perché della procedura, visto che aveva prelevato altre volte senza problemi. A quel punto il sig. De Luca le riferiva che, per fare più in fretta, si sarebbe potuta rivolgere all'ufficio presso il quale era stato rilasciato il libretto, già in possesso di tali dati. Conclusasi così la discussione, la signora si allontanava dall'ufficio senza che fosse avvenuto alcun alterco o degenerazione del livello e del tono della conversazione. Il sig. De Luca alle 13:47 già aveva ripreso l'operatività allo sportello effettuando un'altra operazione. Lo stesso giorno 2 novembre, dopo quanto descritto, né la signora, né alcun altro che parlasse per suo conto si presentava in ufficio. Le circostanze esposte potranno essere in ogni sede confermate dai dipendenti dell'ufficio che occupavano le postazioni vicine. Addirittura, circa mezz'ora dopo i fatti descritti, la medesima signora si recava presso l'ufficio postale MI 30 per prelevare dal libretto come suggeritole e, pertanto, non si recava a casa Gilioli a piangere. Non corrisponde perciò al vero che "O. è entrata nell'ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare. Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L'impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di fui è passato il direttore dell'ufficio postale, il signor De Luca appunto. Un uomo di mezza età, con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì e anche subito. O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perché. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all'ingresso? Via via, fuori di qui", che "O. se n 'è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere" (articolo de L'Espresso) e che "viene cacciata, non dall'impiegato allo sportello, ma direttamente dal direttore che indica alla donna il cartello esposto all'entrata. Vi si vieta di entrare nell'ufficio pubblico con caschi, passamontagna o, comunque, con il volto coperto" (articolo de La Repubblica). l signori Gilioli (padre e zio dell'attuale Vicedirettore ed estensore dell'articolo de L'Espresso in contestazione) si sono invece recati all'ufficio postale non nell'immediatezza dei fatti, ma il giorno successivo, 3 novembre 2018 e nemmeno per difendere la dignità e l'onorabilità (mai lese) della signora, quanto piuttosto per chiedere delucidazioni sul motivo per il quale alla stessa era stato rifiutato il "cambio di un vaglia" (laddove invece si trattava di richiesta di prelievo da un libretto postale). Anche a loro il sig. De Luca spiegava nuovamente tutta la procedura per il prelievo da un libretto intestato ad un minore e, anche per sicurezza dell'interlocutore, effettuava una chiamata al cali center operativo centrale di Poste per la conferma della correttezza della procedura stessa. In tale occasione non si è mai discusso del documento di identità dell'interessata né lo stesso è stato consegnato al sig. De Luca, anche perché non ve ne era motivo visto che il prelievo in questione era già stato effettuato il giorno precedente. Non corrisponde perciò al vero che il 2 novembre gli stessi Gilioli "nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni", che "Hanno chiesto di parlare col direttore. Dopo un po' ce l'hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c'era il cartello all'ingresso" e che "In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell'ufficio. Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard - che lascia libero tutto il viso- nella foto della carta d'identità: documento che mio padre ha dato al direttore di quell'ufficio, ma che non è bastato a farla entrare" (articolo de L'Espresso). Giuseppe De Luca. Avv. Oronzo De Donno

Risponde Alessandro Gilioli:

1. È falso che l’articolo sia stato scritto senza tentare di interpellare il signor De Luca. Al contrario, lunedì 12 novembre alle ore 9.18 ho telefonato all’ufficio postale di via Urbano III a Milano qualificandomi con nome, cognome e professione chiedendo del signor De Luca. Mi è stato risposto da un impiegato che il direttore non c’era. Ho chiesto di averne il cellulare e mi è stato risposto che non era possibile. Allora ho lasciato il mio numero di cellulare chiedendo di essere richiamato. Nessuno ha mai richiamato. L’avvenuta telefonata è facilmente comprovabile in sede giudiziaria, avendo lasciato traccia sul mio telefono. Prima della pubblicazione dell’articolo, alle 11.09, è stato contattato per correttezza e informazione anche l’ufficio stampa di Poste Italiane.

2. È falso, oltre che ingiurioso verso il diritto di cronaca, che l’articolo dell'Espresso tratti di «fatti di famiglia» (!), trattandosi invece di un episodio di cronaca e discriminazione di evidente interesse pubblico.

3. È falso, oltre che ridicolo, affermare che l’articolo in questione sia «mosso da rancore», non avendo io mai conosciuto in precedenza il signor De Luca, né avendo mai avuto a che fare con lui, e quindi non potendo avere alcun motivo di «rancore».

4. Riguardo la piena veridicità dei fatti esposti dall'Espresso - in primo luogo l’allontanamento dall’ufficio postale della signora a causa o pretesto del suo vestiario - le persone citate nell’articolo sono pronte a rendere la loro testimonianza sia nell’indagine interna di Poste Italiane sia, in caso di azione legale, di fronte alla magistratura.

5. È falso che gli avvocati si siano recati all’ufficio postale «non per difendere la dignità e l’onorabilità della signora ma per chiedere delucidazioni» sulla pratica; al contrario si sono recati all’ufficio postale proprio perché increduli che la signora fosse stata cacciata a causa del suo vestiario, cosa che invece è stata purtroppo loro confermata (peraltro in modo aggressivo e ineducato) dal signor De Luca.

6. È falso che non sia stata consegnata al signor De Luca la carta d’identità della signora; al contrario, gli è stata consegnata da un suo impiegato - su richiesta di uno dei due avvocati - ed è stata trattenuta per diversi minuti nell’ufficio di De Luca prima di essere restituita.

7. Aggiungo infine che Poste Italiane non ha smentito l’autenticità dei fatti ma si è limitata a ricordare pubblicamente sui social il suo atteggiamento abitualmente aperto e non discriminatorio verso le minoranze etniche.

Per Salvini ci sono "prima gli italiani", ma al ministero assumono cinesi. Al Mise, dicastero guidato da Di Maio, qualche giorno fa hanno assunto una ragazza di nazionalità cinese che vive a Shanghai e non parla italiano. L’ha voluta nel suo staff Michele Geraci, sottosegretario vicinissimo al capo della Lega e a Beppe Grillo. Ora arrivano rilievi della Corte dei Conti, e le preoccupazioni dei nostri servizi segreti, scrive Emiliano Fittipaldi il 4 dicembre 2018 su "L'Espresso". Il sottosegretario Michele Geraci, numero due di Luigi Di Maio al ministero dello Sviluppo economico, è buon amico di Matteo Salvini. Eppure il motto «Prima gli italiani! Prima il loro diritto al lavoro!» non deve averlo convinto più di tanto. Così, come suo assistente personale, ha fatto assumere al ministero una ragazza di nazionalità cinese. Una ventiseienne che non parla italiano e che risiede a Shanghai, e che da qualche giorno è diventata dipendente del Mise con un contratto da 36 mila euro l'anno. Non è chiaro come mai Geraci si sia speso anima e corpo per l'assunzione della giovane Lingjia Chen, nata nella provincia dello Zhejiang nel 1992, e perché l’abbia voluta a tutti i costi nel suo staff. Ma è certo che – dopo settimane di pressioni - qualche giorno fa il gabinetto del dicastero di Di Maio ha formalizzato la sua assunzione tra i dipendenti pubblici del Mise. La Chen, però, non metterà probabilmente mai piede in Italia: la sua postazione di lavoro è stata allestita, con scrivania e computer, nella sede di Shanghai del nostro Istituto per il commercio con l'estero, dove pare si debba concentrare soprattutto sul tema dell'export. «Non parla l'italiano, ma solo mandarino e dialetto wu. Per molti non ha qualificazioni professionali tali da giustificare l'assunzione al Mise» protesta qualche suo nuovo collega. «Si presenta a tutti come assistente personale del Geraci, che ha le deleghe per il Commercio internazionale ed è a capo della cosiddetta "Task Force Cina" voluta da lui e da Di Maio. Ma lui non l’ha piazzata nella Task Force, che comprende un elenco di centinaia di persone. La Chen lavora direttamente per lui: ha accesso all'agenda di Geraci e a tutti i dossier sensibili del governo curati dal sottosegretario. Una cosa che in genere viene fatto da personale italiano, soprattutto per motivi di sicurezza». Dal curriculum pubblicato su Linkedin risulta che la Chen lavori da qualche mese anche per la sede di Pechino della Boston Consulting, e che si occupi delle «relazioni esterne dell’economista Michele Geraci», direttore pure del Global Policy Institute, dall’ottobre del 2015: la giovane assistente cura «i rapporti con i media, l'organizzazione di conferenze, Pr Events, e il coordinamento dei social media». Ma la Chen segnala di essere «membro importante» di una ricerca energetica per gli investimenti dell’Eni in Cina e di aver curato in passato contatti tra l’istituto diretto da Geraci e i governanti cinesi per un documentario sulla società e l’economia della Cina. Al Mise, in effetti, sono sorpresi. E anche qualche importante esponente della nostra intelligence vuole vederci chiaro. Geraci, però, non ha voluto sentire ragioni. Anzi: lo scorso 30 settembre ha persino preso carta e penna, e inviato una lettera - su carta intestata del Mise - alla sede di Intesa Sanpaolo, con cui chiede l'apertura di un conto corrente per la sua collaboratrice. «La presente» scrive Geraci nella missiva «per confermare che la signorina Lingjia Chen farà parte dello staff del Prof. Michele Geraci presso il ministero dello Sviluppo economico, con contratto e condizioni in via di definizione. A tal fine, si richiede l'apertura di un conto corrente presso la vostra banca su cui verranno canalizzati i compensi di tale attività». Dopo la firma del contratto, anche alla Corte dei Conti – dove ogni nuovo decreto di assunzione viene messo ai raggi X - vogliono capirne di più: al Mise sono infatti arrivati alcuni rilievi in merito al permesso di soggiorno, alla possibilità che l'incarico sia o meno riservato ai cittadini dell'Unione europea, e richieste per scongiurare eventuali conflitti di interesse. Geraci non è un sottosegretario banale. Ex ingegnere elettronico, ex broker alla Merrill Lynch, alla Schroders e alla Bank of America, un Mba al Mit di Boston (L’Espresso ha controllato, il master l’ha preso davvero) si trasferito in Cina nel 2008, ed è rimasto in Oriente per dieci anni, fino alla chiamata al governo voluta direttamente da Matteo Salvini. In Cina tiene lezioni per alcune università (la Nottingham University e la Zhejiang University, dove pare abbia incontrato la giovane Chen rimanendone professionalmente folgorato), e in passato ha lavorato a progetti di ricerca che «si sono rivolti a governi e società private, mirati ad offrire raccomandazioni politiche orientate alla pratica e non accademiche» si chiarisce in un suo curriculum vitae «Gli argomenti di mio interesse hanno ricompreso la politica monetaria, le disparità di reddito, le migrazioni, l’urbanizzazione, la crisi economica europea, nonché la tematica di fusioni e acquisizioni. Parlo italiano, inglese, cinese, spagnolo e francese». È nel giugno del 2018 che Geraci fa il grande passo, e decide di entrare nel governo pentastellato. Se è Salvini ad averlo voluto fortemente come sottosegretario al Mise, Geraci ha ottime entrature anche tra i Cinquestelle: sono anni che scrive sul blog di Beppe Grillo articolesse sulla Cina, descritta come una sorta di paradiso in terra, e panacea di tutti i mali italici. Secondo Geraci il regime cinese può aiutarci comprando il nostro made in Italy e i nostri Btp per rifinanziare il debito, ma il professore (a contratto) nei suoi recenti incontri con le autorità cinesi ha ipotizzato anche di far entrare Pechino dentro Alitalia, nelle società dei porti italiani (in primis quello di Trieste), mentre qualche giorno fa ha annunciato di aver trovato un «importante gruppo cinese interessato a valutare l’acquisto del Palermo: ho il contatto, ma bisogna verificare se davvero il presidente Zamparini ha ceduto o meno la società». Tra le uscite di Geraci che hanno fatto maggiore scalpore, c’è sicuramente quella dello scorso giugno, quando il sottosegretario (fan accanito sia della flat tax salviniana sia del reddito di cittadinanza made in Casaleggio) ha spiegato come l’Italia debba prendere esempio dal governo di Pechino. Su temi eticamente sensibili come la gestione dei flussi migratori, l’ordine pubblico, i rapporti con l’Africa. Letto il post, un gruppo di 23 tra professori universitari e ricercatori, tra i maggiori esperti italiani della Cina al mondo, hanno deciso di rispondere al sottosegretario, stigmatizzando le sue «affermazioni azzardate» in una lunga lettera pubblica: «Geraci non menziona come nel caso cinese si sia trattato di migrazione interna, quindi assolutamente non comparabile con i flussi migratori della nostra area mediterranea, e per di più pilotata fin dall’inizio dal governo di Pechino. In secondo luogo…le statistiche sulla criminalità in Cina spesso sono edulcorate dal funzionari locali a cui conviene mostrare il successo della propria amministrazione», senza dimenticare «il sistema brutale con cui il crimine viene represso in Cina, che utilizza ancora la tortura nelle proprie stazioni di polizia: dure campagne anticrimine hanno ancora luogo a cadenze regolari». Geraci in un post dello scorso aprile, sempre sul blog di Grillo, ha infine affermato che difendersi dall’invasione dei prodotti cinesi è, di fatto, impresa impossibile. Dunque, la nostra unica possibilità è legata alla valorizzazione delle nostre competenze sostenibili, quali arte, storia, pensiero, cultura. «Il reddito di cittadinanza» ragiona Geraci «deve essere concepito come un investimento che lo stato fa per sprigionare quel potenziale innato in ognuno di noi e liberare i giovani dall’assillo dello stipendio. Un assillo che porta a fare scelte di studio e di lavoro non consone alla propria indole e toglie risorse alle arti liberali che invece sono il supporto del nostro paese». Il reddito di cittadinanza non deve deve essere considerato un bonus per i fannulloni, «ma» aggiunge letteralmente il sottosegretario «un metodo per continuare lungo la tradizione delle arti liberali, un investimento che lo Stato può fare per cercare di far emergere cento mille nuovi Michelangelo dalla Cappella Sistina commissionata da Giulio II. È un investimento che lo Stato fa per cercare di trasformare un fannullone di oggi in un potenziale talento». In attesa che la promessa dei grillini diventi realtà e tutti gli italiani abbiano almeno 780 euro al mese per provare a diventare novelli Raffaello, Geraci ha deciso di dare un reddito di 36 mila euro l'anno a un giovane talento. Cinese, s’intende.

«Prima l'italiano». E il ministero di Di Maio caccia la collaboratrice cinese. Il sottosegretario Michele Geraci, in quota Lega, aveva voluto un contratto da 36 mila euro l'anno per una sua giovane assistente di Pechino. Ma la Corte dei Conti boccia l'assunzione: un dipendente del Mise deve conoscere la lingua del governo che la paga, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 dicembre 2018 su "L'Espresso". Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico e numero due di Luigi Di Maio, ci aveva provato in tutti i modi ad assumere la giovane Lingjia Chen nel suo staff. Per la ragazza ventiseienne che parla solo mandarino e dialetto wu il professore a contratto e fedelissimo di Matteo Salvini s'era speso anima e corpo. Aveva spinto il Mise a farle un contratto da 36 mila euro annui, e aveva chiesto personalmente all'istituto Intesa Sanpaolo, con una lettera su carta intestata del Mise, l'apertura di un conto corrente per la sua fidata collaboratrice. «La presente» scriveva lo scorso 30 settembre Geraci nella missiva «per confermare che la signorina Lingjia Chen farà parte dello staff del Prof. Michele Geraci presso il ministero dello Sviluppo economico, con contratto e condizioni in via di definizione. A tal fine, si richiede l'apertura di un conto corrente presso la vostra banca su cui verranno canalizzati i compensi di tale attività». Geraci aveva insistito sia con chi lo sconsigliava sia con il gabinetto del ministero, che alla fine aveva dato (pare controvoglia) via libera alla chiamata. La scelta del sottosegretario è infatti anomala: non s'era mai visto prima un neo dipendente del Mise non risiedere in Italia ma a 9000 chilometri di distanza, che non parla una parola d'italiano, e che per molti non ha qualifiche professionali tali da giustificare un contratto in una posizione così delicata. La Chen, secondo i desiderata di Geraci che ha le deleghe per il Commercio con l'estero, è stata assunta infatti come assistente personale del politico, un incarico che permette – di fatto - di conoscere nei dettagli l'agenda del numero due del Mise e di lavorare su dossier sensibili del governo nazionale. La Chen, però, quel contratto non l'avrà più.  Dopo l'articolo dell'Espresso fa che aveva raccontato la strana storia della ragazza originaria dello Zhejiang, e dopo che al dicastero di Di Maio e nei ranghi della nostra intelligence qualcuno avevano drizzato le antenne, è stata la Corte dei Conti a levare le castagne dal fuoco, esprimendosi negativamente sull'assunzione. «La Chen non conosce l'italiano», hanno confermato qualche giorno fa i giudici contabili, suggerendo che un dipendente del governo italiano non può non conoscere la lingua in cui si parla al dicastero che la paga. Un rilievo logico e banale. Che ha costretto Geraci a recedere dall'intento, e il Mise a ritirare precipitosamente il contratto già firmato. Non sappiamo se la pupilla del sottosegretario, che aveva ottenuto una scrivania alla sede di Shangai del nostro Istituto per il commercio estero, ora dovrà lasciare il suo lavoro all'Ice. O se Geraci riuscirà a piazzarla nella “Task Force Cina”, gruppo di un migliaio di persone che dovrebbero migliorare i rapporti commerciali tra Roma e Pechino, guidato proprio da Geraci. È certo però che è stato solo l'intervento della Corte dei Conti a certificare l'ovvietà: se non conosci l'italiano, non puoi diventare dipendente del governo italiano. Nemmeno se sei la favorita, professionalmente parlando, di un importante membro dell'esecutivo. 

Il perenne telegiornale anti-Salvini. Informazione dominata dal pensiero unico. Spazio ai soliti Saviano e Gino Strada, porte chiuse a chi ha idee differenti, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 14 Luglio 2018. Va in onda TeleRazza, il telegiornale monografico a reti unificate che ogni giorno invade le case degli italiani. Razzismo è la parola chiave più ricorrente, anzi ossessiva, che apre e chiude i servizi sugli sbarchi, sui migranti, sulle reazioni a Salvini, che sono sempre dieci volte più ampie delle dichiarazioni proSalvini. Uno a dieci è la regola della rappresaglia sancita dai nazisti. Ma anche nei servizi dall’estero, parlando di Trump la parola chiave nei tg è razzismo, come mostravano ieri gli ampi reportage sui quattro sciamannati che si agitavano a Londra contro il presidente Usa, come se fossero la voce profonda degli inglesi (che invece a larga maggioranza sono per i conservatori, i nazionalisti, la Brexit e per l’alleanza atlantica con l’America di Trump). È impressionante ascoltare i telegiornali, della Rai e non solo, dedicati ogni giorno a colpire Salvini. Gli attacchi sono palesi, indiretti, occulti, istituzionali, subliminali, e si estendono nello sport, nello spettacolo, nei concerti ripresi dalle telecamere. E occupano mezzo telegiornale, tre volte al dì prima dei pasti. Per infilzare il fantoccio di Salvini vengono fatti sfilare Mattarella e il Papa (che a volte si scambiano i ruoli e le magliette), Mortina e il suo moribondo Pd, i Leucociti (non so come chiamare i militanti di LeU), i Magistrati, gli Eurocrati, varie associazioni, l’Anpi, le femministe, le Ong, i Vegani, le Anime Belle, i Preti, i Saviano, i GinoStrada (mai un opinionista del versante opposto). A volte la salvinofobia si estende anche in ambiti impropri: per esempio si legge la finale Croazia-Francia come se fosse la sfida tra Salvini e Macron, lo scontro finale tra i nazionalisti, populisti, razzisti croati e gli internazionalisti, bellagentisti, illuministi francesi. Ogni giorno tir di merda vengono rovesciati nelle discariche dei quotidiani nazionali contro Salvini e il razzismo. L’accusa di demagogia, fake news e populismo diventa in certi casi grottesca e autobiografica. Ne cito un paio. La famosa frase di Tito Boeri, il presidente dell’Inps, che gli immigrati ci pagheranno le pensioni è di una trita, falsa demagogia come nemmeno i più beceri dei populisti. È facile dimostrare, conti alla mano e casi precisi, che i minimi versamenti dei migranti all’Inps sono largamente superati dagli sgravi fiscali di cui beneficiano, dagli assegni di sostegno e dai costi dei medesimi per la sanità, la scuola, ecc. È imbarazzante che un presidente dell’Inps usi un gergo da bar dello sport e lo faccia deprecando quelli che usano argomenti da bar dello sport... Le bufale degli antipopulisti sono peggiori di quelle populiste... Altro esempio sulla sorellastra minore di Salvini, la Meloni. L’hanno massacrata perché ha chiesto di cancellare la legge sulla tortura approvata l’anno scorso. Il sottinteso è che la Salvini’s sister, razzista de roma, sgarbatella e fascistella, voglia ripristinare la tortura in Italia. Nella loro falsificazione idiota e demagogica, i giornali non si sognano di dire che da noi la tortura è reato da secoli, dai tempi di Beccaria; e che quella legge approvata lo scorso anno, non introduceva finalmente il reato di tortura che era già in pieno vigore; ma semplicemente mirava a intimidire la polizia e i carabinieri. Perché dopo ogni scontro, ogni saccheggio, ogni violenza, quel che resta poi nei media è sempre e solo la reazione vera e presunta delle forza dell’ordine. Lo stesso linciaggio, la sventurata subì pochi giorni prima quando osò come tanti far notare il rolex e la maglietta rossa di Gad Lerner. Le hanno rinfacciato di prendere lo stipendio di parlamentare (come si sa, lei è l’unica a ritirarlo, gli altri lo respingono al mittente) e di aver ostentato una volta nientemeno che una borsa di Vuitton. Come dire, sei populista, ergo devi usare le buste di plastica o meglio di carta riciclabile. Ma l’orologio rolex, le mega-terrazze, gli stipendi pazzeschi, non sono in sé un crimine e un misfatto, ma fanno impressione se sono ostentati da chi si mette dalla parte dei disperati e dei migranti. C’è contraddizione, sì o no, a fare i pauperisti griffati? Ma la Spocchiosa Macchina da Guerra dei Media, l’Uniforme telegiornalismo del nostro Paese, marciano imperterriti contro il Razzista alle porte, il Feroce Salvini. Suggerimento finale. Per fare la telecronaca quotidiana dei razzi contro i razzisti, ossia dei missili lanciati ogni giorno contro Salvini, suggerirei di ingaggiare in Rai un’esperta a livello mondiale: Ri Chun-hee, la speaker nordcoreana. È la più adatta al ruolo e al regime dell’informazione nostrana.

Violenza contro i migranti, non è solo razzismo: «Il vero problema è l'emulazione». Negli ultimi sei anni i crimini d’odio sono aumentati esponenzialmente. Trentatré solo negli ultimi due mesi. Insulti, botte e spari contro immigrati e italiani di origini straniere sono all’ordine del giorno. Luigi Manconi: «Non è una cospirazione bianca, né raptus. Ma l’intimidazione contro l’altro è ormai un’attività domestica», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2018 su "L'Espresso". Trentatré aggressioni a sfondo razziale, più di una ogni due giorni. Dal 2 giugno, data di insediamento del governo Lega-5 Stelle, è stato un continuo succedersi di violenze e intimidazioni contro migranti e italiani di origine straniera. Un dato significativo nonostante le rassicurazioni dei due vicepresidenti del Consiglio: «Non c’è nessun allarme razzismo» hanno affermato, quasi in coro, Matteo Salvini e Luigi Di Maio commentando due drammatici casi di cronaca recente, molto diversi tra loro ma che hanno scosso l'opinione pubblica. Come quello di Aprilia, dove un migrante marocchino ha perso la vita dopo essere stato scambiato per un ladro. O di Moncalieri dove un uovo tirato da un auto in corsa ha ferito all’occhio la campionessa di atletica Daisy Osakue, mentre la Procura sta cercando i responsabili e ha aperto un fascicolo per lesioni senza aggravanti. Eppure le parole della giovane sportiva sono chiare: «Non voglio usare la carta del razzismo né del sessismo però a mio avviso stavano cercando una persona di colore». «In Italia il razzismo è un fenomeno minoritario, di una minoranza che negli ultimi tempi è purtroppo cresciuta costantemente» afferma Luigi Manconi, coordinatore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). «E voglio aggiungere che parlare di Italia come di un Paese razzista è sbagliato: così si applica il meccanismo essenziale del razzismo, cioé omologare e attribuire a un tutto le caratteristiche di una parte». Manconi però punta il dito contro la xenofobia, «che è qualcosa di ben diverso», sempre più forte e diffusa. Una mentalità che sempre più spesso sfocia nella violenza: «Abbiamo calcolato che da gennaio 2018 a luglio 2018 ci sono state undici persone colpite da proiettili di fucile o pistola, ad aria compressa o meno. Non credo sia un’operazione clandestina, una macchinazione inquietante strisciante nel Paese». Ma la situazione è comunque grave: «Non è una cospirazione bianca, ma nemmeno l’effetto di un raptus. In tutti questi crimini è centrale l’effetto emulazione: questi “cecchini” sono comuni cittadini, la violenza e l’intimidazione diventano attività domestica». I protagonisti delle aggressioni degli ultimi mesi sono infatti padri di famiglia, pensionati, studenti. Uomini comuni che aggrediscono altri uomini comuni solo perché diversi da loro. Insulti, sputi, botte aumentano di giorno in giorno, così come gli spari: i primi sono stati quelli che nella notte tra il 2 e 3 giugno hanno ferito a morte Soumalia Sacko nella piana di San Ferdinando. Dalle lupare si passa alle mazze da baseball, come quella con cui cinque giorni dopo, l’8 giugno, un 27enne è stato aggredito a Sarno, in Campania. Il 12 giungo, a Napoli, un algerino protesta contro un auto che non si ferma sulle strisce pedonali e viene accoltellato da tre giovani. A metà giugno aggressioni contro cittadini indiani, dominicani e maliani hanno luogo a Palermo, Roma, Cagliari e Caserta. Nella cittadina campana, il 19 giugno, due ragazzi vengono aggrediti da un gruppo di giovani che gridava «Salvini, Salvini». Due giorni dopo, sempre nella città della reggia, un giovane chef migrante viene ferito dai colpi di un fucile a pallini. Violenze e aggressioni non mancano nemmeno al Nord. Il 30 giugno a Trento un ragazzo viene aggredito dal datore di lavoro dopo la richiesta di ferie: «Ti brucio vivo brutto islamico». Il giorno dopo a Torino un ragazzo del Gabon si vede aizzare contro un pitbull al grido di «negro di merda». Il 2 luglio invece, sulla costa ligure, un venditore ambulante è vittima della stessa sorte davanti a una folla plaudente, mentre chi provava a difenderlo veniva aggredito a sua volta. Poi tornano i fucili, ad aria compressa, come quelli che feriscono una ragazza nigeriana l’8 luglio a Forlì, due ragazzi, nigeriani anche loro, il 12 luglio a Latina, la bimba rom il 19 luglio a Roma, e ancora un migrante il 27 luglio sempre a Caserta. Le trentatré aggressioni degli ultimi due mesi gettano luce sulla crescita costante dei crimini di matrice discriminatoria. Stando ai dati dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) dal 2012 al 2016 questo tipo di violenze sono aumentati di undici volte: erano 73 sei anni fa, 803 nel 2016, anno dell’ultima rilevazione. Di questi 803 crimini, più di un terzo (338) sono dovuti a razzismo e xenofobia. Secondo Cronache di ordinario razzismo, lavoro prodotto con le segnalazioni raccolte dai volontari di Lunaria, sono state 557 le violenze razziste e gli atti discriminatori tra gennaio e dicembre 2017. Tra gennaio e marzo 2018, mesi della campagna elettorale, Lunaria ne ha ricevute 169. Numeri preoccupanti in un Paese dove costantemente si alimenta la paura e l’odio contro il diverso.

IDEOLOGIE. L'immigrato è sacro: come ti invento il razzismo, scrive Rino Cammilleri l'1-08-2018 su "La Nuova Bussola Quotidiana”. La sinistra culturale italiana sta inventando da decenni una narrazione sul razzismo italiano. L'immigrato è il nuovo proletario sfruttato, per questo è diventato sacro e intoccabile. Ogni fatto di cronaca è un pretesto buono per alimentare questa versione dei fatti. L’emigrato è sacro e guai a chi lo tocca. Sei poi è africano, è ancora più sacro. Il presidente Mattarella, per esempio, in visita di stato in Armenia, al deporre una corona di fiori sul sacrario del genocidio insieme al presidente armeno, non imita quest’ultimo, che si fa il segno della croce, dunque nemmeno il memoriale del genocidio è per lui sacro. Però alza la voce contro l’Italia-farwest se un cretino spara ad aria compressa su una bambina nomade. Una ragazza di origine nigeriana si becca un uovo in un occhio ed ecco tutti i giornali e i tiggì fare la conta, tutte le volte che danno la notizia, di quanti neri nell’ultimo mese si sono fatti la bua per colpa dei bianchi. Sicuramente il Tg2 metterà, se continua così, il numeretto in alto a destra dello schermo, così come per i «femminicidi». Cioè, ogni volta che ci sarà un caso, ci ricorderà tutti i precedenti, in modo che gli italiani non si scordino il sacro dovere di santificare il migrante. L’americanata del «razzismo» ha prodotto negli Usa discriminazioni al contrario, alle quali l’odiato (non a caso) Trump sta cercando di porre rimedio. Ora, la sinistra nostrana cerca di americanizzarci anche in questo, noi che non abbiamo avuto né capanne dello zio tom né guerre di secessione. Le sinistre, eredi del giacobinismo, sono maestre nella guerra degli slogan: i loro avi l’hanno inventata ed è il motivo per cui cercano indefesse di introdurre i loro temi ideologici nelle scuole. Le quali, dal Sessantotto in poi, sono diventate il luogo privilegiato del conformismo politicamente corretto, complice lo scarso livello critico della classe insegnante. Berlusconi, dal canto suo, fin dal 1994 commise lo stesso errore della Dc, trascurando la cultura, le arti e la scuola in un gramscismo al contrario. Perì di propaganda e demonizzazione, malgrado i voti che aveva. Due-tre anni fa, d’estate, ero a cena in un ristorante all’aperto, a Pisa, con una coppia di amici e il loro figlio di dieci anni. La città era da sempre un feudo rosso, perciò gli ambulanti africani erano intoccabili. Cenare fuori era un tormento, ti si avventavano addosso come le cavallette, uno dietro l’altro, senza fine. Ero impegnato in una animata discussione quando arrivò il primo, insistente nel voler vendermi le sue cianfrusaglie. Gli dissi che non mi interessava, dovetti ripeterlo cinque volte, alzando vieppiù la voce. Alla fine, spazientito, mi levai in piedi e lo mandai a quel paese a male parole. Ebbene, il bambino mi diede del «razzista», e a nulla servì spiegargli che avrei agito così anche con un ambulante italiano se fastidioso e importuno. Eh, i corsi di antirazzismo glieli avevano fatti a scuola, perciò il decenne si comportava come i cani di Pavlov. Così, la sinistra e i suoi utili idioti non devono fare altro che ribattere i loro slogan fino allo sfinimento, ansiosi come sono che un movimento razzista, dai e dai, prima o poi nasca davvero. Né si tratta di un fenomeno solo italiano: sui giornali esteri la Lega è qualificata di «partito xenofobo», e lo stesso fanno i giornalisti italiani con tutte le destre europee; basta solo che chiedano una qualche disciplina dell’«accoglienza» e l’etichetta è già pronta. Naturalmente, come tutti sanno, per far nascere un fenomeno basta evocarlo con sufficiente reiterazione. L’iperprotezione dell’immigrato creerà fatalmente un movimento di rigetto, e allora, se prenderà i voti delle maggioranze esasperate, gli si darà del «populista» (da qual pulpito viene poi, la predica: se c’era un partito populista in Italia era il loro papà, il Pci) e lo si demonizzerà in tutti i modi. Se prenderà altre vie, meglio: la sinistra ha un bisogno disperato di un «proletariato» da cavalcare, e se non c’è lo crea. Come da copione, quando la sinistra perde alle urne fa ricorso alla piazza: il segretario del Pd, Martina, ha appena annunciato una grande «mobilitazione» antirazzista per settembre. Pensate che dopo le ultime elezioni, le sinistre si stiano estinguendo? Errore: come si fa a comandare pur essendo una risicata minoranza glielo ha insegnato Marx, ed è una lezione che non hanno mai dimenticato. Anche perché non sanno fare altro.

Otto Bitjoka, un grande africano: "La sinistra usa i neri come carta igienica, ora basta". Intervista di Sergio Luciano dell'1 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". «Attenzione cari fratelli e figli miei, siete usati e sarete sistematicamente buttati via come la carta igienica, mi permetto di consigliarvi da vecchio leone disincantato. Non è più accettabile essere strumento di lotta politica nelle mani di una sinistra contro i sovranisti populisti». Otto Bitjoka ama sorprendere, e non le manda mai a dire. E interviene a modo suo - dall’alto della sua stazza di camerunense bantu con laurea alla Cattolica di Milano, imprenditore e banchiere naturalizzato italiano (ha fondato Extrabanca) - sulla diatriba in atto tra buonisti e cattivisti, sospinta dall’opposizione piddina e Leu contro la Lega di Salvini. Lo fa con un incandescente post su Facebook, che poi commenta e dettaglia con Libero: «Il nostro problema - scrive sul social network - si affronta con un approccio post-ideologico. Ai giovani leaderini sindacalisti dei braccianti (ogni allusione all’italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro è molto probabilmente voluta, ndr) consiglio di guardare verso le nostre parti, l’Africa ha il 68% delle terre incolte del pianeta, il 65% della forza lavoro trova occupazione nell’agricoltura. Impegniamoci tutti per fare diventare il nostro amato Continente, il granaio del mondo. Il nostro sguardo deve andare oltre, la nostra capacità d’auto strutturarsi è messa alla prova in questo particolare momento storico in Italia. Questa è la nostra vera sfida!»

Scusi, Bitjoka, ma lei - con l’esperienza e la credibilità che ha - non si rende conto che denunciando le strumentalizzazioni che la sinistra farebbe del problema migratorio sta facendo un gran regalo a Salvini?

«La sinistra ha sempre considerato l’immigrazione come una questione di accoglienza dove manifestare la sua magnanimità. Lo sa anche lei, che dico il vero: la sinistra ha sempre strumentalizzato».

Lo vede che è di destra?

«Macché: anche la destra ci ha sempre criminalizzato, l’obiettivo è stato uguale, mettere nel tritacarne gli immigrati».

Allora questo o quello per lei pari sono!

«Sì, ma gli immigrati, negli anni, si sono fidati di più della sinistra che della destra, salvo poi renderci conto che ci usano sempre e ci gettano. Io non voglio dare l’idea di essere diventato di destra: non è così. Sono un non-allineato. Affermo però che la sinistra ha tradito e adesso gli immigrati sono un po’ come orfani. Mentre io personalmente sono sicuro che si può - e oggi si deve, visto che è al potere - negoziare con l’istituzione gestita dalla destra. Se vogliamo disintermediare il nostro destino dobbiamo imparare a parlare con tutti. Con Salvini sarà difficile ma si può parlare. Leggo che la sinistra preannuncia per settembre una grande manifestazione antirazzista: benissimo, facciano ciò che vogliono, ma non si arroghino l’esclusiva della rappresentanza degli immigrati».

Ma cosa dovrebbe fare la sinistra, secondo lei?

«Se fosse appena appena intelligente potrebbe mettersi accanto all’Unione delle comunità africane in Italia per sostenerla, ma perderebbe protagonismo e invece vuole essere al centro dell’attenzione. Siamo noi però a voler essere e poter essere protagonisti e non vogliamo essere a rimorchio delle agende altrui…»

Scusi, ci faccia capire: lei si era candidato col Pd…

«L’ultima volta, sì, alla Regione Lombardia, con la lista di Ambrosoli. In precedenza due volte con i verdi del Sole che ride. Oggi ho preso atto che sono un indipendente e quindi nessuno mi vuole perché non mi metto in riga».

Cos’è per lei l’integrazione?

«È il successo attraverso la meritocrazia. Io non penso che gli africani in Italia debbano portare un pezzo d’Africa qua, dico che sono italiani, ma devono vivere guardando l’Africa. La sinistra ha avuto spesso la tendenza di cooptare i mediocri, in cambio della sudditanza. Perché tutti vogliono parlare di integrazione, ma nessuno la vuole sul serio, nessuno vuole che in nome dell’integrazione un immigrato diventi dirigente, o docente…»

Ancora una cosa: lei ama definirsi provocatoriamente "negro", non dice mai "nero". Perché?

«Perché sono titolato a dirlo, so di cosa parlo, ho studiato per sette anni di letteratura africana. È una scelta che risale alla corrente letteraria della negritudine nata negli anni Cinquanta che aveva visto giusto. Oggi del resto si parla di afrocentrismo, di afrocrazia… c’è una semantica nuova, serve una nuova grammatica che richiede anche una nuova ortografia».

Ok, ma per dire cosa, al di là delle parole?

«Per dire che tra 15 anni sarà l’Africa a dare le carte dello sviluppo. Per gli africani emigrati, per quelli che saranno rimasti e per il mondo».

"Noi, clochard italiani al gelo scavalcati dagli extracomunitari". Tra i senzatetto accampati sotto i portici di via Vittor Pisani: "Perché il Comune di Milano si è dimenticato di noi?" Scrivono Marianna Di Piazza e Fabio Franchini, Giovedì 20/12/2018, su "Il Giornale". Duemilasettecento posti letto per i senzatetto in ventitré strutture sparse in tutta Milano, un numero unico per le segnalazioni attivo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. È il "Piano freddo" 2018 dell’amministrazione Sala, che però, nonostante le migliorie sbandierate dalla giunta, si dimentica di tanti clochard italiani. Ne conosciamo alcuni in via Vittor Pisani, quel vialone porticato che collega Piazza della Repubblica alla Stazione Centrale. In una sera di dicembre, con il termometro che indica uno striminzito grado centigrado, incontriamo diversi connazionali che non riescono a ottenere un posto letto dal Comune. Avvolti da coperte e imberrettati, sono pronti ad affrontare l'ennesima notte al gelo. Hanno tutti tra i 45 e 60 anni, hanno figli e hanno perso il lavoro. "La situazione è drammatica, perché le temperature incominciano a calare e c’è tanto freddo. Abbiamo fatto alcune domande per un ricovero al coperto, ma purtroppo essendo italiani siamo presi in considerazione un po' diversamente…", ci spiegano. Non ce l'hanno direttamente con gli extracomunitari, ma accusano le istituzioni locali di privilegiare gli stranieri in difficoltà, anziché i molti italiani in povertà: "Quando sono andato a chiedere aiuto, ho detto che sono di Venezia e mi hanno risposto: 'Perché non ritorni a casa?'. Su questo versante loro ci passano davanti, hanno una sorta di corsia preferenziale". Da un sacco a pelo un po' appartato un uomo si alza e ci viene incontro. "Non è giusto che sia così – tuona –. La cosa allarmante è che sei fai una passeggiata qui di italiani ne trovi parecchi: il Comune dovrebbe iniziare e pensare perché ce sono così tanti per strada. E cosa fanno per noi? Niente. Abbiamo cercato un dormitorio, veniamo però preceduti da una sfilza di immigrati e richiedenti asilo. Ma l’Italia è fatta dagli italiani, non dagli extracomunitari. La guerra l’hanno fatta i nostri nonni. Non abbiamo più diritti, noi?". A poco a poco iniziano a radunarsi intorno a noi e a sfogarsi: "Questa mattina siamo andati a farci la doccia all’Opera San Francesco, in Piazza Tricolore: su una cinquantina di persone, eravamo solo cinque o sei italiani". Una coppia di signori si ferma a lascia una pizza: ringraziano e le addentano. Dopo aver messo qualcosa in pancia, ci spiegano come nessuno del Comune sia passato di lì ad aiutarli in qualche modo. Chi passa, invece, sono i volontari di alcune associazioni e la Croce Rossa: "Ci forniscono coperte, sacchi a pelo, tè caldi e brioches". Quello che manca sempre, però, è un posto al chiuso dove andare a dormire, oltre che un lavoro che non si trova. "Quando provo a chiedere in qualche posto se c’è bisogno di una mano, appena mi vedono mi chiudono la porta in faccia – raccontano –. Poi ogni giorno è dramma, perché appena giri la testa ti rubano tutto, a partire dalle coperte. Per questo andiamo a lavarci e a fare la doccia a rotazione: almeno uno di noi rimane sempre a fare da sentinella. Perché senza coperte dove vai? Come la passi la notte?".

"Pd ipocrita, non basta definirsi antifascisti per essere democratici". È il retaggio culturale degli eredi del Partito comunista mettere all'indice tutte le idee a loro contrarie. Compresa la famiglia, scrive Matteo Forte, Consigliere comunale, martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". È tornata la parolina magica che la sinistra milanese rispolvera in vista della prossima campagna elettorale: antifascismo. Ed ecco che a Palazzo Marino viene presentata una bella mozione che di più democratiche non ce n'è. La mozione, firmata in pompa magna da tutti i consiglieri di maggioranza, sottomette la concessione di spazi pubblici, contributi e patrocini ad una dichiarazione in cui il richiedente certifica il suo antifascismo e il suo essere contro il razzismo, le discriminazioni di genere e d'orientamento. A più di settant'anni, però, è giunto il momento che qualcuno di insospettabile dica una cosa che ormai anche nella storiografia più recente è stata sdoganata: non basta essere antifascisti per dirsi democratici. Il concetto di antifascismo fu egemonizzato fin da subito dall'Unione sovietica di Stalin che, vedendo nel fascismo nient'altro che l'ultimo stadio dello stato borghese, lo faceva coincidere con l'anticapitalismo. Da allora è passata l'idea che antifascisti, e quindi sinceramente democratici, sono solo quelli di sinistra. Tale retaggio culturale affligge ancora oggi gli eredi del Pci, quelli che il «comunismo italiano era un'altra cosa» e i loro giovani nipotini dem. I democratici di oggi finiscono per rigettare nel campo del fascismo tutte le idee che loro osteggiano. È fascista chi, per esempio, si oppone alla «colonizzazione ideologica» nelle scuole medie statali da parte di esponenti dell'Arcigay, com'è capitato all'assessore Deborh Giovanati del Municipio 9. Lei ha sollevato il caso di sedicenti «corsi contro la discriminazione» in cui si parlava a ragazzini adolescenti di «pansessualismo» e si invitava una consigliera Pd a presentare il suo libro su Islam e integrazione. Giovanati ha chiesto semplicemente se i genitori fossero stati opportunamente informati e se, nel caso, fosse prevista una pluralità di voci su temi così delicati in cui risulta violento andare contro le convinzioni più intime delle famiglie. Apriti cielo. Sono fioccati interventi sdegnati di parlamentari Pd contro la presunta ingerenza del Municipio nell'autonomia della scuola. Sono fioccate mozioni di censura contro l'assessore. È intervenuta l'Anpi zonale durante una seduta dell'ex consiglio di zona. La libertà è solo quella di poter esprimere le idee politicamente corrette e più accreditate. Le altre sono semplicemente fasciste. Ecco perché nella mozione liberticida ancora in discussione a Palazzo Marino si richiede l'autocertificazione pure contro le discriminazioni di genere e d'orientamento sessuale. Del resto non è un caso che la madrina delle unioni civili, la senatrice Cirinnà, abbia espressamente minacciato: «L'intuizione del grande sociologo Bauman è ormai da tempo una dura realtà: la società liquida, nella quale abbiamo dovuto abituarci a vivere, ci pone quotidianamente di fronte a nuove sfide culturali, sociali, intellettuali, per cui il tema della libertà d'espressione è indubbiamente la nuova frontiera che dobbiamo definire». In un regime sotto il Patto di Varsavia non avrebbero saputo fare di meglio. Per questo ancora oggi non basta dirsi solo antifascisti per difendere la libertà.

L'egemonia rossa è morta, ma la nevrosi resta, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 07/07/2018, su "Il Giornale". Ci fu un tempo in cui la sinistra comunista era veramente egemone nella cultura italiana. L'egemonia era nata col fascismo che, incredibile ma vero, conteneva quel che poi sarebbe stato il Pci di Palmiro Togliatti. Il partito egemone di sinistra stabilì per decenni quali fossero i film, i romanzi, i poeti, i pittori, gli attori degni del certificato di esistenza in vita. Tutti gli altri erano sdegnosamente confinati in un cono d'ombra e di disprezzo. Da questa supremazia, in parte giustificata dalla qualità, nacque e si sviluppò la grandissima spocchia, anzi il razzismo ariano degli intellettuali di sinistra. Poi, così come del gatto di Cheashire nelle avventure di Alice rimase soltanto una dentiera, dell'egemonia culturale di sinistra rimase soltanto la spocchia genetica. Non si deve mai dimenticare che Stalin cominciò la seconda guerra mondiale dalla parte di Hitler, sostenuto dallo spudorato consenso degli intellettuali comunisti di tutto il mondo, salvo quelli americani. L'egemonia è morta ma restano ridicole eruzioni di rabbia psicosomatica. Gli ex egemoni vivono come una nevrosi post traumatica la marcia trionfale di Salvini fingendo di non sapere che musica e arrangiamento di quella marcia è opera loro. È il frutto della paura che hanno inoculato negli italiani pur di saziare il proprio narcisismo di falsi buoni, mentre sono ormai solo scarti, cassonetto giallo della differenziata tossica.

La liberazione dalla retorica, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 25 aprile 2018. Cosa ne direste se facessimo un programma televisivo intitolato Arcipelago Gulag? Che ce ne siamo andati di testa, il gulag è chiuso da svariati decenni. È storia vecchia. E invece c’è un programma nuovo di zecca, intitolato La difesa della Razza, di Gad Lerner, dedicato a una rivista e agli eventi terribili di ottant’anni fa. Eventi evocati tre volte al giorno dopo i pasti. Il programma ha l’evidente funzione di soffiare sul fuoco dell’antirazzismo e di stabilire un ponte infame tra i razzisti del passato e la stampa di centro-destra d’oggi. Partendo proprio da Il Tempo, a cui Lerner ha voluto dedicare l’incipit del programma, attaccandosi al fatto che quella rivista infame, molto letta (e a volte anche scritta) da tanti che poi diventeranno comunisti, socialisti, laici, democristiani, ebbe la sua sede nello stesso palazzo de Il Tempo. Se le colpe ricadono pure sugli inquilini dei palazzi, figuratevi che colpe dovrebbero ricadere su chi ha militato in movimenti che decretarono di uccidere per esempio il commissario Calabresi. Gad Lerner militava in Lotta Continua in anni assai più recenti del ’38 ma nessuno si sognerebbe oggi di rinfacciargli il suo passato militante; immaginate con che spirito si possa rinfacciare a uno che è nato molti anni dopo la caduta del fascismo e che mai ha sostenuto tesi razziste, qualche legame con la difesa della razza… E invece lui ci ha provato e ha preso a pretesto la prima pagina de Il Tempo su Mussolini uomo dell’anno per stabilire un ponte infame tra il razzismo e questa testata. Ignorando in malafede il senso evidente di quella pagina e di quel testo, ribaditogli anche dal Direttore Chiocci: col vostro antifascismo fuori tempo e fuori senno avete reso Mussolini il personaggio più attuale dell’anno. Questo per dirvi che i secoli passano, e perfino i millenni, ma intorno al 25 aprile gli avvoltoi spiccano puntuali il loro volo, tra carogne e carcasse. E noi che ci chiedevamo: come sarà quest’anno il 25 aprile dopo la sfuriata antifascista dello scorso anno, dopo la cacciata delle sue vestali e l’avvento del magma grillino e del destro-leghismo? Rientreranno i toni e gli allarmi che hanno vistosamente stancato gli italiani o riprenderanno comunque, nonostante appaiano alla popolazione irreali, subdoli e posticci? Lerner su Raitre ti fa cadere le braccia e le residua fiducia nel buon senso, nell’onestà storica e nella voglia di voltare pagina. Una decina d’anni fa ci fu un tentativo di rendere la Liberazione un patrimonio di tutti. Fu quando Berlusconi al governo volle ribattezzarla Festa della Libertà, implicando la conciliazione tra vincitori e vinti e l’integrazione con la Libertas dello Scudo crociato e la freedom in senso atlantico e occidentale. Ma il tentativo non attecchì, la sinistra militante si votò all’Urfascismo e all’antifascismo eterno. Quando l’uso carognesco della storia finirà di incombere nella carne e nello spirito dei figli, dei nipoti e dei pronipoti? Un tempo pensavo che vi potesse essere nel nome dell’Italia una pacificazione tra eredi e posteri del fascismo e dell’antifascismo, ma la pacificazione fallì e la tensione nel tempo crebbe anziché spegnersi. Lo ha confermato il maestrino della sinistra ricreativa, Fazio. Poi pensavo che avremmo digerito il fascismo quando lo avremmo sottratto alla politica e restituito alla storia. Ciascuno ha i suoi giudizi storici divergenti, ma senza alcuna ricaduta nel presente o tra i presenti, nella politica e addirittura nel futuro. Ma la storicizzazione del fascismo tarda a diventare senso comune, prevale il Precetto. E la Dannazione. Infine pensai che ci avrebbe pensato l’oblio, la rimozione di ogni passato in un’epoca che non ricorda ma si vive addosso, campa solo del momento. Quel processo avviene in ogni campo e uccide ogni memoria, meno che in tema di fascismo, elevato a totem e tabù. E con gli anni peggiora. Cresce il vilipendio dei cadaveri, l’oltraggio ai morti e la loro dannazione, la discriminazione tra morti e morti. L’industria delle pompe funebri lavora a tempo pieno. E come ogni impresa funebre non è finalizzata alla memoria e all’onorata sepoltura ma al profitto. Politico. Ma veniamo al 25 aprile. Da italiano avrei voluto che la Resistenza avesse davvero liberato l’Italia, scacciando l’invasore. Avrei voluto che la Resistenza fosse stata il secondo Risorgimento d’Italia. E avrei voluto che il 25 aprile avesse unito un’Italia lacerata. Sarei stato fiero di poter dire che l’Italia si era data con le sue stesse mani il suo destino di nazione sovrana e di patria libera. Ma devo purtroppo dire che l’Italia non fu liberata dai partigiani ma dagli alleati. Il concorso dei partigiani fu secondario. Sanguinoso ma secondario. La sconfitta del nazismo sarebbe avvenuta comunque. I partigiani, poi, duole dirlo, non agirono col favore degli italiani ma di una minoranza: ci furono altre due italie, una che rimase fascista e l’altra che si ritirò dalla contesa e ripiegò neutrale e spaventata nel privato o altrove. Devo purtroppo aggiungere che almeno la metà dei partigiani non voleva restituire la patria alla libertà e alla sovranità nazionale e popolare ma voleva instaurare una dittatura comunista internazionale. Altro che risorgimento. E il proposito di unire gli italiani non rientrò mai nelle celebrazioni in rosso sangue del 25 aprile. Fu sempre una festa contro. Non posso poi dimenticare tre cose. La prima è che la guerra partigiana ebbe episodi di valore e di coraggio ma anche di gratuita, feroce e impunita violenza. Dimenticare gli uni o gli altri è un oltraggio alla verità e alla memoria dei suoi eroi e delle sue vittime. La seconda è che molti italiani che restarono fascisti fino alla fine combatterono e morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà a un’idea, a uno Stato e a una Nazione; mezza classe dirigente dell’Italia di domani, e anche di più, fu falciata dalla guerra civile. Molti di loro furono risorgimentali autentici, mazziniani e patrioti. Sia tra gli antifascisti che tra i fascisti vi furono coloro che pensarono, credettero e combatterono nel nome della patria. Reputo il fascismo morto e sepolto da una montagna di anni, definitivamente. Ma non sono disposto a negare, attutire o rimuovere la verità e calpestare il sacrificio di quei ragazzi. Il sangue dei vinti. Infine reputo l’antifascismo una pagina di dignità, fierezza e libertà quando il fascismo era imperante; ma non altrettanto reputo l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo sconfitto e finito. Era coraggioso opporsi al regime fascista, non giurargli fedeltà, ma non fu coraggioso sputare sul suo cadavere e oltraggiarlo. E più infame è farlo ancora oggi, oltre settant’anni dopo. Nonostante tutto reputo la Resistenza una pagina decisiva nella storia d’Italia ma reputo infami le stragi di civili, i vili agguati e poi le uccisioni a guerra finita. Si fa peccato a dire tutto questo? Sono pronto a peccare, nel nome della verità, della dignità e della libertà di giudizio.  MV, Il Tempo 25 aprile 2018

Centri sociali contro gli agenti: è guerriglia anche a Napoli. Gli antagonisti in piazza contro il comizio di Casapound. Ai poliziotti: "Il mondo vi detesta, siete dalla parte dei fascisti", scrive Chiara Sarra, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". "Il mondo vi detesta. Siete dalla parte dei fascisti". Lo hanno urlato - come riporta RaiNews24 - gli antagonisti dei centri sociali ai poliziotti schierati in assetto anti sommossa a Napoli, dove un corteo antifascista è sceso in strada per protestare contro un meeting elettorale di Casapound. Il leader della formazione di estrema destra Simone Di Stefano, infatti, partecipa a un incontro del movimento all'hotel Ramada, in via Galileo Ferraris, non lontano dalla stazione Centrale. Ed è proprio fuori dalla stazione che si sono concentrati i centri sociali, che hanno marciato con uno striscione che recita: "Stop razzismo e fascismo". Ad applaudirli, mentre sfilavano per le strade del quartiere Vasto, anche gli immigrati residenti nella zona. Le forze dell'ordine hanno blindato l'area circostante l'hotel e non sono mancati momenti di tensione e guerriglia, con bombe carta e fumogeni lanciati in direzione degli agenti, tra automobilisti e passanti spaventati. Un gruppo formato da una trentina di attivisti è stato poi fermato: gli agenti ha fatto piazzare gli antagonisti per qualche minuto contro un muro. Negli scontri due manifestanti sono stati feriti e portati in ospedale per le medicazioni.

La ladra rom trasformata in vittima, scrive Andrea Indini l'8 dicembre 2018 su “Il Giornale”. Ci sono delle notizie che finiscono per fare delle capriole senza senso e raccontare tutt’altra realtà. È accaduto, per esempio, in questi giorni a una fermata della metropolitana di Roma. Una ladra di etnia rom, come ce ne sono tante sui vagoni capitolini, ha provato a mettere le mani in tasca alla persona sbagliata. Sebbene fosse già stata fermata dai vigilantes, si è presa una scarica di botte da uno dei presenti ed è così diventata la bandiera degli anti razzisti che, in men che non si dica, l’hanno trasformata in vittima. Non importa che la rom abbia usato una bimba piccola, tenuta in braccio, per avvicinarsi e derubare un malcapitato. Non importa che il tentato furto sia l’ultimo di un’infinita lista di colpi messi a segno nella metropolitana capitolina. Non importa nemmeno che, dopo essere stata fermata dai vigilantes e pestata dall’esagitato giustiziere, la ladra sia stata rimessa in libertà come se non fosse successo nulla di grave. Gli occhi di tutti si sono infatti concentrati sulla giustizia fai da te (per deprecarla ovviamente) e su una giornalista che, intervenendo per difendere la rom, si è presa pure qualche parolaccia. Lungi dal difendere la “giustizia fai da te”. Non è mai la risposta giusta. Nemmeno quando lo Stato ti lascia in balia di balordi che nove volte su dieci restano impuniti per i crimini che compiono un giorno sì e l’altro pure. Il caso di Roma mette a nudo, ancora una volta, la percezione di insicurezza degli italiani che si sentono abbandonati dalle istituzioni. È quindi sbagliato bollare l’episodio come un caso di razzismo, come hanno invece fatto i giornali progressisti. Ieri il Censis ha portato a galla il malessere di questo Paese: ci siamo “incattiviti”. È un dato di fatto. Ma anziché scavare fino in fondo per capire cosa ci ha portati a questo punto, la sinistra strumentalizza qualsiasi scontro (fisico) con uno straniero o una minoranza per gridare all’emergenza fascismo. È una lettura politica che non riflette la realtà. I danni della microcriminalità sono enfatizzati da una generalizzata percezione di insicurezza che non fa bene a nessuno. L’altro è ormai percepito con sospetto. E questo perché per anni lo Stato non è stato capace di garantire la sicurezza ai propri cittadini. Ora ne paghiamo le conseguenze. Bollarle come “rigurgito del fascismo” e trasformare una ladra in una vittima significa solo ritardare la ricerca della soluzione e magari ritrovarci, fra qualche anno, in un’emergenza ancora più allarmante. Lo stesso viene fatto con i ladri ammazzati in casa per screditare la riforma della legittima difesa. I due casi sono ovviamente di diversi, ma il modo di strumentalizzarli ha la stessa matrice.

Sempre contro gli italiani, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 29 ottobre 2018. L’altro giorno Michele Serra confessava onestamente su la Repubblica che quando sente la notizia di uno stupro si augura vivamente che gli stupratori siano italiani, perché teme l’ondata razzista contro i neri. Altrettanto onestamente ammettiamo che a gran parte degli italiani succede esattamente l’inverso, preferiscono pensare che gli stupratori siano immigrati, come del resto il più delle volte accade. Entrambi brutti vizi, ma se permettete il primo è leggermente peggiore. Dopo l’onesta ammissione, però, l’antico vizio fazioso dell’uomo di sinistra prendeva il sopravvento in Serra e ristabiliva il razzismo etico: voi italo-razzisti di questa contrapposizione ci campate, noi antirazzisti illuminati invece ne soffriamo e prima ancora la denunciamo, e a differenza di voi rozzi noi ne siamo consapevoli. No, Michele, posso assicurarti che anch’io ne soffro, non mi piace patire di questi pregiudizi e soprattutto di questi odi incrociati. Però poi ho collegato l’osservazione di Serra a una serie di eventi recenti e ho notato una cosa che poi vi dirò. Dunque, mettiamoli in fila. Gli spacciatori nigeriani che straziano il corpo e la vita di Pamela a Macerata passano nel dimenticatoio rispetto al gesto folle di Traini che volendo vendicare la ragazza spara all’impazzata, senza uccidere nessuno, contro un gruppo di neri. Ma il meraviglioso mondo della sinistra ricorda di Macerata solo il gesto di Traini, e l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro addirittura gli dedica un libro per inveire contro l’Uomo Bianco. Secondo episodio, più recente, lo stupro e poi lo strazio di Desirée, a Roma ad opera di un branco di nigeriani, senegalesi, gambiani, spacciatori di droga. A sinistra insistono a definire la povera ragazza una drogata, e Gad Lerner tiene a far sapere che la droga era di casa nella famiglia italiana di lei. Come a dire, ben gli sta, ecco gli spacciatori made in Italy. Terza storia, infinita il caso Cucchi. Come voi sapete l’unica etnia nera che suscita livore e disprezzo a sinistra è l’etnia dei Carabinieri, con le loro divise nere e il loro minaccioso ruolo di garantire ordine e sicurezza al paese. Il caso Cucchi, non dello spacciatore Cucchi ma del geometra Cucchi, per carità, diventa l’occasione per processare, discreditare, delegittimare l’Arma dei Carabinieri. In un paese sano si sarebbe portati a circoscrivere la vicenda ai diretti, presunti colpevoli, lasciando che la giustizia faccia il suo corso. Da noi no, non basta cercare coperture dei superiori ma si deve allargare il cerchio nero del discredito anche ai vertici dell’Arma che cercano come è giusto e naturale, difendere l’onorabilità dei Carabinieri e limitare la portata della brutta storia ai soli responsabili. Ed è inutile ricordare che ogni giorno migliaia di carabinieri rischiano la vita e l’incolumità per garantirci ordine e sicurezza, acciuffano delinquenti di vario tipo, spesso rimessi presto in libertà. Ma no, hanno le divise, usano le armi, quindi sono per natura violenti, il caso Cucchi docet. Ma non finisce qui. Quest’anno è il centenario della Vittoria, l’anniversario in cui l’Italia vinse una guerra, fu una tragedia, una catastrofe di morti ma fu anche un evento glorioso per l’Italia e un evento da ricordare anche per quanti sacrificarono la loro vita sul fronte. Ma di quell’evento cruciale non si parla affatto, se non per parlare dei generali felloni, delle diserzioni e delle carneficine. Mai nessuno che ricordi quei poveri soldati morti al fronte, quegli eroi, quei militi ignoti, quel momento in cui un popolo si scoprì patria. In compenso, si commemorano da svariati mesi, quasi ogni giorno, su tg, giornali, con le istituzioni, le infami leggi razziali del ’38. Sembra che sia la cosa più importante che abbia fatto l’Italia, e non solo il fascismo, nel Novecento sia quella. Mettete in fila queste vicende diverse e traete la conclusione: di fronte a ogni evento storico, giudiziario, di cronaca nera, la sinistra mediatica, politica, intellettuale e di potere, è sempre contro gli italiani, contro la nostra storia, contro chi tutela la nostra sicurezza. Sempre dalla parte di chi viola, violenta, ferisce, colpisce, o si commemorano solo le pagine di cui dovremmo vergognarci. Una costante, metodica, fanatica campagna di odio contro se stessi, contro l’Italia e contro gli italiani, giustificazionista verso gli spacciatori neri, gli stupratori neri (o anche romeni). E se un quartiere si ribella ai furti e alle sopraffazioni dei rom, la Premiata Ditta è sempre sistematicamente dalla parte dei rom contro gli italiani, con la benedizione delle Istituzioni. Eccoli, gli antiitaliani, gli antipopolari, gli anti-noi, eccoli i fautori dell’Arrivano i loro, del Viva gli stranieri abbasso i connazionali, la setta che predica “forza i lontani abbasso i vicini”. E’ la stessa logica che porta a preoccuparsi di chi vuole sbarcare e a trascurare i vecchi di casa propria, i loro disagi, la loro povertà, la loro solitudine. Capite perché allora questo razzismo a rovescio fa doppiamente male e suscita avversione, anche virulenta nella gente comune? Per carità, manteniamo la calma, la civiltà, la compostezza, i barbari di fuori e i loro complici di dentro non devono trascinarci nell’imbarbarimento e nella brutalizzazione. Però ristabiliamo la verità, ristabiliamo i fatti. E ripartiamo dall’amor patrio anziché dall’odio per i vicini che è la vera matrice del buonismo in favore dei lontani più distanti. Fino a quando disprezzerete gli italiani, gli italiani disprezzeranno voi. MV, Il Tempo 29 ottobre 2018

Marcello Veneziani: "Ma che razzisti sono gli anti-razzisti", scrive il 6 Agosto 2018 su Libero Quotidiano. Più razzisti dei razzisti ci sono gli anti-razzisti. A sostenerlo è Marcello Veneziani che su il Tempo spiega la sua tesi partendo da una premessa: innanzitutto "Il riconoscimento delle razze implica le differenze tra le etnie e non la superiorità o l'inferiorità razziale. Diventa razzismo quando si impone il primato di una razza e si dispone la persecuzione di un'altra, fino all'aberrazione estrema dello sterminio". Fatta questa premessa, continua Veneziani "arrivo a dire che rispetto a queste premesse sono relativamente pochi i reati compiuti dai medesimi tra violenze, stupri, furti, aggressioni, disordine sociale. E in rapporto a questi, sono ancora più esigui gli episodi di intolleranza da parte degli italiani che si possano veramente ricondurre al razzismo. Casi di maleducazione, difficile convivenza, violenza scoppiano ogni giorno, soprattutto nei luoghi più degradati o negli spazi pubblici più affollati di mi Daisy Osakue l'atleta azzurra ferita da un lancio di un uovo. Ma il razzismo non c' entra". E conclude: "Oggi il peggior razzismo è esercitato da una minoranza contro la maggioranza degli italiani. E il razzismo dell'antirazzismo. Oggi il razzismo più opprimente e intimidatorio, è etico, e non etnico; è quello culturale, politico, ideologico di una «razza eletta» rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è perciò bollato come naturaliter razzista. Il razzismo degli antirazzisti diventa delinquenziale quando identifica l'amor patrio, il legame identitario e nazionale, col razzismo, che nella peggiore delle ipotesi è una sua degenerazione". Purtroppo "il razzismo da tempo soffia anche nei tribunali, perché è facile il passaggio tra l'accusa ideologica e l'accusa penale. Volenterosi magistrati non mancano a supporto della caccia al razzista. E assurdo tenere in vita leggi speciali, come la legge Mancino, per colpire il razzismo e dintorni. Bastano le leggi ordinarie del nostro codice che puniscono ogni violenza e sopraffazione compiuta".

Il politicamente corretto odia l’Immigrazione sana, la dimostrazione è Toni Iwobi, scrive il 9 marzo 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". Mario Balotelli e Cécile Kyenge che cosa hanno in comune? Sono il volto dell’integrazione, mal riuscita, all’ombra del tricolore. Esempio di uomini e donne arroganti e spacconi che vogliono spiegarci, a tutti i costi, che l’immigrazione ha un colore, possibilmente arcobaleno, avvolto nella bandiera dei diritti, senza doveri, sventolata dalla sinistra. Quella sinistra politicamente corretta che si è indignata per l’elezione del primo senatore con la melanina scura della storia della Repubblica italiana: Toni Iwobi. Qual è il problema? Il problema è che Toni Iwobi rappresenta la Lega. Il senatur rappresenta, per il movimento capitanato da Matteo Salvini, il responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza. Un verde, come lo ha definito Vittorio Feltri un “negro bergamasco”. Nel suo editoriale la penna della città dei Mille, sulle colonne di Libero, scrive: “Il suo motto è ‘REALISMO, NON RAZZISMO’. Per questo egli dice: migrazione solo se c’è lavoro, e siccome oggi c’è ‘soprassaturazione dell’occupazione’ (usa questa parola accademica, ma va bene lo stesso), vanno bloccati i flussi. Come? Svelando l’inganno a quelli che sono invogliati a partire dai buonisti bugiardi. (…) Vanno ‘aiutati a casa loro’, con investimenti governati da aziende nostre, che possano prosperare loro e far prosperare i locali. Fornisce qui altre ricette, a cui mi inchino, e che so costituiscono il programma di Matteo Salvini su questo tema che non è un’emergenza ma ci assedierà per decenni (se riusciremo a sopravvivere)”. Realista proprio come piace a noi. Realista quel tanto che basta per sorpassare, senza voltarsi, i cattocomunisti da strapazzo che voglio farci invadere senza possibilità di difesa. Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!”. Le polemiche ai tempi dei social network. Le parole arrivano dal profilo Instagram di Mario Balotelli. Il viziato centravanti del Nizza. Il bizzoso talento sprecato ai tempi dell’Inter, appassito in quel di Manchester, sfiorito a Milano sponda Milan e timidamente riapparso in Costa Azzurra. Dall’alto della sua sapienza apostrofa, con un tackle impreciso e rozzo, il leghista con toni poco lusinghieri. Eccolo il nodo cruciale. L’ideologia politica ha un colore, soprattutto quello della pelle. Una follia, figlia di questo tempo malato, dove il senno è un diritto arrogato, unicamente, dalle sinistre. Adriano Scianca, direttore de Il Primato Nazionale scrive: “Secondo il nuovo Sartre, ovvero Mario Balotelli, se un nero si candida con la Lega è perché è cieco di fronte al colore della propria pelle. Applausi a scena aperta dalle sinistre. Ora, senza entrare nel merito della questione Iwobi, mi interessa molto questo ragionamento di Balotelli. Quindi esistono posizioni politiche che discendono direttamente dal colore della pelle? Ma questo vale solo per un certo tipo di pigmentazione oppure è valido anche per me? È possibile pensare, votare e schierarsi in quanto nero ma non è possibile farlo in quanto bianco? Eppure avevo capito che le razze non esistessero. Sono curioso, spiegatemi”. Spiegatelo al nuovo governatore lombardo, Attilio Fontana, che per una frase sulla “razza bianca” è stato crocifisso sull’altare di Giorgio Gori. Con i risultati delle urne che stridono rispetto alla realtà, patinata, del mondo irreale dei media. Mai un giorno nell’illegalità per il neo senatore Toni Iwobi. Quarant'anni nel nostro che è diventato, anche, il suo Paese. Una condotta esemplare, un esempio vincente di integrazione, di lavoro al servizio della comunità. La dimostrazione che non tutti gli extracomunitari appartengono alla cerchia del PD e della politica fatta sulle pelle, è il caso di dirlo, delle minoranze etniche. Il rapper Tommy Kuti, anche lui originario della Nigeria, in un suo brano dal titolo #Afroitaliano canta: “Quando tutta sta gente non mi conosceva/ Fanculo i razzisti, quelli della Lega/ Ogni 2 Giugno su quella bandiera/ Mando una foto ai parenti in Nigeria / Mangiando una fetta di pizza per cena”, chi glielo racconta ora che ha sbagliato bersaglio nelle sue liriche? Senza citare chi paragona Iwobi ad un maggiordomo, ad un novello zio Tom, allo Stephen, interpretato da Samuel L. Jackson, capo della servitù, negriero tra i negri, del film Django Unchained. Come sostiene Scianca una contraddizione in termini, fortissima, laddove la RAZZA esiste solo a comando. Anzi di razza ne esiste solo una quella bianca, con cui diventa impossibile scendere a patti, scendere a compromessi, anche solo semplicemente confrontarsi per ottenere risultati concreti. Figuriamoci per un nigeriano che ha deciso di investire le proprie competenze con la Lega, follia. Nicola Porro definisce Roberto Saviano un minus habens, perché suggerisce a Matteo Salvini di bere la propria urina. Quando Gomorra diventa realtà. Quando l’astio verso Iwobi, verso la trionfante Lega, i dati elettorali parlano chiaro, diventa motivo di acredine incontrollata. Serve, a questo punto, citare il Vate Gabriele D’Annunzio per apostrofare gli amici politicamente corretti. Il poeta abruzzese definì, al culmine di una lite, Filippo Tommaso Marinetti un “cretino fosforescente”. Ecco cosa sono codesti minus habens: cretini fosforescenti. Perché esaltano il proprio livore rendendosi visibili, anche dalla Luna, in tutta la loro cafonaggine. Si legge sulle pagine del Giornale: «“Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno condiviso le manifestazioni di sostegno per Mustafa”, ha scritto ieri pomeriggio Mohamed Ali Arafat, sindacalista a Piacenza, per annunciare l’avvenuta scarcerazione del compagno di lotta. “La liberazione di Moustafa è solo il primo di una serie di passaggi necessari a liberare tutti i protagonisti di quella grande giornata di lotta antirazzista – si legge nella pagina Facebook di Si Cobas Piacenza – Chiediamo con forza la liberazione di tutti i compagni arrestati per i fatti di Piacenza e una piena assoluzione per loro e per i compagni piacentini colpiti da denunce e perquisizioni. La necessità di lottare contro il razzismo e le sue sedi è sotto gli occhi di tutti: quotidianamente si succedono gli atti di terrorismo a matrice fascista e leghista contro immigrati o le intimidazioni contro esponenti delle lotte sociali e sindacali. Per noi la dimostrazione empirica della debolezza propria delle argomentazioni razziste continua a risiedere nei risultati che giornalmente otteniamo nei luoghi di lavoro, dove solo lottando uniti, italiani e immigrati fianco a fianco, si può ottenere ciò che padronato governo provano a sottrarci”». C’è una classe dirigente, meglio… una conventicola, meglio… una cosca nazionale avida di avidità sovranazionali… che ha permesso tutto questo. Che tutto questo difende e promuove. Una cosca che dopo il 4 marzo barcolla tragicamente, che si attacca alle corde, che prova a legare. Adesso va messa al tappeto. Dopo le consultazioni Mattarella dovrà contarla e decretarne il k.o. tecnico alzando il braccio a un governo Centrodestra-5Stelle. I nodi da sciogliere saranno tanti. Il parlamento dovrà parlamentare. Il destino del Paese resterà incerto e le scie di condensazione aleggeranno su di noi. Ma avremo scongiurato, forse per sempre, le magnifiche sorti e progressive. Questa è la mia immodesta opinione sul da farsi; ora ditemi la vostra!

Vittorio Feltri il 4 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": chiudiamo le frontiere, o sarà soltanto l'inizio. A forza di condannare il razzismo che non c’era, il razzismo è arrivato, come nel nostro piccolo avevamo previsto. L’accoglienza indiscriminata e continuativa di immigrati, specialmente neri, ha provocato il rigetto. Era ovvio che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato all’invasione degli africani. Gli imbecilli che hanno spalancato le porte agli stranieri sono stati pregati da noi di non esagerare, nel timore che nel breve il casino sarebbe scoppiato. Non ci hanno dato retta, anzi si sono abbandonati a una serie di attacchi nei nostri confronti come se auspicassimo l’esplosione di episodi di violenza contro la gente di colore, verso la quale non nutriamo alcun sentimento negativo. Anzi, facciamo di tutto affinché riceva l’assistenza che merita. Il problema, che abbiamo sempre fatto presente ai fessi del governo e in generale della sinistra acefala di stampo boldriniano, è un altro: l’aumento degli ingressi nel nostro Paese, se non controllato, era fatale che avrebbe acceso la miccia del razzismo. Ciò in effetti è avvenuto nelle Marche come dimostra l’ultimo fatto di cronaca: un cittadino di Macerata, arbitrariamente interprete di una esasperazione diffusa, ha premuto il grilletto a casaccio contro poveri nigeriani incolpevoli, simbolicamente responsabili di aver ridotto l’Italia a ricettacolo di spacciatori di droga e di assassini capaci di uccidere e di fare a pezzi una ragazza indigena di 18 anni. Non possiamo non condannare una simile azione disgustosa; è altrettanto vero che per giudicarla occorre comprenderne il movente. Che è esattamente quello che abbiamo indicato: il sovraffollamento di extracomunitari non viene sopportato dalla massa, che pertanto si ribella anche in forme violente. Nessuno in linea di principio ce l’ha coi signori dalla pelle scura, ma se costoro si impadroniscono delle città e incrementano attività delinquenziali, fatalmente vanno incontro a reazioni da parte di nostri connazionali privi di scrupoli. Non c’è da stupirsi se i neri dilaganti nel ramo della delinquenza incrementano il razzismo, poiché i nostri concittadini si sentono assediati da uomini sconosciuti e pronti a delinquere. I quali non hanno altri mezzi che non siano criminali per sopravvivere in una società che proclama di accogliere chiunque senza poterlo fare. Chiudere le frontiere significa evitare guai, però la nostra politica non è in grado di farlo per mancanza di coraggio e dignità. La fabbrica del razzismo ormai è aperta e tra un po’ ci azzanneremo per le strade: sarà battaglia tra bianchi e neri che non saranno razze, ma sono diversi. Basta guardarli in faccia. Vittorio Feltri

Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive Eleonora Lorusso il 5 settembre 2018 su "Panorama". Nel settembre del 1938 l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate senza battere ciglio dal re Vittorio Emanuele III, che macchiò per sempre di infamia Casa Savoia.

Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio.  Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.

I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.

La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali:

1) Le razze umane esistono; 

2) Esistono grandi razze e piccole razze; 

3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose; 

4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana. 

Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione; 

6) Esiste ormai una pura "razza italiana"; 

7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;  

8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra; 

9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.

10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.

L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.

Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.  

Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne")...Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Le leggi razziali e la loro voce: "La Difesa della Razza" (1938-1943). Diretto da Telesio Interlandi, il periodico fu strumento di divulgazione dell'antisemitismo e delle teorie razziste del fascismo, alle quali si cercò di dare una pretesa base scientifica, scrive Edoardo Frittoli il 5 settembre 2018 su "Panorama". Il primo numero del quindicinale "La Difesa della Razza" uscì esattamente un mese prima della firma delle leggi razziali, il 5 agosto del 1938. Il 14 luglio precedente fu stilato il "manifesto degli scienziati razzisti", effetto della sempre più stretta omologazione ideologica con la Germania nazista. Tra i firmatari più eminenti tra gli accademici italiani furono il patologo Nicola Pende, l'antropologo Lidio Cipriani, il demografo Franco Savorgnan, lo zoologo Edoardo Zavattari, il neuropsichiatra Arturo Donaggio. Secondo alcune fonti il testo del manifesto sarebbe stato dettato dallo stesso Mussolini e affermava l'esistenza delle diverse razze umane secondo una classificazione che pretendeva di basarsi sull'esperienza scientifica. Uno dei primi articoli del manifesto accusava gli Ebrei per la loro pretesa di ritenersi una razza separata e superiore alle altre, con l'aggravante politica di aver costituito la spina dorsale dell'antifascismo. La rivista quindicinale "La Difesa Della Razza", fortemente voluta da Mussolini in funzione divulgativa delle teorie razziste nella cultura e nell'educazione degli Italiani doveva riprendere, approfondire e sviluppare i temi contenuti nel manifesto razzista, dopo essere stata legittimata, rafforzata e resa autorevole dalla firma delle leggi del settembre 1938.

Il razzismo in rotativa. Stampato a Roma dall'editore Tumminelli, il quindicinale fu diretto sin dal primo numero da Telesio Interlandi, già direttore del fasciatissimo quotidiano "Il Tevere". Intransigente verso alcuni degli esponenti più moderati degli anni del regime fascista come Balbo, Bottai e Piacentini, Interlandi espresse sulle pagine della rivista il punto di massima adesione ed omologazione al razzismo nazionalsocialista, tanto da ricevere durante gli anni della direzione alcuni rimproveri di Mussolini che desiderava distinguere il razzismo italiano da quello hitleriano. Un altro eccesso nella linea editoriale di Interlandi fu la scelta estrema di abbracciare un approccio zoologico alla teoria delle razze umane, facendo inorridire gli antropologi e aprendo un delicato fronte con la Chiesa cattolica. Nel primo numero de "La Difesa della Razza", diffuso in circa 150mila copie, era riportato integralmente il testo del Manifesto degli scienziati razzisti con una grafica chiara ed ordinata. Il punto focale degli articoli si concentrava sulla teorizzazione dell'esistenza biologica delle razze umane e di conseguenza dichiarava l'esistenza di una "pura razza italiana" di origine ariano-nordica non ben definita in termini scientifici. Tra le piccole e grandi razze europee non poteva naturalmente figurare alcuna contaminazione dall'Africa. Nel caso ad esempio dell'invasione araba della Sicilia, i redattori del manifesto si premurarono sin da subito di escludere ogni tipo di mescolanza rimasta attraverso i secoli. La volontà enunciata nelle pagine di apertura del primo numero del quindicinale era certamente quella di dare una base biologica ed ereditaria al carattere antropologico della popolazione italiana, senza dimenticare l'aspetto psicologico relativo alla formazione di una consapevolezza collettiva dell'appartenenza ad una nobile razza ariana. Per quanto riguarda gli Ebrei, il manifesto li indicava come non appartenenti alla razza italiana. Anche in questo caso l'affermazione non presentava basi scientifiche ma piuttosto la diseguaglianza si sarebbe sviluppata per una sorta di segregazione naturale dovuta alle antiche origini non-europee dei semiti.

Italiani, gente ariana. All'interno del numero 1 del periodico si affronta anche la questione delle popolazioni, o meglio razze, del continente africano con particolare attenzione alle popolazioni indigene delle colonie dell'Impero fascista. Altra teoria razzista enunciata già dal primo numero della rivista sarà quella del sangue. La divisione pseudo-scientifica delle razze umane si basava, secondo gli accademici del manifesto, sulla presunta analisi della distribuzione etnico-geografica dei gruppi sanguigni. Naturalmente la razza italiana sarebbe biologicamente analoga (teoria mancante di ogni prova scientifica abbinata) alle più pure razze ariane germaniche e scandinave. Durante gli anni della diffusione de "La Difesa della Razza", sulle pagine del giornale furono colpiti, oltre agli Ebrei, anche le razze "inquinate dal meticciato" in cui si pretese di dimostrare scientificamente il pericolo della progressiva corruzione dell'arianesimo dovuta all'origine aggressiva dei caratteri delle razze inferiori contaminanti.

L'antisemitismo per tutti. La grafica semplice e curata del quindicinale volle "aiutare" gli italiani nel processo di assimilazione dell'odio antisemita con tavole e vignette che sintetizzavano le malefatte degli Ebrei e ribadivano i divieti e le restrizioni dettati dalle leggi promulgate nel settembre 1938. Molte e variegate furono le firme che si avvicendarono sulle pagine del periodico razzista: spicca quella di Julius Evola, poi escluso da Interlandi per avere introdotto teorie vicine al razzismo esoterico caro al Terzo Reich ma sgradito agli "scienziati" fascisti e per l'esplicito desiderio di Mussolini di mantenere separati nell'approccio l'antisemitismo germanico da quello italiano. A "La Difesa della Razza" collaborarono nomi importanti della politica italiana nel dopoguerra. Tra questi ultimi figurano Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, tra i grandi giornalisti dell'Italia repubblicana Indro Montanelli. Per alcuni anni il segretario di redazione sarà Giorgio Almirante che- come il direttore Interlandi- diventerà esponente di primo piano del Ministero della Cultura Popolare della RSI.

La fine delle pubblicazioni e la caduta del Fascismo. L'ultimo numero del quindicinale uscì il 20 giugno del 1943, un mese prima dell'arresto di Mussolini. Lo stesso Interlandi fu catturato e rinchiuso nelle carceri del Forte Boccea di Roma. Fuggito dopo l'occupazione tedesca della Capitale, fu attivo come responsabile della propaganda radiofonica della Repubblica Sociale per l'Italia Liberata. Sarà arrestato nuovamente dopo una breve latitanza nelle campagne del bresciano l'11 ottobre 1945. Sarà graziato per gli effetti dell'amnistia Togliatti l'anno successivo. Morirà 20 anni dopo a Roma, nel 1965, portando con sè nella tomba il terribile bagaglio della corresponsabilità per aver sostenuto e divulgato quelle idee che formarono la base pseudo-scientifica dell'Olocausto degli Ebrei italiani.

L'Italia ebbe le leggi razziali. Ma non fu mai antisemita. Hannah Arendt e Gideon Hausner, procuratore generale al processo contro Eichmann, elogiarono il comportamento del nostro Paese. Che in pratica ignorò il diktat nazista, scrive Marcello Veneziani, Lunedì 27/01/2014, su "Il Giornale". Oggi è il Giorno della Memoria anche se da dieci giorni se ne parla ampiamente sui giornali e in tv. Non ha torto Elena Loewenthal, studiosa di cultura ebraica, a scrivere un libretto Contro il giorno della memoria e a proporre un intenso silenzio più che una così retorica esibizione a settant'anni dalla Shoah. Per la ricorrenza sarà proiettato oggi e domani in alcune città il film di Margarethe von Trotta dedicato ad Hannah Arendt, la principale studiosa ebrea del nazismo e dei regimi totalitari, sfuggita alle persecuzioni naziste. Il film trae spunto dal celebre testo della Arendt, La banalità del male (edito da Feltrinelli), nato dai suoi reportage per il processo al nazista Adolf Eichmann, cinquant'anni fa in Israele. La banalità del male è importante anche per le pagine dedicate agli italiani in relazione alle deportazioni. Scrive la Arendt: «L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare». Infatti, aggiunge, «l'assimilazione degli ebrei in Italia era una realtà». La condotta italiana «fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà». Un popolo che dai tempi dei Romani conviveva con gli ebrei, e continuò a conviverci, con alti e bassi, anche all'ombra della Chiesa cattolica e del Papa re pur nella considerazione degli ebrei come popolo deicida. «La grande maggioranza degli ebrei italiani - scrive la Arendt - furono esentati dalle leggi razziali», concepite da Mussolini «cedendo alle pressioni tedesche». Perché gran parte degli ebrei erano iscritti al Partito fascista o erano stati combattenti, nota la Arendt, e i pochi ebrei veramente antifascisti non erano più in Italia. Persino il più razzista dei gerarchi, Roberto Farinacci, «aveva un segretario ebreo». Si potrebbe ricordare il concordato del 1931 tra lo Stato fascista e la comunità israelitica italiana, accolto con soddisfazione dagli ebrei. A guerra intrapresa «gli italiani col pretesto di salvaguardare la propria sovranità si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica; li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese». E quando i tedeschi arrivarono a Roma per rastrellare gli ottomila ebrei presenti «non potevano fare affidamento sulla polizia italiana. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire». Alcuni con l'aiuto del Vaticano. Le stesse tesi aveva espresso al processo Eichmann il procuratore generale Gideon Hausner, il quale definì l'Italia «la nazione più cara a Israele». I nazisti, aggiunge la Arendt, «sapevano bene che il loro movimento aveva più cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano e Mussolini, dal canto suo, non aveva molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler». L'Italia fascista, secondo la studiosa ebrea, adottò nei confronti dei rastrellamenti un sistematico «boicottaggio». Nota la Arendt: «il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti, quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto... Il sabotaggio era tanto più irritante in quanto era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda». Insomma il caso di Giorgio Perlasca, il fascista che salvò cinquemila ebrei, non fu isolato. Quando il fascismo, allo stremo della sua sovranità, cedette alle pressioni tedesche, creò un commissariato per gli affari ebraici, che arrestò 22mila ebrei, ma in gran parte consentì loro di salvarsi dai nazisti, come scrive la studiosa ebrea. Nota la Arendt, perfino eccedendo, che «un migliaio di ebrei delle classi più povere vivevano ora nei migliori alberghi dell'Isère e della Savoia». Insomma «gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Si può dire che morirono più italiani nelle foibe comuniste che ebrei italiani nei campi di sterminio? Odiosa contabilità, ma per amore di verità va detto. Certo, la Shoah nel suo complesso è una catastrofe imparagonabile. Anche per gli storici israeliti Leon Poliakov e George Mosse l'Italia boicottò le deportazioni naziste e protesse gli ebrei. Le origini culturali dell'antisemitismo per la Arendt sono riconducibili a leader, movimenti e ideologi di sinistra. Ne “Le origini del totalitarismo” ricorda che fino all'affaire Dreyfus in Francia, «le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano seguito la tradizione dell'Illuminismo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo». In Germania, ricorda, i primi partiti antisemiti furono i liberali di sinistra, guidati da Schönerer e i socialcristiani di Lueger. Non si tratta di assolvere regimi né di cancellare o relativizzare le leggi razziali del '38 che infami erano e infami restano. Né si tratta di salvare il fascismo dal nazismo e dal razzismo, ma di riconoscere la pietà e la dignità del popolo italiano, che in quella tragedia si comportò con più umanità. Magari in altri casi no, si pensi alla guerra civile, al triangolo rosso, alle stragi d'innocenti o di vaghi sospettati; ma nel Giorno della Memoria della Shoah, ricordiamoci che gli italiani furono meno bestie di tanti altri. Per una volta non denigriamoci. Quanto alla Arendt, fu dura per lei la sorte di apolide, straniera nella sua terra natia, la Germania, poi vista con diffidenza per la sua relazione giovanile con Heidegger, quindi detestata dalla sinistra per la sua critica al totalitarismo e al comunismo, e pure in aperto conflitto col mondo ebraico. Dopo aver letto La banalità del male lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem la accusò (il carteggio è riportato in fondo a Ebraismo e modernità, edito da Feltrinelli) di avversare il sionismo e di non amare gli ebrei. «Io non amo gli ebrei - rispose lei - sono semplicemente una di loro». Una lezione di verità per tutti.

Il concordato dimenticato tra ebrei e fascisti, scrive Marcello Veneziani su Il Giornale il 27 gennaio 2015. Se questa è la Giornata della Memoria, è giusto ricordare oltre le sciagurate leggi razziali e gli orrori della Shoah, un evento positivo e obliato che riguardò gli ebrei e lo Stato italiano, nel 1930. Fu il Concordato tra Stato fascista ed ebrei. Lo Stato pontificio e poi lo Stato laico e liberale non avevano riconosciuto giuridicamente la comunità israelitica in Italia; lo fece il regime di Mussolini. Fu insediata una commissione paritaria, tre rappresentanti ebrei e tre giuristi per lo Stato italiano. In particolare se ne occupò un giurista cattolico liberale, Nicola Consiglio, che aveva avuto un ruolo importante nei Patti Lateranensi (è stato pubblicato il suo diario a cura di Luca de Ceglia). Consiglio elaborò la legge che portò al pieno riconoscimento delle comunità israelitiche. Scrive Renzo De Felice: «Il governo fascista accettò pressocchè in toto il punto di vista ebraico». A legge varata, il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge “la migliore” fra quelle emanate dagli stati. Consiglio ricevette una medaglia d’oro dalla Comunità ebraica. Poi arrivarono le sanzioni economiche per l’impresa d’Etiopia, quindi l’alleanza con Hitler e le infami leggi razziali. Poi nell’Italia antifascista, il presidente del nefasto tribunale della razza, Gaetano Azzariti, diventò collaboratore di Togliatti e Presidente della Corte Costituzionale… Gli assurdi testacoda della storia.

Un regime di buffoni, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 14 settembre 2017. Da dove può nascere a 72 anni dalla fine del fascismo una legge che vieta la propaganda fascista e la compravendita di oggettistica in materia? Da forme patologiche di odio, di psicosi e di fobia. E da ignoranza, malafede e stupidità. Non riesco a trovare migliori spiegazioni per capire il movente di approvare subito, a tambur battente, appena si sono riaperte le camere, una legge così grottesca, così anacronistica, in piena tempesta di violenze sessuali e stupri, di emergenza dei flussi migratori e di allarme terrorismo islamista. Nel centenario della nascita del comunismo, il più grande orrore totalitario del Novecento, per quantità di vittime, durata ed estensione, in Italia si apre una ridicola campagna antifascista per reprimere il mercatino nostalgico del web e le sue propaggini di vintage & folclore. E si approva, in un paese che già prevede due leggi speciali ad hoc che puniscono quel reato d’opinione, vale a dire la legge Scelba e la legge Mancino, un’ennesima legge acchiappafantasmi, fasciofoba e canagliesca. Viviamo sotto un regime di buffoni che ridicolizzano le cose serie – come il fascismo, lo stesso antifascismo, la storia e la guerra civile – e prendono sul serio le cose ridicole o innocue, come il suk di busti del duce, le canzoni fasciste, i saluti romani, le caricature del fascio. Potremmo limitarci a ridere di questa legge surreale. E a confidare che non riusciranno ad applicarla senza essere spernacchiati dalla gente; e comunque la sua nefandezza sarà temperata dalla notoria inefficienza della nostra giustizia. Però poi ci resta una forma di rabbia e di amarezza perché vediamo stuprata ancora una volta la verità, la storia, il rispetto umano. Stupro di gruppo. Chi renderà onore a quanti hanno combattuto, dato la vita, per la patria nel nome dell’Italia fascista, senza commettere alcun crimine, rientra nel reato di propaganda fascista? Chi ricorderà il più grande poeta del novecento, finito in una gabbia come una scimmia e poi in un manicomio criminale perché fascista, Ezra Pound, sarà passibile di condanna? Chi ricorderà il più grande filosofo italiano del Novecento, ucciso perché fascista, Giovanni Gentile, sarà anche lui sotto tiro a norma di legge? Chi difenderà la memoria dei fratelli Govoni, del grecista Pericle Ducati, del poeta cieco Carlo Borsani, dei fascisti veri e presunti che versarono “il sangue dei vinti”, dalle zone carsiche al triangolo rosso, potrà farlo senza incorrere in quella legge liberticida? Chi sosterrà che se vogliamo eliminare in Italia le opere del fascismo dovremmo raderla al suolo, e trasformare Roma in Cartagine, sarà condannato in virtù della legge? E chi ricorderà che il fascismo ebbe grande e duraturo consenso di popolo, ammirazione nel mondo e da parte dei più grandi statisti dell’epoca, sostegno da parte delle menti più acute del suo tempo, verrà processato? Potrei continuare all’infinito. Riconoscendomi appieno in tutte queste affermazioni, mi condannerete per effetto di quella legge infame? Sono pronto a ripeterle ad una ad una volta che passerà al Senato e diventerà legge. L’effetto che produce una legge come questa è di alimentare nei ragazzi il fascino del proibito, nell’opinione pubblica la convinzione di vivere sotto un regime liberticida, che ha paura delle opinioni e non si cura delle vere necessità e priorità del popolo, e in chi conosce la storia, ha passione di verità, il desiderio di riaffermare con forza caparbia l’altra metà negata della storia. Il vostro problema è che prendete la parte per il tutto, siete perdutamente settari, faziosi, partigiani. Mentre c’è un solo modo di vedere bene le cose, diceva Ruskin, vederle per intero. Per finire vi offro tre curiosità. 

Sapete che durante il regime fascista morirono più antifascisti italiani in Unione sovietica, che nell’Italia fascista? Centinaia di italiani, comunisti, antifascisti e a volte anche ebrei, che erano fuggiti dall’Italia fascista, furono uccisi nella Russia comunista con l’avallo del segretario del suo partito, il sullodato Togliatti. In Italia, persino sotto il Duce, avrebbero avuto una sorte migliore… 

Sapete poi che il presidente dell’infame Tribunale della razza, nonché firmatario del «Manifesto della razza», Gaetano Azzariti, diventò il più stretto collaboratore del leader del Pci, Palmiro Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia, dopo essere stato Guardasigilli con Badoglio? Avete mai avuto nulla da ridire, sul fatto che poi, grazie a questi precedenti, lo stesso Azzariti sia diventato il primo presidente della Corte costituzionale fino alla sua morte nel 1961?

Infine. Sapevate che il primo concordato tra lo Stato italiano e gli ebrei fu fatto nel 1930 dal regime fascista? Una commissione composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi varò un concordato in cui, scrive De Felice, «il governo fascista accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico».

Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista ebraica Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati». Se ricordate le infami leggi razziali, ricordatevi pure di questo: e chiedetevi cos’è successo nel frattempo, a chi e a cosa attribuire il cambio di passo…Ma voi non sapete, e se sapete fingete di non sapere. Mi vergogno di voi non solo al cospetto di tutti costoro che ho citato, ma anche nei confronti di chi il fascismo lo affrontò a viso aperto, pagando di persona. Sfruttate come iene, corvi e sciacalli la memoria di costoro e martoriate i corpi senza vita di coloro che furono onesti, puliti, a volte anche grandi, però dalla parte “sbagliata”. Vilipendio di cadavere, oltraggio alla memoria, omissioni plurime e aggravate, questi sono i vostri reati di cui nessuno avrà il coraggio di accusarvi e nessuno di voi avrà il pudore di vergognarsi. Chi l’avrebbe mai detto che dopo tre quarti di secolo dalla sua sepoltura, nell’era della fibra, noi dovessimo star lì ancora a discutere di fascismo e di antifascismo viventi…

PS A Roma al centro anziani, militanti antifascisti aggrediscono quelli di Casa Pound. Viva la libertà, la democrazia e la legge Fiano. MV, Il Tempo 14 settembre 2017

Intervista di Carlo Moretti su "La Repubblica" del 5 settembre 2018. Sono trascorsi vent' anni dalla morte di Lucio Battisti, era il 9 settembre 1996 e quel giorno un senso di smarrimento attraversò il paese per la scomparsa di uno dei più grandi protagonisti della musica italiana e della cultura popolare. I suoi maggiori successi, quelli nati dal sodalizio artistico con Mogol, 50 anni dopo mantengono una forza straordinaria e continuano ad essere fonte d' ispirazione per tanti artisti. «Scrissi una lettera a Lucio poco prima che morisse, gliela feci arrivare attraverso un'infermiera dell'ospedale in cui era ricoverato che, per caso, avevo conosciuto a una cena. Gli scrissi due righe, gli dicevo che speravo potesse riprendersi e che per qualunque sua necessità io c' ero, ma non seppi nulla per dieci anni dopo la sua morte. Poi seppi che leggendo quella lettera Lucio aveva pianto: sapeva di essere condannato».

Com' erano alla fine i vostri rapporti?

«I rapporti personali non sono mai cambiati. C' era stata però una mia decisione presa per ragioni di principio. Ritenevo che dovessimo partecipare agli utili in modo eguale visto che avevamo scritto uno la musica e l'altro il testo. Non fu possibile. Ma in seguito Lucio accettò un mio invito come niente fosse, tra noi non era cambiato nulla».

Con Lucio non discutevate i testi?

«Io scrivevo ascoltandolo suonare e Lucio se aveva bisogno di chiarimenti mi chiedeva, tutto qui: il giorno dopo sapeva tutto a memoria, mai visto con un foglietto in mano, era serissimo, una bomba, di un livello fantastico, davvero internazionale».

Quale album o canzone ama di più?

«La parte musicale di Anima latina.

È un capolavoro assoluto, mi dà ancora i brividi».

I vostri primi successi furono affidati ai Dik Dik, ai Ribelli, all' Equipe 84, ma lei convinse Lucio a cantare.

«Inizialmente non voleva ma la migliore versione per me era sempre la sua. Ho litigato con tutti per questo, a cominciare dalla Ricordi. Ho anche minacciato le dimissioni»

In 15 anni come si è evoluto il vostro rapporto?

«È rimasto sempre lo stesso, erano le canzoni a cambiare. Lucio era costante, tranquillo, sereno, studiava i più grandi, da Otis Redding a Frank Zappa. Nessuno aveva neanche la metà delle sue conoscenze musicali. Anch' io sono rimasto lo stesso, del resto i più grandi successi mondiali li ho fatti prima di conoscere Lucio. Hanno calcolato che nella mia carriera ho venduto 523 milioni di copie nel mondo».

Che idea si fece della volontà di Lucio di ritirarsi dalle scene?

«Glielo consigliai io. Almeno all'inizio. Poi si convinse da solo.

Negli anni Settanta fecero piangere De Gregori quando lo accusarono, lui di sinistra, di essere uno sporco miliardario. E il '68 era stato una follia: o eri falce e martello, Mao Tse-tung o eri un fascista. Gli dissi: "Non andare più in giro, finiranno per sputarti addosso, meglio stare a casa che essere contestato nei concerti"».

Vi accusarono di essere fascisti per i "boschi di braccia tese" nel testo di "La collina dei ciliegi".

«Ma era un'invocazione: i palmi, levati uno verso l'altro, sono diventati saluti fascisti. Una follia».

Lucio smise però anche con la televisione.

«Era poco propenso già da prima. Teatro 10 con Mina nel '72 glielo feci fare io. Del resto lo seguivo quando andava a fare quelle puntate, ci mettevo anch' io le mie idee. Lui però era una macchina da guerra in studio di registrazione, suonava tutti gli strumenti».

Infatti si è ritirato facendo solo dischi, quelli senza di lei. Che giudizio ne dà?

«Aveva cambiato il modo di lavorare, ora scriveva musica sui testi. Quando venne a trovarmi gli chiesi perché avesse scelto di scrivere la musica su testi nonsense.

Mi rispose: "Avevo due strade, o scrivevo su testi in inglese o su testi nonsense". Mi ha spiegato che non voleva si facessero paragoni con le canzoni che avevamo scritto noi».

Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa. Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione spietata del banditismo in Italia (Laterza). Il 6 settembre l’autore dialoga con Gian Antonio Stella al Festivaletteratura, scrive Gian Antonio Stella il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Uno scontro tra briganti e soldati in un dipinto realizzato dal francese Horace Vernet durante il suo soggiorno in Italia. «C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione». Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato». «Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Tutti sordi. E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?» Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».  Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…». Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».

Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un  massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.

Senti chi parla….

Reddito di cittadinanza, Briatore: «Una follia, al Sud la gente non ha voglia di lavorare», scrive Sabato 29 Settembre 2018 "Il Mattino". Al Sud la gente già non ha voglia di lavorare, dare anche un reddito di cittadinanza sarebbe una follia. Parola di Flavio Briatore. «Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza, questa mi sembra una follia vera. Per me è una follia perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze. Investimenti in Meridione? Ci sono difficoltà enormi. E la gente non ha voglia. Chi aveva voglia è andato fuori dal Sud», ha detto l'imprenditore ed ex manager della Formula 1. «Quando abbiamo avuto la possibilità di avviare un’attività a Otranto, nel nostro gruppo c’erano diversi pugliesi. Abbiamo dato la possibilità di tornare, ma nessuno ha voluto. Rimane chi non si sbatte molto per trovare un lavoro, se adesso danno anche il reddito di cittadinanza è finita», sostiene ancora Briatore che tuttavia ha fiducia nel nuovo governo. «Mi sembra ci sia molto entusiasmo - afferma Briatore -. Mi sono simpatici sia Salvini che il grillino, lasciamoli fare. Faccio il tifo per loro, certo. Come dovrebbero fare tutti. Su immigrazione e fisco sto con Salvini. Ha ragione quando dice che i clandestini bisogna bloccarli prima che arrivino. Bisogna bloccare i barconi, ormai sappiamo da dove partono. Investire e creare posti di lavoro lì. La flat tax è da fare subito, immediatamente, subitissimo. Se premia i ricchi va bene perché vuol dire che se uno risparmia con la flat tax, investe più nell’azienda, crea più posti di lavoro».

Flavio Briatore indagato per corruzione: tangenti al fisco per riavere lo yacht, scrive Martedì 25 Settembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Guai per Flavio Briatore. L'imprenditore è indagato in una vicenda di corruzione per la quale il suo commercialista, A.drea P.rolini, è finito agli arresti domiciliari insieme all'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate di Genova Walter Pardini. La guardia di finanza ha eseguito le misure questa mattina. L'accusa è di corruzione. Per la stessa vicenda è anche indagato Flavio Briatore. Secondo l'accusa, il professionista avrebbe corrotto il funzionario pubblico, per tentare di «ammorbidire» la posizione di Briatore per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue.

A Briatore sono gli uomini del sud a non piacergli, ma le donne…Oltre alla ex moglie Elisabetta Gregoraci… Caterina Balivo e Flavio Briatore, l’indiscrezione sul passato spiazza il pubblico, scrive il 31 maggio 2018 La Voce di Napoli. Momenti di imbarazzo si sono vissuti durante una puntata di Detto Fatto quando Giovanni Ciacci, capo-tutor del programma, ha parlato di un ex flirt della conduttrice napoletana con un vero e proprio play boy a cui però Caterina avrebbe dato un due di picche. Indiscrezione che ha imbarazzato non poco la Balivo che ha cominciato a sorridere. Ciacci improvvisamente ha detto: “Caterina è l’unica ad aver detto ‘No’ a un famoso playboy…“. Le parole sono state dette durante la rubrica di Gio Gio, finestra del programma che si occupa di Ballando con le Stelle. Si stava parlando proprio di uomini affascinanti quando Ciacci ha detto: “Per essere playboy devi essere molto ricco e quello che ha corteggiato Caterina lo è veramente”. Parole a cui la conduttrice ha controbattuto ironicamente, dicendo: “Ora però è vecchiarello”. Ciacci ha anche detto che questa persona sarebbe stata con Naomi Campbell, non ha però rivelato il nome. Per il pubblico, però si tratterebbe di Flavio Briatore, il gossip è scoppiato spiazzando il pubblico, non ci resta che aspettare altre rivelazioni.

Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.

A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.

Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».

E il Senatùr disse: «Andiamo con Silvio, ha soldi e donne… ». Era il 1994 e il Senatùr Bossi aveva già conquistato mezzo Nord. Silvio Berlusconi capì che senza di lui non avrebbe vinto, scrive Paolo Delgado il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso. «Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri. Solo che Berlusconi non portò solo ‘ soldi e gnocca’ ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista». Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di "Berluskaiser", o "Berluskaz" o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato. Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018. Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ‘ voto utile’. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima. Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più "Polo" ma "Casa" delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa. Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra. Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ‘ federalismo’. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader. Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.

Diede del “terrone” a Napolitano: la Procura di Brescia ordina la carcerazione per Bossi, subito sospesa. Il fondatore della Lega Nord deve scontare un anno e quindici giorni. E i guai giudiziari non sono ancora terminati, scrive Emilio Randacio il 26/09/2018 su "La Stampa". La condanna definitiva per vilipendio all’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, gli ha fatto saltare ogni beneficio. Per il fondatore della Lega, Umberto Bossi,il rischio di scontare parte delle condanne fin qui inanellate è una ipotesi più che concreta. Il 12 settembre la Cassazione aveva confermato l’anno e 15 giorni per gli insulti al Quirinale. La colpa, riconosciuta, di Bossi è quella di avere del «terrone» a Napolitano durante un comizio. La procura generale di Brescia ha sommato tutte le condanne del senatur - dagli 8 mesi per i finanziamenti illeciti di Carlo Sama - e ha disposto la carcerazione visto che i benefici sono ampliamenti sforati. Provvedimento immediatamente sospeso - Bossi e vicino agli 80 anni-, per permettere al parlamentare leghista di chiedere misure alternative al carcere. Compreso il differimento della pena per i problemi di salute che, da oltre 10 anni, attanagliano l’ex segretario di via Bellerio. Anche se i grattacapi con la giustizia, non sono ancora finiti, visto che tra Milano e Genova si attendono i processi d’appello per le malversazione dei fondi pubblici gestiti dal Carroccio.

Umberto Bossi chiamò Napolitano "terùn"? Massacrato dai giudici: ai servizi sociali, scrive il 27 Settembre 2018 Tommaso Montesano su "Libero Quotidiano". Albino, provincia di Bergamo, 29 dicembre 2011. Umberto Bossi, leader della Lega, partecipa alla seconda edizione della festa provinciale del Carroccio. Nel corso del comizio, quello che fino a poche settimane prima era stato il ministro delle Riforme dell’ultimo governo Berlusconi, appena sostituito con l’esecutivo tecnico di Mario Monti, si scaglia contro Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Il linguaggio è quello tipico delle manifestazioni politiche. Il tono di Bossi, com’era nella natura del Senatùr, è concitato, travolgente. Solo che il fondatore della Lega, per l’occasione, aggiunge qualcosa: l’espressione «terùn» - terrone - e il gesto delle corna con la mano destra all’indirizzo del Capo dello Stato, napoletano di nascita. Otto anni dopo, quell’intemerata polemica è costata a Bossi, dopo l’apertura del procedimento penale per vilipendio al presidente della Repubblica, prima la condanna in via definitiva a un anno e quindici giorni di reclusione (lo scorso 12 settembre); poi, ieri, un ordine di carcerazione. Avete capito bene: Bossi deve andare in carcere per aver dato del «terrone» a Napolitano. Solo la contestuale emissione, da parte del sostituto procuratore generale di Brescia Gian Paolo Volpe, di un decreto di sospensione della pena ha salvato l’attuale senatore della Lega dalla prigione. Un atto, quello dei magistrati, che adesso consente a Bossi di chiedere, entro trenta giorni, di accedere a una delle misure alternative di detenzione: l’affidamento in prova ai servizi sociali (come fece Silvio Berlusconi dopo la condanna per i diritti tv Mediaset); la detenzione domiciliare; la semilibertà; la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva e l’affidamento in prova. Se il fondatore del Carroccio non opterà per nessuna delle pene alternative, la procura generale di Brescia si attiverà per far scontare a Bossi il periodo di reclusione. Il reato di vilipendio è disciplinato dall’articolo 278 del Codice penale e prevede la pena della reclusione, che oscilla da uno a cinque anni di carcere. In primo grado, il 22 settembre 2015, il tribunale di Bergamo aveva inflitto a Bossi un anno e sei mesi di reclusione. In appello, l’11 gennaio 2017, la condanna era stata confermata, seppure con una lieve riduzione della pena (dodici mesi). Pochi giorni fa, il procedimento ha terminato il suo corso con la pronuncia della prima sezione penale della corte di Cassazione. Non paga, la Suprema corte ha condannato Bossi anche a pagare 2mila euro alla Cassa delle ammende. Ieri è arrivato il sigillo delle toghe bresciane, con la firma dell’ordine di carcerazione (poi sospeso). A nulla sono valse, in tutti questi anni, le tesi della difesa, secondo cui le parole di Bossi si sarebbero dovute far rientrare nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nel comizio incriminato, il Senatùr contestò Napolitano con queste parole: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica, che è venuto a riempirci di Tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Quindi il gesto delle corna. Apriti, cielo: alle parole di Bossi seguirono polemiche a tutto spiano, decine di querele e l’esposto che diede vita all’iter giudiziario. Con l’ipotesi di un «attacco sovversivo contro l’Unità d’Italia e i suoi organi costituzionali». A colpi di «terùn».

Regione Lombardia, caso Maroni, condanna a un anno: «Gli incarichi alle collaboratrici? Un suo interesse». Il Tribunale ha motivato la sentenza sull’ex governatore della Lombardia nel processo per i contratti di Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, scrive Luigi Ferrarella il 18 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sarebbe stato un problema sistemare in Regione Lombardia le due amiche della cui collaborazione (già sperimentata al ministero dell’Interno) l’allora presidente leghista della Regione Roberto Maroni non voleva privarsi: sia per l’ipoteca della Corte dei Conti che avrebbe posto «un profilo di danno erariale», sia per la «difficile gestione anche mediatica delle ripercussioni» sul tema «costi della politica, oggetto di interesse del partito di Maroni». È così che il Tribunale di Milano — nel motivare la condanna in primo grado a un anno (pena sospesa) per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e l’assoluzione dall’induzione indebita — inquadra i contratti temporanei a Mara Carluccio in Eupolis (ente di ricerca sotto controllo regionale) e a Maria Grazia Paturzo in Expo. Nel primo caso «Maroni, personalmente (ne è stata acquisita prova diretta) e per il tramite di Giacomo Ciriello» (suo capo staff, 1 anno di pena), «incaricò» il leghista segretario generale del Pirellone, Andrea Gibelli (oggi n.1 di Ferrovie Nord Milano, 10 mesi e 20 giorni di pena), «di segnalare al direttore generale di Eupolis, Alberto Bugnoli», otto mesi patteggiati), il nome di Mara Carluccio (sei mesi di pena). E «l’agire di Brugnoli», che «ricevette da Gibelli il curriculum di Carluccio ben prima dell’avviamento della selezione» sfociata in un incarico su misura da 29 mila euro, fu «rivolto all’esclusivo scopo di compiacere» l’«interesse personale di Maroni» e «non già per soddisfare una esigenza della PA». Nel secondo caso (cioè il viaggio a Tokyo di Paturzo, poi annullato, di cui Maroni nel maggio 2014 cercava di accollare le spese all’Expo di Beppe Sala), il Tribunale riporta due pagine di sms e intercettazioni per dare «la prova diretta della» invece sempre negata «esistenza di una relazione non solo professionale», foriera perciò di atti alla Procura, per ipotesi di false dichiarazioni, a carico di Paturzo e delle testi Isabella Votino (portavoce di Maroni) e Cristina Rossello (avvocato e parlamentare di Forza Italia). Ma negli sms e telefonate che il pm Eugenio Fusco qualificava come «pressioni» di Maroni su Cristian Malangone (il braccio destro di Sala già assolto definitivamente) i giudici Guadagnino-Amicone-Vanore ravvisano invece non «la perentorietà» di una pressione illecita, ma «la riproposizione di una richiesta più sbrigativa delle precedenti».

"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso". Le motivazioni della condanna, scrive Luca Fazzo, Martedì 18/09/2018, su "Il Giornale". E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta». E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».

Maroni pubblicherà a novembre un libro “sulle vittime della giustizia mediatica”. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora su Il Foglio spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione, scrive di Tomaso Bassani su "Varesenews.it" il 21 settembre 2018. Nella nuova vita di Roberto Maroni, ex ministro, ex governatore della Lombardia ed ex segretario della Lega Nord oggi, formalmente, solo consigliere comunale varesino, c’è anche spazio per la scrittura. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione. Lo ha raccontato Maroni stesso nella sua rubrica pubblicata su Il Foglio dove toglie il velo sul libro al quale sta lavorando e che uscirà a novembre. Si tratta di una pubblicazione su quelli che l’ex governatore definisce “le vittime dei casi di giustizia mediatica”. “Tanti processi, tanto risalto mediatico, pochissime condanne – scrive Maroni -. Un principio di civiltà giuridica consacrato dalla Costituzione. Peccato che in questa Italia succeda l’esatto contrario. La sentenza di condanna mediatica arriva subito, talvolta precede persino l’informazione all’interessato di essere sottoposto a indagine. E poi recuperare è quasi impossibile”.

Per denunciare tutto questo Roberto Maroni sta scrivendo il suo libro: “manca il coraggio di parlar chiaro, io lo farò in un libro che uscirà a novembre”.

Lega, Tribunale di Milano dispone sequestro di 1,9 milioni a carico dell’avvocato Matteo Brigandì. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Il Tribunale di Milano ha disposto un sequestro preventivo ai fini della confisca da quasi 1,9 milioni di euro a carico dell’avvocato Matteo Brigandì, storico legale in passato della Lega e dell’ex leader Umberto Bossi, a processo per patrocinio infedele e autoriciclaggio perché, secondo l’accusa, “quale avvocato della Lega (è parte civile, ndr)” rendendosi “infedele ai suoi doveri professionali” avrebbe omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo da lui richiesto per avere appunto quasi 1,9 milioni di compensi per la sua attività. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia. Per questo la Procura ha attivato una rogatoria per arrivare a bloccare quei soldi. Il processo, intanto, è stato aggiornato all’8 novembre. A Brigandì, che è stato anche parlamentare della Lega, viene contestato, infatti, anche l’autoriciclaggio perché avrebbe prima investito quei soldi “sottoscrivendo” una polizza vita e poi dopo un “disinvestimento trasferiva – scrive il pm nell’imputazione – la somma di 1,67 milioni” su un conto di una banca in Tunisia. Oggi il processo è stato aggiornato a novembre, perché il giudice Formentin passerà ad altro ufficio e, dunque, il dibattimento, di fatto non ancora iniziato, verrà celebrato da un altro giudice della decima sezione penale. Nel processo la Lega, rappresentata in aula dal legale Lorenzo Bertacco, è parte civile contro Brigandì per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Oggi avrebbero dovuto presentarsi in aula i primi testimoni dell’accusa, tra cui anche l’ex governatore lombardo Roberto Maroni, ma c’è stato il rinvio per il cambio del giudice. Con un nuovo giudice, tra l’altro, la Procura potrebbe anche richiedere di nuovo l’esame in aula di alcuni testi, tagliati dalle liste nella scorsa udienza, tra cui anche il leader della Lega Matteo Salvini perché, aveva spiegato il pm, in passato aveva firmato un atto di transazione con cui il Carroccio rinunciava ad ogni pretesa nei confronti di Brigandì. Poi, però, già in udienza preliminare, la Lega è entrata come parte civile per chiedere i danni allo storico legale di Bossi. Nel frattempo, è arrivato il provvedimento di sequestro preventivo, anche se il ‘congelamento’ di gran parte dei soldi passerà per l’esito della rogatoria attivata in Tunisia.

25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su "Face Magazine". Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.

25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI

2009. Festa di Pontida. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.

2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.

Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”

Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».

Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”

La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.

2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.

Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario. 

Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”.

E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”.

NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.

“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)

“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)

“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)

“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)

“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)

“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)

“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)

“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)

“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).

Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato.  Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».

Lega, da Bossi a Salvini il nemico è sempre il diverso. L'attuale leader della Lega è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, mutuandone i paradigmi. Così il terrone di ieri è diventato l'immigrato clandestino di oggi, scrive Andrea Pietrobelli il 3 luglio 2018 su "Lettera 43". Viva el leon che magna el teron. Per anni in Veneto, ma non solo, questo è stato uno dei motti che i militanti della Lega intonavano quando si affrontavano temi che riguardavano il Meridione. La gente del Sud - i «terroni» - era descritta come il male del Nord principalmente per tre motivi: l'immigrazione, l'assistenzialismo e la criminalità. Il Mezzogiorno, nella narrazione nordista, non solo era la cancrena della nazione, non solo rubava il lavoro con una massa di persone che occupavano posti che spettavano ai polentoni, ma sprecava anche tutte le risorse che le Regioni settentrionali stanziavano all'odiato Stato centrale per aiutare sostentamento e sviluppo di quella disgraziata parte d'Italia.

IL MEZZOGIORNO PROSECUZIONE DELL'AFRICA. Per i leghisti di allora il 'terrone', oltre che rubare il lavoro, era anche tendenzialmente fancazzista e geneticamente portato alla disonestà e alla mafia. Così il Sud diventava, nelle parole della prima Lega, la prosecuzione dell'Africa e dei suoi abitanti. Più che italiani, erano più simili a marocchini, tunisini, egiziani: non solo per situazione economica e tessuto sociale, anche per questioni di sangue. Tutta propaganda con cui Umberto Bossi ha costruito il suo consenso: dal mito della Padania alla retorica anti-italiana, con tanto di Mondiale di calcio giocato in un campionato a parte, dalla secessione fino all'inseguimento di un federalismo che non ha ancora visto concretamente la luce nonostante anni di governo a trazione Fi-Lega.

L'ULTIMO RUGGITO DI BOSSI. Non stupisce, quindi, che Bossi, nell'intervista al Corriere della Sera del 3 luglio, abbia risfoderato l'antica retorica della 'sua' Lega Nord in chiave anti Salvini, capofila di un neo-nazionalsovranismo (che in realtà di nuovo ha veramente poco) che ha sacrificato l'istanza secessionista sull'altare dell'orgoglio italico. Parlando della sua Pontida "invasa" dai meridionali, il Senatùr non è andato per il sottile: «Ho visto solo un sacco di gente interessata a essere mantenuta». E sul successo dell'edizione "populista" ha commentato sarcastico: «Se ci porti lì anche l'Africa...». C'è una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud bossiani con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire. Ma sono così diversi Bossi e Salvini? Sì e no. L'attuale leader della Lega, che è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, ha lavorato negli ultimi anni, a suon di felpe e territorialismi, per creare un leghismo nazionale. Su questo, rispetto al suo maestro, la sterzata è stata netta e, a vedere i risultati, vincente. C'è però una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire.

POPULISMI DI OGGI, CAMICIE VERDI DI IERI. Per il Capitano e i suoi discepoli, i migranti «non fanno nulla dalla mattina alla sera», sono mantenuti, aumentano la criminalità. Esattamente come un campano o un calabrese che negli Anni 90 si trovava a vivere al Nord, per cercare fortuna o perché spinto dalla fame. Una retorica che qualcuno ha definito dell'egoismo, che strizza l'occhio alla xenofobia e che sembra far breccia nel cuore dei populisti di oggi esattamente come nelle Camicie verdi di ieri.

C'È SEMPRE UNO PIÙ A NORD. Sia Salvini sia Bossi, partendo da problemi reali che andrebbero affrontati seriamente, evocano uno straniero più debole e che sta più a Sud come nemico del popolo, come ragione delle disgrazie del "popolo" e pronto a rovinarci ancora di più la vita. Esattamente come, per gli Stati del Nord Europa, Germania in primis, l'Italia è un peso morto, un Paese corrotto, criminale e assistenzialista, che tendenzialmente non vuole pagare i suoi debiti (non a caso lo Spiegel ci ha definiti «scrocconi») e che gestisce le risorse europee sprecandole. Quindi attento Salvini: parafrasando Pietro Nenni, c'è sempre uno più a Nord che ti epura.

CI VUOLE LA BBC PER RIPESCARE UN GRANDE ANEDDOTO SU SALVINI - L'EX MOGLIE PUGLIESE, FABRIZIA: ''AL MATRIMONIO SI È SPOGLIATO, HA INDOSSATO LA CAMICIA VERDE LEGHISTA MENTRE I SUOI AMICI INTONAVANO CORI ANTIMERIDIONALI, CON I MIEI 200 PARENTI CHE FISCHIAVANO, ULULAVANO 'BUUUU''' - LEI ALLE NOZZE ERA INCINTA, SI SEPARARONO POCO DOPO. TRE ANNI FA DISSE: 'CON QUESTA TIZIA (LA ISOARDI) NON E' UNA STORIA VERA. LA SUA ANIMA GEMELLA E'...'

Da repubblica.it l'8 agosto 2018. Un lungo ritratto di Matteo Salvini, tra pubblico e privato, sotto il titolo: "Può l'Italia fidarsi di quest'uomo?". La Bbc riserva al ministro dell'Interno un articolo del corrispondente James Reynolds che ha un attacco un po' di maniera sull'immagine del leader leghista che a differenza degli altri politici italiani in completo e camicia solo raramente indossa la cravatta ma quasi sempre slacciata. Un Salvini che - mentre parla con i giornalisti durante la campagna elettorale del 4 marzo - fuma e controlla il telefono (ndr, in realtà negli ultimi mesi Salvini ha provato più volte a smettere di fumare"). Si racconta il suo exploit elettorale imprevisto, la coalizione con i 5Stelle, la scelta da parte della coalizione di uno "sconosciuto professore di diritto" come premier sostanzialmente "privo di potere", insomma un percorso che ha portato il leader leghista a diventare l'uomo forte dell'esecutivo italiano. La ricostruzione del passato di Salvini sconfina un po' nel folclore: gli esordi come "secessionista di estrema sinistra", con la "spilletta di Che Guevara" nei comunisti Padani. La mancata stretta di mano al presidente Ciampi, quando era in Consiglio comunale a Milano ("Lei non mi rappresenta"), i cori contro i napoletani e al tempo stesso il matrimonio con una pugliese, Fabrizia Ieluzzi (la coppia ha divorziato nel 2010), che racconta: "Al taglio della torta, ha indossato la maglietta verde e insieme ai suoi amici ha cominciato a cantare cori antimeridionali, con tutti i miei parenti che hanno cominciato a fischiare". Ma l'articolo della Bbc individua alcune chiavi del successo di Salvini: l'aver deciso, a un certo punto, la trasformazione del partito da secessionista a nazionalista e l'aver individuato due nemici: l'Europa e i migranti. L'avversario principale non era più dunque lo Stato italiano: nel mirino entravano Unione europea e immigrazione. In pratica, la chiave del successo per la Bbc è nel suo profilo da camaleonte in grado di adattare il messaggio politico al mutare delle situazioni. Ma anche le sue caratteristiche umane, la capacità di presentarsi come il "ragazzo della porta accanto" - con la passione per calcio e donne - rispetto ai politici italiani per motivi diversi percepiti come distanti, irraggiungibili. E di alternare attacchi feroci ai migranti - dipinti in campagna elettorale come "ladri e criminali" - a selfie e battute. Un ritratto forse più concentrato sulle origini di Salvini che sull'attuale svolta a destra del ministro dell'Interno. Che comunque non tralascia l'evocazione di Mussolini. "Il linguaggio diretto di Salvini ricorda ad alcuni italiani quello di Mussolini negli anni Venti e Trenta, quando gli insulti furono seguiti dalla persecuzione delle minoranze" e dalle leggi razziali, scrive James Reynolds. L'articolo si conclude con una riflessione sull'internazionale sovranista - i legami con Marine Le Pen, ma anche con Trump e Putin - e con una previsione a tinte forti: che il futuro dell'Unione europea possa giocarsi proprio nella competizione tra Matteo Salvini e il presidente francese Emmannuel Macron.

L'aneddoto del Buuu al matrimonio raccontato da Fabrizia Ielluzzi a Sara Faillaci su''VANITY FAIR'' nel 2015. «Quando arrivi in alto, devi tenere gli occhi aperti perché c’è sempre qualcuno che ti liscia il pelo, o che sta con te perché vuole ottenere qualcosa. Teo è un po' ingenuo da questo punto di vista, ci sta che qualcosa ci sia stato con questa tizia (Elisa Isoardi, ndr), non ne ho idea, ma di certo non è una storia». Di Matteo «Teo» Salvini, Fabrizia Ieluzzi è stata l'unica moglie. Si sono sposati trentenni nel 2003, quando lei – già incinta di Federico, primogenito del leader leghista – era una giornalista radiofonica in carriera con la passione per la politica, simpatizzante per Forza Italia, e lui un semplice consigliere comunale milanese. Il matrimonio è durato a malapena due anni, seguito subito dopo dalla lunga relazione tra Salvini e la sua compagna storica Giulia Martinelli, madre della secondogenita Mirta. Rapporto, quest’ultimo, che sarebbe stato messo in crisi proprio dal flirt con la conduttrice Rai. Ma Fabrizia Ieluzzi, che in tutti questi anni non ha mai rilasciato interviste, spiega a Vanity Fair che secondo lei quella con la Isoardi è una storia senza futuro. «Da ex moglie, quindi vale doppio, posso testimoniare che Matteo e Giulia sono due anime gemelle, le metà della stessa mela», dice l'ex Signora Salvini. «Lei è una militante della Lega, sono cresciuti insieme; anzi, posso dire che lui l'amava da quando erano pistolini, c'era anche prima di me. Lei è nel suo cuore, non la levi nemmeno con lo scalpello. Ti pare che bastano due tette che camminano per riuscirci? Io sono pronta a scommettere che torneranno insieme. Una cosa del genere, nell'economia di una vita insieme, si supera». Nell'intervista che Vanity Fair pubblica nel prossimo numero, Fabrizia Ieluzzi racconta tutto della loro storia. L'improbabile colpo di fulmine – lui nordista, lei pugliese –, i romanticissimi sms del corteggiamento di Salvini, la cerimonia di nozze dove lo sposo improvvisa uno striptease (testimoniato dalle foto che Vanity Fair ha ottenuto in esclusiva) per indossare una camicia verde mentre i giovani padani intonano il coro «Secessione» e i parenti meridionali della sposa rispondono a suon di «Buuu!», l'affetto della nonna di lei che lo rimpinza e gli parla in un dialetto per lui incomprensibile. E poi le inevitabili incomprensioni, la separazione, la nuova vita professionale di lei, la serena famiglia allargata costruita con Giulia Martinelli e i due figli, i difetti di Salvini come compagno e i suoi pregi come padre, il suo carisma politico e la sua incapacità di farsi consigliare. E la volta che il piccolo Federico è andato a un concerto di Fedez, «nemico» di papà.

Nordisti e sudisti sempre colpa degli altri, risponde Aldo Cazzullo il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera".

Caro Aldo, un ascoltatore di Prima Pagina si è chiesto perché l’Italia non è simile alla Germania sul versante economico. Per l’elevato debito pubblico, è stato risposto. A mio avviso anche per Garibaldi che ha riunito due Italie fondamentalmente diverse. Ce ne rendiamo conto adesso. Le nazioni tedesche sono due: Germania e Austria a motivo della loro origine storica ed economica, e non sentono il bisogno di fondersi. Senza Garibaldi avremmo ancora il regno storico delle Due Sicilie di stampo agricolo e turistico, quest’ultimo in costante ascesa, rimpianto da tanti meridionali. Dall’altra parte avremmo il Nord altamente industrializzato e con un Lombardo-veneto che gareggia con la ricca Baviera, anche in Italia avremmo la nostra Germania. Bruno Mardegan Bellagio (Co)

Caro Bruno, La sua lettera conferma una cosa che ho sempre pensato. La convinzione dei nordisti, secondo cui il Settentrione sarebbe come la Baviera se non fosse gravato dal peso del Sud, va di pari passo con quella dei sudisti, secondo cui il Mezzogiorno sarebbe ricco e felice se il Nord non l’avesse invaso, conquistato, colonizzato. Al di là del fondo di verità che può anche esserci dietro i rispettivi lamenti (una città come Napoli ha sicuramente perso peso politico, demografico ed economico con l’unificazione; il Nord sarebbe sicuramente ancora più ricco senza decenni di Cassa del Mezzogiorno e di assunzioni folli alla Regione Sicilia), le due visioni combaciano perfettamente in un punto: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani. È una visione consolatoria, quindi popolare. Piace e va di moda, perché è una delle cose che molti italiani amano sentirsi dire. Ma è sbagliata e alla lunga controproducente: perché se i nostri problemi non dipendono da noi, allora non possiamo fare nulla per risolverli. Mi ostino invece a credere in un’Italia unita che esce dalla crisi tutta insieme. Ma — e su questo sono d’accordo con lei — visti i tempi è sempre più difficile.

Esistono gli Italiani? scrive FunnyKing il 20 luglio 2014 su "Rischio Calcolato". La domanda non è provocatoria. Ovvero, nell’espressione geografica comunemente conosciuta e chiamata “Italia”, non vi è dubbio che ufficialmente esista ed eserciti il monopolio della violenza un soggetto conosciuto sotto il nome di “Repubblica Italiana”. Ma gli italiani come popolo esistono davvero? E se esistono sono la maggioranza dei residenti all’interno dei limiti territoriali millantati dall’entità conosciuta come “Repubblica Italiana”. Dunque all’interno dell’entità “Repubblica Italiana” ovvero entro i suoi presunti confini vivono persone, uomini donne e bambini ed anno una lingua più o meno comune, una passione maggioritaria per il giuoco del calcio, una serie infinita di sfrenati campanilismi che si spingono da quelli regionali a quelli delle singole città, fino ai quartieri e alle singole vie (e non mi stupirei si arrivasse ai caseggiati). Essi, costretti dalla legge, chi più chi meno (e se ci riescono) pagano le tasse e sono dediti principalmente ad una singola vera passione nazionale: fare esclusivamente i propri interessi, o al massimo quelli della propria famiglia o clan. Il tratto squisitamente individualista dei residenti nell’entità “Repubblica Italiana” è tanto più evidente quanto più i singoli hanno successo, e si mimetizza in finto socialismo per coloro che per sfortuna o demerito non raggiungono il successo personale. Nel senso che questi ultimi trovano conveniente coalizzarsi (temporaneamente) per espropriare parte o tutto del “successo” ottenuto dai loro co-residenti più bravi o fortunati.

Si noti come in questa definizione ci finisca sia il Brambilla con la Fabbrichetta e il conto nel paradiso fiscale, come il tipico comunista/socialista fino a quando i soldi li mettono gli altri. Insomma tutte le sfumature di grigio da un estremo all’altro.

Ora. In una situazione come questa credo sia perfettamente inutile aspettarsi un sussulto nazionale, uno sforzo di miglioramento collettivo, un cambiamento tedesco (questa è la mia personalissima utopia, lo so bene). Solo una guerra persa e il completo disastro per tutti, ha fatto vivere per un brevissimo periodo qualcosa che potesse davvero essere definito Stato Italiano, quei pochi anni dell’immediato dopoguerra e la fase costituente. Poi più nulla, 60 anni di guerra fra singoli, clan, famiglie e consorterie varie. Però i residenti nell’espressione geografica comunemente chiamata “Italia” hanno anche un altro tratto comune, sono individualisti e geniali. E lo dimostrano in tutto il mondo, ovunque sono andati a mettere radici. E tanto più la nazione nella quale si sono stabiliti ha i tratti della “grande nazione” con un nocciolo culturale comune che la tiene insieme, buone leggi, stabilità e ordine essi prosperano. Proprio perchè si trovano nella situazione di potersi fare bene gli “affari propri”, senza che qualche loro simile stia al governo.

Avete fatto caso al fatto che in i residenti e i nativi dell’espressione geografica conosciuta sotto il nome di Italia a fianco di una miriade di fantastiche e geniali piccole aziende e imprese non sono quasi mai riusciti a creare un colosso multinazionale? Pensateci bene. Esistono davvero gli Italiani. Io vorrei che esistessero, ma il che presupporrebbe una coscienza comune e una responsabilità civile collettiva, e siccome quello che vorrei io o che vorreste voi è irrilevante di fronte alla realtà dei fatti, probabilmente meglio sarebbe polverizzare l’espressione geografica generalmente conosciuta sotto il nome di “Repubblica Italiana” o “Italia” in molte entità con leggi proprie e più confacenti ai Clan e alle Famiglie o agli individui che le popolano. Per inciso esisterebbe un valido esempio, e non a caso li si è formato il grandioso pensiero del filosofo più rappresentativo della cultura media e mediana dei residenti nell’espressione geografica chiamata Italia. Tale grandioso filosofo giustamente siede in parlamento e dovrebbe presto essere fatto Senatore a vita. Il suo unico e semplice enunciato, che definisce alla perfezione 60 milioni di persone è: Te lo dico da amico, fatti li cazzi tuoi (Antonio Razzi docet)

Gli italiani non esistono. Siamo un grande mix genetico. Tranne i Sardi. La distribuzione genetica in Italia per linea paterna. La penisola dal punto di vista genetico è divisa da una linea che separa più Est da Ovest che Nord da Sud. L’unica che fa storia a sé è la Sardegna, scrive Luigi Ripamonti il 3 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Gli Italiani? Non esistono. «Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori, Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.

Maschi e femmine. «Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni» racconta Pettener. «Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia. I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna». Risultato? «Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud— spiega l’esperto— Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale. Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna. Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento, Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni».

Malattie. La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni. Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse. A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna. «L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA. «La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie». Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.

Il caso della Sardegna. A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate. «I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee. Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi. «Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».

I cittadini italiani non esistono. Altro che Unità... La verità nei geni, scrive Venerdì, 10 gennaio 2014 Affari Italiani. Altro che Unità d'Italia. A leggere il dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più un passeggiata che una conquista. Per non parlare poi del fenomeno immigrazione dal sud al nord d'inizio Novecento: nelle patrimonio dei cittadini tricolore, la massa che dal Meridione si è spostata nell'operoso nord non ha lasciato tracce. L'effetto che si scopre analizzando il dna degli italiani e che la diversità che c'è tra i sardi e le popolazioni delle Alpi è maggiore di quella che c'è tra portoghesi e ungherese, praticamente ortogonali nella geografia europea. Infine, ed è la “mazzata finale” per i teorici delle razze: difficile sostenere che esista un ceppo italico: a leggere le caratteristiche della nostra evoluzione, sembriamo uno dei Paesi in cui l'effetto straniero abbia maggiormente inciso. Insomma, un porto di mare per genti di tutte le razze. A rivelare che duecento anni di unioni e figli e un governo unico del Paese non hanno modificato granché il patrimonio individuale è uno studio coordinato dall'Università di Roma La Sapienza. Un team di ricercatori della Sapienza, coordinato dall’antropologo Giovanni Destro Bisol, in collaborazione con gruppi di ricerca delle Università di Bologna, Cagliari e Pisa, ha messo in luce che le popolazioni italiane sono estremamente eterogenee da un punto di vista genetico, tanto da poter paragonare la loro diversità a quella che si osserva tra gruppi che vivono agli angoli opposti dell’Europa. L'altra faccia del rovescio della medaglia dello studio è che almeno per quanto riguarda il patrimonio genetico siamo uno dei Paesi più ricchi d'Europa. Non aiuterà lo spread, ma almeno è un record positivo. Alla base di questa diversità c’è un motivo comune e cioè l’estrema estensione latitudinale dell’Italia. La varietà degli habitat che si trovano lungo la dorsale della nostra penisola favorisce la varietà di piante e animali ospitati nel nostro territorio. D’altro canto per le sue caratteristiche geografiche l’Italia sin da tempi antichissimi ha rappresentato un corridoio naturale per i flussi migratori provenienti sia dall’Europa centrale sia dal Mediterraneo: nel caso dell’uomo hanno contribuito alle diversità tra popolazioni anche le differenze culturali (in primis linguistiche), creando un ulteriore fattore di isolamento rispetto a quello geografico. In entrambi i casi, il risultato finale è la creazione di un “pattern” davvero unico in Europa. L’accento sull’importanza degli aspetti culturali non è casuale, ma deriva da quello che i ricercatori considerano un aspetto particolarmente originale del loro studio: avere incluso nell’indagine, oltre a popolazioni ampie e rappresentative di città o di grandi aree (ad esempio L’Aquila oppure Lazio), anche gruppi di antico insediamento come le “minoranze linguistiche” (Ladini, Cimbri, e Grecanici), portatrici di aspetti culturali e sociali peculiari nel panorama italiano. Sono proprio alcuni di questi gruppi, come nel caso delle comunità “paleogermanofone” e ladine delle Alpi oltre a gruppi della Sardegna, che contribuiscono in maniera determinante alla notevole diversità osservata in Italia. Un dato tra tutti: se si considerano ad esempio i caratteri trasmessi dalla madre ai figli di entrambi i sessi (e cioè il DNA mitocondriale), comparando la comunità germanofona di Sappada, nel Veneto settentrionale, con il suo gruppo vicinale del Cadore, o quella di Benetutti in Sardegna con la Sardegna settentrionale, l’insieme delle differenze genetiche calcolate è di 7-30 volte maggiore di quanto si osserva perfino tra coppie di popolazioni europee geograficamente 20 volte più distanti (come Portoghesi e Ungheresi oppure Spagnoli e Romeni). “I nostri dati - spiega Giovanni Destro Bisol che ha curato la ricerca – testimoniamo come fenomeni migratori e processi di isolamento che hanno coinvolto le minoranze linguistiche, per la maggior parte insediatesi nel nostro territorio prevalentemente tra il medioevo e il diciannovesimo secolo, abbiano lasciato testimonianza non solamente nei loro aspetti culturali (alloglossia, aspetti della tradizioni e del folklore,) ma anche nella loro struttura genetica”. “Questo studio ci lascia anche una riflessione che va aldilà della dimensione strettamente scientifica e investe l’attualità” conclude Destro Bisol “…sapere che l’Italia, indipendentemente dai flussi migratori recenti, è stata ed è tuttora terra di notevole diversità sia culturale che genetica, può aiutarci ad affrontare in maniera più serena un futuro pieno di occasioni di incontro con i portatori di nuove e diverse identità”.

Gli italiani non esistono, scrive l'11 aprile 2010 Eva Danese. Ho deciso di rendere nota la mia traduzione di un articolo svedese riguardante l’Italia, pubblicato poco prima delle nostre elezioni regionali. Perché ho deciso di sottoporlo alla vostra attenzione? Prima di tutto, perché può essere sempre interessante conoscere punti di vista esterni o alternativi su qualsiasi situazione, compresa quella italiana. Secondo, per stimolare in voi una riflessione e magari, perché no, per conoscere le vostre sensazioni a riguardo. Che ve ne pare? Buona lettura! 

“Gli italiani non esistono” di Kristina Kappelin, pubblicato il 27 marzo 2010 sul quotidiano svedese “Sydsvenskan”. Il treno da Salerno a Roma è ovviamente in ritardo. Quando finalmente entra in stazione è infinitamente lento. E’ partito da Palermo stamattina alle sette. Ora sono le quattro del pomeriggio. Praticamente è avanzato sui malridotti binari a una velocità media di 80 kilometri orari. Le cabine sono degradate e i sedili così sporchi che quasi si è restii sedersi. La situazione rispecchia il razzismo che ancora esiste in Italia. I ferrivecchi servono per i viaggi verso il sud, mentre i vagoni nuovi e belli si dirigono da Roma verso il nord. Ci sono voluti anni e anni per fare arrivare il treno rapido Eurostar a Napoli e a Bari. Eppure va ancora più lentamente nella tratta Milano-Torino. “L’Italia è fatta. Ora dobbiamo fare gli italiani”. Più o meno così scrisse il capo di stato Massimo d’Azeglio nel 1860. È ancora vero. Gli italiani si sentono patrioti solamente in occasione dei mondiali o delle olimpiadi. Altrimenti sono ancora prima di tutto siciliani, lombardi o veneziani. Si noti che gli sportivi italiani non gareggiano indossando i colori della bandiera italiana, ma l’azzurro, il “blu Savoia”, un tempo il colore della famiglia reale. Insomma, quanto sono uniti gli italiani? Il paese si prepara a celebrare i suoi primi 150 come nazione il prossimo anno. La dichiarazione di unità è datata 17 marzo 1861. Il conto alla rovescia è già cominciato. Uno dei siti prescelti per i festeggiamenti è Torino. La città fu la capitale durante i primi quattro anni. Divenne anche rapidamente il centro industriale del paese, più che altro grazie alla Fiat. Quando coloro che cercavano lavoro dal sud prendevano il treno verso il nord per trovarne impiego nelle fabbriche di automobili, si andavano a scontrare con il dramma degli italiani che non erano ancora “fatti”. Il lavoro lo ottenevano. La residenza andava male. “Stanze in affitto, ma non ai cani e ai meridionali” si vedeva scritto su molti cartelli. Torino è il capoluogo del Piemonte. Quando l’Italia nel fine settimana andrà al voto per le regionali, avrà fra i candidati Roberto Cota, del partito settentrionale “Lega Nord”. Il partito conduce una politica contro gli extracomunitari così come contro i meridionali e vuole fare dell’Italia uno stato federale. Il sogno è che il nord Italia diventi un piccolo regno a sé, con il fiume Po come confine meridionale. Cota ha buone probabilità di vincere. La Lega Nord potrebbe prendere il posto del partito di Berlusconi, il Popolo della Libertà, nelle regioni del nord. Gli italiani, fino ad oggi, non sono ancora stati “fatti”. Mentre il vecchio treno lentamente si avvicina a Roma, vedo il paesaggio campano, con le sue costruzioni abusive, e i mucchi di spazzatura fra i peschi in fiore. L’Italia del sud avrebbe avuto lo stesso problema di criminalità organizzata oggi se gli italiani fossero stati “fatti”, se tutto il paese si riconoscesse nella Costituzione, se la politica fosse considerata giusta e i politici onesti? La bandiera italiana sventola sulla stazione di Formia. È verde, bianca e rossa come il basilico, la mozzarella e il pomodoro. Una cosa sulla quale la maggior parte degli italiani vanno d’accordo. 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

Attilio Fontana, chi è il candidato del centrodestra alle regionali lombarde. Avvocato, ex sindaco di Varese, leghista amico di Maroni, è rimasto anche lui sorpreso della sua candidatura, scrive il 16 gennaio 2018 Panorama. Il leghista Attilio Fontana è il nome sotto cui si compatta il centrodestra in Lombardia per le elezioni regionali del 4 marzo 2018, che si svolgono in contemporanea con le elezioni politiche. È lui che mira a ricoprire la poltrona occupata al Pirellone da Roberto Maroni, che ha deciso di non ricandidarsi come governatore. Avvocato, ex sindaco di Varese, 65 anni, candidato poco noto oltre i confini varesini, è finito però al centro della polemica il 15 gennaio per aver parlato di "razza bianca" a rischio. Lo stesso Fontana è rimasto inizialmente sorpreso per la candidatura: "A Varese sono contenti ma stupiti, anche io sono rimasto stupito". Ecco il ritratto professionale e politico di Attilio Fontana.

La carriera legale. Classe 1952, laureato in Giurisprudenza, amico del governatore Roberto Maroni che lo stima, Attilio Fontana è come lui di Varese - dove ha uno studio professionale dal 1980 - e come lui avvocato. Come difensore per anni ha seguito le vicende giudiziarie delle Camicie verdi, i 34 militanti leghisti accusati di costituzione di banda armata. Il processo è durato un ventennio, fino all'assoluzione definitiva e al risarcimento.

Il triplo mandato da sindaco. Attilio Fontana ha ricoperto per tre volte il ruolo di sindaco per la Lega Nord. Dal 1995 al 1999 è stato sindaco del comune di diecimila anime di Induno Olona, della provincia di Varese. Poi il passaggio alla città, a Varese, anche in quel caso per certi versi come sostituto di Maroni. Nel 2006, dopo lo scandalo giudiziario che costrinse il primo cittadina leghista Aldo Fumagalli alle dimissioni, si parlava della possibile candidatura dell'ex ministro; poi fu invece Attilio Fontana a prendere il suo posto nella corsa. Venne eletto sindaco al primo turno nel 2006 (con il 57,8 % dei voti). Allora dovette lasciare, con un certo dispiacere, l'incarico di presidente del Consiglio regionale, ruolo che ricopriva dal 2000 e per cui era stato rieletto nel 2005. Fontana è stato riconfermato sindaco di Varese al ballottaggio nel 2011 (con il 53,89% delle preferenze) fino al 2016. Eletto all'Anci Lombardia (e nel direttivo dell'Anci nazionale), nel suo incarico bipartisan ha fatto battaglie al fianco del ministro Graziano Delrio, allora sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci nazionale: si ricordi, ad esempio, la marcia dei sindaci organizzata a Milano nel 2012 contro i tagli al bilancio.

Il suo ritratto più intimo. Attilio Fontana viene descritto come un uomo puntuale che odia arrivare in ritardo facendo aspettare la gente. Sposato, padre di tre figli, è amante del golf e dei viaggi. Sul fatto di essere un volto poco noto della politica, lui ha ironizzato così: "In politica quando mai non si litiga. L'unico che non litiga sono io e infatti non mi conosce nessuno". Dopo un'uscita infelice è però diventato di certo più noto. Sul tema immigrazione a Radio Padania ha parlato di "razza bianca" a rischio, scatenando la polemica. Si è quindi corretto parlando di "lapsus" e quindi si è giustificando dicendo che "anche la Costituzione parla di razze". 

Il Sud visto dal Nord dal 1860 ai primi del 900: I meridionali? Cafoni e razza inferiore, scrive Ignazio Coppola il 5 luglio 2012 su "Meridionews". La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata unità d'Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a liberare e civilizzare" il Sud e la Sicilia.

Massimo D'Azeglio: "Napoli come i vaiolo". Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, Matteo Salvini: Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il brigantaggio a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele.

Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: Le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo - e con minor numero di vittime - a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà. Ed infine per completare questo bestiario di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa.

Carlo Nievo: "Abbruciare vivi tutti gli abitanti del Sud". E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei liberatori che fecero a spese del Sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. E su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. Studiosi che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione.

Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni, quando sostiene: La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano- afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Parole sante. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia direttore della Banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo e romanziere ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di liberatori quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore!

Niceforo in un suo libro del 1898 L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da civilizzare. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali. E ancora: Non si affittano case ai meridionali. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese?

E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni - e sopratutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in testa - da buon meridionale, anziché compiacersi di inaugurare a Caprera, come ha fatto in questi giorni, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon napoletano, avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora, ai nostri giorni, esistono due Italie: una di serie A ed una di serie B:quella del Nord civile e progredita, quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un Paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napolitano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro...

Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive il 23 gennaio 2018 Eleonora Lorusso su Panorama. Era il 1938 quando l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate dall'allora re Vittorio Emanuele III: l'80esimo anniversario rappresenta una ferita ancora aperta, come dimostrato dalle recenti polemiche in occasione del rimpatrio della salma dell'ex sovrano di casa Savoia, contro cui ha protestato la Comunità ebraica italiana. A sollevare nuovo polverone sono anche stati recenti riferimenti alla "razza bianca" nelle parole di un politico lombardo.

Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.

I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.

La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali: 

1) Le razze umane esistono; 

2) Esistono grandi razze e piccole razze; 

3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose; 

4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana. 

Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione; 

6) Esiste ormai una pura "razza italiana"; 

7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;  

8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra; 

9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.

10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.

L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.

Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.  

Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne"). Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

L’odio è odio anche quello per la Petacci, scrive Piero Sansonetti il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". L’uscita di Gene Gnocchi, in tv, contro Claretta Petacci, ha poco di comico. Se dici maiala a una signora che è stata fucilata 72 anni, sei molto spiritoso? Io non credo. Sto parlando del comico Gene Gnocchi, che l’altra sera, in Tv, ha usato questo termine, scherzosamente, per definire Claretta Petacci, l’amante di Benito Mussolini. Dico subito che considero l’antifascismo un valore, nella cultura politica italiana. Ho sempre pensato che l’antifascismo sia fondato su alcuni principi essenziali: la tolleranza, l’amore per la libertà, il rispetto degli altri soprattutto delle minoranze e degli sconfitti – il diritto. Si chiama antifascismo proprio per questo: perché la tragedia del fascismo fu esattamente quella di avere negato quei grandi principi della civiltà che sono la tolleranza e la libertà. Che c’è da ridere se ti dico: «Maiala»? Al di fuori della tolleranza non esiste l’antifascismo, ma invece esiste qualcosa che assomiglia molto a quello che è stato il fascismo. Svolgo questo ragionamento sperando di non offendere nessuno. E perché credo che sia un ragionamento attuale. Molto attuale. Da un po’ di tempo siamo costretti a misurarci di nuovo con il tema della tolleranza, che è stata travolta dal linguaggio dell’odio, dal trionfo delle appartenenze, dal giustizialismo. Si è invertito, di fronte all’opinione pubblica, lo stesso valore delle parole e delle espressioni. La parola tolleranza, come idea positiva, è stata sostituita da suo contrario: tolleranza zero. E la stessa parola “bontà”, che un tempo aveva un valore edificante, è stata rovesciata in “buonismo”, sostantivo che indica cedimento, debolezza, forse persino tradimento. Su questo giornale ci siamo occupati molto, nei mesi scorsi, del linguaggio dell’odio e della cultura dell’odio. In particolare nei giorni nei quali su questo tema – a Roma, alla fine dell’estate – si è svolto un convegno internazionale organizzato dalle avvocature dei paesi del G7. A me preme dire che il linguaggio dell’odio è il linguaggio dell’odio. Punto. Non ha colore politico. Ed è lo strumento con il quale tutti i populisti cercano di resistere all’avanzata della civiltà, della modernità, del diritto. Le parole usate da Gene Gnocchi rientrano pienamente nel linguaggio dell’odio. Non vale niente l’osservazione che Gnocchi è un comico, e quindi fa satira, e la satira è satira e non ha limiti e non ha correttezza. La satira ha un formidabile valore e una grandissima potenza nella battaglia culturale. E può spingere la cultura e il senso comune in una direzione o nella direzione opposta. Proibirla è una follia, criticarla (e qualche volta anche indignarsi per la sua volgarità) è legittimissimo. Gene Gnocchi si è presentato l’altro ieri sera alla trasmissione “Di Martedì”, sulla Sette (quella condotta da Marco Travaglio e che ha ospite quasi fisso Giovanni Floris), ha mostrato la foto di un maiale che cerca cibo tra i cassonetti dei rifiuti a Roma (è una foto più volte usata da Giorgia Meloni per polemizzare contro la sindaca Raggi) e ha detto che quel maiale è una maiala e ha un nome e un cognome: Claretta Petacci. Penso che tutti sappiate chi è la Petacci. È la figlia di una famiglia piuttosto potente della borghesia romana, che da giovanissima, e cioè quando aveva 20 anni, si innamorò di Benito Mussolini e intrecciò con lui una storia d’amore che durò 13 anni. Cioè durò fino a quel fatale 28 aprile del 1945 nel quale Mussolini, che era stato catturato il giorno prima a Dongo mascherato da soldato tedesco, mentre cercava di espatriare in Svizzera, fu fucilato. L’esecuzione avvenne in una località di campagna, Giulino di Mezzegra, in Lombardia. Insieme all’ex duce fu arrestata anche Claretta, che gli era restata al fianco, mentre i Petacci si erano messi al sicuro in Spagna, ma lei si era rifiutata di seguirli. Sul capo di Mussolini pendeva la condanna a morte pronunciata dal Clnai, l’organismo di governo della Resistenza. La sentenza fu eseguita da tre partigiani del Pci, Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti. Fucilarono Mussolini e fucilarono anche Claretta. Il giorno dopo, i cadaveri di Mussolini e della Petacci furono portati a Milano, in piazzale Loreto, insieme ai cadaveri di altri gerarchi (tra i quali quello di Alessandro Mussolini, segretario del partito fascista) che erano stati catturati insieme a Mussolini e poi fucilati a Dongo. A piazzale Loreto, qualche mese prima (in agosto) i fascisti avevano fucilato 15 partigiani e poi li avevano appesi ai lampioni. Quel giorno, il 29 aprile, ci fu il contrappasso: i corpi dell’ex duce, dei gerarchi, e anche quello di Claretta, furono appesi per i piedi alla pensilina del distributore della Esso. Certamente fu una delle pagine meno solari della Resistenza. Contro Claretta Petacci non c’era nessuna sentenza. Né del Clnai e tantomeno di un regolare tribunale. Fu fucilata lo stesso. Forse per eccesso di zelo, forse perché fu lei che si gettò sul corpo dell’uomo che amava, per proteggerlo. Claretta Petacci non fu mai una donna di potere, non fu una gerarca, non ebbe incarichi politici, non è responsabile in nulla e per nulla degli errori e dei delitti del fascismo. Leggendo le sue carte si possono anche trovare frasi che testimoniano un fanatismo che oggi fa paura. Così come fa paura il fanatismo di chi decise di impiccarla per i piedi, e il fanatismo della folla che urlava e sputava sui cadaveri. Ma io non credo che in nessun modo questa circostanza giustifichi, 72 anni dopo, l’oltraggio gratuito contro la sua memoria, peraltro del tutto immotivato. Non credo che la battuta di Gene Gnocchi abbia niente a che fare con la comicità. Se ti dico che sei un porco, ti sto insultando, non ti sto prendendo in giro. È preoccupante, secondo me, proprio questa situazione: l’ingiuria, l’odio, la rabbia, il disprezzo che diventano strumento di satira, e cioè sono proposti al pubblico della televisione con naturalezza come pacifico elemento di divertimento. L’incattivimento dell’opinione pubblica, il trionfo dell’odio come sentimento popolare – o addirittura come giusto sentimento di rivolta o di riscatto – nascono e si rafforzano proprio qui: nella loro normalizzazione. Gene Gnocchi alla volte è molto spiritoso. A volte meno. La sua abitudine a dissacrare è apprezzabile. Quella dell’altra sera, francamente, è stata una pessima performance.

Quando l'uguaglianza discrimina. Nonostante il "politicamente corretto" non esistono le donne quale realtà unica e compatta, scrive Carlo Lottieri, Martedì 23/01/2018, su "Il Giornale". Hanno suscitato molte polemiche le parole di Catherine Deneuve contro il nuovo moralismo in tema di molestie. Il documento pubblicato da Le Monde interpreta però un diffuso rigetto del puritanesimo sollevato dal «caso Weinstein». E così oltre Oceano la scrittrice Margaret Atwood, da anni paladina delle battaglie femministe, ha deciso di prendere le distanze dal movimento #MeToo e ha detto di considerare pericoloso l'attuale clima da caccia alle streghe. Tutto ciò ci dice che nonostante il «politicamente corretto» non esistono le donne quale realtà unica e compatta, esattamente come non esistono i neri, gli ebrei, i giovani e via dicendo. In fondo, queste voci fuori dal coro chiedono che si abbia nei riguardi dei maschi lo stesso rispetto che si deve alle donne. Per questo una cosa è rilevare che in taluni contesti, ad esempio, c'è un più alto rischio di omicidio di donne e altra cosa, invece, è immaginare che vi sia un assassinio di tipo particolare (e più grave) da ricondurre alla categoria del «femminicidio». Uomini e donne sono diversi, ma è importante preservare rispetto nei riguardi dei diritti e delle idee di tutti. Per questo è comprensibile che una parte di chi in passato si è impegnato contro le discriminazioni ora sia in difficoltà dinanzi alla richiesta di privilegi compensatori. Il dibattito prese avvio, in America, quando s'iniziò a penalizzare i gruppi ritenuti più forti per favorire quelli più deboli. Fu allora che taluni intellettuali neri trovarono assurdo che s'introducessero, per legge, posizioni di favore a vantaggio di un gruppo etnico e, di conseguenza, a danno degli altri. Secondo economisti come Thomas Sowell e Walter Williams (ma anche per il giurista Clarence Thomas), è ingiusto che in un concorso di ammissione a un'università si riservino posti ai candidati neri: passando dalle ingiustizie subite da Rosa Parks a discriminazioni di segno opposto a scapito dei bianchi. Per giunta, questo induce a pensare che un laureato afroamericano uscito dai migliori campus abbia ottenuto tale risultato non grazie alle proprie qualità, ma in ragione di un «imbroglio legale». Lo stesso Thomas, che fu ammesso alla prestigiosa Yale Law School, è stato spesso attaccato dai progressisti americani proprio a partire da ciò. Simili meccanismi volti a favorire taluni gruppi sociali creano poi una serie di paradossi e cortocircuiti, su cui aveva richiamato l'attenzione Kenneth Minogue nel suo volume del 2010, intitolato La mente servile. In quel testo il filosofo conservatore aveva rilevato come quando si abbandona il criterio dell'eguaglianza dinanzi alla legge si finisce per approdare in un quadro del tutto arbitrario, nel quale non è mai chiaro se si debba premiare il maschio islamico o la donna europea, l'omosessuale o l'immigrato, il giovane o l'anziano, e via dicendo. Se «uguali nella libertà» si converte in «diversi nelle discriminazioni», c'è davvero da chiedersi che fine faccia quel poco che ancora rimane della nostra civiltà giuridica.

I DATI DELLE FORZE DELL'ORDINE. Immigrazione, gli stranieri più pericolosi vengono dall'Africa, scrive il 22 Gennaio 2018 Fausto Carioti su "Libero Quotidiano". Gli immigrati non sono tutti uguali. Lo dicono i numeri, con la loro particolare capacità di essere politicamente scorretti: tra gli stranieri presenti nel nostro Paese l'attitudine al crimine varia moltissimo a seconda della nazionalità, ma non nel modo in cui di solito si crede. È noto che sulla maggior parte dei reati compiuti dai non italiani ci sono le impronte digitali di cittadini romeni. Nell' ultimo anno per il quale sono disponibili dati definitivi, il 2015, si sono contati 270.216 reati ad opera di immigrati e nel 22% dei casi (58.555), secondo le nostre forze di polizia, gli autori hanno il passaporto emesso dal governo di Bucarest. Accanto, sul discutibile podio, figurano i marocchini (15% dei reati) e gli albanesi (10%). Le stesse tre nazionalità, a posti scambiati (nell' ordine marocchini, albanesi e romeni), guidano la classifica degli stranieri "ospiti" dei nostri penitenziari. Ma questi numeri dicono poco, perché, dopo quella italiana, le cittadinanze romena, albanese e marocchina sono anche le più rappresentate nella nostra penisola. "Pesato" così, il dato che riguarda i romeni, ad esempio, assume tutt' altro valore: costoro sono il 23% degli immigrati e sono ritenuti responsabili del 22% delle illegalità compiute da stranieri. Delinquono nella media, pur avendo un'incidenza molto alta nello sfruttamento della prostituzione e nelle rapine, come dimostrano le tabelle in questa pagina.

Le sorprese - Per capire qual è la propensione alla delinquenza delle diverse comunità occorre rapportare il numero delle violazioni del codice penale a quello degli individui. Lo ha fatto Libero, elaborando dati Istat di pubblico dominio. I reati, divisi per Paese di provenienza degli autori, si riferiscono all' intero 2015, mentre le cittadinanze degli immigrati presenti in Italia sono quelle fotografate dall' istituto di statistica il primo gennaio dello stesso anno: incrociandoli, è possibile calcolare il numero di illegalità ogni mille individui (per ovvie ragioni, sono stati presi in considerazione solo le nazionalità di una certa rilevanza). Anche se questo conteggio non comprende i clandestini e non tiene conto delle variazioni nella presenza degli stranieri durante l'anno, fornisce una classifica attendibile, in cui non mancano le sorprese.

Prima notizia: scordiamoci romeni, albanesi e marocchini. I peggiori immigrati vengono dal piccolo Gambia, che è esteso poco più dell'Abruzzo e conta appena 1,7 milioni di abitanti. All' inizio del 2015 risultavano presenti sul suolo italiano 3.306 gambiani, che i nostri uomini in divisa hanno ritenuto responsabili di 2.455 reati, 831 dei quali legati al traffico di droga. Numeri che assegnano a costoro un tasso di criminalità elevatissimo, pari a 743 reati ogni mille individui. Il rapporto scende a 306 se si considerano i cittadini del Gambia presenti il primo gennaio del 2016 (il loro numero è cresciuto molto durante il 2015), ma non cambia l'assegnazione del primo posto. Seguono i maliani: 6.245 censiti, per un totale di 1.332 reati, anch' essi legati soprattutto allo spaccio, col risultato di 213 delitti ogni mille persone.

Medaglia di bronzo (chiamiamola così) ai tunisini: 187 delitti ogni mille di loro, con "specializzazioni" in droga e furti. Seguono somali, algerini e - primi europei - gli immigrati dalla Bosnia-Erzegovina. Quindi nigeriani, afghani, serbo-montenegrini (che le tabelle Istat ancora non dividono tra loro) e senegalesi. Secondo dato degno d' interesse: le nazionalità con il più alto tasso di criminalità coincidono in gran parte con quelle i cui cittadini presentano regolarmente richiesta agli uffici italiani per ottenere il diritto d' asilo o altro tipo di protezione. È il caso di chi proviene da Gambia, Mali, Somalia, Nigeria, Afghanistan e Senegal. Terzo dato, forse il più interessante: la propensione a delinquere delle varie nazionalità è diversissima. I filippini, che per consistenza sono la sesta comunità straniera, hanno un tasso di delitti davvero basso, pari a 5 ogni mille individui, incomparabilmente inferiore a quello di chi proviene dai Paesi africani che abbiamo visto. Un governo e un parlamento non ideologizzati userebbero questi indicatori per selezionare gli immigrati da accogliere, anziché predicare una politica delle porte aperte indiscriminata.

IL TERRONE RAZZISTA.

Tornano gli annunci razzisti: "Non si fitta ai meridionali, specialmente napoletani e siciliani", scrive l'8 ottobre 2017 Leggo. Sembra una storia degli anni Settanta, quando i meridionali che emigravano al nord in cerca di lavoro avevano difficoltà a trovare un alloggio. Soprattutto a Torino, dove gli italiani del sud si spostavano in massa per entrare in Fiat, spesso trovavano affissi sui portoni d’ingresso degli edifici dei cartelli che avvisavano: “Non si affitta ai meridionali”. I settentrionali non li volevano come inquilini perché c’era il pregiudizio che creassero problemi: ladri, chiassosi e poco inclini all’igiene. A distanza di quarant’anni quei pregiudizi sembrano tutt’altro che archiviati, anche se i terroni in cerca di una casa nel profondo nord non vengono più accolti da quei fatidici cartelli, ma ai tempi di internet l’antipatica avvertenza è contenuta in qualche annuncio pubblicato sui social network. È quello che racconta Vittorio Savino, medico residente ad Aversa e dirigente presso l’Asl di Caserta, che nei giorni scorsi ha accompagnato la figlia a Padova per cercarle una sistemazione nella città veneta, dove la ragazza nei prossimi mesi dovrà seguire un corso di formazione. «Si naviga su internet e si gira per la città per trovare una soluzione – scrive l’uomo sulla sua bacheca di Facebook –. Prezzi tutto sommato non male, anzi in qualche caso buoni, ma c'è il trucco». E il trucco di cui parla Savino consiste nelle particolari limitazioni poste dai proprietari che offrono le abitazioni in affitto. Lui stesso ne cita qualche esempio: «Via Porcellini (Forcellini – ndr): non si fitta a studenti, meridionali, gay friendly, animali perché si vive in condominio». E poi: «Via Facciolati: no a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani. Valutabili altre zone del centro sud». E ancora: «Zona Guidda Bassonello: solo a ragazze bella presenza del nord, no meridionali». E infine: «Corso del popolo: no a gay, no a persone del sud, no sardi». Ma Savino elenca pure altre proibizioni alquanto bizzarre: «Ci sono divieti anche per lavoratori (??), ciccioni (???), neri, marocchini, persone in cattive condizioni di salute». Il post ha fatto molto scalpore su Facebook, ricevendo centinaia di reazioni, condivisioni e commenti e innescando un’accesa discussione su come vengono effettivamente accolti i meridionali al nord. Patrizia racconta la sua personale esperienza: «Questo succedeva nel 1971, quando a causa del lavoro siamo stati costretti a salire su a Torino, e sino a quando papà non ha trovato lavoro stabile, prima in fonderia e poi in Fiat, non ci fittavano un appartamento. Poi ci studiavano e quando poco dopo hanno capito che eravamo persone tranquille e oneste, volevano aprirsi. Al che mia madre disse: “No grazie ci bastiamo anche da soli”. L'ignoranza, l'intolleranza, i pregiudizi a prescindere sono brutte bestie. Credono di avere il pedigree, ma in tutte le grandi o piccole città ormai c'è degrado e loro non ne sono esenti». Invece, Cinzia suggerisce una soluzione non proprio lecita: «Benvenuti in Veneto. Se proponi di voler pagare un 50 per cento in più o in nero, magicamente si aprono le porte». Ma c’è anche qualcuno che, come Domenico, difende la città dove si è trasferito tempo fa: «Abito a Padova da 17 anni e non ho trovato problemi a trovare casa allora ed in seguito. Consiglio di trovare forme di condivisione di appartamenti poiché le abitazioni affittabili sono quasi tutte ad appannaggio di universitari. Un giro presso le facoltà potrebbe favorire la ricerca. Auguri!».

"Vicino a una negra non ci sto", donna abbandona il posto in treno. È accaduto a bordo di un treno Frecciarossa da Milano a Trieste. La denuncia della madre della ragazza su Facebook: "Razzisti andatevene", scrive Giorgia Baroncini, Lunedì 22/10/2018, su "Il Giornale". "Io accanto a una negra non ci sto". È quanto esclamato da una passeggera del Frecciarossa Milano-Trieste quando nel posto accanto al suo si è seduta una giovane ragazza di colore. "Hai il biglietto?", le ha chiesto la donna."Sì", ha risposto la giovane mostrandolo. "Se è così, io accanto a una negra non ci sto", ha poi tuonato la signora alzandosi per cambiare posto. La ragazza ha subito inviato un messaggio alla madre per raccontarle il fatto e la donna ha deciso di denunciare quanto accaduto. Così, poco dopo, su Facebook è comparso il postdella di madre della ragazzina, Paola Crestani, presidente del Centro Italiano Aiuti all'Infanzia, ente del terzo Settore autorizzato per le adozioni internazionali.

La denuncia. "La dolcissima ragazza nella foto è mia figlia - ha scritto Crestani sulla sua pagina social -. Ieri l'ho accompagnata in stazione centrale a Milano e ha preso il Frecciarossa in direzione Trieste. Poco dopo mi manda un messaggio per raccontarmi quanto accaduto. L'ho subito chiamata e mi ha detto che un ragazzo che aveva assistito alla scena ha preso le sue difese dicendo alla signora di vergognarsi. Dubito che lei lo abbia fatto ma se ne è andata, come dovrebbero fare tutti i razzisti: Andarsene!". "Ne siano consapevoli o no - si legge nel post -, il mondo di oggi e del futuro è questo: un insieme di persone di tutti i colori, di diverse lingue, di culture differenti. Non solo nelle strade, negli autobus, nei treni o negli aerei ma anche nel business, nella finanza, nella moda, nelle università, nello sport. Quindi, razzisti, che vi piaccia o no, avete già perso!". Pochi giorni un altro caso di razzismo da parte di una signora italiana di circa 40 anni che, a bordo di un Flixbus, ha proferito frasi ingiuriose nei confronti di un 25enne senegales.

Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti. Video pubblicato su This is Racism Con: ANDREA PENNACCHI. Da un testo di MARCO GIACOSA. Adattamento e regia: FRANCESCO IMPERATO. Operatore: CLAUDIO PASTAFIGLIA. Una produzione: GOLEMHUB.COM

Andrea Pennacchi: quando i neri erano i meridionali. Il monologo sui «terroni» da un milione di clic, scrive E.B. /CorriereTv il 22 ottobre 2018. Il monologo interpretato dall’attore Andrea Pennacchi inizia con «Ciao terroni, come va, mi ricordo di voi…». «Ciao Terroni! Come va? Mi ricordo di voi, arrivavate col treno, con la macchina piena di valigie di cartone…». Inizia così il monologo (in veneto) in cui l’attore Andrea Pennacchi si rivolge ai “terroni”. Il video sul tema del razzismo (pubblicato venerdì dalla pagina Facebook “This is Racism”) ha superato nel frattempo un milione di visualizzazioni. Pennacchi interpreta “un veneto deluso” dal razzismo; il testo è una rielaborazione di quanto scritto qualche tempo fa su Facebook dallo scrittore torinese Marco Giacosa. «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare», dice Pennacchi in uno dei passaggi. 

Quando i neri erano i meridionali, il monologo sui «terroni» di Pennacchi, scrive il 22 Ottobre 2018 La gazzetta di Parma. Un video, social e sociale che sta spopolando sul web. E' un monologo dell’attore Andrea Pennacchi che inizia con “Ciao Terroni, come va, mi ricordo di voi…“. Pennacchi è un veneto deluso dal razzismo serpeggiante tra le popolazioni italiane recentemente immigrate al nord. Un video pubblicato sulla pagina Facebook “This is Racism”. «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare», dice Pennacchi in uno dei passaggi. Il testo, invece, è una rielaborazione di quanto scritto mesi fa sul web da uno scrittore torinese, Marco Giacosa, 44 anni. Pennacchi richiama più volte la figura di Salvini e della Lega che un tempo sputava sui terroni ed ora invece fa il pieno di voti anche al sud.

Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti. L'ipocrisia dei "razzisti terroni" raccontata con ironia in un video: il monologo di Andrea Pennacchi conquista il web. "This is racism" è diventato virale in poco tempo, condiviso anche da influencer come Selvaggia Lucarelli. L'attore si è calato nei panni di un leghista, scrive Baritoday il 22 ottobre 2018. L'ipocrisia dei "razzisti terroni" raccontata con ironia in un video: il monologo di Andrea Pennacchi conquista il web. „Il suo monologo ha fatto il giro del web, spinto anche dalle condivisioni di importanti influencer come Selvaggia Lucarelli. Al centro del video "This is racism", c'è un argomento che continua a smuovere l'opinione pubblica: il razzismo dilagante in tutta Italia, che è riuscito a unire Nord e Sud del Belpaese, come ricorda il protagonista della clip, l'attore Andrea Pennacchi, che si cala nei panni di un te. Una doccia fredda che dura quattro minuti e mezzo, in cui si mostrano tutte le ipocrisie dell'attuale dibattito sull'immigrazione, destinato proprio a chi Pennacchi saluta all'inizio del video: i terroni che ora hanno trovato un nemico comune nei migranti. "I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: unire gli italiani": basta una frase del video pubblicato su Youtube per far comprendere la pungente ironia del video.

Andrea Pennacchi: "I meridionali che votano Lega dovrebbero vergognarsi", scrive il 23/10/2018 su Blasting News Alisea Verdi, Esperto di Politica, Autore della news (Curata da Sergio Manzo). L'attore, partendo da un testo di Marco Giacosa, illustra il vecchio razzismo verso i meridionali e lo paragona a quello verso gli immigrati.  <<Ciao terroni, come va? Mi ricordo di voi, arrivavate con il treno, con la macchina piena di valigie di cartone>>. Inizia con queste parole il monologo dell'attore Andrea Pennacchi, che ha girato un video diventato virale sul web. Il testo è stato scritto da Marco Giacosa, il filmato diretto da Francesco Imperato e poi postato sulla pagina facebbok This is racism. Il contenuto tratta del parallelismo di discriminazione tra meridionali e immigrati, sconfinando nella critica nei confronti della Lega.

"Eravate la minoranza". Andrea Pennacchi impersona probabilmente un leghista veneto. Nel monologo, ripercorre l'emigrazione di tutti quei cittadini del Sud che si sono diretti nelle regioni settentrionali in cerca di lavoro e opportunità. Uno spostamento di massa che non era stato gradito dagli abitanti del settentrione, i quali accusavano i 'terroni' di avere troppe pretese o di essere dei perditempo. <<Vi piazzavate davanti al municipio a urlare ''Vogliamo una casa'', altro che 35 euro>>, racconta il personaggio interpretato da Pennacchi. <<Parlavate sempre di diritti, ma mai di doveri. ''Ma noi venivamo a lavorare'' dicevate. Invece non era vero, venivate a non fare un cazzo. Perchè il terrone non vuole fare niente. Le rare volte che finivate in fabbrica, finito il lavoro andavate a giocare a carte. Il veneto, quando finiva la fabbrica, andava ad arare i campi. Venivate a vivere nelle case popolari e ci rompevate i coglioni. Ci menavate nei bagni delle scuole e alle sagre. Eravate la minoranza>>. Già in queste prime battute, si inizia ad intuire l'analogia con i migranti. I famosi 35 euro dell'accoglienza, il fatto di essere una categoria minoritaria, il pregiudizio che i richiedenti asilo non abbiano voglia di impegnarsi in un'occupazione o che siano violenti. In seguito, il paragone si fa sempre più forte. <<Noi eravamo a casa nostra, vi chiamavamo 'terroni' e pregavamo che il Vesuvio esplodesse. Anche al primo convegno della Lega, nel 1979, dicevano ''Viva il leone che mangia il terrone''. Ci facevate proprio schifo. Ma anche voi vi facevate schifo, altrimenti non si spiega perché provavate a parlare in dialetto, storpiandolo. E quanto c'era un reato, guardavi sul giornale ed era sempre stato un meridionale. Qui venivano solo i delinquenti, i criminali. La gente perbene non ci veniva. Il nobile palermitano e il giurista di Napoli stavano a casa loro. Qui veniva solo la feccia. E quando qualcuno provava a dire ''Eh, ma la c'è la mafia'', appunto, delinquente e codardo. Nemmeno stai a casa tua a combattere la mafia. Certo, è vero, ogni tanto ce n'era uno buono. Mia nonna diceva ''Quello là, anche se è di Napoli, è una brava persona. Uno o due potevano andare bene, come il nero che è stato eletto al Senato con la Lega, però ci facevate tanto schifo>>. A questo punto, quindi, si passa dal tema antropologico-sociale a quello politico, che segnerà anche la conclusione di tutto il video.

"Finchè non è successo il miracolo". <<Poi è successo il miracolo: quando abbiamo fatto il referendum per l'indipendenza della Padania, ancora si discuteva chi fosse terrone e chi no. E invece, sono arrivati i ne*ri. Loro sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: hanno fatto gli italiani. Dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli, per dar addosso ai neri. Ma io me lo ricordo, quanto schifo ci facevate. Si vede che non ve lo abbiamo detto bene, non siamo statti efficaci. Perché se l'aveste capito, quanto vi disprezzavamo, adesso non avreste votato Salvini. Non avreste nemmeno il coraggio di chiamarlo ministro dell'Interno. Dovreste vergognarvi. E anche noi, anche noi dovremmo farlo, per aver pensato delle cose così sporche. Contenti voi... Era solo un pensiero. Ho sentito due anziani di giù dire che i neri sono tutti spacciatori e che bisogna ammazzarli tutti. Che delusione''.

Quando i neri erano i meridionali. Il video cult supera il milione di visualizzazioni, scrive il 22/10/2018 Metronews. Il video sta volando di bacheca in bacheca, mentre scriviamo 26.744 volte, e il giudizio è unanime: capolavoro. L’idea, partita dalla pagina Facebook This is Racism è molto semplice, un’inquadratura larga su una villetta davanti alla quale c’è un uomo in piedi che parla. L’accento è marcatamente veneto, il messaggio è dichiaratamente rivolto agli abitanti del Sud dell’Italia, attacca infatti con un inequivocabile “Ciao Terroni”. Il testo altro non è che un ragionamento piuttosto elementare basato su due concetti semplici. Il primo è la memoria, “mi ricordo di voi” dice l’uomo davanti alla sua villetta, illuminato dalla luce grigia tipica della Padania, “quando venivate con le valigie di cartone, dicevate di voler lavorare ma non era vero” o di quando i professori nelle scuole insegnavano che “il leone mangia il terrone. E noi tutti ridevamo”; di quando anche ai giornali piaceva evidenziare tutti i reati commessi dai famigerati terroni, infatti l’uomo ricorda che “…era sempre stato un Di Giangi, un Russo, un Esposito. E mia nonna che leggeva il giornale diceva sempre “Vedi? È gente meridionale!”. “Ci facevate tanto schifo” continua il protagonista del video, “finché non è successo il miracolo”, e qui si apre il discorso sul secondo semplice concetto che il video vuole comunicare: quanto impara la società dalla propria storia? Si perché il miracolo di cui sopra altro non è che l’arrivo “dei negri”. “I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: han fatto gli italiani”. Un ragionamento, semplice, ripetiamo, elementare, ma che porta, forse anche tramite la suggestione creata dal bravissimo attore Andrea Pennacchi, diretto magistralmente da Francesco Imperato su un testo di Marco Giacosa, a chiederci se è davvero questo quello che siamo diventati, se davvero è stato l’odio a metterci tutti sotto lo stesso tetto. “Dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli dandogliele al negro” continua l’uomo, “ma io mi ricordo quanto schifo ci facevate e si vede che non ve l’abbiamo detto bene, perché se aveste capito quanto vi disprezzavamo adesso non avreste votato Salvini. Terroni, ma che cazzo di problemi avete? Dovreste vergognarvi”. Un monito politico, un messaggio non originalissimo, già espresso più e più volte, ma mai in maniera così efficace e diretta. Il video, per chi desiderasse trovarlo, si intitola “Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti”, è stato postato venerdì e al momento supera il milione di visualizzazioni. 

Andrea Pennacchi fa il boom di click col corto su «quando i neri erano i meridionali». E' il personaggio del momento, Andrea Pennacchi. Forse suo malgrado, ma è su tutti i media nazionali. Il tema è il razzismo, argomento al quale l'attore è molto sensibile, scrive Ivan Grozny Compasso il 22 ottobre 2018 su Padova oggi. E' il personaggio del momento, Andrea Pennacchi. Forse suo malgrado, ma è su tutti i media nazionali. Il tema è il razzismo, argomento al quale l'attore è molto sensibile. Un monologo di pochi minuti è diventato virale in poche ore: «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: unire gli italiani». E' sicuramente il pezzo più forte dell'intero video, che prende in giro i meridionali che votano Lega. Ma si fa prima a guardarlo che a raccontarlo. Così lo contattiamo, per sapere l'effetto che fa essere al centro di tanta attenzione.

Pennacchi. Sii sincero, davvero non pensavi che sarebbe successo tutto questo casino?

«Ho pensato che avrebbe generato qualche dibattito, era ora di parlare di certe cose. Non pensavo certo che avrebbe scatenato uno tsunami».

Di chi è stata l'idea?

“Francesco Imperato è un regista che è nato in provincia di Padova, lui è di Piove di Sacco, ma lavora a Milano. Ha aperto questa pagina su Fb che si chiama “This is racism” e mi hanno proposto il testo. Il monologo è una prova d’attore, ci tengo che sia chiaro. Il testo infatti lo ha scritto Marco Giacosa. Girato settimana scorsa, in poco tempo. Un piano sequenza, senza interruzione tra un pezzo e l’altro».

A sud. Sei su tutti i media nazionali.

«Sai, mi ha colpito essere condiviso da figure come Selvaggia Lucarelli, che consapevolmente oppure no è quella che ha dato la vera spinta iniziale a far sì che questa cosa diventasse virale. Mai avrei pensato che sarebbe successo questo e che sarei finito sulle grandi testate». 

E quali sono state le reazioni? Avrai sbirciato i commenti, sui social sta girando alla grande il video.

«I leghisti a dire il vero non lo so come l’hanno presa. Ovvio che è tutto esagerato e grottesco, ma non dice cose false, intendiamoci».

E a sud? Quali sono i commenti più comuni?

«Moltissimi meridionali si sono offesi da quello che viene detto dal video e offendono il personaggio come fosse vero, questo rimane sempre un aspetto molto divertente. Invece alcuni ragazzi pugliesi che fanno gli attori hanno postato il video rivendicandone i contenuti».

Serio ma anche no. Comunque non è mica facile distinguere quando sei serio e quando no, Pennacchi. Forse anche qualche lettore di Padova Oggi avrà pensato fosse davvero di fronte a un esperto di eliminazione di cimici che stanno invadendo il Veneto, quando ti abbiamo interrogato sul tema.

«Lo so che mi stai prendendo in giro, cosa credi?».

E’ sempre divertente parlare con Pennacchi, fondamentale distinguere quando gioca e quando no.

«Momenti rari - ride l’attore - certo anche l’invasione delle cimici è un argomento da non prendere sottogamba».

Razzismo. Ricerchiamo quindi di portarlo all’ordine, impresa non facilissima ma che riesce.

«E’ logico che sono preoccupato quando si parla di razzismo, essendo figlio di un sopravvissuto da un campo di lavoro e di sterminio. Mio padre, che infatti mi ha avuto tardi, è stato detenuto in Austria a Ebensee, che era un distaccamento di Buchenwald. In quanto partigiano gli era toccata quella sorte. E lui è stato pure fortunato che ne è uscito vivo».

Tirarsela. Non è che adesso te la tiri e poi snobbi Padova Oggi, vero?

«Attenti eh, mi sono preparato sulle cimici, mi posso preparare su tutto!».

Finisce così, la chiacchierata, con una risata. In fondo è solo un attore che racconta il suo tempo. Solo che gli viene da ridere.

Chi c'è dietro il video virale dei "terroni" che votano Salvini. Francesco Imperato di This is Racism ci ha spiegato come è nato il video "Quando i neri erano i meridionali" e cosa pensa di chi non l'ha capito, scrive Leonardo Bianchi il 22 ottobre 2018 su Vice. In vaste sacche del Nord Italia l’odio contro il “terrone” è stata una norma sociale accettata a lungo, e che sopravvive ancora adesso in varie forme. Si va dalle più gravi, tipo gli annunci “non si affitta a meridionali,” fino a quelle apparentemente più innocue—come l’uso spensierato dell’epiteto che ne fanno persone tendenzialmente non razziste. Per decenni, si sa, il partito che più ha cavalcato e aizzato questo sentimento è la Lega Nord. Le dichiarazioni dei suoi esponenti maggiori sono talmente tante che non si riescono nemmeno a contare, così come i manifesti sul “complotto terrone” o quelli che invitavano i meridionali a tornarsene “a casa loro.” Tuttavia, negli ultimi anni, è successo l’incredibile: al Sud un numero non irrilevante di persone sembra essere diventato leghista. La Lega di Matteo Salvini, infatti, si sta radicando sempre di più sia in termini elettorali che operativi. Sia chiaro, non è più lo stesso partito di Bossi: siamo di fronte a una forza politica pienamente nazionalista, che ha trasferito lo stigma dell’esclusione su altri gruppi sociali. Ma se non si ignora completamente la storia recente, non si può fare a meno di rimanere di sasso di fronte a questo capovolgimento storico. Ed è proprio su questo cortocircuito che si basa un video che sta girando moltissimo su Facebook in questi giorni, arrivando al milione di visualizzazioni e oltre 20mila condivisioni. La clip consiste in un monologo di quattro minuti recitato dall’attore Andrea Pennacchi, che per l’occasione interpreta l’idealtipo del leghista di provincia—un padroncino gretto dotato di accento insopportabile, villetta in campagna, trattorino e razzismo viscerale. Il bersaglio principale sono appunto i “terroni,” descritti come delinquenti, nullafacenti e tutto il resto del campionario che conosciamo fin troppo bene. “Ci facevate tanto schifo,” dice Pennacchi, “finché non è successo il miracolo: sono arrivati i negri. […] E dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli dando addosso al negro.” Verso la fine il protagonista ricorda ancora una volta “quanto schifo ci facevate” e si rammarica del fatto che forse “non ve l’abbiamo detto bene.” Perché, e qui si entra nel vivo dell’attualità politica, “se l’aveste capito quanto vi disprezzavamo adesso non avreste votato Salvini. Terroni, ma che cazzo di problemi avete? Dovreste vergognarvi.” Il video è stato pubblicato sulla pagina “This is racism,” aperta la settimana scorsa, e fa parte di un progetto più ampio di fiction sul razzismo “dal basso” — cioè delle persone comuni. Il regista è il 35enne Francesco Imperato, nato e cresciuto in Veneto da genitori di origini meridionali, con cui ho scambiato qualche parola al telefono. L’idea — mi spiega — è venuta quando ad agosto si è imbattuto in un testo dello scrittore e giornalista torinese Marco Giacosa, e ha subito pensato di adattarlo. I riferimenti territoriali dello scritto originario erano sul Piemonte, mentre Imperato ha deciso di spostarlo in provincia di Padova. Lo scopo principale era quello di “fare un lavoro molto personale, che in qualche modo rispecchiasse la mia storia. Essendo cresciuto in quelle campagne, a pochi chilometri dalla villetta che si vede del video, mi sembra che la figura del leghista veneto fosse molto forte e non banale. Nel senso che è una figura molto contrastante, che solitamente si è sporcata le mani per arrivare dov’è.” Pur non aspettandosi minimamente un simile riscontro, secondo Imperato una delle chiavi della viralità del video sta proprio nella costruzione del testo di Giacosa, che mette di fronte a un protagonista negativo “che ascolti perché ti dà fastidio—il modo in cui parla, e quello che dice—e però alla fine esprime un concetto su cui sei d’accordo. E questa cosa ti fa girare ancora di più le balle.” A livello più generale, poi, il tema è indubbiamente caldo e “chiunque si sente coinvolto in un discorso del genere.” Basta vedere la mole di commenti sotto al video, tra cui diversi che prendono sul serio il monologo. Credono, cioè, che sia vero. Quando gli chiedo il suo pensiero in merito, il regista mi risponde che gli fa “molto piacere, perché volevo che in qualche modo succedesse questa cosa” per stimolare ulteriormente il dibattito. Tornando a uno degli argomenti centrale del video—cioè la trasformazione leghista di una parte insospettabile dell’elettorato—Imperato si dice personalmente “scioccato, ma non tanto da quelli che stanno al Nord; soprattutto da quelli che stanno al Sud.” Questo choc, continua, risale alla sua adolescenza. “D’estate andavo sempre in un paese in Puglia, e ricordo che a un’elezione il tre percento della popolazione aveva votato Lega,” racconta. “Per me non era concepibile. L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi ha a che fare con una forma ‘ciclica’ di razzismo.” Il protagonista della clip incarna infatti uno stereotipo del passato, perché la questione è effettivamente cambiata. “In Veneto, e non solo, finché c’erano solo i meridionali il problema erano loro; poi sono arrivati gli albanesi negli anni Novanta, e infine i migranti africani,” afferma Imperato. L’odio, insomma, si è sistematicamente concentrato sull’ultimo arrivato. Tutto ciò, conclude il regista, non riguarda più solo il leghista tipo, che sotto sotto disprezza ancora i “terroni,” ma ormai ha “qualcosa di più importante da combattere”; riguarda ormai molte altre persone in tutta Italia. Tra cui, evidentemente, i vecchi nemici di un tempo.

CIAO TERRONI, VI RICORDATE QUANDO AL NORD NON SI AFFITTAVA AI MERIDIONALI? Pubblicato il 02/08/2018 da Marco Giacosa su Alga News.

Ciao terroni, come va? Mi ricordo di voi, eravate quelli che arrivavano con il treno e la valigia di cartone, scendevate a Torino o a Asti e vi piazzavate davanti al municipio: «Vogliamo una casa». Eh, bravi. La fate facile. Altro che 35 euro al giorno. Parlavate di «diritti», ma i doveri? «Ma noi venivamo a lavorare». Cazzate.

Non avevate voglia di far niente. Il terrone, piccolo, scuro e con i baffetti, non aveva voglia di fare un cazzo. Se proprio entrava in fabbrica, nel tempo libero andava al bar a giocare a carte. Il piemontese, nel tempo libero dalla fabbrica, andava nei campi, nelle vigne: il terrone niente.

D’altronde, si sa, ad Alba, negli anni in cui ero ragazzino, i primi ’80, si sapeva che Ferrero e Miroglio, le due aziende più grandi, erano state costrette ad assumere meridionali, controvoglia, perché i piemontesi erano finiti.

Stavate in via Maestra, a gruppetti, a fare non si sa cosa, noi dovevamo abbassare lo sguardo perché altrimenti arrivava il «Che cazzo hai da guardare?» ed erano botte. Vi chiamavate Di Gangi, Cotilli, Esposito, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Romeo. Venivate dalle popolari, picchiavate, sia nei cessi delle medie che alle feste di paese.

Noi, se dovevamo insultare qualcuno, lo chiamavamo «tarrone». Nemmeno terrone, ma con la a, perché in piemontese si dice «tarùn». Gazzetta d’Alba nel 1963 titolava «Voteranno anche 200 meridionali», alle politiche imminenti, questi oggetti sconosciuti, questi esseri che chi lo sa cosa vogliono, e chissà che cosa votano.

In ogni compagnia c’era il terrone buono, ognuno di noi aveva uno zio acquisito (si specificava: «Acquisito, eh!»), venuto su perché militare, o una zia acquisita perché lo zio di sangue era avanti con gli anni e prendeva moglie giù, per non rimanere zitello. Quelle volte era un disastro.

«Ma chiel lì a l’è ‘n napuli», quello lì è meridionale, si specificava con stupore, quando si aveva notizia di qualcuno che s’era innamorato e sposava un terrone.

«Ma noi vogliamo bene a tutti», se proprio si voleva giustificare il nipote, o il figlio, se proprio si era di buon cuore, si diceva, senza rendersi conto di quanto in realtà vi disprezzavamo: perché, di grazia, si deve puntualizzare di «voler bene a tutti», che cos’hanno di male quelli nati a Trani o a Potenza, per il solo fatto di essere nati a Trani o a Potenza?

Spacciavate. Sì, terroni, spacciavate. Si leggeva la cronaca e se c’era un reato era sicuro che il colpevole si chiamava Di Gangi, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Pasquale o Rocco o Salvatore di nome.

«Eh, son tutti di loro», commentavamo.

Perché quelli buoni, dicevamo, non venivano su. Su, al nord, veniva la feccia. Il palermitano gran nobile, o il napoletano gran giurista, quelli mica venivano, quelli rimanevano giù. Mica scemi. Qui venivano i delinquenti.

Qualcuno, timido, provava a dire: «Eh, ma laggiù c’è la mafia», e tutti gli altri ribattevano: «Appunto. Invece di stare laggiù a combattere la mafia, preferiscono venire qui a non fare un cazzo».

Oppure a fare quei lavori che noi schifavamo: i secondini, i carabinieri, l’impiegato pubblico, il bibliotecario, quelli non sono lavori, sono remunerazioni in cambio di qualche ora passata in qualche posto. Lavorare è un’altra cosa: è nel privato che si lavora, nel pubblico non si fa un cazzo, e noi del nord andavamo nel privato, mica nel pubblico.

«Non si affitta a meridionali» perché voi terroni dicevate di essere in due e poi eravate in sette, c’erano Ciro, Salvatore, Cosimo, Calogero, Mimì, Totò e insomma affittavi a uno e ne trovavi dieci.

Ognuno di noi aveva il terrone buono, dicevo, l’amico – proprio come il ne*ro eletto in Senato per la Lega, o l’altro buono che la comunità del mantovano ha deciso di adottare: quello è terrone ma è mio amico. Le nostre nonne dicevano: «È della Bassa, MA è una brava persona».

Insomma ci facevate schifo, come gruppo, di tanto in tanto qualcuno di voi, come quando addomestichi un animale, ci era magari simpatico. Oh, mica è passato troppo tempo. Vent’anni fa ci furono i gazebo per l’indipendenza della macro-regione del Nord, si dibatteva se un marchigiano era un terrone e andava fatto affondare nei debiti della sanità, o salvato nella gloriosa Padania. Un laziale, mi dispiace amici laziali che ce l’avete con i napoletani e li chiamate terroni, era un terrone.

Vi schifavamo. Poi è cambiato qualcosa: sono arrivati i negri, e allora abbiamo trovato qualcosa da schifare ancora di più. Ci pensavo stasera, terroni: i negri sono riusciti là dove non è riuscito Cavour: a fare gli italiani. Insomma, fatta l’Italia – diceva Massimo d’Azeglio – rimaneva da fare gli italiani. Eccoli, eccoci: ci siamo scoperti fratelli così, dandogli al negro. Però io sono del nord, e mi ricordo, terroni, che ci facevate proprio schifo. Forse non ve l’abbiamo detto abbastanza, non siamo stati efficaci, perché aveste saputo con quanto disprezzo siete stati nostro malgrado accolti, forse oggi non votereste Salvini, avreste timore soltanto a nominarlo, il ministro dell’Interno. Invece mi pare che lo votiate senza problemi.

Secondo me, terroni, dovreste vergognarvi a votare Salvini. Almeno quanto noi del nord, certo, dovremmo vergognarci anche soltanto per averle pensate, certe cose. Quelli sono conti nostri che continuiamo a fare, o almeno: che qualcuno nel privato fa. Ma voi, terroni, Salvini proprio no. Comunque, contenti voi. È un pensiero così, ascoltando in metro un uomo dal forte accento del Sud dire che tutti i negri spacciano, che dovrebbero essere ammazzati. Buona serata, napuli.

RAZZISTA (D)A CHI?

«Italia razzista con i migranti», e l’Onu manda gli “ispettori”. L’annuncio da Ginevra dell’Alto Commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, scrive Alessandro Fioroni il 10 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom».  Anche l’Onu interviene sulla situazione italiana e lo fa con i massimi vertici, da Ginevra Michelle Bachelet, neo Alto commissario Onu per i diritti umani, aprendo i lavori del Consiglio Onu per i diritti umani ha annunciato che una squadra sarà inviata, per motivi analoghi, anche in Austria. «Il Governo italiano – ha continuato Bachelet – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell’anno ancora più elevato rispetto al passato». Un’ affermazione che contrasta con le politiche del ministro dell’Interno Matteo Salvini il quale continua ad agitare lo spettro dell’invasione ma che pare costretto a fare marcia indietro sulle espulsioni di massa.  «Per ora l’unico accordo che funziona è quello con la Tunisia. Ne rimpatriamo 80 a settimana ma anche se ne espelliamo 100 ci metteremo 80 anni». Il ministro scopre così quello che era noto a tutti, i rimpatri così come concepiti non sono assolutamente fattibili, almeno nei termini annunciati in campagna elettorale. «Andrò in Tunisia entro settembre –ha continuato Salvini - da lì ne sono arrivati più di 4mila e non c’è guerra, carestia, peste e non si capisce perchè». L’ammissione esplicita, quasi una confessione, è andata in onda durante un’intervista ieri a Radio Rtl 102.5. Il ministro continua a chiedersi retoricamente perché continuino ad arrivare persone, una costatazione che fa a pugni con il fatto che dopo quattro mesi di governo il Viminale non è riuscito ancora a stabilire accordi nuovi con i paesi di provenienza degli immigrati. Rimangono in piedi i quattro con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco, lascito del precedente governo che certo non potranno mai far raggiungere la cifra dei 500mila rimpatri sbandierati a più riprese. Manca poi qualsiasi intesa con paesi come Senegal, Gambia e Costa d’Avorio che, nel periodo più intenso della crisi migratoria nel 2016, hanno costituito il 20% degli arrivi secondo i dati Onu. Intanto la situazione è cambiata, le politiche anti immigrazione sia del predecessore di Salvini, Marco Minniti, e la chiusura alle ong hanno drasticamente ridotto gli sbarchi dell’80%, spostando le rotte migratorie nel mediterraneo verso la Spagna. Ma il contesto potrebbe nuovamente capovolgersi a causa della crisi libica dove è deflagrata completamente la guerra civile. Mostrano la corda gli annunci di questa estate riguardo i rinnovati impegni con il governo libico di Serraji, il regalo delle 12 motovedette e l’addestramento della Guardia costiera libica. Anche perché, come già si sapeva, quest’ultima è divisa nella sua appartenenza proprio alle milizie che ora si combattono. E’ di queste ore la denuncia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sulla gravissima condizione che vivono i migranti intrappolati in Libia in mezzo ai combattimenti che stanno sconvolgendo Tripoli nonostante la tregua raggiunta la scorsa settimana. L’Unhcr parla di «atrocità indicibili commesse contro i rifugiati e i richiedenti asilo nelle strade di Tripoli, tra cui stupri, rapimenti e torture».   Molte persone detenute nei centri per migranti di Tripoli sono fuggiti per paura di essere colpiti dalle pioggie di razzi sparati da un fronte all’altro, in questa maniera però cadono spesso in mano alle bande incontrollate (milizie o gruppi di criminali fuggiti dalle prigioni) che li catturano per poi estorcere ancora denaro. Per questo l’Onu chiede che sia messa a regime la struttura di raccolta e partenza a Tripoli, che fungerà da piattaforma per raggiungere la sicurezza in paesi terzi e che sarà gestita dal Ministero degli interni libico e dall’Agenzia Onu. La struttura ha la capacità di ospitare 1.000 rifugiati vulnerabili e richiedenti asilo ed è pronta per l’uso.

L'Onu ci manda gli ispettori ​per difendere migranti e rom. L'Alto commissario per i diritti umani annuncia: "In Italia razzismo e violenza, invieremo personale". E poi critica la chiusura dei porti alle Ong, scrive Nico Di Giuseppe, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Ci mancava la reprimenda dell'Onu. Sul tema delle politiche migratorie che ogni stato mette in pratica, adesso scende in campo anche il nuovo Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. Ma non solo su quello. Perché l'annuncio fatto oggi dall'ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra ha il sapore di un'azione moralizzatrice, se non di una vera e propria "invasione". "Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha dichiarato Bachelet. Stesso discorso varrà anche per l'Austria. "Il governo italiano ha negato l'ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell'anno ancora più elevato rispetto al passato", ha precisato l'Alto commissario. E ancora, secondo Bachelet, gli sforzi dei governi per respingere gli stranieri non risolvono la crisi migratoria e causano solo nuove ostilità. "È nell'interesse di ogni stato adottare politiche migratorie radicate nella realtà, non in preda al panico", ha detto l'ex presidente cileno criticando l'erezione dei muri di confine, la separazione delle famiglie di immigrati e l'incitamento dell'odio contro i migranti. "Queste politiche non offrono soluzioni a lungo termine a nessuno, solo più ostilità, miseria, sofferenza e caos", ha affermato. Nelle osservazioni di oggi, l'Alto commissario non ha citato esempi concreti, ma una versione più lunga del suo discorso presentata al Consiglio ha fatto riferimento a paesi tra cui Stati Uniti, Ungheria e Italia. All'inizio di settembre, Bachelet ha ottenuto la carica succedendo al diplomatico giordano delle Nazioni Unite Zeid Ràad Al Hussein, noto per il suo approccio altamente conflittuale nei confronti di alcuni di questi paesi. Oggi Bachelet ha invece optato per un tono meno combattivo, sottolineando al Consiglio per i diritti umani che avrebbe combattuto per i diritti umani mantenendo però la disponibilità ad ascoltare i governi. "I paesi dovrebbero vedere i diritti umani come uno strumento per lo sviluppo economico e contro l'estremismo violento. È costruendo l'accesso a tutti i diritti umani che la società diventa più forte e più capace di resistere a choc imprevedibili". Intanto il ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, respinge le accuse dell'Alto commissario al mittente: "L’Italia negli ultimi anni ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei. Quindi non accettiamo lezioni da nessuno, tantomeno dall’Onu che si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata: le forze dell’ordine smentiscono ci sia un allarme razzismo. Prima di fare verifiche sull’Italia, l’Onu indaghi sui propri stati membri che ignorano diritti elementari come la libertà e la parità tra uomo e donna".

Migranti, Salvini sfida l'Onu: "Taglieremo i finanziamenti". Onu vuole inviare ispettori per valutare gli "episodi di razzismo" in Italia. Il ministro: "No lezioni da organismo con sprechi, mangerie e ruberie", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Lo scontro tra l’Onu e Matteo Salvini potrebbe essere solo all’inizio. E così il leader della Lega potrebbe seguire Trump sulla strada dei tagli ai contributi alle Nazioni Unite, organismo che per il ministro non ha diritto di “venire a dare lezioni agli italiani”. Oggi nell’eterna bagarre sui migranti è scesa in campo l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. E lo ha fatto con decisione per quella che il governo italiano già considera una invasione di campo. “Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha detto l’ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra. Ed immediata è scattata la reazione del ministro dell’Interno. "Se uno ignora, fa migliore figura a stare zitto – ha detto Salvini ai cronisti - Non c'è nessun allarme razzismo o persecuzione in Italia". A dirlo non è solo l’inquilino del Viminale, ma i freddi dati: "I numeri - ha spiegato il ministro - smentiscono tutto questo, per fortuna”. Già, perché i reati in Italia sono in riduzione, sia quelli contro gli italiani che quelli contro i migranti. E quando alcuni mesi fa tutti parlarono di allarme razzismo o fascismo poi le indagini delle autorità smentirono buona parte degli allarmismi. A partire dal lancio delle uova contro l’atleta di colore. Salvini dunque non intende accettare “lezioni” da nessuno perché l’Italia “ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei”. E reprimende non ne accetta neppure dall’Onu, una "organizzazione che costa miliardi di euro, a cui l'Italia dà più di 100 milioni all'anno di contributi”. Lo scontro, per ora solo verbale, potrebbe evolvere in qualc